GUERRA
(fr. guerre; sp. guerra; ted. Krieg; ingl. war).
Sommario: Diritto internazionale (p. 53); Stato di guerra (p. 57); Diritto penale comune e militare di guerra (p. 57); Diritto marittimo di guerra (p. 58); Diritto aeronautico di guerra (p. 59); Contrabband0 di guerra (p. 60); Economia di guerra (p. 60); Danni di guerra (p. 63); Guerra civile (p. 63).
Diritto internazionale. - Nei riguardi del diritto internazionale odierno la guerra può esser definita come l'uso della forza armata da parte di uno stato per raggiungere un fine imposto o permesso dal diritto internazionale. Questo non lascia gli stati in una posizione arbitraria né rispetto alla scelta dell'azione bellica né rispetto alla disciplina di tale azione. Donde due ricerche: l'una concernente la conformità al diritto nel ricorrere, o rifiutarsi di ricorrere, alla guerra, l'altra la conformità al diritto nel condurre la guerra.
Diritto di ricorrere, o non ricorrere, alla guerra. - La guerra non è soltanto una facoltà, ma può essere anche un obbligo. Uno stato cioè può essere giuridicamente tenuto a fare la guerra o perché appartiene a un organismo politico più vasto (confederazione, impero) o in conseguenza di una garanzia assunta (quando cioè più stati garantiscano l'integrità di un territorio neutralizzato e questa venga violata da un terzo) o perché si trova di fronte a un casus foederis cioè si sono avverate quelle circostanze e condizioni che obbligano a prestare ad un alleato il soccorso pattuito.
Si può anche avere una guerra permessa in tutti quei casi nei quali l'ordinamento giuridico internazionale non vieta il ricorso alle armi. Quali siano in concreto questi casi non è possibile definire, dovendosi tutti comprendere nella formula negativa dell'assenza d'un divieto. Con che non si vuol dire che una guerra assunta in questa situazione di libertà formale non possa essere condannevole di fronte ai supremi principî della giustizia, si vuol dire soltanto che il diritto internazionale positivo non è riuscito, a tutt'oggi, a determinare per categorie generali quali ragioni intrinseche giustifichino il ricorso alla forza e quali no. E poiché l'autoprotezione armata degl'interessi statali non è preclusa dal diritto internazionale generale, si devono ritenere legittime tutte le guerre che da esso non siano espressamente vietate. Però, sotto la pressione di esigenze morali e materiali, l'odierna tendenza dello stesso diritto positivo si spiega nel senso di lasciare agli stati minore campo di libertà, onde abbiamo già un certo numero di casi nei quali uno stato si trova nell'impossibilità giuridica di farsi portatore di guerra.
Ciò avviene in primo luogo per quegli stati che si dicono neutralizzati, perché si sono impegnati, di solito verso più altri, a non muovere guerra di propria iniziativa e quindi ad astenersi da atti (alleanze, garanzie, interventi, occupazioni) che implichino la possibilità di partecipare a guerre non puramente difensive. Tali furono il Belgio e il Lussemburgo, ma si tratta di una forma che tende a scomparire. In correlazione a quanto si è già detto per la guerra obbligatoria si deve aggiungere che l'iniziativa di guerra è vietata allo stato membro di uno stato composto.
Un altro caso si ha quando uno stato, più spesso un gruppo di stati, si sia precluso l'impiego della forza armata per raggiungere un determinato scopo espressamente designato. Così nella seconda conferenza dell'Aia del 1907 parecchi stati convennero di non far uso dell'azione coercitiva per il ricupero di crediti contrattuali derivanti da obbligazioni di stati esteri verso loro cittadini, fatta eccezione per l'ipotesi che lo stato debitore rifiuti un arbitrato o non ne eseguisca il lodo.
Uno stato può anche essersi precluso la giuridica possibilità di guerra per essersi preventivamente impegnato verso un altro a sottoporre a una procedura di conciliazione e a un arbitrato le eventuali controversie future, o tutte in generale, o alcune specificamente determinate. Talvolta si trovano clausole eccettuative per le controversie che toccano l'indipendenza, l'onore e gl'interessi vitali, ciò che lascia un larghissimo campo di apprezzamento soggettivo (v. arbitrato). Comunque, entro i limiti degl'impegni assunti, lo stato è tenuto a seguire il procedimento pattuito e se, invece, esso volesse farsi ragione con la forza bellica, commetterebbe un'azione vietatagli dal diritto.
In una posizione particolare si trovano gli stati che fanno parte della Società delle Nazioni. Essi hanno infatti perduto il diritto di ricorrere alle armi per una questione che sopravvenga tra di loro senza averla prima sottoposta o alla procedura arbitrale o all'esame del Consiglio (art. 12 del patto; v. società delle nazioni). In quest'ultimo caso il Consiglio, esaurita la sua funzione conciliatrice, pubblica un rapporto il quale impegna i membri a non ricorrere alla guerra contro nessuna delle parti che vi si uniformi, solo però a condizione ch'esso sia votato a unanimità. Se a semplice maggioranza, le parti, dopo un lasso di tre mesi, riprendono libertà di azione (guerra permessa). Ciò almeno se la controversia si presenti tra due membri della società.
Connessa con la Società delle Nazioni è la Corte permanente di giustizia internazionale istituita con voto unanime dall'Assemblea sociale, 13 dicembre 1920. Questa Corte (per la cui organizzazione, funzioni e procedimento si rimanda alla voce speciale) influisce sulla libertà degli stati di valersi del loro diritto sovrano di autoprotezione coercitiva in quanto molti membri della Società, e anche alcuni stati ad essa estranei, hanno dichiarato di riconoscere la giurisdizione della Corte secondo l'art. 36, § 2, dello statuto della Corte stessa. Ciò significa obbligarsi a sottoporre al giudizio della Corte quelle vertenze d'ordine giuridico che hanno per oggetto l'interpretazione d'un trattato, un punto di diritto, la realtà d'un fatto che, accertato, costituirebbe violazione d'un impegno internazionale, la natura o l'estensione della riparazione dovuta per la rottura di un impegno internazionale. Uno stato che, entro la sfera delle questioni per le quali s'e vincolato ad accettare la giurisdizione della Corte, e, pure avendo sostanzialmente ragione, si facesse giustizia da sé con la forza, porrebbe in atto una guerra proibita dal diritto. Vi sono infine accordi più generali, quali i patti di Locarno (14 settembre 1926) e l'accordo di Parigi (detto patto Kellog, del 27 agosto 1928) che, pur lasciando qualche dubbio sulla precisa portata degl'impegni assunti, pongono tuttavia in talune circostanze gli stati partecipanti nella giuridica necessità o nella giuridica impossibilità di far uso della forza bellica.
Principî che regolano le forme e ai effetti dell'attività bellica. - La ricerca di questi principî è indipendente dalla prima, talché si può affermare che uno stato ha compiuto atti illeciti in una guerra ch'esso aveva diritto e persino obbligo di fare, e si può asserire la proposizione simmetricamente contraria. L'attività bellica non è legibus soluta: è anch'essa un'attività disciplinata dal diritto tanto nel rapporto tra le persone combattenti e lo stato al quale appartengono, quanto in quello tra i due stati belligeranti. Il primo rapporto è di competenza del diritto interno, il secondo dell'internazionale.
Inizio dello stato di guerra. - Lo stato di guerra s'inizia con una dichiarazione; tale procedimento non è però costante.
Il colonnello Maurice aveva fatto una statistica diligente dal 1700 al 1870 e aveva contato 110 casi di guerra non preceduta da alcuna dichiarazione contro soli 10 nei quali la formalità era stata osservata. Il movimento d'opinione nell'ultimo mezzo secolo s'era però spiegato nel senso d'imporre un non equivoco e pubblico avviso che sostituisca il puro fatto della vis mutua e nel 1907 le maggiori potenze convenute all'Aia si misero d'accordo nel riconoscere che "le ostilità tra di loro non possono cominciare senza un precedente non equivoco avviso che abbia sia la forma di una dichiarazione di guerra motivata, sia quella d'un ultimatum con dichiarazione condizionale" (III convenzione relativa all'apertura delle ostilità, art. 1.).
Occorre ben distinguere la dichiarazione dalla decisione della guerra. La decisione è un fatto puramente interno, inetto a provocare il rapporto bellico. Tutti gli atti interni decisorî (es. la risoluzione congiunta con la quale nel 1898 i corpi deliberanti americani decisero l'intervento armato nell'isola di Cuba, i voti del parlamento ai quali si riferì il governo italiano nella nota 23 maggio 1915) non hanno, per sé soli, il potere di porre in essere lo stato di guerra. Questo s'inizia soltanto allorché la volontà di uno stato, alla cui formazione provvede il diritto interno dettando le condizioni per le quali la volontà di alcune persone (organi) diventa legalmente volontà di stato, è debitamente comunicata allo stato estero. Da tale comunicazione sorge formalmente il rapporto bellico, e a ragione il diritto pretende che la volontà espressa sia molto chiara (non equivoca, è detto nella rammentata convenzione dell'Aja) affinché non restino incertezze sulla rispettiva situazione dei due stati. Situazione rispettiva, poiché l'atto unilaterale dell'uno ha efficacia anche per l'altro e una controdichiarazione di guerra, che spesso è suggerita da opportunità politica, non è necessaria. La convenzione dell'Aia pretende invece che la dichiarazione sia motivata.
La dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria-Ungheria del 23 maggio 1915, che non è motivata, potrebbe credersi a prima vista non conforme alla convenzione dell'Aia. Il suo contenuto essenziale sta infatti in questa frase: "S.M. il re dichiara che l'Italia si considera in istato di guerra con l'Austria-Ungheria da domani" (24 maggio 1915). Dichiarazione netta, precisa, non equivoca, ma pura e semplice. Sennonché nel medesimo atto si ricordava che già venti giorni innanzi erano stati comunicati al governo austriaco i motivi per i quali l'Italia aveva considerato decaduto il trattato d'alleanza da esso governo austriaco violato. Ora è bensì vero che la denunzia d'un trattato di alleanza non equivale ancora a una dichiarazione di guerra, ma è pur vero che i motivi che hanno provocato l'una possono coincidere con quelli che muovono l'altra. Così fu appunto per l'Italia. Denuncia d'alleanza e guerra partivano dagli stessi moventi, rispondevano a identiche necessità: per inscindibile colleganza, quella situazione di cose che rendeva incompatibile tra i due stati l'alleanza, rendeva tale pure la pace. Perciò la dichiarazione italiana è pienamente regolare, anche di fronte allo stretto diritto positivo dell'Aia.
La convenzione permette che l'avvertimento rivesta anche la forma di un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionale. Ma in realtà una dichiarazione condizionale è soltanto una minaccia talché se l'avvenimento preveduto come causa di guerra non si verifica o viene a cessare, la guerra non si ha e non si è mai avuta. È bene pertanto che una nuova dichiarazione venga a constatare il verificarsi dello stato di cose previsto nell'ultimatum.
Così molto correttamente agì il governo italiano con la Turchia nel 1911. Il 27 settembre di quell'anno veniva comunicata al governo ottomano una nota ove si esponevano chiaramente le regioni per le quali la permanenza della sovranità ottomana sulla Tripolitania e sulla Cirenaica erano incompatibili con gl'interessi e i diritti dell'Italia. S'invitava perciò il governo turco a non opporsi a un'occupazione militare e gli si davano ventiquattro ore di tempo per una risposta perentoria. Poiché questa non fu soddisfacente, l'Italia, spirato il termine, dichiarò "interrotte le relazioni d'amicizia e di pace tra i due paesi, considerandosi d'ora innanzi in istato di guerra con la Turchia".
Tale l'odierno diritto positivo nei rapporti tra le parti contendenti. Ma esso ha disciplinato anche i rapporti fra i contendenti e i terzi, imponendo un atto che a questi appunto si diriga. L'art. 2 della citata convenzione prescrive infatti: "Lo stato di guerra dovrà essere notificato senza ritardo alle potenze neutrali e non produrrà effetto, quanto ad esse, che dopo il ricevimento di una notificazione che potrà farsi anche per telegrafo. Tuttavia le potenze neutrali non potranno invocare l'assenza di notificazione se fosse accertato in modo indubbio che, nel fatto, conoscevano lo stato di guerra".
Il governo italiano, nell'ultimo conflitto internazionale, ha per parte sua seguita la condotta più corretta notificando ai governi esteri lo stato di guerra con l'Austria a mezzo di una nota 23 maggio 1915 in forma di telegramma circolare agli agenti diplomatici, nella quale si spiegavano ampiamente i fatti e le ragioni che avevano condotto alla dichiarazione.
Teatro della guerra. - In senso giuridico (cioè distinto dal teatro effettivo che è quello dove si svolgono le operazioni militari) devesi intendere il limite spaziale entro il quale la guerra può essere legittimamente combattuta. Tale limite abbraccia: a) tutto il territorio dello stato nemico, compresevi le acque interne, i frammenti di territorio staccati, le colonie; abbraccia anche, potenzialmente, le terre libere (nullius); b) 1l mare costiero dello stato nemico e le altre zone acquee (fluviali o lacustri) di confine; resta però incerto se le acque fluviali, fin dove possono giungere navi da guerra, siano soggette alle leggi della guerra terrestre o di quella marittima;- c) l'alto mare; d) tutto lo spazio aereo sovrastante al territorio terrestre e acqueo del nemico, all'alto mare, alle terre libere.
Effetti internazionali dello stato di guerra. - Si possono riassumere in uno: la sospensione del diritto internazionale normale (principalmente della norma fondamentale che impone il reciproco rispetto all'integrità e all'indipendenza degli stati) e la sua sostituzione col diritto specifico applicabile ai rapporti tra belligeranti. È vexata quaestio se e quanto resti in vigore del diritto convenzionale, vedendosi da taluno nella guerra una causa di estinzione (o quanto meno di sospensione) di tutti quei trattati che non siano stati conchiusi proprio in previsione di essa, mentre altri non le attribuisce effetti rescissivi o sospensivi se non su quei trattati che si dimostrino inconciliabili con i suoi fini e le sue esigenze.
La pratica della guerra mondiale ha considerato i trattati preesistenti quanto meno sospesi durante le ostilità e nelle paci del 1919-20 si trova spesso la formula "rimesso in vigore" con la quale chiaramente si lascia vedere che durante la guerra il trattato non era in vigore. Per regola si dovrebbe invece dire che la guerra non influisce sui contratti, stipulati anteriormente, tra privati di stati nemici ma, a prescindere dai casi di impossibile esecuzione appunto per lo stato di guerra, la maggior parte di questi sono del pari colpiti perché gli stati ritengono incompatibile con la guerra anche la continuazione dei rapporti di affari tra i sudditi.
Disciplina giuridica delle ostilità: combattenti e non combattenti. - Che la guerra sia un rapporto da stato a stato è da tempo fuori contestazione e da ciò si è indotti a distinguere tra le forze belligeranti e i pacifici cittadini; le prime subiscono direttamente gli effetti della lotta, i secondi ne sono, per quanto possibile, esenti. Sennonché questa distinzione nella più recente esperienza è stata, almeno in parte, svalutata dalla stretta connessione manifestatasi tra la forza armata propriamente detta e tutte le altre forze del paese. Non solo l'esercito oggi ha cessato dall'essere casta chiusa per divenire il popolo in armi, ma persino chi non impugna le armi è una forza viva nella lotta, forza economica, intellettuale, morale che deve fiaccare quella dell'avversario o esserne fiaccata. Nella guerra mondiale è emersa più che mai, per ciascuno dei contendenti, l'esigenza di una cooperazione di tutte le forze sociali, di un'organizzazione di tutte le energie nazionali per sorreggere l'azione militare e per collaborare con essa al fine propostosi. In questo senso si può dire che un nemico passivo non esiste, soppresso com'è dalla necessaria solidarietà della compagine sociale. Ciò non toglie però che vi sia una competenza specifica a esercitare atti di guerra, ossia che vi siano persone che li possono legalmente esercitare, altre che no. Si tratta di sapere quali sono queste persone alle quali sole il diritto attribuisce la qualifica e la situazione di legittimi combattenti col trattamento relativo. Risponde l'art. 1 del regolamento dell'Aia: "Le leggi, i diritti e i doveri della guerra non s'applicano soltanto all'esercito, ma anche alle milizie ed ai corpi dei volontari rispondenti alle condizioni qui espresse: abbiano alla loro testa una persona responsabile dei suoi subordinati; posseggano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portino apertamente le armi; si conformino nelle loro operazioni alle leggi e ai costumi della guerra. Negli stati in cui le milizie o alcuni corpi di volontarî costituiscono l'esercito e ne fanno parte, essi sono compresi sotto la stessa denominazione".
Press'a poco negli stessi termini si esprime il vigente regolamento italiano di servizio in guerra (VIII, art. 370) con la sola differenza ch'esso prescrive per tutte le forze armate l'autorizzazione del governo, restrizione, questa, che non si trova nel regolamento dell'Aia. È però da osservare che in generale non si tollera dallo stato moderno l'uso autonomo della forza. Si ammette però, che la popolazione di un territorio non occupato la quale, all'avvicinarsi del nemico, prende spontaneamente le armi per combattere, senza avere avuto il tempo di organizzarsi, sia considerata come belligerante.
È stato rimproverato l'impiego, in guerre europee, di truppe coloniali e dagl'imperi centrali partirono, nella guerra mondiale, più voci contro il "variopinto esercito" degli alleati. Senza discutere qui una questione di fatto, per regola, non è escluso l'impiego di truppe di colore, quando queste sappiano mostrare la stessa disciplina delle europee. Ciò però mette in tanto miglior luce la nobile condotta dell'Italia la quale, mentre avrebbe potuto legittimamente far uso delle sue truppe eritree, deliberatamente se ne astenne, pensando che la liberazione della propria terra e dei propri figli non poteva esser pagata che col sangue stesso dei suoi figli.
La distinzione tra combattenti e non combattenti è generale e si estende perciò anche alle forze marittime. Alcune di queste appartengono allo stato e ne formano l'armata (personale e flotta) intendendo per flotta il complesso delle navi inscritte nei quadri del 1iavigiio da guerra che giustificano esternamente la propria qualità con la bandiera e la fiamma. Si aggiungano le aeronavi a bordo d'una nave da guerra che si considerano come facenti parte di essa. Per queste forze non vi sono dubbî.
Dubbî invece vi possono essere quanto alle navi private. Non che esse possano esercitare direttamente attí di guerra, ché, dopo la nota dichiarazione di Parigi del 15 aprile 1856, quasi tutti gli stati si sono impegnati a non permettere la guerra di corsa; ma non è invece proibito che la marina privata porti il suo contributo alla marina militare ed è pur questo un aspetto di quel più vasto fatto cui già si accennò, caratteristico dell'odierna guerra: la necessaria cooperazione alla lotta di tutte le forze nazionali. Ma internazionalmente s'impone allora la questione di vedere a quali condizioni, con quali garanzie il naviglio e il personale privato possano statizzarsi. Poiché se ciò si facesse senza le necessarie cautele, se ciò potesse prestarsi a insidie, allora ben sarebbero giustificati i timori di chi vede per tal guisa risorgere subdolamente la vecchia guerra di corsa.
La conferenza del 1907 si preoccupò particolarmente della trasformazione delle navi mercantili in navi da guerra rivolgendo la propria attenzione su due punti molto delicati: il luogo della trasformazione e la sua fissità. Quanto al primo però non giunse a nessuna conclusione, onde, in mancanza di regola scritta e in riferimento alla pratica più diffusa, si deve ritenere che la trasformazione delle navi mercantili in navi da guerra è lecita nelle acque degli stati belligeranti, non lo è in quelle dei neutrali, è controverso se possa avvenire in alto mare. Parrebbe doversi rispondere in senso negativo, poiché sembra abbastanza evidente che la partenza dal porto del belligerante in veste palesemente pacifica non può esser fatta che in mala fede e che la scelta dell'alto mare per la trasformazione non può significare che l'assicurata clandestinità di essa. Tuttavia il diritto positivo non ci dà una risposta. Quanto al secondo punto la convenzione si limita a imporre al belligerante che trasforma una nave privata in una da guerra di registrarla al più presto possibile tra il naviglio militare (art. 6): garanzia internazionalmente molto dubbia poiché non è tenuto a comunicare la lista delle roprie navi militari né all'avversario né ai neutrali. Si vuole ancora che la nave commerciale così trasformata sia posta sotto l'autorità diretta e l'immediata responsabilità dello stato di cui batte bandiera e di cui deve portare i distintivi esteriori annessi alla qualità (art. 1 e 2), che il comandante, debitamente delegato, figuri tra gli ufficiali della flotta militare (art. 4) e che si seguano, nelle operazioni marittime, le leggi e i costumi bellici (art. 5).
Altra questione che si presentò assai grave nella guerra mondiale fu quella di sapere se le navi mercantili non trasformate abbiano diritto a un armamento difensivo. Il largo uso di sommergibili e la possibilità di difendersene con bocche da fuoco relativamente piccole fecero sì che le navi private si premunirono con apposito armamento e le stesse autorità marittime simularono piccole imbarcazioni pacifiche allo scopo di attrarre e colpire i sottomarini. Onde da un lato si sentì il rimprovero d'illecito armamento di navi private, dall'altro quello d'illecito attacco a navi private: e si sentì la doppia replica: non potersi considerare innocue le navi provviste di armamento e non potersi lasciare in tutto disarmate navi che si sarebbero trovate nella necessità di difendersi da un attacco ingiusto e insidioso. Nell'assenza di disposizioni precise in accordi internazionali si deve ritenere che sia lecito alle navi mercantili sistemare a bordo armi e munizioni a scopo puramente difensivo, in questo senso furono date disposizioni dal ministero italiano della Marina nelle "Norme" pubblicate dall'Ufficio di stato maggiore nel luglio 1924. Si richiede però il previo assenso governativo.
L'offesa bellica. - Il diritto internazionale positivo ha oggi posto nettamente il principio che "i belligeranti non hanno un diritto illimitato quanto alla scelta dei mezzi per nuocere al nemico" (IV conv. dell'Aia, n. 1907). I divieti che, allo stato attuale, possono ritenersi più sicuri sono i seguenti: adoperare veleni o armi avvelenate; uccidere o ferire a tradimento o incrudelire contro chi, deposte le armi, si sia reso a discrezione; sparare contro i naufraghi dal mare e dall'aria; impiegare proiettili esplosivi o incendiarî di peso inferiore ai 400 grammi, salvo che nel tiro antiaereo; impiegare pallottole che si espandano o si appiattiscano facilmente nel corpo umano; usare indebitamente la bandiera parlamentare e i segni distintivi della Croce Rossa e delle navi ospedali, come pure le insegne e le uniformi del nemico (il divieto di usare falsa bandiera non è stato però finora riconosciuto nelle operazioni marittime); adoperare gas asfissianti, tossici e simili. Queste regole si ricavano da alcuni atti solenni quali la dichiarazione di Pietroburgo del 1868, la citata IV convenzione dell'Aia del 1907, il trattato di Washington del 1922 per la protezione dei neutri e dei non combattenti, nonché da disposizioni sporadiche in altri trattati. Restano però lacune che lasciano molte incertezze su una guerra futura.
Così non sono affatto precisati, né per l'ampiezza del bersaglio né per i mezzi, i limiti delle operazioni aeree, malgrado alcune norme formulate da commissioni ufficiali di giuristi ma non ancora entrate nel diritto positivo. Sono invece sempre aperte la discussione tra chi vorrebbe ristretta l'offesa aerea alle forze combattenti e chi la vuole estesa a tutti i centri vitali dell'avversario; e la questione circa l'impiego di alcuni particolari mezzi di distruzione (la cosiddetta guerra chimica). Nelle operazioni marittime è tuttora sub indice la questione dei sommergibili e un accordo dell'Aia che regolava l'uso delle torpedini non fu ratificato.
Fu ratificata la IX convenzione della conferenza dell'Aia del 1907 la quale contiene disposizioni concernenti il bombardamento navale. Esso è vietato quanto ai porti, città, villaggi, abitazioni o edifizî indifesi; è permesso per le opere e stabilimenti militari o navali, per i depositi di armi e materiale da guerra, officine e installazioni e mezzi di comunicazione atti a essere utilizzati per i bisogni della flotta e dell'esercito nemico, navi nemiche che si trovino nel porto qualora le autorità locali, invitate a distruggere detto materiale entro un ragionevole limite di tempo, non abbiamo ottemperato all'intimazione. Il bombardamento navale è anche giustificato, ben s'intende solo di fronte al diritto positivo, dal rifiuto di aderire alla richiesta di requisizioni in natura.
Croce Rossa e navi ospedali. - La prima (rinviandosi alla voce speciale) viene qui rammentata soltanto per l'inviolabilità che la copre quand'essa agisca nei limiti delle proprie attribuzioni e per la perdita di tale inviolabilità quand'essa ne abusi o col servirsi di convogli per nascondere movimenti di truppa o con trasportare persone diverse da quelle dei feriti od ammalati.
Le navi ospedale, cioè quelle destinate allo scopo di portar soccorso ai feriti, ammalati o naufraghi, siano militari, siano anche private, non possono essere catturate né colpite, ma la loro inviolabilità è subordinata a un diritto di visita e di controllo che può su di esse esercitare il belligerante per assicurarsi che non siano adibite a scopi bellici. A maggior garanzia, i loro nomi debbono essere comunicati al belligerante prima che entrino in azione e, analogamente a ciò che si richiede per la Croce Rossa terrestre, i loro movimenti non devono recare impaccio in alcun modo alle operazioni delle navi combattenti. In questo senso molti stati s'impegnarono nella X convenzione dell'Aia del 1907.
Prigionia bellica. - Ne sono oggi acquisiti questi fondamenti: 1) essa non è una pena; poiché in qualunque modo si voglia giudicare la condotta del prigioniero di fronte agli obblighi che ha verso lo stato cui appartiene, di nulla si è reso colpevole verso lo stato che lo ha in suo potere: si tratta d'un provvedimento di sicurezza. 2) Non annoda nessun rapporto giuridico diretto tra la persona del prigioniero e quella del cattore: il cattore non ha sul prigioniero autorità o potere che non gli derivi da una pubblica funzione.
La prigionia di guerra dà luogo a due posizioni ben distinte: da un lato quella dei singoli individui di fronte allo stato cattore, posizione di puro diritto interno; dall'altro quella di ogni stato belligerante di fronte all'avversario, posizione di puro diritto internazionale. Il prigioniero, di fronte allo stato che lo detiene, è nella situazione di un subditus temporarius (se volontario o involontario non rileva, ché pure in quei casi in cui si possa ammettere una volontaria resa è sempre da escludersi un rapporto contrattuale tra l'individuo e lo stato cattore): la volontà del singolo è perciò incapace di porre in essere o modificare l'ordinamento giuridico della prigionia. Se questo fosse contrario al diritto internazionale, l'individuo dovrebbe ugualmente subirlo non avendo iure proprio alcun titolo per opporvisi. Un tal titolo l'avrebbe invece lo stato interessato, perché una volontà comune lega gli stati belligeranti i quali si concedono reciprocamente il potere di catturare e di detenere i rispettivi cittadini, subordinandone però la cattura e la detenzione a determinate condizioni e norme fissate di comune accordo. Possiamo dire, oggi, accordo in senso formale perché, tra il maggior numero degli stati civili, non più la pura consuetudine ma un atto solenne, e precisamente il citato regolamento concernente le leggi e i costumi della guerra terrestre (cap. II, art. 4 a 20) annesso alla IV convenzione della seconda conferenza dell'Aia, regola questa materia. Deve aggiungersi una nuova convenzione del 27 luglio 1929 alla cui elaborazione parteciparono a Ginevra i delegati di 42 stati e che dall'Italia è già stata ratificata.
Prima guarentigia internazionale, non espressa ma presupposta da tutto il contenuto della convenzione, è il rispetto all'esistenza fisica dei prigioni. Questi, a eccezione degli ufficiali, possono esser costretti a lavorare, ma non gratuitamente. A parte i lucri del lavoro, è garantito ai prigionieri il salario o lo stipendio se sono ufficiali. Tutto ciò che loro appartiene, tolti gli oggetti d'uso militare, resta di loro proprietà. È altresì garantito l'esercizio del loro culto e, in una certa misura, la libertà di corrispondenza; anzi particolari uffici facilitano lo scambio di notizie e di sussidî. I prigionieri di guerra alla loro volta, dato il loro carattere militare, debbono sottostare alle leggi e alla disciplina dello stato detentore, sono tenuti a dichiarare il loro vero nome e il loro grado, a mantenere gl'impegni assunti contro la concessione della libertà.
Ammesso il principio che la prigionia bellica è un provvedimento di sicurezza diretto a impedire che il nemico possa valersi di forze attive sottrattegli nella lotta, ne scende che, cessata le la guerra, cessa insieme ogni ragion d'essere della stessa prigionia. Sia le odierne costumanze sia il citato regolamento dell'Aia riconoscono che la cessazione della guerra libera immediatamente, e senza alcun prezzo di riscatto, né condizione di scambio, gl'individui detenuti a solo titolo di prigionia di guerra.
Feriti e malati. - Il diritto internazionale è intervenuto ponendo agli stati non solo alcune limitazioni al loro agire, ma anche alcuni obblighi positivi. Quattro convenzioni, quelle di Ginevra 22 agosto 1864 e 6 luglio 1906 relative alla guerra terrestre e quelle dell'Aia 29 luglio 1899 e 18 ottobre 1907 concernenti la guerra marittima, fissano alcune norme fondamentali alle quali gli stati debbono conformare la loro condotta. Queste norme si basano sul concetto che non si possa far distinzione tra i malati e i feriti dell'esercito proprio e quelli dell'esercito nemico e sul riconoscimento dell'intangibilità dei luoghi di ricovero e dei mezzi di soccorso (v. croce rossa). La protezione ed il rispetto si estendono anche alle salme dei combattenti.
Parlamentari - Nell'imminenza o anche nel vivo del combattimento si rende talora necessario comunicare con la parte avversa o per darle qualche avvertimento o per avanzare qualche proposta. L'odierno diritto positivo internazionale ha ribadito una vecchia consuetudine col sancire, accompagnandola con opportune cautele, l'inviolabilità dei parlamentarî.
L'art. 32 del regolamento dell'Aia considera quale parlamentario l'individuo autorizzato da uno dei belligeranti a trattare con l'altro. Segno esteriore il vessillo bianco e il suono di tromba o di tamburo: ciò che non toglie alla parte cui il parlamentario si dirige il diritto di esigere con altri documenti la prova della qualità e del mandato. Il citato regolamento aggiunge (art. 33) che il capo al quale un parlamentario è inviato non ha obbligo di riceverlo in tutte le circostanze. Ed è bene inteso che il parlamentario perda l'inviolabilità s'egli ne profitti per provocare o commettere atti di tradimento (art. 34) ossia se, uscendo dai limiti strettamente imposti alla sua missione, se ne sia valso ai danni dell'avversario. Il caso più frequente è quello di raccogliere informazioni, ma potrebbe trattarsi di atti ancor meno corretti, come corruzione di persone o relazioni illecite allo scopo di suscitare tradimenti in senso più preciso. Analogo trattamento viene fatto ai parlamentarî nella guerra marittima, dove l'inviolabilità delle persone per necessità si estende alla nave di cartello che le trasporta. Talora per mezzo di parlamentarî si conchiudono convenzioni di guerra delle quali i due tipi più caratteristici sono l'armistizio e la capitolazione.
Spionaggio. - Non è un fatto specifico della guerra guerreggiata, poiché si esercita in previsione di essa, da militari e da non militari, pure in tempo di pace e ogni stato se ne difende a suo libito con provvedimenti legislativi o amministrativi. Il diritto internazionale lo disciplina solo in tempo di guerra, ponendo agli stati alcune limitazioni sia nella concezione sia nella repressione di esso.
L'art. 29 infatti del vigente regolamento dell'Aia dichiara che può esser considerato come spia solo "l'individuo che, agendo clandestinamente o sotto falsi pretesti, raccolga o cerchi raccogliere informazioni nella zona d'operazione di uno dei combattenti, con l'intenzione di comunicarle alla parte avversaria". Resta così esclusa l'esplorazione militare (come del resto è espressamente detto nello stesso articolo) con qualunque mezzo compiuta, anche con aeronavi; resta esclusa l'informazione (es. la giornalistica) ottenuta per altri scopi che non siano quelli di nuocere al nemico, e resta infine escluso lo stesso spionaggio che si svolga al di fuori della zona d'operazioni. Quando pure, a ogni modo, si sia di fronte a un atto di spionaggio che risponda ai sopraddetti requisiti, non perciò gli stati possono usare qualsiasi mezzo di punizione. Non solo infatti l'art. 30 del regolamento dell'Aia impedisce che la spia, anche colta sul fatto, sia punita senza un preliminare giudizio, ma, analogamente a ciò che si fa per i prigionieri, si vuole che la spia che ha raggiunto il proprio esercito ed è più tardi catturata, non incorra in responsabilità per gli atti di spionaggio antecedenti (Reg. Aia, art. 31).
Occupazione bellica. - È il transitorio esercizio della sovranità sul territorio dello stato nemico, esercizio limitato dal diritto internazionale di guerra. Ciò importa che l'occupazione non implica riconoscimento di sovranità in favore dello stato occupante. L'antica sovranità è soltanto sospesa e al suo posto si esercita temporaneamente quella dell'occupante, non già come rappresentante dell'altro stato ma direttamente, in forza di una facoltà che gli deriva dal diritto internazionale.
Quanto allo spazio, può essere oggetto di occupazione bellica soltanto il territorio (e tutto il territorio) del nemico. Non è, invece, mai oggetto di occupazione bellica il territorio dei proprî alleati e quegli atti d'impero che talora l'intervento militare in esso comporta si fanno ad altro titolo. Il diritto positivo (IV conv. Aia, 1907, art. 42) esige poi che l'occupazione sia effettiva e totale; vale a dire che di fatto il territorio si trovi sotto l'autorità dell'occupante, ossia ogni utile resistenza sia cessata e che l'occupazione non si estenda al di là della zona entro la quale l'occupante esercita di fatto il suo potere. Poiché l'occupazione bellica non significa misconoscimento della sovranità dello stato nemico sul territorio occupato, ma semplice esercizio di poteri statali, permesso ma anche limitato dal diritto internazionale, il diritto subiettivo dell'occupante trova alcune restrizioni in ordine alle singole sfere della sua attività.
L'occupazione per sé sola non sopprime la legislazione dello stato occupato, ciò che del resto non farebbe neppure l'annessione. Ma poiché le leggi vigenti potrebbero rivelarsi, almeno in parte, incompatibili con le esigenze della guerra o, in ogni modo, incomplete e disadatte alla nuova situazione, ne viene la facoltà dell'occupante di modificarle e completarle, esercitando esso durante il periodo di occupazione la potestà legislativa. Tale facoltà è oggi dichiarata espressamente dall'art. 43 della rammentata IV convenzione dell'Aia, il quale anzi, più che il diritto, afferma il dovere dell'occupante di ristabilire e di assicurare l'ordine e la vita pubblica. Ora è evidente che, in quanto a tale ristabilimento siano necessarî provvedimenti legislativi, l'occupante li potrà prendere con quei larghi criterî discrezionali che le circostanze impongono.
È questione sempre controversa se le leggi del territorio rimaste in vigore perché non abrogate dall'occupante valgano, rispetto all'occupante, come leggi nazionali o come leggi straniere. Noi preferiamo ritenere che la legge territoriale debba sempre considerarsi legge dello stato cui appartiene il territorio, ossia dello stato occupato, sino al momento dell'annessione che durante l'occupazione è un momento incertus an. Anzi la stessa dizione della norma positiva (conv. Aia, art. 43) che fa obbligo all'occupante di rispettare, salvo impedimenti assoluti, le leggi del paese, lascia pensare che all'occupante, piuttosto che un vero e proprio diritto di abrogazione, spetti un diritto di sospensione e di sostituzione per il tempo e le necessità dell'occupazione. In ogni modo non si può dire ch'esso nazionalizzi e faccia proprie le leggi del territorio occupato; esso si presta soltanto a lasciarle o farle eseguire per le esigenze della vita civile, ma restano sempre straniere rispetto al proprio ordinamento. Una conseguenza importantissima tocca i rapporti di diritto internazionale privato, in ordine ai quali l'occupante deve considerare come legge estera e non come legge statale quella vigente nel territorio occupato.
Analogamente a quanto si vide per l'attività legislativa, si deve ritenere che anche per l'attività amministrativa (intendendola nel suo senso più comprensivo) l'occupante, pure non perdendo di vista la continuità dell'amministrazione e perciò rispettando per quanto è possibile gli ordinamenti esistenti sul territorio occupato, abbia facoltà di modificarli secondo le speciali esigenze dell'occupazione e, in particolare, di sostituire organi proprî, giudiziarî ed esecutivi, in quanto i preesistenti o non funzionino o presentino pericoli per l'occupante. Notiamo anzi, a questo proposito, che la volontà degli stati sembra essere più chiara per questa circostanza: che la dichiarazione di Bruxelles del 1874 attribuiva espressamente l'obbligo all'occupante di proteggere quei funzionarî di qualsiasi ordine che, dietro suo invito, consentissero a continuare nelle loro funzioni. E aggiungeva: "essi non potranno essere rimossi o disciplinarmente puniti se non vengano meno agli obblighi assunti, né tratti in giudizio se non li tradiscano" (art. 4). Ora il fatto che la dichiarazione di Bruxelles non fu mai ratificata e che una simile garanzia in favore dei funzionarî del paese occupato non compare più né nelle convenzioni del 1899 né in quelle del 1907 dimostra che gli stati l'hanno voluta eliminare.
Il diritto positivo s'è pertanto limitato a porre alcune guarentigie a tutela di alcuni diritti fondamentali della popolazione che, oltre a quello basilare della vita, si possono raggruppare attorno ai seguenti oggetti: a) i sentimenti patriottici: onde il divieto di esigere un giuramento di fedeltà e di pretendere informazioni sulla forza e sui mezzi di difesa (artt.44, 45); b) i sentimenti familiari e religiosi: sono salvaguardati l'onore e i diritti della famiglia nonché le credenze e l'esercizio dei culti (art. 46); c) la proprietà privata: ciò non solo con l'interdizione del saccheggio, ma con la disciplina delle contribuzioni e requisizioni (artt. 47-52).
Fine della guerra. - Lo stato di guerra ha termine in due modi: a) Con la cessazione delle ostilità voluta deliberatamente a tale scopo; se tale cessazione è seguita dalla sottomissione di uno all'altro degli avversarî si ha la debellatio che conduce all'incorporazione. b) Con un trattato di pace che talora è preceduto da preliminari di pace, da non confondersi con un armistizio, in quanto nei preliminari la pace è già decisa mentre nell'armistizio non lo è; per la validità e gli effetti del trattato di pace che riposa, come ogni altro trattato, sulla volontà convergente dei contraenti, valgono le regole comuni per ogni trattato, con la sola avvertenza che a viziare quella volontà non è sufficiente, come da alcuni si è sostenuto, la pressione morale esercitata sul vinto dal vincitore.
Bibl.: S. Gemma, Guerra, in Dig. It., 1904; I. Sichel, Die Kriegerischen Besetzung feindlichen Staatsgebiet, Francoforte 1905; E. Catellani, Condizioni ed effetti giuridici dello stato di guerra, Venezia 1906; A. Zorn, Das Kriegsrecht zu Lande in seiner neuesten Gestaltung, Berlino 1906; M. Maurel, De la declaration de guerre, Parigi 1907; P. Bordwell, The law of war between belligerants, Chicago 1908; Ph. Zorn, Die Fortschritte des Seekriegsrechts durch die zweite Haager Friedenskonferenz, Tubinga 1908; A. P. Higgins, The Hague peace conference and other int. conf. concerning the laws and usages of war, Cambridge 1909; R. Jacomet, La guerre et les traités, Parigi 1909; A. Rapisardi Mirabelli, Il significato della guerra nella scienza del dir. internaz., Roma 1909; Ch. Dupuis, Le droit de la guerre marit. d'après les conférences de la Haye et de Londre, Parigi 1911; G. Del Vecchio, Il fenom. della guerra e l'idea della pace, Torino 1911; M. Marinoni, Natura giur. dell'occupaz. bellica, Roma 1911; F. Niemeyer, Urkundenbuch zum Seekriegsrecht, Berlino 1913; Section historique de l'État-Major de l'armée, Les Lois de la guerre continentale, Parigi 1913; F. Coll, Occupation du temps de guerre, Tolosa 1914; K. Strupp, Das int. Landskriegsrecht, Francoforte 1914; T. Baty e J. H. Morgan, War: its conduit and results, Londra 1915; I. M. Spaight, War rights on Land, Londra 1911; id., Aircraft in war, Londra 1915; A. Bragadin, Il dir. di guerra nelle sue fonti positive, Roma 1915; H. Wehberg, Seekriegsrecht, Stoccarda 1915; A. Finger, Die Stell. der Person u. des Privateigentums im Kriegsrecht, Halle 1916; J. Laurentie, Les lois de la guerre, Parigi 1917; G. Dallari, Guerra e giustizia, Milano 1918; Min. della guerra ted., Deutsche Kriegsführung u. das Völkerrecht, Berlino 1919; L'Eglise et le droit de la guerre (parecchi autori), Parigi 1920; E. D. Wigger, Nociones de derecho internacional aplicado a la guerra, La Paz 1919; A. Mérignhac e E. Lémonon, Le droit des gens et la guerre de 1914-18, Parigi 1920; I. E. Holland, Letters upon war and neutrality with some commentary, Londra 1921; A. Rolin, Le droit moderne de la guerre, Bruxelles 1920-21, voll. 3; B. Breschi, La dottr. della guerra nel dir. int., Roma 1922; E. Sandiford, Note di dir. maritt. di guerra, Roma 1925; Land Warfare, An expos. of the laws and usage of war on Land for the guidance of officers of H. M. army, Londra s. d.; G. Rasmussen, Codes de pris. de guerre, Copenaghen 1931.
Stato di guerra. - È un istituto di polizia, diretto ad assicurare una più efficace difesa dell'ordine giuridico, reclamata da condizioni eccezionali della vita dello stato. Si suole distinguere nel diritto italiano in effettivo e politico. Più esattamente deve dirsi proprio e improprio. Il primo presuppone la guerra; il secondo il pericolo di disordini. La proclamazione dello stato di guerra in senso proprio, ha luogo normalmente con atto di governo (decreto reale). Ha luogo con atto del comando delle truppe, quando il territorio di una divisione o di una sottodivisione militare, o quello dipendente da una piazza di guerra, da una fortezza o da un posto militare, siano invasi da truppe nemiche o queste siano a distanza minore di tre giorni di marcia. In tal caso, lo stato di guerra è limitato a quel territorio e dura finché il nemico non si sia ritirato al di là di tre giornate ordinarie di marcia, o, se vi sia stato assedio o assalto, finché "le opere degli assedianti siano state distrutte e le brecce riparate o poste in stato di difesa". Quando lo stato di guerra è dichiarato con decreto reale, lo stesso decreto indica il territorio in cui deve attuarsi: un decreto successivo ne ordina la cessazione. Effetto generale della proclamazione è che tutte le disposizioni esistenti nella legislazione e che si riferiscono alla guerra entrano in applicazione. Tutti i poteri civili e militari sono concentrati nell'autorità militare; i tribunali militari di guerra vengono sostituiti ai tribunali militari di pace e in parte ai tribunali ordinarî; le autorità civili possono essere sospese dalle loro funzioni; le libertà individuali subiscono le restrizioni determinate dalle esigenze della guerra; l'autorità militare è investita di potestà legislativa anche con efficacia formale.
Lo stato di guerra in senso improprio, mancava, fino a qualche anno fa, di una disciplina legislativa.
Si parlava di uno stato di assedio, determinato da disordini interni, in contrapposto allo stato di guerra, determinato da necessità belliche. Salva però la diversità dello scopo, il primo aveva lo stesso contenuto del secondo e dava al governo gli stessi poteri. Ma numerose questioni si agitavano. Si discuteva se la facoltà di proclamare lo stato d'assedio spettasse soltanto al potere legislativo, o anche al potere esecutivo; e, nell'affermativa, donde tale facoltà ripetesse il suo fondamento; se lo stato d'assedio potesse proclamarsi solo ai fini di reprimere o anche di prevenire; e, in conseguenza, se fosse una misura repressiva o preventiva; e ancora in che cosa potesse e dovesse esso consistere; se il governo fosse libero di sospendere o modificare qualunque parte dell'ordine giuridico esistente o se i suoi poteri incontrassero limiti e quali.
Questioni tutte che, in gran parte, sono state risolte in Italia dalla nuova legge di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773. Questa non parla più di stato di assedio, ma di stato di pericolo pubblico e di stato di guerra. L'uno non differisce dall'altro che per l'autorità cui sono demandati i poteri straordinarî per la tutela dell'ordine: l'autorità provinciale di pubblica sicurezza nello stato di pericolo pubblico; l'autorità militare nello stato di guerra.
Entrambi hanno per presupposto il pericolo di disordini: sono, quindi, istituti così di prevenzione che di repressione, a seconda che, nelle concrete contingenze, l'ordine pubblico sia soltanto minacciato, o sia stato già turbato. Competente a proclamare lo stato di pericolo e lo stato di guerra è il ministro dell'Interno, con l'assenso del capo del governo, e, in via di delegazione, i prefetti. In caso di assoluta urgenza, sembra che la dichiarazione possa esser fatta dai prefetti, anche all'infuori di espressa delega, salva la ratifica del ministro dell'Interno, previo assenso del capo del governo (articoli 2, 214 e 217 legge pubblica sicurezza). Infine, è da rilevare che le dichiarazioni di stato di pericolo e di stato di guerra, possono essere parziali o generali, a seconda che riguardino una parte o tutto il territorio dello stato.
Durante lo stato di pericolo, l'autorità provinciale di pubblica sicurezza può ordinare che sia arrestata e detenuta qualsiasi persona, ove lo consideri necessario. Il prefetto può adottare tutti i provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine. Ove la dichiarazione dello stato di pericolo riguardi l'intero territorio dello stato, il ministro dell'Interno può emanare ordinanze anche in deroga alle norme di diritto comune, sulle materie che abbiano attinenza all'ordine pubblico. I contravventori sono arrestati e puniti con l'arresto non inferiore a un anno, salvo le maggiori pene stabilite dalle leggi nei singoli casi (art. 216 legge cit.).
Nello stato di guerra, la tutela dell'ordine è affidata all'autorità militare, e all'autorità che ha il comando delle forze militari spetta la facoltà di emanare le ordinanze. Le autorità civili continuano a funzionare per tutto ciò che non si riferisce all'ordine pubblico. Per ciò che riguarda l'ordine pubblico, le autorità civili esercitano solo i poteri che l'autorità militare ritenga di delegare a esse. Durante lo stato di guerra, non cessa la competenza dei tribunali ordinarî per le materie civili. Per le materie penali, passano alla competenza dei tribunali militari i delitti contro la personalità dello stato, la pubblica amministrazione o l'ordine pubblico, ovvero contro le persone o la proprietà, compiuti durante lo stato di guerra o di pericolo pubblico. Tace il diritto italiano circa la cessazione di tali stati. Detti istituti sono, per la loro natura, temporanei; venute a mancare le cause determinanti, devono cessare. Occorre, tuttavia, l'atto formale che dichiari cessato lo stato di pericolo o lo stato di guerra; atto da emanarsi dalla stessa autorità che ebbe a proclamare gli eccezionali provvedimenti.
Bibl.: G. Arangio-Ruiz, Lo stato d'assedio nel diritto pubblico italiano, in Archivio di diritto pubblico, 1894; F. P. Contuzzi, Lo stato d'assedio, in Digesto italiano, XXII parte 2ª; A. Majorana, Stato d'assedio, Catania 1894; O. Ranelletti, Polizia di sicurezza, in Trattato di V. E. Orlando, IV, p. 1140-1252; L. Rossi, Lo stato d'assedio nel dir. pubbl. ital., in Arch. di diritto pubblico, 1894; S. Romano, Sui decreti legge e lo stato di assedio, in Riv. di dir. pubbl., 1909, I.
Diritto penale comune e militare di guerra. - La necessità di assicurare una più efficace protezione penale dello stato contro le insidie di ogni genere, che possano provenirgli così dai nemici esterni come in taluni casi dai nemici interni, costituisce la ragione fondamentale, per cui i codici penali di tutti i tempi e di tutti i paesi prevedono il tempo di guerra come circostanza costitutiva di taluni reati o come circostanza aggravante di altri, assai più numerosi, configurati, generalmente, al pari dei primi, nel titolo relativo ai delitti contro la sicurezza dello stato. Il codice penale italiano vigente si differenzia da quello del 1890, in quanto non soltanto prevede la circostanza del tempo di guerra per un complesso di delitti relativamente assai più numeroso, ma anche perché detta disposizioni, d'ordine generale, completamente nuove come quella contenuta nell'articolo 249 attinente al nostro argomento; e ciò in corrispondenza della maggiore importanza che la protezione penale dello stato ha oggi assunto, così da trasformare quella che secondo il codice penale del 1890 rappresentava la protezione penale accordata soltanto alla sicurezza esterna o interna dello stato nella protezione assai più ampia dovuta alla sua personalità politica, considerata nel duplice aspetto di personalità esterna e interna. A integrazione di siffatta tutela, l'articolo 510 stabilisce doversi la pena aumentare quando taluni gravi delitti contro l'economia pubblica, e precisamente quelli alla cui repressione è affidata la tutela dell'economia pubblica italiana a base corporativista (serrate, scioperi, ecc.), siano commessi in tempo di guerra.
Non meno rigorosi dovevano essere a tale riguardo e sono infatti i codici penali militari. In tempo di guerra e quindi, nella massima parte dei casi, di fronte al nemico, ricorre, a più forte ragione, l'esigenza di rafforzare la protezione penale necessaria alla saldezza dell'organizzazione militare e, in genere, dell'efficienza bellica. Numerose disposizioni del Libro I della Parte prima del codice penale per l'esercito italiano, attualmente in vigore, prevedono, a proposito di singoli reati, il tempo di guerra, come circostanza aggravante; tutto il Libro II della stessa Parte prima è riservato alle disposizioni relative al tempo di guerra. Analogamente il Libro II, Parte seconda, è riservato alle disposizioni relative alla procedura penale in tempo di guerra. Per quanto la riforma di detto codice sia in corso di elaborazione, sarà opportuno far cenno del contenuto di due disposizioni d'ordine generale per il tempo di guerra, le quali si manifestano di particolare importanza perché confermano con quale rigore anche il legislatore penale militare esiga che si provveda alla repressione dei delitti commessi in tempo di guerra. A norma dell'articolo 250, le disposizioni penali contenute nel detto codice, le quali non contemplano espressamente il tempo di guerra, debbono essere applicate con l'aumento di un grado, allorché il reato sia stato commesso durante tale tempo; a norma dell'articolo 576, al reato commesso in tempo di guerra debbono essere applicate sempre le pene prescritte per il tempo di guerra e perciò anche quando il colpevole debba essere giudicato dopo che lo stato di guerra sia cessato.
Il diritto penale comune non detta la nozione generale del tempo di guerra. Il richiamo al diritto internazionale è evidentemente implicito. Secondo la concezione tradizionale (v. sopra 9: Diritto internazionale), il tempo di guerra presuppone la dichiarazione di guerra; ma a tale dichiarazione oggi niuno più dubita che debba equipararsi l'inizio delle ostilità, qualora queste abbiano luogo senza la dichiarazione di guerra. Costituisce ostilità non soltanto l'urto di eserciti in campo aperto, ma anche, almeno nel suo momento iniziale, l'aggressione che uno stato operi a danno di un altro stato con le sue forze armate.
È noto che soltanto gli enti, i quali hanno una personalità internazionale, e quindi, in primo luogo, di stati, possono essere considerati come soggetti della comunità intemazionale e, a siffatto titolo, i soli destinatarî delle norme dettate dal diritto internazionale pubblico, tra cui, di particolare importanza, quelle relative alla guerra. Tuttavia questo principio consente talune eccezioni. Così per l'ultimo capoverso dell'articolo 249, sono applicabili le norme relative al diritto di guerra anche nel caso che uno stato diriga la propria azione militare, non contro un altro stato, ma contro aggregati politici, che non hanno una personalità internazionale, quali i ribelli e gl'insorti. Si è considerato che le vicende e le esigenze della lotta spesso impongono questa estensione, in quanto possono verificarsi situazioni, per vero eccezionali, in cui lo stato deve adottare il diritto di guerra contro gl'insorti o contro i ribelli, per essere in grado di condurre la lotta con maggiore efficacia. Deve trattarsi tuttavia di aggregati, i quali hanno un ordinamento interno di governo, per quanto primordiale, sulla base di comunanza etnica e religiosa. Per effetto di tale estensione, saranno applicabili ai conflitti di cui è cenno, tutte le disposizioni relative alla repressione delle varie forme di favoreggiamento bellico, da quella insidiosa, costituita dalla somministrazione, anche indiretta, di provvigioni e di altre cose, le quali possono essere rivolte a danno dello stato italiano, alla rivelazione di segreti politici o militari o allo spionaggio e, in genere, tutte le disposizioni relative al tempo di guerra.
Parimenti, agli effetti della legge penale (art. 314), sotto la denominazione di tempo di guerra, è compreso anche il periodo d'imminente pericolo di guerra, quando questa sia seguita. La necessità di assicurare alla difesa politica e militare dello stato, anche nel periodo immediatamente precedente alla guerra, quella maggiore protezione penale, che è stabilita per il periodo delle ostilità, costituisce la giustificazione dell'eccezionale noma, di cui è cenno. È precisamente in codesto periodo che lo stato compie, spesso nell'ansia dell'attacco temuto imminente, la mobilitazione generale, e, in genere, quella preparazione bellica e diplomatica alla lotta, che può decidere della sorte della guerra. Il punto terminale di questo periodo è dato dalla dichiarazione di guerra, ovvero dall'inizio delle ostilità da parte delle forze di uno degli stati belligeranti. Il punto iniziale sarà costituito generalmente dal sorgere di quella situazione eccezionale, d'altra parte di durata brevissima, in cui circostanze diverse, d'ordine politico e militare, avvertono che la patria è in pericolo.
Può domandarsi se, per l'applicazione delle disposizioni del codice l7enale, al tempo di guerra corrisponda lo stato di guerra (sulla nozione dello stato di guerra v. sopra). Qualora in difetto di contraria disposizione il momento iniziale dello stato di guerra coincida con la dichiarazione che lo stato belligerante ne faccia nel proprio territorio, è evidente che il tempo di guerra così nella nozione fondamentale datane dal diritto internazionale, come e più ancora nell'estensione fattane dall'articolo 314, può avere una data d'inizio anteriore a quella dello stato di guerra. Può verificarsi pure che trascorra tutto il tempo di guerra senza che il territorio dello stato, o almeno il territorio metropolitano sia, in tutto o in parte, dichiarato in stato di guerra, come nel caso di guerre coloniali (v. anche stato di guerra). Secondo il diritto internazionale la fine della guerra è segnata dal giorno in cui sono scambiate le ratifiche del trattato di pace.
Il diritto interno dei varî stati detta norme intese a estendere il tempo di guerra, per modo da far coincidere la sua cessazione con il momento in cui effettivamente il paese può considerarsi sul piede di pace. In Italia spetta al governo del re il determinare, in seguito a delegazione legislativa, quando il tempo di guerra debba considerarsi cessato per ogni effetto giuridico, non soltanto civile o amministrativo, ma anche penale. A norma dell'articolo 243 del codice penale per l'esercito, anche la cessazione dello stato di guerra è dichiarata con decreto reale. Il tempo di guerra e, in conseguenza, anche lo stato di guerra possono terminare per talune parti del territorio dello stato dopo che per altre e ciò in considerazione di speciali esigenze estranee alla difesa del paese, e la cui valutazione è pure riservata all'apprezzamento del governo.
Diritto marittimo di guerra. - È un ramo del diritto internazionale pubblico, e comprende quel complesso di norme che regolano, in generale, la condotta dei belligeranti nell'impiego dei mezzi di guerra sul mare e i diritti e doveri tra gli stati belligeranti e quelli neutrali.
Le sue origini non sono antiche e possono stabilirsi verso la metà del sec. XVII, all'epoca del trattato di Vestfalia (1648), che pose fine alla guerra dei Trent'anni e costituì, sino alla Rivoluzione francese, la base del diritto pubblico e della diplomazia europea. Esistevano, anche prima, molte disposizioni, chiamate ordinariamente ordinanze, che si riferivano allo stato di guerra marittima nei rapporti reciproci dei belligeranti e dei neutrali, ma non avevano carattere di leggi generali ed erano per lo più informate alle necessità del momento. Molte ordinanze del genere furono emanate dall'Inghilterra e dagli Stati Generali olandesi.
Auspice il Rinascimento, dischiuso il varco alla grande navigazione oceanica, dopo la scoperta dell'America, cominciarono le lotte per il dominio dei mari e per il monopolio commerciale della navigazione. U. Grozio col Mare liberum (1609), J. Selden col Mare clausum (1636), l'uno ammettendo, l'altro negando la libertà della navigazione, prepararono il terreno al trionfo dei nuovi principi di convivenza sociale e del commercio marittimo, elevandone i problemi dalle nebulose concezioni medievali al campo degli studî giuridici e scientifici. Il commercio d'alto mare assunse importanza politica ed ebbe carattere internazionale, donde necessità di norme internazionali che lo tutelassero non solo in tempo di pace ma anche in tempo di guerra. L'ordinanza della marina di Luigi XIV (1681) offrì a tutte le nazioni il primo modello di leggi intorno alla navigazione, tanto nel diritto privato che in quello pubblico, e diede regole per l'esercizio del diritto di preda. Successivamente col trattato di Utrecht (1713), che pose fine alle guerre coloniali, avvenne il riconoscimento della franchigia della bandiera neutrale nella guerra marittima. Fu una grande conquista che i popoli. conservarono allora gelosamente a prezzo di qualsiasi sacrifizio. Quando l'Inghilterra volle infatti negarne l'esistenza e l'efficacia, Caterina di Russia costituì la neutralità armata ed emanò la celebre dichiarazione di Pietroburgo (1780), con la quale assumendo la difesa dei neutrali, fissò le regole, rimaste anch'esse inalterate sino ad oggi, sull'esercizio del diritto di cattura del naviglio mercantile e delle mercanzie neutrali, sul contrabbando e sul blocco.
Conquistata intanto l'indipendenza, gli Stati Uniti dell'America del Nord posero la libertà dei mari a fondamento della loro dottrina economico-marittima e fecero tutti gli sforzi perché le nazioni si mettessero d'accordo per lo studio e la formazione di un regolamento per la guerra marittima. I voti della grande repubblica americana trovarono nei governi europei e nella grande schiera degli studiosi e cultori di diritto internazionale la migliore accoglienza. Quando, dopo la guerra di Crimea, i plenipotenziarî dei varî stati si riunirono a Parigi per elaborare le condizioni della pace, fu presa in esame la questione dell'adozione di alcune regole fondamentali relative al commercio marittimo durante la guerra. La dichiarazione di Parigi, che venne allora proclamata in data del 16 aprile 1856, segna una data gloriosa non solo nella storia del diritto marittimo di guerra ma anche in quella della civiltà. I quattro principî in essa proclamati costituiscono la base della moderna legislazione e si riferiscono all'abolizione della guerra di corsa (v.), all'immunità della merce nemica sotto bandiera neutrale, all'immunità della merce neutrale sotto bandiera nemica e alle condizioni necessarie per la effettività e obbligatorietà del blocco. La dichiarazione fu firmata da tutti gli stati, eccettuati la Cina (che l'accettò posteriormente) e gli Stati Uniti d'America. Questi, pur consentendo circa quanto in essa era espresso, si rifiutarono di firmarla perché non era stata accettata la loro proposta sull'inviolabilità della proprietà privata sul mare durante la guerra, questione oggi non ancora risolta. Il regno di Sardegna fu rappresentato da Cavour, che rese al mondo servigi eminenti per avere indotto le delegazioni ad accettare i principî della dichiarazione e ad incorporarli nelle rispettive leggi nazionali.
Da allora vi è stato un continuo progresso nella legislazione marittima di guerra, tendente a un duplice scopo: rendere meno feroci le azioni belliche, con l'informare la condotta dei belligeranti a maggiori e migliori sensi di umanità; ridurre, se non eliminare i conflitti fra belligeranti e neutrali col determinare i limiti dei rispettivi diritti e doveri. Si è venuta così costituendo da oltre mezzo secolo una complessa giurisprudenza, che si è andata continuamente arricchendo specialmente con i pronunciati, dati in varie contingenze di litigi internazionali, delle commissioni arbitrali e dei tribunali delle prede. Tra le prime è notevole quella relativa alla questione dell'Alabama (v.) a seguito della vertenza anglo-americana per violazione di neutralità da parte dell'Inghilterra durante la guerra di secessione. Le norme allora fissate, conosciute col titolo di regole di Washington (8 maggio 1871), sono oggi patrimonio del diritto marittimo di guerra. Lo stesso si dica delle sentenze dei tribunali delle prede, che, nel complesso, hanno dato tale contributo scientifico all'esame giuridico delle varie questioni da costituire, da sé sole, una dottrina nei rapporti internazionali in tempo di guerra.
A eliminare l'inconveniente tante volte lamentato dell'esistenza di leggi particolari di ciascuno stato, spesso in contrasto coi nuovi principî, fu necessario rendere generale e uniforme la legislazione di tutti gli stati. Convocata nel 1907 la seconda conferenza dell'Aia per lo studio delle varie questioni di diritto marittimo di guerra, furono, con l'intervento di ben 44 stati, concordate le convenzioni sul trattamento delle navi mercantili nemiche al principio delle ostilità, sulla trasfermazione delle navi mercantili in navi da guerra, sulla posa delle torpedini automatiche a contatto, sul bombardamento da parte di forze navali contro città indifese, sulle restrizioni al diritto di visita, sull'istituzione di una corte internazionale delle prede e sui doveri e diritti delle potenze belligeranti.
All'Aia non si esaurì il lavoro, essendo rimaste in sospeso altre questioni, che, per la loro importanza, furono rimandate a un'altra conferenza. Questa avvenne, due anni dopo, con l'intervento delle sole grandi potenze navali, e fu tenuta a Londra nel 1909. Fu in quella occasione passata in rassegna e sottoposta a minuto e dotto esame tutta la materia del diritto marittimo. Ne risultò la dichiarazione di Londra del febbraio 1909 che diede regole precise sulle seguenti contrastate materie: blocco, contrabbando, assistenza ostile, distruzione delle prede neutrali, cambio di bandiera, carattere nemico o neutrale della nave e del carico, resistenza all'esercizio del diritto di visita e indennità per ingiusti affondamenti di navi.
La dichiarazione fu oggetto di gravi critiche; tuttavia, all'inizio della guerra mondiale, fu accettata, come se fosse stata ratificata, da tutti i belligeranti, meno, in qualche parte, dall'Inghilterra, dalla Francia e, per ovvie ragioni di uniformità anche dall'Italia. Due anni dopo circa, nel 1916, fu abolita, per misura di rappresaglia contro la Germania per l'impiego dei sommergibili nella lotta contro il commercio marittimo.
La comparsa in guerra di questa nuova arma, non prevista nel 1909 a Londra, ha reso inapplicabili parecchie regole della dichiarazione, ma, ciò nonostante, questa costituisce, assieme con le convenzioni dell'Aia, un corpo completo di leggi marittime. Potranno alcune norme essere qua e là modificate con accordi internazionali, secondo le mutevoli necessità tecniche della guerra, ma nei suoi principî fondamentali la dichiarazione si presenta come un maestoso monumento di sapere, di giustizia e di civiltà.
Per quanto riguarda l'Italia, le disposizioni relative al diritto marittimo di guerra sono contenute attualmente nel titolo IV del Codice per la marina mercantile del 1865, attualmente sotto revisione. Sono trattati i seguenti argomenti:1. atti di guerra che si possono esercitare dalle navi mercantili, 2. prede fatte dalle navi da guerra, 3. trattamento delle navi e delle mercanzie neutrali, 4. riprese, legittimità delle prede, confische e relativo giudizio, 5. liquidaziorie e ripartizione delle cose predate o confiscate.
Le disposizioni del codice sono ispirate ai principî accettati per convenzione o per consuetudine nel diritto internazionale vigente all'epoca della sua pubblicazione, affermatosi con la dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856.
Quando nel maggio 1915 l'Italia dichiarò la guerra all'Austria, questo codice si rivelò insufficiente a regolare le nuove forme della guerra marittima. Vi erano, è vero, alcune disposizioni del regolamento per il servizio a bordo delle regie navi, approvato il 31 marzo 1898, ma risultarono sul momento prive di utilità. Si fu costretti, pur accettando di attenersi, nei principî fondamentali, alle convenzioni dell'Aia e alla dichiarazione di Londra, a provvedere alle deficienze che si riscontravano nella nostra legislazione di guerra. Così furono emanati i decreti: del 30 maggio 1915, nn. 807 e 814 relativi alla commissione delle prede e al trattamento delle navi mercantili presenti nei porti del regno e delle colonie all'inizio delle ostilità; del 3 giugno, n. 840, circa le norme di diritto marittimo adottate dall'Italia; del 15 luglio dello stesso anno, n. 1113, che approvò le istruzioni ai comandanti delle regie navi per l'esercizio del diritto di preda; del 27 febbraio 1916, n. 266, sugli articoli di contrabbando, e infine del 25 marzo 1917 sulle norme per l'esercizio del diritto di preda. Con quest'ultimo decreto, che riassunse in gran parte i decreti precedenti, fu aggiornata la nostra legislazio1ie marittima di guerra sulla base della dichiarazioue di Londra. Lc norme in esso contenute si riieriscono ai seguenti titoli: navi e merci soggette a preda; navi nemiche al principio delle ostilità; determinazione del carattere nemico delle navi e delle merci; cambiamento di bandiera; condizioni di validità del blocco, violazione e sanzioni; contrabbando di guerra; assistenza ostile; visite e catture; requisizione delle prede; trattamento degli equipaggi e passeggieri, perdita e distruzione delle prede; risarcimento dei danni; giudizio delle prede. Il codice per la marina mercantile (tit. IV) e i decreti suaccennati costituiscono attualmente le fonti del nostro diritto positivo marittimo di guerra.
Diritto aeronautico di guerra. - Il diritto aeronautico bellico è ancora in gestazione. Le poche regole giuridiche elaborate prima della guerra mondiale, non trovarono in questa applicazione, e tutto ciò che si è fatto nel dopo guerra è ancora allo stato di progetto. Tuttavia, si può preconizzare che le regole giuridiche della guerra aerea saranno elaborate con somma cura, troppo grave essendo evidentemente il rischio che l'umanità può correre per l'impiego senza freni né limiti dell'arma aerea.
I primi problemi giuridici circa l'uso e la condizione giuridica degli aerostati nelle operazioni belliche sorsero durante la guerra franco-tedesca del 1870-71. Bismarck, vedendo che aerostati francesi riuscivano a stabilire rapporti fra la capitale assediata e i dipartimenti francesi, notificò al governo francese che tutte le persone le quali con mezzi aerei avessero cercato di attraversare le linee tedesche sarebbero state considerate e trattate, nel caso di cattura, come spie. Questa nota sollevò vive proteste e polemiche, osservandosi dai più che gli aeronauti catturati dovevano essere considerati alla stregua di tutti gli altri prigionieri di guerra. Più tardi, all'epoca della conferenza di Bruxelles del 1874, gl'individui inviati in palloni liberi per trasmettere messaggi o stabilire comunicazioni furono assimilati ai combattenti. Lo stesso criterio fu consacrato nella convenzione relativa alle leggi e usanze della guerra terrestre, che sortì dai lavori della conferenza internazionale della pace dell'Aia del 1889, e nell'analoga successiva convenzione dell'Aia del 1907. Inventati i palloni dirigibili e gli aeroplani, un nuovo più grave problema si pose all'attenzione dei giuristi: quello della liceità o meno del bombardamento dall'alto. Alla conferenza dell'Aia del 1889 le potenze si misero d'accordo e votarono il testo di una dichiarazione la quale dispose: "Le potenze contraenti consentono, per la durata di cinque anni, all'interdizione del lancio di proiettili o esplosivi dall'alto dei palloni o altro analogo mezzo nuovo". Nella conferenza del 1907 tale dichiarazione fu ancora approvata, ma a maggioranza, molte potenze essendosi astenute o avendo votato contro.
Scoppiata la grande guerra, poiché si ritenne che la stessa convenzione dell'Aia del 1907 non legasse gli stati che l'avevano sottoscritta, le operazioni belliche aeree furono liberamente esercitate dalle armate belligeranti. Tuttavia poterono stabilirsi usanze, risultanti da atti ripetuti e non provocanti proteste della parte avversaria; tali il bombardamento aereo delle opere militari, l'obbligo del salvataggio degli aviatori nemici in pericolo ecc. Cessata la guerra, molte norme relative all'aeronautica furono introdotte nei trattati di pace, ma queste furono generalmente divieti o limitazioni di attività aeronautiche imposte ai vinti, o privilegi in favore dei vincitori. Frattanto giuristi e associazioni internazionali, in particolare l'International Law Association e il Comité Juridique International de l'Aviation, mossi dal concetto fondamentale che convenisse limitare, per quanto possibile, il teatro della guerra aerea ed evitare i bombardamenti aerei di luoghi abitati da popolazione civile, prepararono studî e progetti varî.
Il problema della codificazione del diritto aeronautico di guerra si pose però solo alla conferenza di Washington del 1922 per la limitazione degli armamenti. Scartata l'idea della possibilità della limitazione delle forze aeree, la conferenza, il 4 febbraio 1922, decideva di riunire una commissione di giuristi col mandato di studiare se e in quanto le norme vigenti del diritto internazionale potessero essere applicate alla guerra aerea, e di proporre eventuali modificazioni. La commissione si riunì all'Aia (dicembre 1922-febbraio 1923) ed elaborò un progetto circa le regole della guerra aerea.
Il progetto non è un adattamento dei principî della guerra marittima o terrestre, ma costituisce un complesso organico a sé stante; esso parte dal principio, già sancito nella convenzione del 13 ottobre 1919 sulla navigazione aerea civile, della sovranità completa ed esclusiva dello stato sull'atmosfera incombente sul suo territorio e relative acque territoriali.
Anche le disposizioni circa la nazionalità, la classificazione (aeromobili pubblici e privati) e le marche degli aeromobili sono ispirate ai principî già adottati dalla convenzione del 1919. Solo gli aeromobili militari, ossia quelli comandati da una persona debitamente autorizzata e pilotati da militari, possono esercitare i diritti dei belligeranti; mentre la trasformazione di un aeromobile pubblico (non militare) o privato in aeromobile combattente non può essere fatta che nel territorio dello stato a cui esso appartiene, e non in alto mare.
Gli articoli più importanti del progetto dell'Aia sono quelli che si riferiscono alle ostilità aeree, e precisamente alla determinazione giuridica dei limiti da imporsi al bombardamento aereo, con aeromobili. Gli articoli 22 e 23 determinano, secondo la tendenza già messa in rilievo, quando il bombardamento aereo è legittimo; l'art. 23 detta norme per la protezione di chiese, ospedali, monumenti ecc. Il progetto dei giuristi dell'Aia disciplina in modo particolare i rapporti fra belligeranti e neutri nella guerra aerea. Gli aeromobili belligeranti - dichiara l'art. 39 - sono obbligati a rispettare i diritti delle potenze neutrali, e ad astenersi, nella giurisdizione di tali stati, da ogni atto che è dovere di detti stati di impedire. Contrariamente alle regole della guerra marittima, secondo le quali le navi belligeranti possono penetrare e sostare per 24 ore nelle acque territoriali di uno stato neutrale, è interdetto agli aeromobili militari belligeranti di penetrare nella giurisdizione di uno stato neutro (art. 40). Per contro i belligeranti hanno diritto di visita e di cattura sugli aeromobili neutrali, secondo le regole indicate negli art. 53 e segg.
Il progetto (art. 17) contempla anche l'aeronautica sanitaria, stabilendo che i principî delle convenzioni di Ginevra 1906 e 1907 sulla sanità di guerra devono applicarsi alla guerra aerea.
Come abbiamo accennato, i giuristi dell'Aia hanno creato per speciali edifizî delle cosiddette zone di rispetto, neutralizzate. Alcuni giuristi vorrebbero che si creassero ampie e numerose zone neutralizzate, dove la popolazione civile potrebbe stare al sicuro dagli attacchi aerei. Altri, forse con maggior fondamento, proporrebbero addirittura che tale neutralizzazione si estendesse a tutto il paese - esclusa soltanto la zona di operazione. Ma ciò appare in contrasto con le tendenze dei tecnici militari, i quali pensano che l'attacco debba estendersi a tutto il territorio, dove in effetti si organizza la difesa e l'offensiva militare, la qual cosa renderebbe la guerra più breve e decisiva. È certo uno dei più grandi problemi dell'avvenire, per la guerra aerea e il diritto bellico aeronautico.
Bibl.: Tra le opere più recenti v.: A. Cavaglieri, La guerra e il diritto dell'aria, in Il diritto aeronautico, 1924, I; T. Albanese, Il diritto aereo di guerra, ibid., 1928, p. 101; A. Ambrosini, Corso di diritto aeronautico, VII, Diritto aeronautico di guerra, Roma (anno accad. 1929-30); H. Couannier, Eléments créateurs du droit aérien, Parigi 1929; S. Sigriste, Les coutumes de la guerre aérienne comme source de droit, in Questions de droit aérien, Mosca 1929; G. D. Nokes e H. P. Briges, The law of the aviation, II: War and neutrality, Londra 1930.
Contrabbando di guerra. - Si suole designare con quest'espressione sia il complesso di merci o di oggetti di cui è vietato il trasporto dal neutrale al belligerante, sia l'atto stesso del loro trasporto. Questa particolare specie di contrabbando si stacca dall'altro di diritto interno col quale ha tuttavia qualche punto di contatto. Nell'un caso e nell'altro si tratta infatti di atto proibito (contra bannnum), di un trasporto o di uno smercio che non si può fare o in modo assoluto (es. il commercio degli stupefacenti) o in modo relativo (es. una merce soggetta a dazio d'importazione o di esportazione senza averne pagata la dovuta tariffa doganale). Vi è però la differenza che nel contrabbando interno ordinario tutto si svolge nell'ambito di un ordinamento statuale, epperò non vi sono dubbî sulle merci soggette al divieto o alla tassazione, perché esse sono rigorosamente enumerate nelle tariffe doganali, talora autonome, talora precedentemente convenute tra i due stati, mentre il contrabbando di guerra ci mostra un più che secolare dissidio tra gli stati belligeranti, che tendono ad allargare le categorie di merci delle quali si vuol proibire il trasporto, e gli stati neutrali che, nell'interesse del loro commercio e invocandone la libertà, mirano a restringerle. Così avviene che i privati di uno stato neutrale che vogliono, come ne hanno diritto, continuare il loro commercio con un belligerante debbono sottostare a quelle proibizioni che il belligerante avversario crede d'imporre, ma lo stato al quale quei privati appartengono prende a cuore i loro interessi, eleva proteste contro le pretese dei belligeranti e talora riesce a prevalere. Non ci fu guerra, si può dire, che non abbia sollevato a questo proposito aspri conflitti. Qualche attenuazione e componimento si ebbe con alcune convenzioni che acquistarono una certa importanza nel sec. XVIII. Così si trova un trattato conchiuso nel 1715 tra le Provincie Unite e la Russia; un altro nel 1720 tra la Svezia e la Gran Bretagna, nel 1742 tra questa potenza e la Francia ed è rimasta memorabile la cosiddetta prima neutralità armata del 1780, già citata, ossia una dichiarazione, a iniziativa della Russia (ma con l'adesione immediata della Svezia e della Danimarca e successiva di altre potenze) per limitare le eccessive pretese dei belligeranti. Ma si trattava sempre di convenzioni ristrette a qualche gruppo di stati, talora contraddittorie e in ogni modo inefficaci per i non partecipanti. Il primo tentativo di un accordo a larga base si ebbe in tempi assai più recenti con la conferenza navale di Londra che mise capo alla Dichiarazione relativa al diritto della guerra marittima in data 26 febbraio 1909. Vero è che questa dichiarazione non venne mai ratificata, ma essa può tuttavia considerarsi quale fonte di diritto positivo sia perché, nel preambolo, si afferma l'intenzione delle potenze di accertare "regole generalmente riconosciute" sia perché molti stati, in occasione dell'ultima guerra, dichiararono di voler conformare a quell'atto la loro condotta.
La dichiarazione di Londra designa due categorie di oggetti. La prima, contrabbando assoluto, comprende quelle cose che non lasciano dubbî sulla loro specifica ed esclusiva attitudine a impiego bellico (armi, proiettili, ecc.). Esse sono enumerate nell'art.22, ma va notato che l'enumerazione è soltanto esemplificativa e il successivo art. 23 permette agli stati di completarla con successive notificazioni. Di tale facoltà molti stati si sono infatti valsi nell'ultima guerra e ciò era ben naturale quando si pensi che la tecnica può sempre scoprire nuove materie e inventare nuovi strumenti di guerra. La dichiarazione contempla poi una seconda categoria di contrabbando, condizionale o relativo, formata da quelle cose che il Grozio chiamava res ancipitis usus, cioè suscettibili di servire a usi di guerra, ma anche a usi pacifici (viveri, foraggi, ecc.). Sono indicati nell'art. 24 che, a maggior ragione, non può essere tassativo perché molte cose che si erano tradizionalmente ritenute innocue (p. es. il cotone) hanno poi trovato specifico impiego per usi di guerra.
Gli oggetti che rientrano nella prima categoria, per l'art. 30 della dichiarazione, sono catturabili quando siano destinati al territorio del nemico o a un territorio da questo occupato; quelli della seconda, cioè il contrabbando condizionale, lo sono soltanto se destinati specificamente agli organi esecutivi e amministrativi dello stato nemico. Sennonché la pratica dell'ultima guerra ha dimostrato, più ancora che la difficoltà di accertare la destinazione reale e definitiva del contrabbando condizionale, l'inconsistenza stessa e in certo modo l'ingenuità di una distinzione al proposito. In sostanza si riconosce che il contrabbando condizionale può anch'esso giovare al nemico, ma se ne vorrebbe dedurre una relativa innocuità dal fatto ch'esso non giunge a disposizione dei poteri pubblici nemici. Or questo potrebbe ammettersi se non si sapesse che l'odierna guerra trasforma necessariamente l'economia privata in pubblica, che nulla resta quasi più che il cittadino possa trattenere nella cerchia delle private contrattazioni; onde quel contrabbando che dovrebbe essere condizionale soltanto a patto di esaurirsi nella sfera dei bisogni privati senza arrivare mai agli organi dello stato belligerante ad alimento di funzioni di guerra, in realtà necessariamente vi arriva. L'ultimo conflitto ha così fatto sorgere il dubbio (che del resto da qualcuno era stato prospettato anche prima) se non sia più opportuno abolire senz'altro la distinzione tra contrabbando assoluto e relativo e contentarsi di un'unica categoria dedotta dalla presunta o provata destinazione delle cose alla guerra. Ciò sopprimerebbe anche quella enumerazione di oggetti, contenuta nell'art. 27 della dichiarazione di Londra, che si qualificano insuscettibili di servire a usi bellici. In realtà essa s'è già dimostrata senza valore perché le più svariate e inattese applicazioni delle odierne industrie belliche non consentono di escludere, a priori, l'utilizzazione a scopo di guerra di un qualsiasi oggetto, anche di quelli che, sino a non molto tempo addietro, si ritenevano i più radicalmente innocui. Valga qui pure un solo esempio; il sapone, indicato tra le merci libere, mentre molti elenchi nazionali lo qualificano di contrabbando.
Quanto all'Italia, come s'avvertì, essa non aveva ratificato l'accordo londinese ma, ancora all'inizio della guerra (decr. luogot. 3 giugno 1915) aveva dichiarato di adottarne le disposizioni "a eccezione degli art. 22, 24 e 28". L'importanza maggiore della deroga consiste soprattutto nella facoltà, che l'Italia ha voluto espressamente riserbarsi, di modificare la lista sia del contrabbando assoluto sia del relativo. Di questa facoltà si valse subito con un decreto della stessa data e poi con parecchi successivi, tra i quali ha particolare importanza quello del 24 marzo 1917 ("Norme per l'esercizio del diritto di preda"), che nel suo tit. IV (articolí 42-53) tratta appunto del contrabbando di guerra. Esso pone il principio che i generi di contrabbando sono dichiarati e notificati con apposito atto di governo e in queste dichiarazioni pertanto i privati trovano le norme cui debbono attenersi rispetto al diritto italiano.
È da notarsi che la legge italiana esclude espressamente dal contrabbando gli oggetti e i materiali che servono esclusivamente a curare i feriti, pur potendo questi in caso di grave necessità militare, essere requisiti, ma con indennità. Esclude altresì gli oggetti e i materiali destinati all'uso della nave sulla quale si trovano o all'uso personale dell'equipaggio e dei passeggieri durante la traversata. Per il diritto italiano gli oggetti di contrabbando sono sempre catturati quando risulti la loro destinazione al territorio appartenente al nemico, o da lui occupato, o alle sue forze armate, e non vale quindi la rammentata distinzione posta dalla dichiarazione di Londra tra il contrabbando assoluto e il condizionale.
Le questioni di contrabbando di guerra spiegano la loro importanza soprattutto nel commercio marittimo, non perché oggetti di uso bellico non possano passare da un neutrale a un belligerante anche per via di terra, ma perché sino a ora (forse i progressi dell'aviazione modificheranno questa situazione) solo sul mare al belligerante è possibile esercitare un diritto di controllo. Esso gli viene riconosciuto per mezzo di un diritto di arresto, di visita, di sequestro completato da un giudizio delle prede.
Bibl.: E Catellani, La dichiarazione di Londra relativa al dir. di guerra marittima, Padova 1912; P. Fedozzi, Il contrabbando di guerra e il dir. di visita, in Riv. pol., 1915; id., La guerra al commercio nemico e i diritti dei neutri, in Riv. dir. int., 1915; L. Olivi, Base razion. e posit. del contrabbando di guerra, Bologna 1878; id., Del contrabbando di guerra, Modena 1919; G. Salvioli, Il diritto delle prede, Napoli 1912; W. Valsecchi, Atti di contrabbando bellico e loro carattere, Siena 1915; L. Aragou, Théorie générale de la contrebande de guerre, Montauban 1906; Atherley-Jones, Contraband of war, in The Law M. Am. Rev., 1916; A. Hold v. Fernek, Die Kriegskonterbande, Vienna 1907; H. Eerle, Richards, Contraband, in British Year-Book, 1922-23; R. Kleen, De la contrebande de guerre et des transports interdits aux neutres, Parigi 1893; J. M. Kennedy, Contraband of war, in Law Quart. Rev., 1908; J. Moore, La contrebande de guerre, in R. de dr. int. et de leg. comp., 1912; R. Patterson, The Declaration of London, in Contemp. Rev., 1911; W. Phillimore, Contraband of war, in Journ. Soc. comp. leg., 1915; P. Posener, Die Kriegskonterbande in Theorie und Praxis des Völkerrechts, in Kohlers Zts., 1907; H. R. Pyke, The Law of contraband of war, Oxford 1915; L. Vossen, Die Konterbande des Krieges, Erlangen 1896.
Economia di guerra. - Quando allo stato di pace sottentra lo stato di guerra si verifica un forte e brusco spostamento nelle condizioni del generale equilibrio economico: ciò perché lo stato di guerra importa una grave alterazione nel sistema dei bisogni e nel sistema degli ostacoli. Sorge un nuovo bisogno, quello di vincere la guerra: esso è il più essenziale nei rispetti della collettività. Questo nuovo bisogno altera profondamente la posizione comparativa di tutti gli altri e la dimensione dell'applicazione ad essi di ricchezza. La rilevanza assunta dalla necessità di vincere è tanto maggiore quanto più accanita è la guerra, quanto più vitale è per la sorte della collettività e di molti individui. È diversa se si tratta di una guerra coloniale oppure di una guerra combattuta ai confini del territorio o addirittura nell'orbita del territorio. Il bisogno di vincere importa in genere devoluzione a scopo bellico di una quota altissima del reddito, prima applicata ad altri bisogni. L'assegnazione di redditi alla guerra è tanto più alta in quanto i combattenti effettuano consumi molto più intensi di quelli loro spettanti in tempo di pace. La devoluzione di reddito alle necessità belliche varia di fase in fase attraverso il decorso della guerra, tende in generale ad aumentare progressivamente, sino al giungere degli istanti e degli eventi militari decisivi.
Si hanno poi le variazioni nel sistema degli ostacoli. In genere le difficoltà per la provvista di beni crescono fortemente. Crescono quelle attinenti alla provvista attraverso scambî interlocali; questi cessano interamente rispetto al territorio nemico e diventano più difficili anche con gli alleati e neutrali. Si hanno incrementi nel costo dei beni di provenienza forestiera, per i pericoli di distruzione e preda. Nel commercio internazionale sorge così una quota di rischio ignota al tempo di pace. La guerra altera il sistema dei costi comparati per i belligeranti e anche per i neutrali e da ciò deriva una forte contrazione nel volume fisico degli scambî internazionali. Questa diminuzione ha gravi conseguenze specialmente rispetto a molte derrate, materie prime e altri beni strumentali necessarî per l'equipaggiamento e l'approvvigionamento alimentare dell'esercito e per l'approvvigionamento della popolazione civile.
L'alterazione nei rapporti interlocali, congiunta con la variazione nel sistema dei bisogni, adduce a variazioni nella scelta degli atti produttivi da svolgere entro il territorio: ne deriva una vasta produzione di beni prima importati e una larga produzione e impiego di succedanei e surrogati. Queste alterazioni nel tipo, nei procedimenti e nelle proporzioni delle produzioni tendono ad accentuarsi col procedere della guerra e significano inutilità di precedenti impianti e organizzazioni e costose trasformazioni.
Le difficoltà nella provvista dei beni non provengono solo dagli attriti e ostacoli ai trasporti e scambî interlocali, ma anche dalla riduzione nei mezzi produttivi e dagli attriti nell'applicazione di quelli disponibili. Tra le riduzioni nella massa dei fattori produttivi emerge soprattutto la sottrazione all'opera economica d'imprenditori e lavoratori per gli arruolamenti sotto le armi.
I perturbamenti, i danni derivanti dall'alterazione nei sistemi dei bisogni e degli ostacoli sono attenuati in qualche misura da tre fenomeni: a) l'adattabilità della popolazione a diminuire i consumi; b) la trasferibilità di certi mezzi produttivi dall'una all'altra produzione; c) la utilizzazione di beni e servigi prima non ritenuti produttivi. Quanto al primo (a) le riduzioni nei consumi sono spesso concertate e rese generali a opera dell'autorità pubblica mediante coazione. Riguardo al secondo fenomeno (b), la guerra, con i bisogni che per essa improvvisamente sorgono e si dilatano, importa il consumo e la distruzione di una quantità enorme di ricchezza, non di ricchezza generica, ma di beni determinati e specifici soprattutto attinenti alla tecnica bellica. Deve quindi avvenire una vasta sostituzione di produzioni di guerra a produzioni di pace; taluni beni mutano di tipo economico, passando dalla posizione di beni strumentali a quella di beni diretti. Si verificano spostamenti d'imprenditori, di capacità direttive, di mano d'opera da un'industria a un'altra, di terreni da una coltura a un'altra, qualche volta anche il passaggio di macchinario da una a un'altra produzione. Riguardo al terzo fenomeno (c) rammentiamo il largo impiego di succedanei in sostituzione di beni diretti tipici mancanti o scarseggianti, l'utilizzazione, sia come beni diretti sia come beni strumentali, di moltissimi cascami anteriormente irascurati e l'assunzione al lavoro di vecchi e donne (specialmente per il lavoro dei campi), prima non appartenenti alla classe operaia attiva.
L'impellenza del bisogno di guerreggiare e vincere determina non solo il fabbisogno di beni specifici, ma esige la disponibilità tempestiva di essi: un ritardo può essere esiziale o addirittura fatale. Tali circostanze rendono rigida la domanda dei detti beni; il prezzo diventa un elemento d'importanza secondaria. Come la guerra determina la rigidità della curva di domanda per i beni di uso militare e per alcuni di uso civile, così essa accresce la rigidità della curva di offerta. Le difficoltà recate dalla guerra a tutta l'attività produttiva rendono più ardua e lenta e soprattutto costosa la dilatazione della produzione. L'espansione nella produzione di molti beni specifici di uso bellico (contrariamente a quanto spesso avviene in tempo di pace), molte volte si svolge a costo crescente. Data l'importanza che ha la tempestività nella disponibilità del materiale bellico si ha una caratteristica differenziazione di prezzi cui è condizionata la domanda di beni, secondo che l'offerta loro è a breve o a remota scadenza. Da ciò la tendenza allo sforzo per abbreviare la durata del ciclo produttivo e alla sostituzione del consumo di beni a ciclo produttivo lungo con beni similari a ciclo breve.
Fenomeno caratteristico dell'economia di guerra - specialmente nell'esperienza più recente - è l'instaurazione di un vasto socialismo, di un dominio amplissimo dello stato sull'attività economica. Lo stato diventa il centro, il perno di tutta la vita economica.
Questo fenomeno deriva dalla preminenza del bisogno di vincere, dalle difficoltà e attriti negli scambî, nei trasporti e nella produzione e particolarmente dalla poca elasticità dell'offerta. Lo stato diventa l'unico cliente per moltissime imprese e l'unico offerente di svariatissimi beni strumentali per moltisime imprese e di svariatissimi beni diretti per la generalità dei consumatori. Questa nuova eccezionale posizione assunta dallo stato si basa sul presupposto che ne risultino attenuate le difficoltà e attriti che dalla guerra derivano alle opere economiche. Il presupposto ha la sua ragione di essere specialmente in ciò che lo stato è un operatore sui generis, la cui scheda individuale di domanda o di offerta si presenta su un mercato modificato per il potere politico di cui è soggetto lo stato stesso. Dire che lo stato modifica le condizioni del mercato vale quanto dire che esso adotta "metodi di commercio" diversi da quelli adottati dagli operatori privati. Quasi sempre, durante la guerra, l'intervento dello stato sul mercato esclude l'adito ad altri richiedenti od offerenti. Per la domanda si verifica il caso (che in condizioni ordinarie di commercio è assai raro) del monopolio alla compera: tale monopolio è spesso svolto mediante la requisizione con prezzo d'impero. Per l'offerta si ha spesso la formazione legale o di fatto di un monopolio di vendita con adozione di un prezzo politico. Specialmente per i beni diretti destinati al soddisfacimento dei bisogni più essenziali e generali, spesso non si ha libera formazione della clientela e libera dimensione degli acquisti, secondo le individuali schede di domanda: invece si opera la distribuzione dei beni secondo razionamenti basati su premesse semplici e generiche di un fabbisogno pressoché eguale rispetto a tutti i componenti la popolazione.
L'azione dello stato rispetto alla domanda e all'offerta, deriva dalla scarsità di beni e dalla rigidità delle curve relative, per cui i prezzi facilmente salgono ad alti livelli. Riguardo ai beni necessarî all'approvvigionamento della popolazione civile, per lo più si procede dapprima alla diretta azione sui prezzi mediante calmieri. Poi, di fronte all'insufficienza dell'azione sui prezzi e ai gravi attriti, si passa al monopolio di stato per il commercio interno e l'importazione delle derrate fondamentali; poi per considerazioni politiche spesso si adotta un prezzo di vendita inferiore al costo. L'artificiale tenuità del prezzo - se la domanda è libera di svolgersi - dà luogo alla graduatoria nella distribuzione delle merci secondo l'anzianità di arrivo dei clienti agli spacci e alla gara dei clienti stessi per accaparrarsi la scarsa merce con la formazione delle "file". Oppure dà luogo alla formazione di sovraprezzi clandestini. La coesistenza di bassi prezzi politici e di una domanda che in base a tali prezzi è eccessiva in confronto con la concreta disponibilità di vettovaglie, adduce necessariamente alla regolazione coattiva del consumo con il razionamento. Questi fenomeni si sono presentati durante la guerra mondiale anche fra i neutrali.
L'azione sul mercato di fattori non economici (sentimenti patriottici, altruistici, religiosi e sovente lo spirito d'imitazione) che si avverte anche in tempo di pace, si accentua di molto durante la guerra. Durante ogni guerra e nei tempi immediatamente posteriori si forma presso le moltitudini un particolare stato di grande eccitabilità che molto influisce nel determinare certe azioni economiche, certi fenomeni monetarî, e rende impellenti taluni indirizzi di politica economica, specialmente riguardo alle condizioni finanziarie e alle necessità annonarie.
La guerra rende la previsione economica addirittura impossibile. Tutti i fenomeni economici nel loro futuro svolgimento sono strettamente legati con l'andamento, la durata, l'esito della guerra e con i connessi futuri eventi politici e sociali. Questa impossibilità di previsione impedisce o rende assai difficili o aleatorî molti atti economici a lungo decorso e rende eccezionale la formazione d'impianti a lento ammortamento. Tutte le condizioni dell'ambiente sono instabili e soggette a improvvise mutazioni: in brevi ore si svolgono trasformazioni che nel tempo di pace maturerebbero solo lentamente. Un dato stato economico può così avere durata brevissima. Il ciclo di un dato atto deve poggiare su una risoluzione pronta che non lo prolunghi fino a un tempo in cui le condizioni saranno spostate. L'imprevedibilità degli eventi di guerra subordina l'attuazione di molte produzioni, l'allestimemo di molti impianti, al conseguimento di alti profitti. Assegnando per le nuove imprese una "vita probabile" assai breve, la guerra promuove impianti improvvisati tumultuariamente, con cattiva organizzazione, con pessimo equipaggiamento e adduce al reclutamento di uno scadente personale, sia d'imprenditori sia di tecnici e di maestranza operaia. Bisogna fare presto e spesso si fa malamente.
La politica economica prevalente nelle guerre moderne e specialmente nella guerra mondiale, è basata non solo sui principî annonarî, commerciali, industriali già esposti, ma anche sull'inflazione cartacea e su un vasto ricorso a prestiti.
Si potrebbe però immaginare una politica economica che, in notevole parte almeno, rifuggisse da simili penetrazioni dello stato nei fenomeni economici. Una tale possibilità si avrebbe in un paese dove la popolazione fosse largamente conscia delle necessità derivanti dalla prova suprema che la nazione affronta, decisamente devota allo sforzo collettivo e pienamente solidalei col governo. L'opera economica dello stato dovrebbe essere prevalentemente volta ad attenuare gli attriti nella produzione, nel traffico e nel trasporto dei beni, dovrebbe stimolare al massimo l'iniziativa privata nella produzione e nel commercio; l'opera diretta dello stato dovrebbe avere solo funzioni complementari ed essere coordinata con quella privata, sostituendosi a questa solo dove il libero commercio e la libera iniziativa incontrassero difficoltà estreme. La politica finanziaria dovrebbe trovare la sua base sia nell'imposizione di tributi sia nel contrarre prestiti, ma la circolazione monetaria dovrebbe subire piuttosto contrazione che dilatazione, in conseguenza del decremento nel volume degli affari. Una politica finanziaria siffatta importerebbe una sottrazione di mezzi di pagamento, di domanda, presso i privati, a mano a mano che si contrae l'offerta e che si dilata la domanda di beni da parte dell'ente pubblico per i bisogni della guerra. Risulterebbe così evitato il rialzo nel livello generale dei prezzi e diminuirebbe di molto la possibilità dei connessi arricchimenti e impoverimenti. Una tale politica finanziaria dovrebbe addurre alla sottrazione proporzionalmente assai più forte di mezzi di pagamento agli ottimati, che ai non abbienti, rendendo più facile la diffusione benefica della rinuncia ai consumi, senza ricorso ad altri strumenti costrittivi. Nella realtà, ben diversa è la politica monetaria e finanziaria prevalente: questa mira essenzialmente all'attenuazione degli attriti con l'adozione della linea della minore resistenza. Di fronte all'enorme dilatazione del fabbisogno finanziario, modernamente prevale l'espediente dell'emissione di biglietti, del vasto contrarre di prestiti e d'inasprimenti relativamente tenui nell'onere tributario.
I perturbamenti psicologici che immediatamente sono determinati dallo scoppio della guerra, il timore panico che tosto si diffonde, importano una generale tendenza presso i singoli alla formazione di riserve personali di monete auree. Si ha così inizialmente una fortissima diminuzione nella velocità di circolazione monetaria, causa di gravi attriti nel movimento degli affari. Risulta evidente la convenienza di una dilatazione nella massa dei biglietti circolanti per rimediare alla minore efficienza della moneta e facilitare la momentanea concessione del credito; ciò secondo una pratica riconosciuta benefica allo scoppio di qualsiasi crisi. Di fronte alla improvvisa riduzione della riserva bancaria, non sembra conveniente proseguire nella conversione dei biglietti, quale mezzo di attenuare il panico, ma si sospende di diritto o di fatto la convertibilità del biglietto e la esportabilità dell'oro dal territorio, riconoscendosi così nelle riserve delle banche di emissione un tesoro di guerra da utilizzarsi nel mercato internazionale e poi una partita delle situazioni bancarie avente un'alta importanza psicologica pur durante l'inconvertibilità, in vista delle future vicende monetarie. L'inflazione cartacea iniziata per momentanee circostanze monetarie prosegue poi per circostanze finanziarie. Per il susseguirsi di emissioni cartacee, non possono formarsi successivi equilibrî durevoli, ma si ha un continuo aumento. Nel considerare i fenomeni monetarî che contrassegnano l'economia di guerra si hanno presenti soprattutto le manifestazioni avutesi con la guerra mondiale, le quali sono le più memorabili ricordate dalla storia, non solo per le dimensioni loro, ma anche per la contemporaneità in molti paesi belligeranti e neutrali (v. guerra mondiale).
L'inflazione facilita innegabilmente molti processi proprî dell'economia di guerra, attenua molti attriti, agevola allo stato le operazioni straordinarie che costituiscono la base della finanza di guerra. Lo stato producendo i biglietti viene ad avere una fonte gratuita di mezzi di pagamento che esso fa affluire sul mercato per acquistare beni e crediti; i nuovi biglietti mentre si creano (cioè si spendono) e tendono a deprezzare i biglietti già esistenti, non partecipano immediatamente al deprezzamento stesso. Lo stato così è l'ultimo scambiatore che riesce ancora a godere dell'anteriore valore dei biglietti, beneficando di quella che può dirsi la "quasi rendita dell'inflatore". Il processo dell'inflazione nei riguardi dello stato reca un graduale alleggerimento del peso dei debiti pubblici. Ma i vantaggi che derivano da questa fonte di entrate sono, nei riguardi finanziarî, effimeri. La vischiosità che si presenta rispetto a ogni ordine di prezzi, si ha anche riguardo alle due serie di prezzi riferentisi alle due sezioni del bilancio: si ha una maggiore vischiosità per le entrate che per le uscite. Così la stampa dei biglietti, che sembra dapprima un comodo espediente per colmare il deficit del bilancio, diventa poi causa di un crescente deficit, di ulteriore e più ampia inflazione.
La cessazione della convertibilità, i perturbamenti per rapporti economici con l'estero, l'estrema variabilità del cambio, la tumultuaria speculazione sulle divise, l'alterazione nel movimento degli affari per la funzione assunta dallo stato, il prevalere sul mercato del risparmio della domanda pubblica, lo sconvolgimento nel mercato finanziario, l'affannosa domanda di mezzi monetarî per il frettoloso sorgere o dilatarsi d' imprese, sono tutte circostanze che, con la guerra, imprimono all'attività bancaria un indirizzo diverso da quello tenuto in tempo di pace. La banca di emissione si trova legata assai più di prima alle vicende del Tesoro; qualunque sia la sua struttura giuridica ed economica, essa si trasforma in parte in un organo statale, e occorre molta energia e capacità nei dirigenti la banca per evitare che la trasformazione sia troppo intima. L'introduzione dell'inconvertibilità e dell'inflazione per ragioni finanziarie, toglie alla banca di emissione la sua tipica funzione e sembra farla così decadere dalla sua posizione di regolatrice del movimento degli affari attraverso la regolazione del fenomeno monetario; ma, sotto altri riguardi, con la guerra questa funzione regolatrice si accentua ancor più, e solo una prudente e intelligente condotta della banca di emissione e delle grandi banche ordinarie, può evitare la più grave disorganizzazione della vita economica.
La deposizione delle armi non chiude l'epoca dell'anormalità economica, ma anzi fa sorgere nuovi perturbamenti; ciò specialmente quando la guerra è chiusa da grossi eventi militari che fanno precipitare la situazione senza fase preparatoria e adducono improvvisamente alla pace; e specialmente ancora quando la pace altera profondamente l'assetto politico di uno o più stati, quando avvengono smembramenti di antichi stati e formazione di nuovi, trasferimenti di territorî cospicui dall'una all'altra sovranità, grandi prede o stipulazioni di grosse indennità, quando si altera notevolmente il regime dei rapporti internazionali, anche nei riguardi economici.
Escludendo in questo articolo qualsiasi specifica trattazione sulla fenomenologia economica post-bellica (la quale non è forse meno tipica dell'economia bellica) notiamo come il passaggio all'economia di pace significhi uno spostamento spesso ampio di equilibrio, che importa una lunga e malagevole fase di transizione, di adattamento. In tale fase domina ancora l'imprevidibilità delle prossime vicende e domina il fattore psicologico con alternative di cupe sensazioni e di rosee speranze. A creare attriti e sussulti concorrono talora conflitti sociali aventi radici sia nei rivolgimenti politici sia nelle grandi variazioni economiche. Queste hanno la base nel passaggio a nuovi schemi per il soddisfacimento dei bisogni e la distribuzione delle attività produttive. Cessano i bisogni militari, le produzioni belliche. La redistribuzione dei mezzi produttivi avviene con difficoltà, con cadute d'imprese, con distruzione di ricchezze, con disoccupazione di braccia, con isterilimento di capacità produttive.
Gravi attriti e difficoltà economiche derivano dall'eliminazione delle anormalità monetarie, cui si deve necessariamente giungere, forse dopo il peggioramento di una situazione sgorgante da una prosecuzione dell'inflazione in tempo di pace. La restaurazione di un regolare regime monetario avviene con metodi varî secondo il grado d' inflazione. Se questa non è stata molto forte, il biglietto può essere riportato a un'equivalenza con l'oro secondo l'antica parità monetaria; se la svalutazione è stata forte, si può portare il biglietto a un'equivalenza con l'oro secondo una parità monetaria inferiore all'antica e forse non molto divergente dalla posizione che il biglietto ha raggiunto in fatto di fronte alle merci; se la svalutazione è stata fortissima, conviene in genere far sorgere una nuova moneta decisamente staccata dalla prebellica. Qualunque sia il caso e il metodo seguito, il passaggio da inflazione a stabilizzazione richiede condizioni psicologiche e politiche appropriato, il raggiungimento di una salda situazione di pubblica finanza, una buona e rigorosa condotta bancaria, e generalmente accresciute riserve, fiancheggiate da disponibilità creditizie sui mercati forestieri; spesso conviene determinare fasi transitorie di regime monetario che evitino gli effetti di perturbamenti psicologici. Qualunque sia il rapporto fra la nuova e l'antica parità e fra la nuova parità e l'ultima posizione del biglietto inconvertibile, è necessaria una certa deflazione o almeno il rigoroso governo restrittivo del credito; di qui attriti, sacrifici, dissesti, e spesso lunghe e penose fasi di depressione economica e di disoccupazione; sofferenze immancabili per il duraturo raggiungimento della normalità monetaria ed economica.
La nostra analisi si è rivolta essenzialmente alla segnalazione della vasta e varia fenomenologia di guerra quale si presenta quando l'osservazione ha luogo rispetto alle manifestazioni immediate. La fenomenologia economica derivante dalla guerra si mostra in altra luce quando è considerata nei suoi effetti durevoli. La guerra risulta allora strumento di variazione nell'indirizzo dei movimenti economici secolari. La guerra è stata in ogni tempo fattore dí profonde trasformazioni nell'economia: essa non è solo distruttrice ma anche, nelle cose della ricchezza, stimolatrice, costruttrice. Questa sua influenza si svolge principalmente sulla tecnica del processo produttivo ed è stata assai evidente negli ultimi secoli con l'uso delle armi da fuoco, con la formazione degli eserciti stanziali, il cui armamento e vettovagliamento è curato dallo stato e non più dal singolo guerriero. Cessato il regime della preda individuale e collettiva, la provvista dei mezzi per il mantenimento degli eserciti, sin dagli ultimi tempi medievali e più nei primi secoli dell'età moderna, è divenuto circostanza essenziale per la dilatazione e sistemazione della pubblica finanza e per l'organizzazione dei pubblici prestiti, risultandone trasformazioni profonde anche nell'organizzazione del mercato finanziario e del sistema creditizio. La statizzazione dell'armamento e del vettovagliamento ha condotto all'uniformità e vastità della fornitura. Le forniture militari sono state fra le iniziali determinanti del passaggio dell'industria alla forma moderna di produzione per massa di beni tipici con grande divisione di compiti. Le memorie storiche di molti paesi mostrano quale grande influenza abbia esercitato la fabbricazione delle armi sul progresso tecnico e sull'organizzazione economica delle industrie metallurgiche e meccaniche, le quali sono tra le prime in cui siano prevalse nitidamente le forme capitalistiche. Le memorie storiche segnalano pure la grande importanza economica raggiunta, anche nei primordî dell'età moderna, dagli appalti per le forniture di salmerie militari e fanno ritenere che taluni rami di grande commercio debbano la loro prima organizzazione ai bisogni degli eserciti. Anche nel passato, le guerre, col più rapido impulso dato ai traffici, alle produzioni di materie prime e alle industrie, hanno provocato innovazioni nell'organizzazione delle imprese e nuove selezioni nell'elemento umano applicato all'attività produttiva.
Danni di guerra. - Per quanto economicamente danno di guerra sia qualsiasi danno che in fatti di guerra trovi la sua causa, la legislazione e la letteratura giuridica hanno limitato il concetto del danno di guerra risarcibile al danno positivo (emergente) sofferto da privati o da persone giuridiche diverse dallo stato.
Comprende, in primo luogo, l'appropriazione di beni mobili o immobili compiuta dallo stato belligerante, per servirsene come prezzo della pace; in secondo luogo, il danneggiamento compiuto dallo stato belligerante per approntare o favorire le operazioni militari; in terzo luogo, i danni provocati dallo stato belligerante, indipendentemente da una determinazione di volontà, come risultato fortuito delle operazioni guerresche; in fine, i danni di qualsiasi specie causati dal nemico.
A questa serie di danni corrisponde, nello stesso ordine, l'evoluzione da parte della dottrina e delle legislazioni, che dapprima riconobbero la risarcibilità solo dei primi (Grozio); poi un dovere giuridico di risarcire i secondi e morale di risarcire i terzi, ma senza che fosse riconosciuta una azione per questo ultimo scopo (Vattel); finalmente un dovere di risarcire tutti i danni, a qualsiasi delle predette categorie appartengano. A ciò non si è giunti senza esitazioni, perché, anche in tempi relativamente recenti, rispetto ai danni provocati dalle guerre dell'indipendenza italiana, si sono profilate le tesi affermativa e negativa della risarcibilità, ma specie la tesi distinguente tra danni che sono una conseguenza della volontà dello stato, e danni che dipendono solo da avvenimenti di guerra; con la tendenza ad assimilare questi ultimi ai fatti dipendenti da forza maggiore.
I principî astratti su cui si basa la risarcibilità dei danni di guerra da parte dello stato hanno dato luogo a numerose discussioni; soprattutto per il fatto che, nella mancanza di disposizioni di diritto positivo, la dottrina ha cercato in tali principî la fonte della obbligazione. E si è fatto soprattutto ricorso: a) alle regole del risarcimento del danno; ricorso certamente provocato dallo stesso termine "danni di guerra", ma che trova difficilmente una base in qualsiasi degli elementi che del risarcimento del danno si pongono come presupposti (colpa, imputabilità, ecc.); b) alla intangibilità della proprietà, per cui lo stato, quando debba far uso dei beni privati, deve espropriarli; c) al principio che le guerre hanno luogo tra gli stati e non tra i cittadini, onde se questi sopportano sacrîfici, nell'interesse o come conseguenza della condotta della guerra, devono essere risarciti per la norma di giustizia distributiva, secondo la quale lo stato non può riversare i carichi della propria azione su quei soli cittadini che occasionalmente sopportino il sacrificio diretto, ma deve far concorrere in giusta misura ai carichi tutti gli altri cittadini.
Questi principî astratti difficilmente sono stati ritenuti nella pratica titolo sufficiente per ottenere dallo stato il risarcimento dei danni di guerra. Diversa portata hanno invece, come argomento politico, per invocare l'emanazione di norme positive per disciplinare la materia dei danni di guerra. Il legislatore francese ha, anzi, creduto di proclamarli, come premessa, alla sua legge sui danni di guerra 17 aprile 1919 (art. 1 "la République proclame l'égalité et la solidarieté de tous les français devant les charges de la guerre").
Prima della grande guerra, il diritto positivo italiano, concernente i danni di guerra, era limitato al titolo 2° capo 3° della legge 25 giugno 1865, sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, relativo alle "espropriazioni per opere militari"; e al r. decr. 13 maggio 1913, n. 441, sui danni di guerra in Tripolitania e in Cirenaica, che contiene come regola la negazione del diritto al risarcimento. Per i provvedimenti attuati in conseguenza della guerra mondiale, v.: guerra mondiale: I danni di guerra. In base ai decreti luogotenenziali 8 giugno 1918, n. 480 e 16 novembre 1919, n. 1750, coordinati nel testo unico 27 marzo 1919, n. 426, il risarcimento è dichiarato un diritto, non un soccorso, sebbene possa dar luogo a qualche dubbio l'esclusione degl'indegni e l'esclusione dalla risarcibilità dei danni alle persone fisiche dei non militari, quando non siano in condizioni bisognose; l'obbligo del reimpiego per i danni agli immobili, attribuito ai cittadini, comprese le società nazionali, ai sudditi coloniali, agli editti pubblici amministrativi. Sono danni risarciti i danni speciali che abbiano colpito la persona fisica dei cittadini non militari (le pensioni militari avendo una diversa disciplina), i beni immobili, i beni mobili (per i danni alle navi vi sono disposizioni particolari): il loro accertamento e la liquidazione sono rimesse a particolari organi, con funzioni di amministrazione e di giurisdizione speciale.
I danni di guerra sono anche oggetto di disposizioni del diritto internazionale. Senza tener conto dei molti accordi imposti dagli stati europei per risarcire i proprî cittadini residenti in paesi belligeranti, è generale l'articolo 3 della quarta convenzione dell'Aia 18 ottobre 1907, per i danni causati da fatti contrarî alle regole della guerra; inoltre si ebbero disposizioni speciali, ma di somma importanza per la larghezza delle applicazioni, negli articoli 231 del trattato di Versailles 16 giugno 1919 e 177 del trttato di Saint-Germain 10 settembre 1919.
Ma queste sono disposizioni che - secondo i principî generali vincolano soltanto gli stati contraenti, e non costituiscono di per sé un diritto nei cittadini danneggiati; il diritto di questi e anche eventualmente di stranieri, può dipendere solo da norme interne emanate sulla base degli accordi internazionali.
Guerra civile.
Si stacca dalla guerra internazionale perché non è lotta da stato a stato, vi s'accosta perché è, come quella, una lotta politica che si svolge con la forza delle armi. Essa è sempre provocata da un dissidio tra cittadini appartenenti allo stesso gruppo statale, dissidio che sbocca in un moto violento diretto all'abbattimento e alla sostituzione di un governo, oppure anche al distacco di una o più provincie per unirsi a un altro stato o per formarne uno nuovo. In quest'ultimo caso si chiama guerra di secessione, e l'esempio più notevole nei tempi moderni ce l'ha offerto la guerra civile scoppiata nel 1861, e durata fino al 1865, negli Stati Uniti d'America per l'opposizione d'interessi tra gli stati del nord, antischiavisti, e quelli del sud mal sopportanti l'abolizione della schiavitù.
L'inizio della guerra civile offre particolari incertezze perché, a differenza dell'internazionale, essa non si pone in essere quasi mai nettamente con un atto dichiarativo. Più spesso ha principio con movimenti incomposti che assumono l'aspetto di rivolte, ribellioni, insurrezioni. I riottosi, i ribelli, gl'insorti sono cittadini che si pongono contro l'ordinamento giuridico del loro stato, la loro azione è illegale e a essa si contrappongono le forze legali dello stato. Se la repressione riesce, non si può dire a rigore che vi sia mai stata guerra. Gli atti dei riottosi debbono qualificarsi reati e punirsi in conformità delle leggi dello stato, talora con temperamenti dettati da considerazioni politiche o da sentimento. Soltanto in un secondo tempo quando il movìmento, pur non avendo ancora raggiunto i suoi obiettivi, riesce ad affermarsi, a resistere, a organizzarsi, a spiegare una vera azione militare e, con maggiore evidenza, quand'esso già trionfa in una parte del territorio dello stato talché le forze contendenti assumono una posizione analoga a quella di due eserciti belligeranti, entrano in campo esigenze d'umanità e di diritto che inducono a equiparare, sotto molti aspetti, la lotta interna all'internazionale.
Non che vi sia, in ciò, un vero e proprio obbligo giuridico. Non vi è nel diritto interno perché lo stato che si difende può, a rigore, usare contro quelli che esso considera sempre suoi sudditi, tutte le sanzioni comminate per gli atti diretti contro la sua integrità. Non vi è nel diritto internazionale perché una lotta interna, finché resta tale, non lo interessa. Ma a un certo punto avviene quasi sempre che lo stato s'accorge dell'assurdità di voler trattare tutta una parte in lotta con le regole della repressione punitiva (condannare a es. i prigionieri presi con le armi alla mano). Oltre a tutto, ciò provocherebbe rappresaglie a evitare le quali e a evitare anche responsabilità per fatti degl'insorti, essa s'induce a considerare l'avversario quale un belligerante e ad applicargli le regole della guerra internazionale. I terzi stati alla loro volta, che in un primo momento non possono attribuire al gruppo insorgente se non un'attività illegittima, talché nulla vieta loro di fornire allo stato attaccato armi e munizioni per difendersi, a un certo punto, col prolungarsi della lotta e con l'affermarsi di un organismo politico-militare anche da parte dei dissidenti, si comportano come se si trattasse di lotta tra due stati, ossia osservano nei rispetti dei due contendenti le leggi della neutralità. Così l'Inghilterra e la Francia, con apposite dichiarazioni, riconobbero nel 1861 la qualità di belligeranti agli stati americani del sud. Riconoscere la qualità di belligerante non significa riconoscere la fondatezza di diritti o pretese politiche, significa soltanto aver rapporti, che talora sono pur necessarî, con chi rappresenta il potere di fatto degl'insorti e applicare ai contendenti le norme ordinarie del diritto di guerra e di neutralità. Certamente tale riconoscimento segna una linea di estrema delicatezza politica poiché, se prematura, può apparire un atto non amichevole e persino un illecito intervento contro lo stato resistente. Esso presuppone un apprezzamento morale non dei fini politici ma quanto meno della buona fede dei combattenti (talché nessun governo ha mai riconosciuto quali legittimi belligeranti i gruppi armati di briganti nell'Italia meridionale nei primi anni dell'annessione al Piemonte) e presuppone anche un apprezzamento di fatto sulla consistenza reale del moto e quindi sulla possibilità dell'esito (perciò, malgrado la nobiltà del fine, non furono riconosciuti come belligeranti gl'insorti polacchi del 1863).
La guerra civile finisce o col ristabilimento nello statu quo ante o col riconoscimento dei fatti compiuti. Nel primo caso si deve dire, a rigore, che lo stato che è riuscito a ristabilire l'ordine turbato può anche considerare come illegale tutto ciò che è avvenuto nel periodo di turbamento e provvedere per la sua sicurezza futura (con annullamenti di atti, punizioni, misure di polizia, ecc.). Tuttavia intervengono spesso considerazioni di convenienza o di equità a mitigare questo rigore. Così nel 1871 la Repubblica Francese ha riconosciuti validi nel comune interesse gli atti amministrativi (di nascita, matrimonio, morte) redatti in Parigi dal governo rivoluzionario; così, spesso, il governo legale s'induce a concedere un'amnistia per i fatti avvenuti durante il periodo di lotta. Si è pure fatta questione se il governo legale, a cose finite, debba riconoscere i debiti contratti dagl'insorti verso terzi. Per massima la risposta è negativa, non potendosi pretendere che il vincitore paghi le spese d'una guerra fatta contro di lui. Così nel 1865 gli stati americani del nord ripudiarono i prestiti dei sudisti; però vi possono essere circostanze che portano a diversa conclusione per evitare illeciti arricchimenti quando i proventi dei prestiti o non siano ancora spesi o lo siano stati in opere che profittano anche al vincitore. Si ha il riconoscimento dei fatti compiuti quando il fine della guerra è stato raggiunto o col mutamento di un governo, o col sorgere di un nuovo stato o con un' annessione di provincie, e questi fatti sono stati riconosciuti da terzi stati.
Bibl.: M. Bernard, Neutrality of Great Britain during the American civil war, Londra 1870; J. F. López, Neutralitad y partidos beligerantes en la guerra civil de Chile; Parigi 1892; G. G. Wilson, Insurgency, Washington 1900; A. Rougier, Les guerres civiles et le droit des gens, Parigi 1903; L. Stéfanesco, La guerre civile et les rapports des belligérants, Parigi 1903; S. Sadoul, De la guerre civile en droit des gens, Nancy 1905; C. Wiesse, Reglas de derecho internacional aplicables à las guerras civiles, Lima 1905; G. Muszack, Über die Haftung einer Regierung für Schäden welcher Ausländer gelegentlich innerer Unruhen erlitten haben, Strasburgo 1905; P. Breton, De la résponsabilité des États en matière de guerre civile, Nancy 1906; L. A. Podestà Costa, El extranjero en la guerra civil, Buenos Aires 1913; A. Arias, The non-liability of States for damages suffered by foreigners in the course of an insurrection or a civil war, Washington 1913; I. Goebel, The internat. responsability of States for injuries sustained by aliens on account of insurrections and civil wars, Washington 1914; S. Gemma, Les gouvernements de fait, Parigi 1925.