Guerra
di Alastair Buchan
Guerra
sommario: 1. Definizioni della guerra. 2. Le guerre nella storia. 3. Le guerre moderne. 4. Guerre e conflitti nell'epoca contemporanea. a) La guerra strategica. b) La guerra limitata. c) Le guerre locali. d) Le guerre civili. e) Le guerre rivoluzionarie. f) Le guerre insurrezionali. g) I colpi di stato. h) L'intervento. i) II terrorismo e la guerriglia. 5. Il controllo della guerra. 6. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Definizioni della guerra
Benché si tratti di un'antica attività (o condizione) dell'uomo non è facile definire cosa s'intenda con la parola ‛guerra'. Nessuna classificazione semplicistica - come quella espressa dall'asserzione che la guerra è ‟una forma di violenza governata da regole, attraverso la quale vengono decise le controversie tra governi" - è in grado di soddisfare: la guerra è infatti un fenomeno antecedente alla formazione degli Stati e dei governi in senso moderno, e può aver luogo all'interno di uno Stato oltreché tra Stati diversi. Inoltre, ogni definizione della guerra deve contenere un qualche riferimento alla forza o alla violenza, per distinguerla per un verso dalla concorrenza tra Stati o gruppi, e per l'altro dalle ‛controversie' che, a loro volta, possono essere o non essere composte pacificamente. E la violenza propria della guerra deve poi avere una qualche interna organizzazione, per distinguerla dalla violenza del criminale o dello psicopatico; così come deve avere anche un obiettivo politico, per distinguerla dalle attività di associazioni come la mafia e le società segrete (quali, ad esempio, i thugs indiani).
Bisogna chiedersi, inoltre, se la guerra vada considerata un ‛atto' politico determinato come risulta dalla definizione di Clausewitz: ‟un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà" (K. von Clausewitz, Vom Kriege, Berlin 1832; tr. it.: Della guerra, Milano 1970, p. 19); o se vada considerata una ‛situazione' di ostilità, come emerge dalla definizione di Hobbes: ‟infatti, come la natura di una procella non consiste in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell'atmosfera a essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ‛ostile', durante la quale non v'è nessuna sicurezza per l'avversario" (Th. Hobbes, Leviathan, London 1651; tr. it.: Leviatano, Bari 1974, vol. I, cap. XIII).
Mentre la prima definizione rende certo più facile la classificazione, la seconda è comprensiva non solo di situazioni quali la ‛guerra fredda' tra il blocco occidentale e il blocco comunista nel ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, ma anche di quelle politiche, quelle strategie, quelle scelte circa le dimensioni e la natura degli armamenti le quali, pur proponendosi d'influire sul comportamento di un gruppo avversario, non sfociano necessariamente in uno scontro armato.
La definizione della guerra e la distinzione tra la guerra e la pace differiscono, in certa misura, a seconda dell'angolo visuale adottato. Per il giurista, la guerra è una situazione nella quale le norme che regolano i rapporti tra Stati o tra gruppi sono in tutto o in parte sospese: sono inclusi nella guerra, quindi, non solo le battaglie e i conflitti convenzionali, ma anche l'intervento, la ribellione, il blocco. Per il moderno esperto di psicologia sociale, la guerra è una situazione nella quale i naturali istinti sociali e familiari dell'uomo hanno subito uno stravolgimento tale che egli è pronto a concentrare la propria ostilità su un gruppo esterno. Dal sociologo o dal filosofo sociale la guerra è stata giudicata spesso una condizione necessaria alla coesione delle società o degli Stati; secondo Hegel, ad esempio, la guerra è un male necessario, ‟grazie al quale si conserva la salute etica delle nazioni"; concezione che trovò poi sviluppo nelle opere degli scrittori del tardo Ottocento quali Nietzsche, Carlyle o Renan. La guerra è stata considerata anche un potente strumento di mutamenti sociali, benché tale modo di vedere sia stato sempre contestato sia dalla tradizione liberale che dai teorici della sociologia politica: da Comte e Spencer fino ad Aron. L'ideologo, laico o religioso, ha visto anch'egli nella guerra un mezzo di trasformazione sociale. Allo studioso di scienze politiche e allo storico moderno la guerra è apparsa un atto di governo mirante a proteggere lo Stato dall'aggressione territoriale, dallo smembramento, dal danneggiamento dei suoi interessi materiali; ovvero mirante ad accrescerne il potere e l'influenza. Per lo studioso di strategia, infine, la guerra è l'oggetto di una disciplina tecnica.
È facile, dunque, perdersi nel labirinto delle diverse definizioni della guerra o dei diversi possibili punti di vista; punti di vista e definizioni dipendenti in parte dalla disposizione fondamentale di ciascuno nei confronti della natura della guerra (ad es. si può essere o non essere istintivamente aggressivi), e in parte dalla natura della società (ad es., dal fatto che una qualche minaccia esterna sia o non sia essenziale alla coesione della società attorno ad alcuni obiettivi). È inevitabile, inoltre, definire la guerra in modo diverso a seconda dei periodi storici: la natura delle guerre primitive o tribali, per esempio, è diversa da quella delle guerre medievali, che differisce a sua volta dalla natura dell'attività bellica nei tre secoli tra la guerra dei Trent'anni e l'inizio dell'era nucleare.
In questo articolo, intendo considerare la guerra come un atto o una condizione di violenza sociale o di gruppo mirante a raggiungere o difendere un obiettivo politico. Si vedrà che questa definizione è più appropriata per definire la guerra moderna che non per affrontare l'intera storia della guerra: ad esempio, non è possibile comprendervi le Crociate. Essa implica, inoltre, che si dia un significato lato al termine ‛politico'; si dovrà assumere, ad esempio, che la concezione marxista della lotta di classe e della rivoluzione mondiale, quale è stata sviluppata da Lenin, Stalin e Mao Tse-tung, abbia una finalità politica anziché puramente sociale, o che nell'ostilità degli Arabi verso Israele i motivi politici siano dominanti sui contrasti religiosi. Analizzando poi la guerra nel suo aspetto di violenza di gruppo anziché di violenza tra Stati, diviene legittimo includervi non solo le guerre internazionali ma anche le guerre civili, gli interventi, le guerre rivoluzionarie e i mutamenti di governo operati con la forza. Vengono però esclusi dalla guerra gli scoppi di violenza disorganizzati e sporadici, come i tumulti urbani, o le esplosioni di furia omicida improvvisa e non premeditata, come la terribile lotta tra la comunità indù e la comunità musulmana esplosa in India nel 1947, o come certe forme di conflitti tribali.
Resta una difficoltà. Se si fonda la definizione della guerra sulla presenza effettiva di una violenza, come si può dar conto dell'organizzazione o dello spiegamento di forze organizzate (soprattutto le forze militari degli Stati) che non danno però luogo a guerre o violenze? L'unione delle nazioni in alleanze, l'uso della potenza navale, le diverse forme di servizio militare nazionale o i piani di mobilitazione, la promozione delle innovazioni scientifiche e tecniche riguardanti le armi di tutti i tipi, hanno in gran parte un secondo fine: prevenire la guerra dimostrando la propria capacità di vincere, semmai la guerra dovesse scoppiare; o anche, nel caso dello spiegamento di forze navali, estendere l'influenza diplomatica di uno Stato con la dimostrazione implicita del suo potenziale bellico. Tutti questi aspetti appartengono più alla ‛strategia' che non alla guerra; infatti, il termine ‛strategia', che aveva originariamente il significato puro e semplice di condotta delle operazioni, ha gradualmente mutato significato fino a indicare l'uso complessivo del potenziale bellico di uno Stato per fini politici o diplomatici; la strategia viene quindi a essere un elemento essenziale della politica internazionale.
Lo sviluppo del potenziale bellico degli Stati al fine di difendere o estendere i propri interessi senza ricorrere alla guerra o alla violenza ha acquistato un rilievo crescente via via che le armi sono diventate più letali ed è aumentata la loro portata: in particolare, ciò si è verificato con lo sviluppo delle armi nucleari nelle mani di un piccolo numero di grandi potenze, dopo il 1945, e con la crescente importanza attribuita alla strategia fondata sulla deterrenza. Ne consegue l'ironia di una situazione in cui il livello della spesa militare (misurato in termini assoluti o anche come quota della ricchezza mondiale) non è mai stato più alto (tranne che durante le guerre più importanti), mentre l'importanza effettiva e le prospettive di conflitti diretti tra le potenze industrializzate sono limitate se confrontate a quelle di ogni altro periodo della storia moderna (v. armamenti).
Nondimeno, le strategie fondate sulla deterrenza non sono a tutta prova e, benché gli atteggiamenti e la diplomazia degli anni della guerra fredda abbiano ceduto il posto alla distensione tra le ‛superpotenze', non vi è nessuna certezza che non si finisca con l'arrivare a una guerra strategica o a una guerra nucleare. Appare quindi legittimo sussumere sotto l'etichetta di ‛guerra' anche tutte quelle attività di preparazione militare, che pure mirano a prevenire la guerra piuttosto che a combatterla effettivamente.
2. Le guerre nella storia
Tutta la storia sociale e politica del genere umano è disseminata di memorie di guerre e battaglie. È una banalità asserire che la guerra è stata, con il fattore demografico, non solo uno degli agenti più potenti di ascesa e decadenza dei popoli e delle civiltà, ma anche, insieme con lo sviluppo tecnico, uno strumento potente di progresso sociale e materiale. Non diciamo questo, però, per sostenere che essa assolva necessariamente a queste funzioni anche oggi.
Le guerre tra gli uomini sono cominciate in tempi remotissimi. Le guerre primitive devono essere state un fenomeno più accentuato nel Vicino Oriente, dove l'intreccio di civiltà contigue era più fitto. In generale, si può dire che, sebbene la guerra primitiva fosse originata da molteplici motivazioni - espiazione, vendetta o difesa - quella dominante fosse la preservazione della solidarietà del gruppo. Nelle zone più arretrate del mondo, come la Nuova Guinea, la guerra assolve ancora a questa funzione; la sola eccezione si verifica laddove il ruolo di nemico è assunto dalla natura: gli Eschimesi, ad esempio, non hanno memorie di guerra, così come non hanno un concetto di società organizzata. Nei tre millenni prima di Cristo, con lo sviluppo della civiltà in Medio Oriente, Cina e Messico, con l'avvento della scrittura, delle innovazioni tecnologiche e di più vaste unità di governo, l'importanza della guerra si accrebbe come si accrebbe anche la sua forza distruttiva, col risultato di maggiori intervalli tra pace e guerra e di una più netta distinzione tra esse. Ma anche così il numero delle battaglie tramandato fu, tra il 400 a. C. e il sorgere della repubblica romana, più alto che in ogni altro periodo documentato della storia, con le uniche eccezioni del Medioevo e del XX secolo.
Con lo sviluppo dell'Impero romano e con l'elaborazione del concetto di diritto, la forza assunse un carattere diverso. Per le città-Stato greche, nonostante la maturità della loro civiltà interna, la guerra rimase semplicemente un espediente per conservare o affermare la loro autonomia. Nonostante la vivacità intellettuale, le loro relazioni rimasero primitive, proprio come quelle delle città-Stato italiane nel XV secolo. Con Roma, la cui autorità era fondata su una classe politica militare, entra nella storia l'idea della forza come strumento per preservare l'ordine entro una vasta area e oltre i confini di una singola razza o cultura. A Roma dobbiamo l'idea moderna del ‛mantenimento della pace', l'idea della forza regolata dal centro come strumento per estendere la libertà aumentando la stabilità dell'ambiente umano: della forza, in definitiva, come fattore politico. La pace romana fu certo resa più agevole dal periodo d'intensi conflitti che l'aveva preceduta, ivi includendo il periodo delle conquiste. Allo stesso modo, gli effetti distruttivi della guerra dei Trent'anni nel XVII secolo, delle guerre napoleoniche, delle guerre mondiali nel XX secolo, hanno lasciato nelle generazioni successive un'accentuata ripugnanza per l'uso della guerra come strumento politico.
L'aspetto forse più significativo e interessante della guerra nel lungo periodo tra la nascita del cristianesimo e lo sviluppo del sistema degli Stati moderni or sono cinque secoli, consiste nella dicotomia crescente tra l'impegno ad astenersi dalla forza nella sfera dei rapporti personali e familiari, e l'esigenza politica o sociale di farvi ricorso. Di qui l'influsso di scrittori come sant'Agostino e lo sviluppo della teoria della ‛guerra giusta', la quale si aveva quando l'autorità spirituale indicava al cittadino che l'uso della forza era legittima.
Questa stessa dicotomia (e la conseguente razionalizzazione), che si ritrova in altre civiltà e in altre religioni, ebbe anche l'effetto di frammischiare alla guerra l'ideologia. Mentre nelle società primitive la guerra può essere combattuta per fini elementari come il saccheggio o la conquista di un territorio, nel corso della storia moderna è divenuto per i governanti via via più difficile giustificare sia di fronte a se stessi che di fronte ai loro sudditi il ricorso alla violenza organizzata, tranne che in nome di un'idea o un ideale: la cristianità contro gli infedeli, i figli del Profeta contro i cristiani o gli'Ebrei, i protestanti contro i cattolici, le democrazie contro le autocrazie e così via. In periodi come il XVII e il XX secolo, durante i quali vi è stata una violenta contrapposizione d'ideologie, la natura ideologica della guerra ha sortito il risultato di estenderne l'ambito e d'imbarbarirla. In periodi come il XVIII e il XIX secolo, durante i quali l'ideologia ebbe meno peso, il bisogno di giustificare il ricorso alla guerra o di procurarsi il sostegno di altri paesi rese i governanti ansiosi di legare a un'idea gli interessi della propria nazione. La Gran Bretagna ha combattuto la maggior parte delle sue guerre a fianco della Francia in nome della ‛libertà', proprio come la Russia ha combattuto la maggior parte delle sue guerre a fianco dell'Austria o della Prussia in nome dell'‛ordine'. Ciò ha creato pian piano una nuova dimensione della guerra, la cosiddetta ‛guerra politica', che è divenuta sempre più importante con lo sviluppo delle comunicazioni. Quest'ultima ha avuto forse il suo apice negli appelli contrapposti, indirizzati all'opinione pubblica americana dalla Germania e dalla Gran Bretagna nel primo periodo sia della prima che della seconda guerra mondiale. Lo sviluppo di una comunità mondiale ha condotto anche alla lenta evoluzione delle cosiddette ‛leggi di guerra', in base alle quali taluni atti sono stati generalmente riconosciuti come ammissibili o inammissibili nella condotta della guerra.
L'altro e più ovvio risultato dello sviluppo storico fu il graduale perfezionamento degli strumenti bellici: l'armatura, la cavalleria pesante, la sostituzione dell'arco alla fionda e poi della balestra all'arco, l'uso del mare e delle fortificazioni, fino ad arrivare, nel XV secolo, all'invenzione della ‛polvere da sparo'. Ognuna di queste innovazioni ha inciso profondamente sulla struttura sociale dei principati e dei regni. Inoltre, è possibile dimostrare che il Sacro Romano Impero si sfasciò perché le innovazioni della tecnica militare resero via via più autonomi i regni, i vescovati e i ducati che lo componevano, proprio come il crollo dell'Impero romano fu dovuto in parte all'incapacità di controllare la crescente potenza militare delle sue provincie.
Dopo circa ottant'anni di guerre religiose intermittenti, questo processo culmina nella pace di Vestfalia del 1648, che segnò il riconoscimento definitivo del sistema degli Stati moderni, costituito da paesi sovrani indipendenti, ciascuno dei quali è responsabile della propria sicurezza e può fissare le proprie norme interne, anche religiose.
Non è possibile valutare con esattezza la forza distruttiva della guerra nei diversi secoli e confrontare simili valutazioni; ma è chiaro che l'intensità della guerra tra le potenze europee (intendendo per intensità il numero di persone coinvolte nelle guerre su mille abitanti) fu nel XVIII secolo circa tre quarti di quella del XVII secolo, mentre il livello del XIX secolo fu solo un quarto di quello del XVII. Sia per il XVIII che per il XIX secolo questi rapporti sarebbero stati anche inferiori se non ci fossero state le guerre napoleoniche (v. Wright, 19642, p. 653).
Molteplici sembrano essere i motivi che stanno alla base della diminuita intensità della guerra (ma non del numero delle guerre e dei fatti militari) tra la fine della guerra dei Trent'anni e la prima guerra mondiale, diminuzione avvenuta nonostante il graduale perfezionamento della tecnica militare. In primo luogo, con il declino dell'ideologia religiosa, s'intensificarono i rapporti di comunicazione e i matrimoni tra le famiglie dominanti; divenne possibile, quindi, mantenere un complesso equilibrio di potere tra gli Stati principali (senza ricorrere di continuo alla guerra) con espedienti quali i matrimoni dinastici. In secondo luogo, nel periodo tra la pace di Utrecht nel 1713 e l'ascesa della Germania imperiale dopo il 1870 (con l'eccezione dei vent'anni durante i quali Napoleone tentò di conquistare il predominio in Europa), i maggiori Stati europei assunsero come principio-guida quello dell'equilibrio del potere, né aspiravano a rovesciare quell'equilibrio eliminando uno di loro. In terzo luogo, in alcuni Stati e, in particolare, prima in Inghilterra e poi in Olanda e in Francia, la graduale democratizzazione della politica interna coinvolgeva un numero sempre maggiore di persone nel meccanismo delle decisioni e rendeva più difficile ai governanti l'arbitrario ricorso alla guerra. In quarto luogo, nonostante l'ampliarsi del processo decisionale, gli eserciti permanenti e il corpo degli ufficiali avevano dimensioni ridotte, il che limitava sia gli obiettivi per i quali gli Stati facevano ricorso alla guerra che i mezzi adoperati nel condurla. È vero che la superiorità militare della Francia nel periodo tra il 1793 e il 1815 fu una conseguenza della levée en masse, la mobilitazione di tutti gli uomini validi della nazione; è vero, anche, che i nemici della Francia furono costretti a seguirla in questo fino alla caduta di Napoleone. Ma il servizio militare universale in tempo di pace non divenne prassi usuale fino alla seconda metà del XIX secolo, fino a quando, cioè, non aumentò in modo considerevole la ricchezza dei maggiori governi. Infine, nel XVIII secolo prima e poi nel XIX, i conflitti tra i maggiori Stati europei (in particolare quelli tra Gran Bretagna e Francia) si risolsero in gran parte in conflitti o in compensazioni reciproche nelle aree extraeuropee: l'India e l'America settentrionale nel XVIII secolo; l'Africa e l'Asia orientale nel XIX.
3. Le guerre moderne
Il periodo tra il 1815 e il 1914 fu relativamente pacifico, benché non siano mancati conflitti gravi, quali la guerra di Crimea (1853-1856), la guerra civile americana (1861-1865), la guerra franco-prussiana (1870-1871) e le guerre balcaniche (1912-1913), come anche numerose spedizioni delle potenze coloniali per conquistare territori in Africa e nell'Asia orientale e sudorientale. Ma sin dalla metà del XIX secolo - in conseguenza, almeno in parte, dei mutamenti economici e sociali in corso nei paesi più importanti - stavano incessantemente maturando i germi dei conflitti del successivo secolo, ossia del periodo più denso di conflitti di tutta la storia umana. In primo luogo, la tecnica bellica divenne sempre più distruttiva in seguito alla costruzione delle navi di ferro a vapore armate di cannoni con gittata di 20 km, all'introduzione del fucile a retrocarica, del mitra e della dinamite. Non meno importante fu il progresso civile; in particolare le ferrovie resero possibile la rapida concentrazione di grossi contingenti di truppa; anche il telegrafo senza fili di Marconi, che risale all'inizio del Novecento, ebbe importanti implicazioni sul piano militare.
Un'altra causa dell'accresciuta violenza della guerra moderna va ricercata nei grandi progressi compiuti nel XIX secolo dagli studi sulla guerra e dall'organizzazione militare. L'osservazione di Voltaire che ‟l'arte della guerra è come l'arte della medicina: fondata su congetture e micidiale", era vera per i suoi tempi. Ma con la comparsa (nella prima metà dell'Ottocento) di teorici militari come Bülow, Jomini e Clausewitz, la guerra e le sue relazioni con le finalità politiche cominciarono a essere studiate e a essere considerate più come l'oggetto di una vera e propria scienza coltivata da professionisti, che come un passatempo occasionale per gentiluomini. L'organizzazione, tra il 1858 e il 1888, dello Stato maggiore prussiano sotto il comando di Helmut von Moltke non solo ebbe un ruolo rilevante nell'ascesa della Germania a massima potenza continentale, ma, nel processo di accrescimento dell'efficienza dell'apparato bellico nazionale, fu importante quanto qualsiasi innovazione tecnologica.
L'accentuarsi del nazionalismo nell'Ottocento fu il terzo fenomeno che preannunciò la violenza dei conflitti nel secolo successivo. Le cause di tale fenomeno vanno ricercate in due direzioni. Da un lato si rese necessario porre maggiormente l'accento sugl'interessi e sulla sicurezza dello Stato: nella seconda metà del secolo, infatti, gravi turbamenti vennero ad agitare le società nazionali sia a causa degli antagonismi di classe, come in Inghilterra, in Russia o in Francia, sia a causa degli antagonismi tra gruppi etnici, come nell'Impero d'Austria. D'altro lato, la rivoluzione industriale, ampliando a dismisura le dimensioni delle città, produsse un flusso di manodopera dalla campagna verso le fabbriche e spezzò i vincoli con i gruppi locali e con le corporazioni artigiane: alle masse urbane di nuova formazione, di conseguenza, non rimase altra possibilità che sostituire i vecchi vincoli con la fedeltà alla nazione e alla sua gloria, che vennero così a rappresentare la loro principale possibilità d'identificazione. Ciò accrebbe molto il potere dei governi; i nipoti degli uomini che contro la loro volontà erano costretti a combattere contro Napoleone, in un conflitto che appariva loro una lite tra membri della classe dominante, nel 1914 erano pronti a radunarsi sotto la bandiera in nome del ‛re e della patria', del Deutschland über Alles, della ‛madre Russia' o persino della Old glory (la bandiera statunitense).
Non è possibile scorrere la storia politica e culturale della generazione precedente al 1914 senza rimanere colpiti dalla disponibilità di statisti e pensatori a considerare la guerra un atto politico legittimo e ragionevole. Ciò fu dovuto in parte all'influsso esercitato dal ‛darwinismo sociale', cioè dal tentativo di applicare alle questioni politiche internazionali i principi darwiniani della selezione naturale: un tentativo che trova espressione in scrittori come Fr. Nietzsche in Germania o E. Renan in Francia (‟la guerra è in un certo senso una condizione di progresso, il colpo di frusta che impedisce a una nazione di addormentarsi, costringendo la mediocrità soddisfatta di sé a scuotersi dalla propria apatia"; E. Renan, La réforme intellectuelle et morale, Paris 1871). Per quanto riguarda i politici, una delle più limpide espressioni di questo credo si trova in una dichiarazione di Th. Roosevelt, risalente al periodo in cui era vicepresidente degli Stati Uniti: ‟Il XX secolo si profila di fronte a noi pregno del destino di molte nazioni. Se rimaniamo pigri spettatori, se andiamo in cerca soltanto della tranquillità tronfia e indolente e dell'ignobile pace, se rifuggiamo dalle situazioni difficili nelle quali gli uomini debbono vincere a rischio della vita e a rischio di tutto ciò che hanno di più caro, allora i popoli più audaci e più forti ci sorpasseranno e conquisteranno il dominio del mondo" (Th. Roosevelt, The strenuous life, New York 1899, p. 200).
Passi simili si potrebbero citare per ognuno dei principali governi e dei principali paesi.
Un altro elemento, che certamente favorì la rinnovata disponibilità dei principali governi a progettare la guerra strategica fu il fraintendimento quasi assoluto degli effetti prodotti dai mutamenti tecnologici e sociali. Non solo, infatti, questi ultimi rendevano la guerra più distruttiva, ma, rafforzando le capacità difensive contro l'offensiva, rendevano virtualmente impossibile una soluzione militare sul campo di battaglia. Da una tale incomprensione discendeva la convinzione, così diffusa nel luglio 1914, che una guerra generalizzata, se si fosse verificata, non sarebbe durata più di qualche settimana, o al massimo qualche mese. Un solo scrittore, il banchiere polacco I. Bloch, aveva previsto con precisione il risultato di una nuova guerra europea nel libro The future of war (1899), che sfortunatamente non ebbe alcuna incidenza politica. Tra l'agosto 1914 e l'armistizio del novembre 1918 circa venti paesi furono trascinati nel conflitto; secondo una stima prudente gli uomini mobilitati furono 65 milioni, e di questi circa 9 milioni di soldati e più di un milione di civili furono uccisi o morirono per le ferite riportate.
Il conflitto non promosse innovazioni geniali e il livello dell'abilità militare si mantenne mediocre da ambo i lati. Fu una contesa di volontà nazionali nel senso indicato da Clausewitz, e la differenza più appariscente con le guerre precedenti consistette nella creazione di grandi apparati militari industriali e nella subordinazione di tutte le forme dell'attività nazionale allo sforzo bellico. Le conseguenze sociali della guerra furono profonde, anche trascurando le profonde conseguenze politiche di una prolungata guerra di usura che creò un odio persistente tra i nemici e seminò la sfiducia tra gli alleati. Benché abbia avuto alcuni effetti positivi - come, ad esempio, l'emancipazione delle donne dovuta all'essenziale importanza del lavoro femminile per lo sforzo bellico - la guerra indebolì l'intero tessuto sociale di tutti i maggiori paesi belligeranti, con l'eccezione forse degli Stati Uniti, entrati in guerra soltanto nell'aprile 1917. I paesi la cui unificazione nazionale aveva dietro di sé soltanto due generazioni, e cioè la Germania e l'Italia, uscirono dalla guerra internamente divisi, incapaci di ripresa, e ciò gettò i semi dei movimenti fascista e nazista.
Ma la prima guerra mondiale non si limitò a scuotere dalle fondamenta la società industriale: ebbe anche l'effetto d'introdurre nella politica mondiale un genere nuovo di conflitti. I conflitti di classe e le ribellioni sono vecchi quanto la società, ma fu nella metà del XIX secolo che Marx ed Engels diedero loro un fondamento teorico coerente. La concezione marxista della guerra non fu originariamente centrata sulle relazioni internazionali; essa prevedeva infatti una crescente solidarietà del proletariato di tutti i paesi industriali, che avrebbe condotto al rovesciamento dei regimi capitalistici o imperialistici e all'estinzione degli Stati. Il socialismo, pertanto, avrebbe abolito la guerra abolendo l'apparato statale legato al capitalismo. Il fatto che in Russia la rivoluzione bolscevica conducesse al potere un regime fondato sui principi marxisti sembrò significare che uno tra gli Stati principali era ormai impegnato a realizzare il rovesciamento di tutti gli altri governi, benché in realtà - come indicavano il fallimento delle rivoluzioni comuniste in Germania e in altri paesi dell'Europa occidentale, e la relativa debolezza della giovane Unione Sovietica negli anni venti e trenta - scarse fossero le possibilità reali di una simile evenienza. Originariamente le mire di Lenin, l'artefice della rivoluzione, erano concentrate essenzialmente sull'Europa; ma, prima della morte, Lenin si era convinto che movimenti rivoluzionari si potevano sviluppare più rapidamente negli imperi coloniali delle potenze europee. Nel 1924 egli morì, e tre anni più tardi Stalin, che aveva ormai consolidato la sua influenza sul gruppo dirigente, concentrò l'interesse sul rafforzamento delle basi industriali e militari dell'Unione Sovietica come Stato, al fine di poterne difendere e promuovere gli interessi alla maniera usuale delle grandi potenze, e per tener testa a Stati come la Germania e il Giappone. Nondimeno, nell'ultimo mezzo secolo, la realtà o il timore di un'insurrezione comunista ispirata dall'estero è stata fonte di una quantità di conflitti sia nazionali che internazionali (soprattutto nell'ultimo venticinquennio). Nel seguito esaminerò con maggiori particolari questi conflitti.
I tentativi della Francia, della Gran Bretagna e del Giappone d'intervenire, tra il 1917 e il 1920, nella guerra civile che seguì in Russia alla rivoluzione bolscevica, costituiscono uno degli esempi più chiari, nella storia moderna, d'intervento nei disordini interni di un'altra potenza. Ma gli anni tra le due guerre produssero altri due esempi di un comportamento analogo. Il primo è offerto dal Giappone che, dopo l'invasione e l'occupazione della Manciuria nel 1931, prese a pretesto il collassò dell'ordine interno in Cina per occupare la maggior parte delle coste cinesi e molti dei suoi porti principali. Il secondo fu la guerra civile spagnola, durata dal luglio 1936 al marzo 1939, nel corso della quale l'Unione Sovietica appoggiò la repubblica, mentre la Germania e l'Italia intervennero con forze aeree e navali dalla parte dei ribelli.
Parlando delle guerre moderne (cioè quelle dell'Ottocento e Novecento sino alla fine della seconda guerra mondiale), mi sono limitato essenzialmente ai conflitti europei, perché fino al 1945 il sistema internazionale era ancora essenzialmente eurocentrico. Sarebbe però un errore sottovalutare le numerose guerre coloniali combattute nel corso di tre secoli dagli Spagnoli e dai Portoghesi in America Latina; dagli Inglesi e dai Francesi in America settentrionale, in Africa e in Asia; dai Francesi, dagli Olandesi e dai Portoghesi nell'Asia sudorientale; sarebbe anche errato trascurare gli interventi compiuti con mire colonialistiche dalle potenze industriali in quello che chiamiamo oggi il mondo in via di sviluppo, com'è il caso della guerra ispano-americana nel 1898, che condusse all'annessione delle Filippine agli Stati Uniti. È vero che all'inizio del XX secolo il fervore colonialista si era in gran parte spento e le potenze coloniali si preoccupavano più di mantenere l'ordine nei loro possedimenti che di estenderli (nella prima metà del secolo vi sono stati diciannove casi rilevanti d'insurrezioni nelle colonie). Lo stesso periodo, cioè la coda dell'era coloniale, comprende però tre esempi rilevanti di guerre che furono di fatto guerre annessioniste. Il primo è la guerra boera, dal 1899 al 1902: la Gran Bretagna intervenne contro la repubblica boera in Sudafrica in aiuto ai coloni inglesi ivi residenti. La guerra terminò con la sconfitta dei Boeri e la creazione finale di un dominion sudafricano del Commonwealth britannico (dal 1961 repubblica indipendente fuori dal Commonwealth). Il secondo fu l'invasione giapponese della Manciuria nel 1931, che seguì il preteso assassinio di un ufficiale giapponese da parte di soldati cinesi, e la creazione di uno stato fantoccio giapponese in Manciuria. Il terzo esempio fu l'invasione italiana dell'Abissinia nel 1935, che terminò con la conquista del paese.
Esaminerò più da vicino i conflitti regionali nell'analizzare l'era post-bellica o contemporanea; va intanto osservato, inoltre, che, dalla fine del XIX secolo, l'Estremo Oriente era diventato un centro d'importanti conflitti. Da un lato, dalla metà del XVIII secolo fino alla metà del XIX, vi furono una serie d'invasioni da parte della Russia verso Oriente, contro la periferia dell'Impero cinese, che trasformarono la Russia in potenza del Pacifico oltreché potenza europea. D'altro canto il Giappone, dopo l'inizio dell'industrializzazione, alla metà del XIX secolo, aveva conservato molte caratteristiche feudali tipiche dell'era precedente e manifestava la tendenza a perseguire i propri interessi con mezzi militari. Negli anni 1894-1895 vi fu un conflitto, breve ma aspro, tra la Cina e il Giappone per il controllo della penisola di Corea. All'inizio di questo secolo la Russia occupò la Manciuria; il suo rifiuto di ritirarsi fece esplodere il conflitto con il Giappone tra l'inizio del 1904 e la fine del 1905, nel corso del quale la flotta russa fu duramente sconfitta. Con il Trattato anglo-giapponese del 1902, il Giappone era diventato un alleato della Gran Bretagna e pertanto nella prima guerra mondiale entrò in guerra contro la Germania, limitando però il proprio intervento ad attacchi ai porti controllati dai Tedeschi in Cina e alle colonie tedesche nelle isole del Pacifico meridionale. L'attivismo giapponese nel periodo tra le due guerre fu in parte una conseguenza della sua struttura sociale, in parte una conseguenza del razzismo: il risentimento di una nazione asiatica di fronte ai tentativi occidentali di limitare il suo potere e la sua influenza, tentativi espressi nelle limitazioni al numero di navi da guerra che il Giappone poteva mantenere (a differenza di Gran Bretagna e Stati Uniti), in base alle condizioni del Trattato di Londra del 1921 e del Trattato di Washington del 1930. In larga parte, tuttavia, esso derivò dai suoi interessi in materia di sbocchi commerciali, soprattutto quando, in seguito alla crisi del 1929, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna adottarono una politica protezionista. Nell'invasione giapponese della Manciuria nel 1931, nei successivi attacchi predatori alla Cina e nella tensione via via crescente con gli Stati Uniti, che doveva culminare nel dicembre 1941 nell'attacco giapponese a Pearl Harbour, giocarono tutti questi elementi.
In effetti, si può dire che la guerra europea scoppiata nel settembre 1939 si trasformò in una guerra mondiale, come quella del 1914-1918 non era stata, proprio per l'intervento del Giappone. La prima guerra mondiale era stata combattuta quasi interamente in Europa, benché l'intervento della Turchia al fianco degli Imperi centrali estendesse il conflitto alle province dell'Impero turco, cioè al Medio Oriente. Al contrario, nella seconda guerra mondiale furono teatro del conflitto non solo l'Europa e il Medio Oriente, ma anche regioni dell'Africa e dell'Asia orientale e sud-orientale e un sanguinoso conflitto si sviluppò sulle coste del Pacifico tra gli Americani e le forze giapponesi. Inoltre, azioni navali ebbero luogo in tutti gli oceani e i bombardamenti aerei colpirono città anche remote dal teatro effettivo delle operazioni.
La seconda guerra mondiale fu diversa dalla prima anche per altri aspetti. Furono più numerosi i paesi coinvolti nel conflitto (compresi gli Stati neutrali dell'Europa invasi dal Blitzkrieg tedesco nel 1940-1941). Gli uomini mobilitati furono circa il doppio (108 milioni contro 65 milioni) e il doppio furono i morti tra i militari (17 milioni contro 9 milioni). Ma il dato che più colpisce è la differenza tra il numero di civili uccisi, o morti per ferite e sofferenze causate dalla guerra: la cifra stimata supera i trentaquattro milioni, cioè circa trenta volte più che nella prima guerra mondiale. Il peso maggiore di questa cifra spaventosa ricade sulla Cina con venti milioni di civili morti (molti dei quali morti d'inedia); al secondo posto sta l'Unione Sovietica con sette milioni e mezzo di morti; la Iugoslavia e la Polonia ebbero ciascuna più di un milione di morti.
Questa diversità tra i due grandi conflitti quanto alla barbarie della guerra e alle sofferenze da essa causate fu dovuta in parte allo sviluppo tecnologico e in parte al carattere stesso della guerra. Negli anni tra le due guerre c'erano state due innovazioni principali in materia di armamenti. La prima fu la trasformazione dei mezzi corazzati, fondamentalmente i carri armati, in efficienti armi da combattimento, che le potenze industriali potevano produrre in gran quantità. La seconda fu il miglioramento costante dell'aviazione quanto a raggio d'azione, precisione di tiro e capacità di carico. A questi sviluppi corrispose un mutamento delle concezioni strategiche, in particolare con la concezione del Blitzkrieg, il quale prevedeva la concentrazione su un fronte ristretto di carri armati e aviazione tattica, seguiti dalla fanteria su mezzi corazzati, per sfondare la linea difensiva del nemico e garantire l'iniziativa all'attaccante. Questa concezione era stata elaborata da due teorici militari inglesi, B. H. Liddell Hart e J. C. Fuller, ma fu messa in pratica per la prima volta dallo stato maggiore tedesco nell'attacco alla Francia (maggio 1940) e ai paesi neutrali come il Belgio, l'Olanda e la Danimarca. Un'altra teoria che ebbe notevole influsso si basava sull'uso della forza aerea come strumento per minare il morale di una nazione. Il principale sostenitore di questa strategia fu il generale italiano G. Douhet, che trovò i discepoli più entusiasti tra le forze aeree della Germania e degli Stati Uniti. Inoltre, la rapida diffusione della radio per le comunicazioni civili indusse a confidare nell'importanza della propaganda e della sovversione come armi strategiche, con il risultato che tutti i maggiori belligeranti s'impegnarono in questa forma di guerra politica, benché poi i suoi effetti sull'esito finale risultassero in realtà solo marginali.
L'accresciuta mobilità e quindi le maggiori possibilità di sorpresa che i mezzi corazzati e l'aviazione conferivano ai belligeranti spiegano la rapidità con cui la Germania riuscì a invadere l'Europa occidentale, meridionale e settentrionale tra la primavera del 1940 e quella del 1941, e spiegano anche la sfida dell'Italia al controllo inglese nell'Africa orientale e nel Medio Oriente. Gli stessi fattori giocarono a favore del Giappone all'inizio del 1942, consentendogli l'invasione dell'Asia sudorientale fin quasi ai confini dell'India; resero altresì possibile all'esercito tedesco, quando Hitler nel luglio 1941 stracciò il patto di non aggressione con Stalin meno di due anni dopo averlo firmato, di spingersi fino alle porte di Mosca e di penetrare in profondità nella Russia meridionale.
Con le potenze dell'Asse piazzate a cavallo tra la metà dell'emisfero settentrionale e vaste zone di quello meridionale, l'interrogativo principale degli strateghi alleati, una volta entrati in guerra gli Stati Uniti dopo l'attacco giapponese del dicembre 1941, fu come si potessero mai rovesciare questi due grandi imperi militari, fondati in gran parte su linee di comunicazione interne. La seconda guerra mondiale ebbe un carattere più ideologico rispetto alla prima per l'odio suscitato, sia nell'Unione Sovietica che nelle potenze anglosassoni, dal dominio nazista in Europa e dal dominio giapponese in Asia. Di conseguenza non emerse alcuna prospettiva di pace negoziata, che invece era rimasta possibile, almeno teoricamente, nella prima guerra mondiale. Vi fu una disputa tra Churchill da un lato e il presidente Roosevelt e i suoi consiglieri dall'altro: il primo era favorevole a una strategia indiretta, consistente nello sfruttare la mobilità delle forze alleate per sondare e quindi attaccare i punti deboli del dominio tedesco in Europa (in primo luogo i Balcani); Roosevelt e i suoi consiglieri erano favorevoli a un attacco diretto alla Festung Europa hitleriana e in seguito alle isole giapponesi. In ciò gli Americani erano forse più sensibili degli Inglesi alla richiesta russa che le potenze anglosassoni impegnassero le forze tedesche a occidente, stornandole dal fronte orientale; inoltre, gli Stati Uniti avevano per un siffatto attacco diretto risorse militari assai più consistenti che non la Gran Bretagna. Senonché la difficoltà, prima del 1944, di organizzare un simile attacco costrinse gli Alleati a ricorrere a massicci bombardamenti strategici sulle città tedesche e italiane (come avevano già fatto i Tedeschi contro la Gran Bretagna nella prima parte della guerra), con gravi conseguenze non solo sotto l'aspetto delle perdite tra i civili, ma anche sotto quello della distruzione di città e di industrie. Tra le maggiori città europee solo Parigi rimase illesa; città come Dresda, Amburgo, Rotterdam, Berlino, Londra, Praga, Varsavia, Torino, Liverpool furono gravemente danneggiate, per non parlare delle città russe.
Alla fine sia l'Italia che la Germania, ormai sconfitti sul campo i loro eserciti, soccombettero. Ciò nondimeno nel 1945 si credeva ancora che, per conquistare le isole giapponesi nonché per esigere basi in Cina, in Unione Sovietica e nelle isole del Pacifico, fosse necessario impegnare una forza di cinque milioni di uomini. Da quando, nel 1943, poterono disporre di un'aviazione adeguata alle necessità, gli Americani sottoposero le principali città giapponesi a bombardamenti spietati. E tuttavia, il crollo del Giappone fu dovuto all'innovazione più radicale di tutta la storia della guerra - e cioè la messa a punto delle armi atomiche, effettuata dagli Stati Uniti con l'assistenza inglese e canadese sfruttando il principio della fissione nucleare. Un ordigno atomico fu sperimentato con successo nel Nuovo Messico nel luglio 1945. Poche settimane più tardi, ne furono lanciati uno su Hiroshima e uno su Nagasaki, col risultato di annientare, praticamente, queste due città. In pochi giorni il governo giapponese si arrese agli Alleati, con l'unica condizione che l'imperatore del Giappone potesse conservare il trono.
4. Guerre e conflitti nell'epoca contemporanea
L'andamento e le conseguenze della seconda guerra mondiale modificarono così profondamente il carattere del sistema internazionale e diedero inizio a una serie di mutamenti così rapidi, che a questo punto diviene necessario dare all'analisi una nuova impostazione. I conflitti europei cessarono di costituire il prototipo della guerra, e sia le forme che la localizzazione dei conflitti si diversificarono grandemente.
Quattro furono le cause fondamentali di questo processo e tutte intimamente connesse alle modificazioni complessive avvenute nella distribuzione del potere economico e politico sulla scena mondiale. La prima fu l'emergere degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica in quanto paesi non solo impegnati in modo continuo e in profondità nella politica internazionale (come mai era accaduto in precedenza), ma anche capaci di uno spiegamento di forze militari e di risorse economiche di ben altro livello rispetto a quello delle vecchie grandi potenze. Stati Uniti e Unione Sovietica dominavano il sistema internazionale come ‛superpotenze' e, per i primi venticinque anni dopo la guerra, le loro relazioni furono segnate da una marcata ostilità. La seconda causa fu un'accelerazione senza precedenti nel campo delle innovazioni tecnologiche, accelerazione derivante in parte dai progressi scientifici realizzati nell'anteguerra e in parte dall'entità delle risorse, dal momento che l'antagonismo reciproco obbligava le superpotenze a dedicarsi alla ricerca e allo sviluppo nel settore militare. Terza causa fu l'indebolimento della posizione delle potenze coloniali europee e la rinata coscienza nazionale o etnica dei popoli a esse soggetti, fattori che condussero a un processo di decolonizzazione via via più rapido dopo il ritiro della Gran Bretagna dall'India nel 1947 e quello dell'Olanda dall'Indonesia nel 1949. Tra il 1945 e il 1970 il numero di Stati sovrani del sistema internazionale è raddoppiato. La quarta causa fu l'accresciuta potenza dell'Unione Sovietica, come anche il successo del Partito comunista cinese nel rovesciare il regime del Kuo Min Tang alla fine degli anni quaranta e nell'imporsi al governo della Cina nel 1950, che diedero un forte impulso alle guerre rivoluzionarie.
a) La guerra strategica
È un fatto degno di nota che, in circa un trentennio di antagonismo ideologico tra gli Stati Uniti e i loro alleati da un lato e l'Unione Sovietica e i suoi alleati dall'altro, non si sia fatto ricorso alla guerra né tra le due superpotenze né tra i loro alleati. Un episodio bellico di scarso rilievo si verificò quando la Cina comunista, dal 1950 alleato militare dell'Unione Sovietica, bombardò nell'estate del 1958 l'isola di Quemoy, che era rivendicata e fortificata da Taiwan (la Repubblica Cinese o Cina nazionalista), dal 1954 alleato degli Stati Uniti. Ne seguirono scontri aerei, ma il conflitto fu disinnescato dalle minacce americane di rappresaglie contro la Cina continentale e dalla dissociazione dei Sovietici dall'iniziativa cinese. E questo mancato ricorso alla guerra è tanto più degno di nota se si considera che, dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica ha sempre mantenuto almento 25 divisioni nell'Europa orientale nonché un esercito di almeno 140 divisioni, mentre gli Stati Uniti, dal 1950, non hanno mai tenuto sotto le armi meno di due milioni di uomini; o se si considera che gli Stati Uniti, che prima della guerra spendevano per la difesa circa l'1,5% del reddito nazionale, nel dopoguerra non hanno mai speso meno del 6%, e in alcuni periodi fino al 10%, di un reddito nel frattempo molto accresciuto; dello stesso ordine sono le cifre sovietiche.
Il fatto che questa situazione di grandi armamenti delle superpotenze e dei loro alleati non sia sfociata in un ‛atto' di guerra (‛la persuasione mediante la violenza') non significa che non ne sia derivata una ‛situazione' di guerra nel senso di Hobbes, e per lunghi periodi (specialmente all'inizio degli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta) non è mancata una continua preoccupazione che quell'‛atto' si verificasse. E si aggiunga che, nei primi anni, l'esistenza delle armi nucleari ebbe solo l'effetto di acuire l'antagonismo derivante dalla diversità d'ideali circa l'organizzazione della società. L'Unione Sovietica fece esplodere il primo ordigno nucleare nel 1949, parecchi anni prima della data prevista dagli esperti occidentali, mostrando con ciò l'ampiezza del proprio impegno nello sviluppo scientifico. Nel 1952-1953 ambedue i paesi misero a punto bombe all'idrogeno di potenza molto maggiore delle bombe atomiche. Attorno al 1954, l'Unione Sovietica aveva costruito bombardieri con un raggio d'azione tale da poter raggiungere le città dell'America del Nord, così come gli Stati Uniti, dalle proprie basi in America o dalle basi d'oltre mare, potevano raggiungere gli obiettivi in quasi tutta l'Unione Sovietica.
All'inizio, l'equilibrio strategico, o calcolo della deterrenza, non si presentava agevole. Ciò era dovuto in parte al fatto che le superpotenze, geograficamente confinanti all'estremità dell'emisfero settentrionale, fino agli ultimi anni cinquanta non avevano ancora perfezionato i primi sistemi di allarme e le difese antiaeree, necessari per proteggersi dagli attacchi di sorpresa, e, in parte, alla disparità di potenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica. La forza degli eserciti sovietici di stanza in Europa centrale e in Estremo Oriente, e la minaccia che ne derivava per gli alleati degli Stati Uniti in Europa occidentale e sulla costa del Pacifico, spinsero gli Stati Uniti a costruire una flotta poderosa (comprendente quindici portaerei) e una forza aerea da bombardamento superiore di cinque o sei volte a quella sovietica; li indussero, inoltre, a impiantare basi aeree in Europa occidentale, nell'Africa settentrionale, in Medio Oriente e nel Pacifico, e ad accelerare il riarmo degli alleati, compresi il Giappone e la Germania. Così, al timore americano che gli alleati degli Stati Uniti fossero tenuti come ostaggi in pegno della buona condotta statunitense, si aggiunse il timore sovietico dell'accerchiamento e la paura che i vecchi nemici si riarmassero con l'intento di distruggere l'URSS. Di conseguenza, benché lo scopo delle forze armate e degli armamenti fosse identificato ormai in misura crescente nella deterrenza, anziché nella mobilitazione per una terza guerra mondiale, le basi della deterrenza rimanevano fragili, sia per il timore, condiviso da ambedue le potenze, di un attacco strategico di sorpresa (e dopotutto entrambe erano state vittime di un attacco di sorpresa nella seconda guerra mondiale), sia perché i preparativi effettuati da entrambe, pur miranti semplicemente alla deterrenza, potevano essere interpretati come il preludio di un attacco siffatto.
Tuttavia, persino durante la prima decade dell'era nucleare, divenne sempre più chiaro che i danni che una parte poteva infliggere all'altra con una guerra strategica erano assolutamente sproporzionati ai benefici che si poteva sperare di ottenere. È vero che, quando Stalin tentò per la prima volta di esercitare un'energica pressione sull'Occidente con la chiusura delle vie d'accesso al settore occidentale di Berlino (agosto 1948), uno degli elementi che, sei mesi dopo, lo indussero a ritornare sulla decisione fu il trasferimento di forze aeree americane da bombardamento nelle basi inglesi; ma ciò che probabilmente ebbe maggior efficacia fu il successo tattico ottenuto dalle potenze occidentali nell'approvvigionare Berlino occidentale con combustibili e cibo mediante un massiccio ponte aereo nell'inverno del 1948. Così, anche quando nel giugno 1950 la Corea del Nord, con la connivenza o l'incoraggiamento dell'Unione Sovietica, invase la Corea del Sud, e gli Stati Uniti intervennero a difesa del Sud insieme con altri quindici paesi sotto l'egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, si dovette condurre il conflitto quasi esclusivamente con le forze di terra. Dopo l'intervento della Cina nell'ottobre, il presidente Truman fece un velato riferimento alla possibilità di usare le armi nucleari; ma quando nel marzo e nell'aprile 1950 il comandante delle forze delle Nazioni Unite, gen. Douglas MacArthur, auspicò pubblicamente che si passasse alla guerra strategica contro la Cina, il presidente lo sollevò dalla carica per insubordinazione. Come fu osservato dal gen. Bradley, capo degli stati maggiori riuniti, la politica di MacArthur ‟ci avrebbe impegnati nella guerra sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato e contro un nemico sbagliato". I lunghi negoziati per il cessate il fuoco (cui partecipò anche la Cina), che seguirono alla guerra di Corea, ebbero però termine solo quando il presidente Eisenhower fece intendere che gli Stati Uniti, se non si fossero viste prospettive d'accordo, avrebbero potuto effettuare un intervento strategico.
La questione dell'uso del potere strategico come strumento politico - in un'epoca nella quale la sua forza distruttiva era cresciuta in modo vertiginoso - fu illustrata durante la prima presidenza Eisenhower. Il 12 gennaio 1954, l'allora segretario di Stato J. F. Dulles annunciò che da quel momento gli Stati Uniti avrebbero contato assai meno sulla difesa locale e più ‟sulla deterrenza derivante da un massiccio potere di rappresaglia [...], da una grande capacità di effettuare una rappresaglia immediata, secondo modi e tempi di nostra scelta". Ma fu subito chiaro che una simile strategia non aveva ‛credibilità', in quanto avrebbe avuto l'effetto di trasformare ogni conflitto locale in una guerra di annientamento e, in una situazione di conflitto, non avrebbe lasciato alle grandi potenze altra alternativa che la resa o l'olocausto nucleare. La linea politica subì quindi un graduale mutamento. La presidenza Kennedy (1961) spostò immediatamente l'accento delle dichiarazioni pubbliche sulla strategia americana in direzione di una ‛risposta flessibile': a ogni azione di forza contro gli interessi occidentali, sia in Europa che altrove, bisognava cioè rispondere a un livello appropriato, anche quando ciò comportasse l'aumento delle spese militari e l'ampliamento delle forze convenzionali. Questa diversa accentuazione fu palese nel modo di affrontare la seconda crisi di Berlino, seguita alla richiesta di Chruščëv (1958) che l'amministrazione dell'intera Berlino passasse sotto il controllo della Germania Orientale. Da parte delle potenze occidentali non vi furono mai minacce strategiche; vennero invece elaborati complessi piani atti a controbattere le diverse possibili iniziative sovietiche, mentre sul piano diplomatico s'intensificava la trattativa con l'Unione Sovietica. Per esprimere la determinazione degli occidentali, nell'agosto 1961 il presidente Kennedy rafforzò la guarnigione americana a Berlino. A partire dal XX congresso del Partito nel 1956, anche l'Unione Sovietica prese atto implicitamente dell'assurdità di una guerra strategica, asserendo la non-inevitabilità della guerra tra il sistema capitalista e il sistema socialista.
La stabilizzazione dell'equilibrio strategico fu dovuta in parte a un mutamento nel modo di valutare la situazione e in parte anche ai progressi tecnologici. Nel 1957 l'Unione Sovietica mise in orbita un satellite, dimostrando così la propria capacità nella progettazione dei missili balistici. All'inizio una seria preoccupazione scosse gli occidentali per la possibilità che l'Unione Sovietica acquisisse la supremazia nella costruzione delle armi strategiche. Nei primi anni sessanta, divenne tuttavia chiaro che gli Stati Uniti non solo erano altrettanto progrediti nella progettazione e nella produzione di missili a lunga gittata, ma avevano di fatto la supremazia.
Anche più importante del numero dei missili fu la messa a punto di combustibili solidi per i missili balistici, cosicché fu possibile custodirli in silos sotterranei o tenerli sott'acqua in speciali sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare, equipaggiati per navigare a lungo in immersione. Verso la metà degli anni sessanta l'Unione Sovietica seguì l'esempio degli Stati Uniti.
La relativa invulnerabilità di questi missili sotterranei o sottomarini rese possibili quelle che furono chiamate le ‛strategie del secondo colpo', fondate su quelle forze nucleari che, potendo sfuggire a un attacco nucleare, potevano perciò essere progettate soltanto per la rappresaglia, col risultato che la paura di una sorpresa strategica fu in gran parte superata.
Tuttavia, prima che questa condizione di reciproca vulnerabilità fosse pienamente riconosciuta da ambedue le parti, una grave crisi sopravvenne nelle relazioni strategiche tra le superpotenze. Tra l'estate e l'autunno del 1962, il governo sovietico, temendo la propria crescente inferiorità in fatto di forze missilistiche, decise di sfruttare le proprie strette relazioni con il regime cubano, nato dal rovesciamento del regime di Batista a opera di Fidel Castro, per installare a Cuba missili di media gittata in grado di colpire numerose città e basi americane. Il 22 ottobre 1962 il presidente Kennedy avvertì pubblicamente il primo ministro Chruščëv, che un attacco missilistico contro uno qualsiasi degli Stati dell'emisfero occidentale avrebbe suscitato ‟una pronta azione di rappresaglia contro l'Unione Sovietica"; annunciò inoltre il blocco di Cuba e si riservò il diritto di attaccare le basi missilistiche cubane, se queste non fossero state smantellate. Per sei giorni il rischio di una guerra strategica fu grave, avendo Chruščëv inizialmente respinto tutte le richieste americane per la rimozione dei missili da Cuba. Il 26 ottobre la situazione sembrava costringere gli Stati Uniti a porre in atto la minaccia di distruggere le basi; ma il 27 un funzionario sovietico a Washington lasciò intendere che l'Unione Sovietica avrebbe ritirato i missili contro l'assicurazione americana di non attaccare Cuba. Il 28 Chruščëv affermò che, nella prospettiva di un impegno degli Stati Uniti a non attaccare Cuba, ‟le armi considerate offensive" sarebbero state ritirate.
Negli anni seguenti non vi sono stati confronti strategici diretti di questa gravità tra le grandi potenze. Meno di un anno dopo la crisi dei missili a Cuba, il presidente Kennedy, in un discorso tenuto all'American University il 10 giugno 1963, esortò i suoi compatrioti ‟a disfarsi di una visione distorta e interamente negativa dell'Unione Sovietica, a non considerare il conflitto inevitabile, l'accordo impossibile e le comunicazioni reciproche come nient'altro che uno scambio di minacce". Tre settimane più tardi il primo ministro Chruščëv rispose dicendo che solo un pazzo poteva sperare di distruggere il capitalismo con una guerra nucleare: ‟per ogni capitalista eliminato, verrebbero eliminati un milione di lavoratori".
Nelle relazioni strategiche divenne quindi predominante quello che R. Aron ha chiamato ‟l'equilibrio della prudenza". È caratteristico della maggiore stabilità sopravvenuta nelle relazioni tra le grandi potenze il fatto che, quando alla fine degli anni sessanta l'Unione Sovietica - contrariamente alle aspettative americane - raggiunse e infine superò i livelli statunitensi in materia di forze missilistiche, negli Stati Uniti non si verificasse una nuova corsa al riarmo, ma s'intensificassero invece gli sforzi miranti a un accordo per la limitazione delle armi strategiche. Nel giugno 1973 il presidente Nixon e Breznev firmarono un accordo, impegnandosi ‟a effettuare consultazioni immediate e a fare ogni sforzo per allontanare il rischio di una guerra nucleare", ogni volta che un simile rischio sembrasse emergere dalle relazioni non solo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma tra due paesi quali che fossero.
Nondimeno, le difficoltà di mantenere la stabilità dell'equilibrio strategico rimanevano assai serie, sia a causa di una diversità di opinioni circa i livelli di armamento necessari per la deterrenza, sia a causa delle innovazioni tecnologiche. Lo sforzo continuo di ricerca ha infatti condotto ai missili a testata multipla come anche a un netto miglioramento nella precisione dei missili: fattori che possono mettere a repentaglio la stabilità delle ‛strategie del secondo colpo' (v. armamenti).
Questa crescente coincidenza d'interessi nell'evitare la guerra strategica non significa che la minaccia della forza o dell'uso indiretto della forza come mezzo di persuasione nelle relazioni tra le grandi potenze sia scomparsa. Per un verso, infatti, negli anni successivi alla crisi di Cuba, l'Unione Sovietica ha creato una forza navale moderna ed efficiente, operante nel Baltico, nel Pacifico e nel Mar Nero; una squadra è in servizio permanente nel Mediterraneo e distaccamenti navigavano al largo nell'Oceano Indiano e nell'Atlantico meridionale. Evidentemente, la flotta russa svolge, in parte, una funzione classica della potenza navale, quella cioè di estendere l'influenza diplomatica; essa serve, però, anche a bloccare eventuali interventi americani, quali ad esempio un possibile intervento a salvaguardia delle risorse petrolifere in Medio Oriente. Per un altro verso, il costante peggioramento delle relazioni russo-cinesi a partire dal 1956 fu contrassegnato, soprattutto dopo il 1969, da un crescente spiegamento di forze sulle 4.500 miglia del confine tra la Cina e l'Unione Sovietica. Nel 1969 vi furono scontri sull'Ussuri, che segna parte del confine orientale; attualmente, l'Unione Sovietica mantiene sul confine circa 45 divisioni, mentre la Cina, via via che il timore di un'aggressione americana ha ceduto il posto ai timori relativi al confine con l'Unione Sovietica, ha spostato gran parte dell'Esercito Popolare di Liberazione dalla costa o dal confine meridionale. Il risultato di queste misure è stato, forse, quello di elidersi reciprocamente sul piano politico, nonostante che la Cina abbia manifestamente temuto una qualche forma d'intervento militare sovietico o contro il proprio territorio o contro le installazioni nucleari del Sinkiang. Comunque, un simile livello di armamento ai confini alimenta inevitabilmente l'ostilità politica.
b) La guerra limitata
Durante la guerra di Corea, gli Stati Uniti furono dissuasi dal ricorso alle armi nucleari e ai bombardamenti strategici in parte dalla pressione dell'opinione pubblica mondiale, e in parte dal timore di un allargamento del conflitto prima alla Cina e successivamente all'Unione Sovietica. Questa esperienza, insieme con le debolezze della strategia della rappresaglia massiccia, spinse i dirigenti e gli studiosi occidentali a considerare con quali mezzi si potesse contenere un conflitto, nel caso fallisse la deterrenza nucleare e si verificasse uno scontro tra le potenze comuniste e quelle occidentali. Numerosi autori si diedero quindi a riconsiderare la storia dei conflitti nel XVIII e nel XIX secolo, accorgendosi così che il motivo per cui in passato non si raggiungeva lo stadio della guerra totale andava solo in parte attribuito alla minor forza distruttiva delle armi disponibili; in grado maggiore esso era dovuto all'esplicita limitatezza degli obiettivi per i quali si combatteva. Si formò allora la convinzione che, se mai si arrivasse a uno scontro tra le grandi potenze, sarebbe indispensabile - pena lo sfociare del conflitto nella guerra strategica - imporre severe restrizioni riguardanti sia il tipo di forze da impiegare, sia la durata del conflitto, sia gli obiettivi dichiarati dei belligeranti. Il fatto che né le potenze dell'Asse né le potenze alleate abbiano usato i gas nella seconda guerra mondiale fu portato ad esempio della capacità dei belligeranti d'imporsi dei limiti anche in una guerra sotto ogni altro aspetto totale.
Fu in parte per essere in grado di combattere, senza esporsi al rischio di una sconfitta immediata, una simile guerra limitata che, sotto la pressione americana, i paesi della NATO furono spinti tra il 1961 e il 1966 a migliorare il loro potenziale militare non nucleare. Per molti anni l'Unione Sovietica si rifiutò di ammettere la possibilità d'imporre limitazioni nel caso di un conflitto tra le grandi potenze. Ma, nella seconda edizione del primo libro di teoria strategica sovietica pubblicato dopo gli anni venti (Military strategy: sovietic doctrine and concepts, a cura del Maresciallo Sokolovskij, New York-London 1963 e 1965), si riconosceva che persino in Europa potevano verificarsi episodi bellici nei quali ambedue le parti avrebbero rispettato certe restrizioni.
Il libro di H. Kissinger, Nuclear weapons and foreign policy (New York 1957), conteneva uno dei primi tentativi di discutere la possibilità di una guerra limitata persino nel caso dell'impiego, per controbilanciare l'inferiorità di armamenti della NATO, di armi nucleari tattiche a breve raggio. L'opinione prevalente in Occidente, però, tendeva piuttosto a concordare con il giudizio di T.C. Schelling, secondo il quale la distinzione tra armi convenzionali e armi nucleari è una delle rare distinzioni ‛naturali' che i belligeranti osserverebbero e sulla quale passerebbero sopra solo con molta riluttanza (v. Schelling, 1960).
Paradossalmente, è proprio l'esistenza di armi strategiche con un raggio d'azione amplissimo e di enorme potere distruttivo ad alimentare la speranza che, se dovesse scoppiare tra le grandi potenze una guerra, rimarrebbe una guerra limitata. In misura sempre maggiore si è guardato alla deterrenza come a un ventaglio i cui estremi sono rappresentati rispettivamente dal fante o dal ricognitore navale e dall'ICBM con una testata di parecchi megaton. La connessione tra i due estremi è stretta; e forse ciò spiega perché negli ultimi trent'anni nessun soldato sovietico si è scontrato con un soldato americano, benché le superpotenze siano rimaste invischiate in conflitti locali, talvolta in modo tanto serio che questi ultimi sono quasi diventati dei surrogati di una guerra tra le grandi potenze.
c) Le guerre locali
Non si tratta, ovviamente, di un fenomeno nuovo o tipico dell'epoca post-bellica. Nell'Ottocento vi furono numerosi conflitti tra gli Stati sudamericani che non coinvolsero le grandi potenze; tra il 1928 e il 1935 vi fu un sanguinoso conflitto tra la Bolivia e il Paraguay - la guerra del Chaco - nel corso del quale rimasero uccisi 130.000 soldati. Il processo di decolonizzazione ha fatto sorgere parecchi nuovi Stati e alcuni di essi hanno fatto propri i conflitti dei loro vecchi dominatori imperiali (è il caso delle controversie di confine tra India e Cina); o, in altre situazioni, la conquista dell'indipendenza ha rinfocolato vecchie animosità, per l'innanzi tenute sotto controllo dalle potenze coloniali; altri sono stati coinvolti in conflitti a causa dei loro rapporti con una grande potenza. Di conseguenza, mentre gli anni tra le due guerre hanno visto soltanto un limitato numero di guerre locali, dopo la seconda guerra mondiale vi sono state ben dodici guerre locali importanti.
Tre aree, in particolare, sono state il teatro di queste guerre. La prima è il Medio Oriente, dove la nascita dello Stato d'Israele, dopo il ritiro della Gran Bretagna dalla Palestina nel 1948, suscitò la violenta ostilità degli Arabi. Israele fu attaccato da tutti i paesi arabi vicini (la Siria, l'Egitto, il Libano, la Giordania, l'‛Irāq) tra la metà del 1948 e l'inizio del 1949; il risultato fu una grave alterazione dei confini originari fissati dalle Nazioni Unite, con la conseguente formazione di una massa di profughi palestinesi arabi. Nel 1956, con la connivenza della Francia e con l'acquiescenza della Gran Bretagna, Israele attaccò l'Egitto per conquistare il Sinai sfruttando l'ostilità occidentale verso l'Egitto, dovuta alla nazionalizzazione del canale di Suez. Nei successivi undici anni, si riuscì a mantenere la pace, anche grazie alla presenza delle forze di emergenza delle Nazioni Unite nel Sinai e nella striscia di Gaza. Ma nel giugno 1967 Israele, in seguito alle provocazioni siriane e giordane e all'espulsione delle forze delle Nazioni Unite dall'Egitto, attaccò tutti i suoi vicini arabi, a eccezione del Libano, e in cinque giorni distrusse l'aviazione egiziana, invase il Sinai e la riva occidentale del Giordano, e strappò le alture di Golan alla Siria. Nell'ottobre 1973 la Siria e l'Egitto attaccarono Israele, e con una battaglia sanguinosa durata venti giorni le forze egiziane riuscirono ad avanzare nel Sinai, mentre le forze israeliane passavano il canale in massa. Sotto il controllo delle Nazioni Unite si arrivò a una nuova linea di armistizio nel Sinai, e in modo analogo fu rivista la linea di confine sulle alture del Golan.
Un aspetto degno di nota del conflitto tra Arabi e Israeliani è che gli avversari sono andati via via accentuando la loro dipendenza dalle superpotenze. Nei primi dieci anni del dopoguerra, i paesi della regione si rivolgevano, per il rifornimento di armi, alla Gran Bretagna o alla Francia, cioè alle potenze ex coloniali. Israele intratteneva rapporti militari particolarmente stretti con la Francia, benché gli Stati Uniti fossero anch'essi profondamente interessati al futuro d'Israele. Poi l'Egitto concluse, nel 1955, un accordo importante per la fornitura di armi prima con la Cecoslovacchia e poi con l'Unione Sovietica; all'inizio degli anni sessanta, le forze israeliane erano ormai equipaggiate dagli Stati Uniti. Di conseguenza, sia la guerra del 1967 che la guerra del 1973 furono dei duelli tra l'aviazione, i carri armati e l'artiglieria di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Va osservato, inoltre, il fatto terribile che lo Stato d'Israele e gli Stati vicini spendono per gli armamenti e per l'esercito una percentuale del reddito nazionale più alta di quella di qualsiasi altro gruppo di Stati. La percentuale del reddito nazionale spesa in media per la difesa dagli Stati Europei del Patto di Varsavia o della NATO si aggira attorno al 3,5%. L'Egitto e Israele hanno speso, invece, circa il 20% nel 1970, percentuale salita nel 1973 per l'Egitto a più del 30% e per Israele a oltre il 40%; non solo, ma la media della regione nel suo complesso è assai superiore a quella di altre zone del mondo (v. International Institute for Strategic Studies, 1975).
Una seconda area di guerre locali è stata il subcontinente indiano. Il ritiro degli Inglesi dall'India nel 1947 portò alla luce un insanabile conflitto politico tra la comunità musulmana e la comunità indù, che provocò non solo carneficine reciproche ma impose la costituzione di uno Stato pakistano geograficamente diviso, con giurisdizione sia sulle aree nordoccidentali che sulle aree nordorientali di quello che era stato l'Impero indiano. India e Pakistan entrarono quasi subito in conflitto per il Kashmir, un territorio che il sovrano indù aveva consegnato all'India, ma la cui popolazione era musulmana. Questo conflitto tra unità regolari indiane e unità sia regolari sia non regolari del Pakistan durò dall'ottobre 1947 alla fine del 1948, quando il cessate il fuoco fu negoziato tramite le Nazioni Unite. La diffidenza dell'India verso il Pakistan si accentuò quando quest'ultimo divenne formalmente alleato degli Stati Uniti nel 1954. Nell'aprile del 1965, i due Stati si scontrarono di nuovo in un conflitto armato di breve durata per il Rann di Cutch, composto con la mediazione britannica; negli ultimi quattro mesi del 1965, nuovamente per il Kashmir, fu combattuto un altro e più grave conflitto, terminato grazie alla mediazione sovietica.
Nel 1961, poi, le forze armate indiane invasero la piccola colonia portoghese di Goa, che fu annessa all'India.
Ma nei dieci anni circa, durante i quali andò acquistando la piena indipendenza nazionale, l'India ebbe anche un altro avversario: la Cina. Quasi subito dopo la fine della guerra civile in Cina, cioè nell'ottobre 1949, la Cina invase il Tibet, che storicamente era stato considerato sia dai Cinesi che dagli Inglesi come uno Stato cuscinetto, e insediò al potere un governo militare comunista. Il Tibet fu poi a ogni effetto pratico annesso alla Cina quando, nel 1959, la massima autorità religiosa del paese, il Dalài-lama, fuggì in India. Il risultato era che l'India e la Cina avevano, ora, un lungo tratto di frontiera comune sull'Himalaya. Benché l'India avesse manifestato il proprio appoggio ai comunisti cinesi durante la guerra civile e avesse operato come intermediario tra la Cina e le potenze occidentali nella guerra di Corea, e benché i due governi si fossero trovati d'accordo nel 1955 su alcuni principî di coesistenza, la Cina non era disposta ad accettare il tracciato indiano (originariamente britannico) della frontiera settentrionale. Ne seguirono, nel 1959, incursioni cinesi nell'area di confine oggetto della contesa e, nel dicembre 1962, un attacco cinese su vasta scala al confine indiano nell'Himalaya nordorientale.
Da allora, la diffidenza reciproca tra Cina e India è sempre stata forte, con la conseguenza d'indurre la Cina, dalla metà degli anni sessanta in poi, a dare aiuti militari e appoggio diplomatico al Pakistan. Nel frattempo l'India si è rivolta sempre più, per armamenti e appoggio, all'Unione Sovietica, con la quale ha concluso nel 1971 un trattato formale di amicizia e di cooperazione. Nel marzo 1971 nel Pakistan orientale è scoppiata una rivolta contro il governo centrale di Islamabad. Il governo del Pakistan ha cercato senza successo di schiacciarla con la forza mentre, nel dicembre 1971, l'India riconosceva il nuovo stato del Bangla Desh invadendone in forza il territorio con l'incoraggiamento sovietico. Le guerre locali nel subcontinente indiano, quindi, sono motivate in parte da animosità e problemi locali, ma sono anche condizionate dalla rivalità tra le grandi potenze.
La terza area di guerre locali endemiche è stata il Sud-Est asiatico; qui, tuttavia, è più difficile distinguere le varie componenti in gioco, essendosi determinato un intreccio di guerra civile, guerra rivoluzionaria, guerra tra Stati e interventi di grandi potenze. Da un lato, si è mantenuto in Indocina uno stato di conflitto endemico da quando, con il ritiro degli occupanti giapponesi nel 1945, la regione precipitò in uno stato di caos politico, nonostante il ripristino della dominazione coloniale francese. Quella che in origine era una guerra civile tra gli Annamiti e i loro vicini prese il carattere di una guerra tra Stati dopo l'avvenuto riconoscimento, da parte delle grandi potenze, della sovranità del Vietnam nel 1954; con la differenza, però, che ora gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sostenevano il regime del Sud con capitale Saigon, mentre le potenze comuniste avevano riconosciuto il regime di Hanoi al Nord (con il confine al diciassettesimo parallelo). Dopo un certo numero di anni, Hanoi cominciò a condurre una guerra sia aperta che clandestina contro il regime di Saigon, appoggiando inoltre il consistente movimento di opposizione esistente in Laos,; del quale attraversò apertamente le frontiere. Le operazioni della guerra contro il Sud negli anni sessanta comportarono anche la violazione del territorio cambogiano, la quale ebbe come conseguenza un colpo di Stato in Cambogia nel 1970 e quindi la guerra civile. Il Vietnam del Nord (Hanoi) è stato in conflitto anche con la Thailandia da quando gli Americani, intervenendo nel 1963-1964, hanno fatto ricorso a basi situate in quel paese.
L'altra guerra locale di rilievo che ha avuto quest'area come teatro è stata quella tra Indonesia e Malaysia, sostenuta quest'ultima da forze britanniche, australiane e neozelandesi dal 1963 al 1966.
Vi sono state anche altre importanti guerre locali come quella tra l'Algeria e il Marocco (1963) o quella tra l'Etiopia e i suoi vicini: la Somalia e il Sudan. Se si considera in che modo arbitrario furono tracciati i confini fra i vari territori degli imperi coloniali europei, spezzando cioè unità etniche originarie, sarà assai improbabile ancora per molti anni che guerre di questo tipo possano essere eliminate o tenute sotto controllo.
d) Le guerre civili
La guerra civile è un fenomeno antico, che ha inciso profondamente sullo sviluppo storico e sulle istituzioni dei paesi che l'hanno conosciuta. Si pensi alle guerre civili che in Francia hanno segnato la fine dei Valois e l'ascesa dei Borboni (sec. XVI), alla guerra civile inglese (sec. XVII), alla guerra civile americana o alla guerra civile che i bolscevichi furono costretti a combattere tra il 1919 e il 1921 prima di poter stabilire la propria autorità su tutta la Russia. Ma una delle guerre civili più significative di ogni tempo ha raggiunto il suo culmine nel periodo post-bellico: è la guerra civile in Cina. Il Partito comunista cinese era stato all'opposizione in Cina a partire dal 1920, ma la sua autorità, per quasi tutto il periodo tra le due guerre, rimase limitata alla lontana provincia dello Yenan, senza solidi appoggi all'esterno. Furono l'improvvisa fine dell'occupazione giapponese di vaste zone della Cina e l'esaurimento del regime del Kuo Min Tang, che resero possibile ai comunisti la creazione di forze combattenti organizzate, col risultato di scatenare una guerra civile rovinosissima. Nel corso di una serie di battaglie, combattute prima nella Cina settentrionale e poi sempre più a sud, scesero in campo, da una parte e dall'altra, eserciti dell'ordine di un milione e seicentomila uomini, che usavano materiale bellico giapponese, americano e, in parte, russo. La guerra terminò nel 1949, quando il governo del Kuo Min Tang si ritirò a Formosa con i resti delle sue forze.
Una guerra civile contemporanea a quella cinese, nella quale l'equilibrio delle forze tra il governo e i ribelli volse a favore del primo, fu la guerra civile greca del 1946-1949. Sempre nello stesso periodo, un'altra guerra civile fu quella, sanguinosissima, combattuta in Colombia tra il 1948 e il 1953 (200.000 morti). In Laos, come già abbiamo accennato, la guerra civile si è mantenuta allo stato endemico per tutti gli ultimi venticinque anni, come conseguenza dell'intervento straniero.
Le guerre civili hanno anche costituito un aspetto del processo di decolonizzazione nei casi in cui una minoranza all'interno dei confini di un nuovo Stato è rimasta una minoranza secessionista; così, ad esempio, la provincia del Katanga tra il 1960 e il 1964 ha cercato di staccarsi dal Congo; e nell'‛Irāq i nazionalisti curdi, con l'incoraggiamento dell'Iran, sono stati in rivolta dal 1961 al 1967, poi dal 1972 fino a oggi. Una guerra civile che è il prodotto di rivalità locali piuttosto che di rivalità tra le grandi potenze è quella sviluppatasi tra il 1962 e il 1968 nello Yemen, dove i realisti erano sostenuti dall'Arabia Saudita e i repubblicani dall'Egitto. Nell'ottobre del 1965 scoppiò e si protrasse per quattro mesi una guerra civile in Indonesia; ma in questi casi si può piuttosto parlare di un eccidio di massa (furono uccise circa mezzo milione di persone), che condusse all'eliminazione del Partito comunista indonesiano.
Infine, gli ultimi anni sessanta videro una guerra civile che suscitò vasta eco sul piano internazionale, in quanto ebbe come teatro un paese grande e ricco di risorse potenziali, la Nigeria. Tra il 1967 e il 1970 la regione orientale del paese, avendo tentato di rendersi autonoma col nome di Biafra, venne invasa dalle forze federali. L'esperienza postbellica suggerisce che, con l'eccezione del Sud-Est asiatico, le grandi potenze sin dagli anni cinquanta sono state poco propense a lasciarsi coinvolgere in guerre civili; nella guerra civile nigeriana, ad esempio, gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e la Gran Bretagna hanno sostenuto il governo federale, mentre il governo del Biafra ha ricevuto soltanto un velato appoggio francese.
e) Le guerre rivoluzionarie
Molto si è scritto, sul piano delle previsioni o su quello dell'analisi, sulle guerre rivoluzionarie moderne. Per un certo periodo queste guerre sono state considerate, soprattutto dagli scrittori francesi e americani, come un mezzo usato dall'Unione Sovietica e dalla Cina - una volta svanita, dati i rischi della guerra nucleare, la possibilità di una sfida diretta all'Occidente - per insidiare gli interessi occidentali mediante una strategia indiretta di logoramento. Le guerre rivoluzionarie sono state quindi descritte dal generale A. Beaufre (v., 1965, p. 127) come ‟la guerra totale suonata in chiave minore". Molte dichiarazioni sovietiche e cinesi sembrano confermare questa valutazione; nel gennaio 1961 Chruščëv, ad esempio, parlò in termini molto netti dell'appoggio sovietico alle ‛guerre di liberazione nazionale', e nel 1965 Lin Piao - che più tardi cadde in disgrazia, ma che era allora una figura di rilievo della gerarchia cinese - sottolineò il significato globale della teoria di Mao Tse-tung sulla formazione di basi militari rurali e sul graduale accerchiamento delle città partendo dalla campagna. ‟Considerando l'intero globo, - egli disse - se l'America del Nord e l'Europa occidentale possono essere chiamate le ‛città del mondo', allora l'Asia, l'Africa e l'America Latina sono le ‛aree rurali del mondo'".
Ma, in pratica, la capacità delle potenze comuniste di seguire una simile linea strategica si è dimostrata finora assai più ridotta di quanto non si potesse prevedere. È vero che in diverse guerre civili o conflitti insurrezionali esse hanno aiutato l'una o l'altra parte con armi e altri approvvigionamenti. È vero, altresì, che il successo dei comunisti cinesi nella guerra civile - successo basato sulla teoria maoista dell'importanza di una solida base rurale a partire dalla quale conquistare gradualmente l'appoggio delle masse, dell'importanza di quadri altamente disciplinati e del ruolo essenziale della direzione politica - ha influito su molti movimenti insurrezionali nel decennio successivo. Ciò nondimeno sono state relativamente poche, nel dopoguerra, le guerre che possono dirsi ‛rivoluzionarie', mosse cioè da un ideale e da una teoria paragonabili a quelli che avevano animato la Rivoluzione francese e il conflitto tra la Francia e le potenze europee dopo il 1793.
Ovviamente, rientra in questa categoria la guerra civile cinese e così anche la lunga lotta del Vietnam del Nord con i suoi vicini e con gli Stati Uniti. La vittoriosa guerra dell'Algeria per l'indipendenza dalla Francia (1954-1962) può essere considerata una guerra rivoluzionaria anziché semplicemente un'insurrezione, in quanto subì l'influsso dell'esperienza cinese e fu condotta in nome di un ideale socialista. Nelle sue ultime fasi, ha avuto un simile carattere rivoluzionario anche la guerra mirante al rovesciamento del regime di Batista a Cuba (1956-1959). Vi sono stati movimenti rivoluzionari - i tupamaros in America Latina o i Naxaliti in India, ad esempio - la cui attività è stata contenuta o soffocata. In generale, le guerre rivoluzionarie non hanno avuto quella diffusione che ci si poteva attendere dopo il successo della rivoluzione cinese e lo sfaldamento degli imperi coloniali europei.
f) Le guerre insurrezionali
La guerra insurrezionale va distinta dalla guerra rivoluzionana: principale obiettivo della prima è infatti la liberazione dal giogo di una potenza straniera anziché l'imposizione di un diverso regime politico o sociale. Le guerre insurrezionali hanno assunto tre diverse forme. In primo luogo c'è naturalmente la guerra contro le potenze coloniali, il cui esordio ha luogo con l'insurrezione dei nazionalisti israeliani contro il dominio inglese in Palestina (1945-1948) e con l'insurrezione dei nazionalisti indonesiani contro il dominio olandese (1945-1949). Insurrezioni simili si sono verificate in Madagascar (1947) e in Marocco (1952-1956) contro il dominio francese; in Malaysia (1948-1960); a Cipro (1952-1959); in Kenya (1952-1957); ad Aden (1963-1967) contro il dominio britannico; in Angola contro il dominio portoghese (1960-1974); in Guinea (sporadicamente a partire dal 1963); in Mozambico (1961-1974). Una seconda forma di guerra insurrezionale è stata quella contro i governi di Stati sovrani del mondo in via di sviluppo: la rivolta degli Hubulahup nelle Filippine (1948-1954); l'insurrezione di Karen e Shan in Birmania (1948-1954); l'insurrezione dei Nuga in India (1955-1962, 1969-1974); le insurrezioni in Venezuela (1958-1966) e in Guatemala (a partire dal 1964). Il terzo tipo di conflitti insurrezionali si è verificato all'interno del mondo comunista e comprende la rivolta del 1953 in Germania Orientale e l'insurrezione ungherese del 1956, ambedue soffocate in breve tempo dalle forze sovietiche.
Il fatto che, mentre nei primi quarant'anni del secolo vi furono - a cominciare dalla guerra boera - circa venti conflitti di tipo insurrezionale e nei successivi venticinque anni ve ne furono circa trentacinque, è certamente un indice della violenza insita nella situazione politica mondiale a seguito dei cambiamenti intervenuti dopo il 1945.
g) I colpi di stato
Un'altra forma di violenza esercitata a scopi politici è quella associata ai mutamenti di governo imposti con la forza. Il colpo di stato si differenzia dalla guerra civile, dalla guerra rivoluzionaria e dalla guerra insurrezionale essenzialmente perché è un conflitto tra due gruppi della stessa classe dominante. Accade spesso che sia effettuato con scarso o nullo spargimento di sangue; nel dopoguerra la diffusione delle comunicazioni e la democratizzazione della prassi di governo hanno ampliato le ripercussioni di siffatti mutamenti operati con la forza. Il colpo di stato ha una lunga storia nella vita politica dell'America Latina; ma è divenuto sempre di più un fatto tipico dei regimi politici in Medio Oriente, in Africa e in Asia. Neppure l'Europa è andata immune da colpi di stato: il ritorno al potere del generale de Gaulle (1958), la conquista del potere in Grecia da parte di una giunta militare (1967) e il collasso del regime salazariano in Portogallo (1974) costituiscono altrettanti esempi di mutamenti accompagnati dalla minaccia della forza.
h) L'intervento
Molti conflitti del dopoguerra, di qualsiasi tipo - come anche in realtà molti conflitti dello scorso secolo e dell'inizio di questo - sono stati influenzati, prolungati o soffocati dall'intervento di potenze straniere. Vanno distinti tre tipi d'intervento: quello internazionale, quello delle grandi potenze, e quello locale; per i nostri scopi di classificazione della guerra contemporanea lasciamo da parte l'intervento meramente diplomatico o l'intervento determinato da una pressione dell'opinione pubblica mondiale, quale può esprimersi, ad esempio, in una risoluzione delle Nazioni Unite.
L'esempio più limpido d'intervento militare internazionale è dato dalla guerra di Corea (1950-1951). Quando il 25 giugno 1950 la Corea del Nord attaccò la Corea del Sud, gli Stati Uniti decisero d'intervenire immediatamente; ma dopo pochi giorni ottennero il benestare del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la guerra di Corea fu combattuta, di fatto, sotto mandato delle Nazioni Unite con la partecipazione delle forze di sedici nazioni e con gli aiuti di circa quaranta paesi. Abbiamo già ricordato il ruolo svolto dalle Nazioni Unite nel ridurre i rischi di una ripresa delle ostilità tra Israele e i suoi vicini con la formazione e il mantenimento di forze militari internazionali. Un nutrito corpo delle Nazioni Unite dovette essere organizzato per ristabilire l'ordine in Congo dopo il crollo dell'amministrazione civile del paese tra il 1960 e il maggio 1964. Si è anche dato il caso d'interventi attuati sotto gli auspici di organizzazioni regionali: sotto l'egida dell'Organizzazione degli Stati Americani, gli Stati Uniti, nel 1955, fornirono aerei alla Repubblica di Costarica nel conflitto con il Nicaragua, e nel 1965 una forza di pace interamericana pose termine ai disordini civili nella Repubblica Dominicana, dove, tuttavia, il primo intervento era stato effettuato dagli Stati Uniti in prima persona. Nel 1963 si ebbe un intervento dell'Organizzazione dell'Unità Africana per porre termine agli scontri di confine tra l'Algeria e il Marocco.
Una forma drammatica d'intervento si ha quando entrano in gioco le grandi potenze. La Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi intervennero in Grecia nell'immediato dopoguerra, fornendo aiuti al governo greco per soffocare l'insurrezione. Gli Stati Uniti tentarono senza successo di sostenere l'esercito del Kuo Min Tang nei primi due anni della guerra civile in Cina. Pur appoggiando le mire d'Israele, la Gran Bretagna e la Francia intervennero unilateralmente nel 1956, occupando la zona del Canale di Suez, per prevenire un conflitto tra Israele e l'Egitto per Suez; in quel caso l'ingerenza della Sesta Flotta Americana nel Mediterraneo rappresentò una forma d'intervento contro le loro vie di rifornimento. Nel 1958, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna intervennero in forze a favore dei governi libanese e giordano. Truppe britanniche intervennero in sostegno dei governi del Kenya, dell'Uganda e del Tanganica quando si presentò, nel 1964, la minaccia di rivolte militari.
Gli Stati Uniti, per i quali l'America Latina rientra nella propria sfera d'influenza, intervennero in Guatemala nel 1954 con rifornimenti clandestini di armi per assicurare il rovesciamento del regime di Arbenz, e una seconda volta contro Cuba, nel 1961, con un corpo di esuli cubani nella fallita invasione della Baia dei Porci. L'Unione Sovietica, che dal 1945 aveva una visione analoga dell'Europa orientale, schiacciò la rivolta del 1953 in Germania Orientale e intervenne con la forza nell'insurrezione ungherese del 1956 e ancora nel 1968 in Cecoslovacchia.
Ma l'intervento di gran lunga più lungo e più massiccio della storia contemporanea è stato quello degli Stati Uniti in appoggio al Vietnam del Sud. Questo intervento, iniziato con aiuti diplomatici, tecnici ed economici tra il 1954 e il 1961, continuato tra il 1961 e il 1964 con l'invio di consiglieri militari e con crescenti forniture di armi, raggiunse il culmine tra il 1965 e il 1968 con l'impiego di forze terrestri, aeree e navali (mezzo milione di uomini), forze poi gradualmente ritirate tra il 1970 e l'inizio del 1973. Dopo il 1970, l'aviazione venne usata non solo contro obiettivi nel Vietnam del Nord, ma anche in Cambogia.
Tra le guerre che hanno visto interventi di potenze minori ricordiamo la guerra civile nello Yemen (v. sopra, cap. 4, È d), nel corso della quale l'Arabia Saudita e l'Egitto intervennero schierandosi da parti opposte; la crisi di Cipro del 1963-1964, che vide intervenire la Grecia e la Turchia in appoggio rispettivamente alle comunità greca e turca dell'isola, e l'invasione di Cipro da parte della Turchia nel 1974.
i) Il terrorismo e la guerriglia
A rigor di termini, la guerriglia è solo una tecnica, caratterizzata dallo sfruttamento della conoscenza del terreno da parte di forze irregolari del luogo o di popolazioni indigene al fine di ostacolare con attacchi continui, e quindi sconfiggere, eserciti stranieri, o comunque forze militari meglio organizzate. Nel corso della storia è stata impiegata tanto nelle grandi che nelle piccole guerre (si pensi alla lotta degli Spagnoli contro Napoleone e alla lotta dei partigiani iugoslavi contro Hitler).
La tattica della guerriglia è stata usata in molte delle insurrezioni e guerre rivoluzionarie già menzionate. Ma il raggio d'azione e l'efficacia della guerriglia si sono accresciuti come conseguenza della crescente vulnerabilità degli Stati industrializzati, delle grandi città, dei mezzi internazionali di comunicazione (come ad esempio le linee aeree): vulnerabilità dovuta a sua volta alla relativa facilità con cui si diffondono le tecniche per la preparazione di ordigni esplosivi. In realtà, attività un tempo considerate essenzialmente come attività criminali si sono trasformate in una forma di guerra, e cioè di violenza a scopo di persuasione politica.
Il terrorismo, cioè il ricorso sistematico all'assassinio individuale e alla strage nelle città o nei villaggi allo scopo di minare la risolutezza di un governo o modificarne la politica, ebbe vasto sviluppo nei movimenti di resistenza all'occupazione tedesca nell'Europa continentale durante la seconda guerra mondiale. Il terrorismo ha caratterizzato molti movimenti insurrezionali, in particolare la rivolta degli Huk nelle Filippine e la rivolta del Kenya. Fu lo strumento principe impiegato dal Vietnam del Nord contro il Vietnam del Sud prima dell'escalation americana nel conflitto. Attualmente si danno due casi di ricorso al terrorismo: il primo è costituito dall'attività svolta nell'ultimo decennio da gruppi di esuli palestinesi contro Israele e contro i cittadini israeliani residenti all'estero; il secondo dalle attività terroristiche dell'esercito repubblicano irlandese nell'Irlanda del Nord e nella stessa Gran Bretagna; lo scopo è, in primo luogo, quello d'imporre il ritiro dell'esercito e del dominio britannici dall'Irlanda del Nord e quindi di realizzare l'unificazione dell'Irlanda. L'IRA è sostenuta dagli Americani con donazioni private e dalla Libia con rifornimenti di armi. La vulnerabilità delle popolazioni urbane ha dato al terrorismo, così com'è praticato dall'IRA, i caratteri di una ‛guerriglia urbana'.
5. Il controllo della guerra
Con la sempre maggiore capacità distruttiva raggiunta dalla guerra nel corso degli ultimi due secoli, il tema dell'eliminazione - o del controllo - di essa ha attirato in misura crescente l'attenzione di statisti e scrittori. Si possono distinguere a questo riguardo quattro impostazioni principali: l'eliminazione del potere militare, la sua centralizzazione, la sicurezza collettiva, il controllo degli armamenti.
La difesa del disarmo ha una lunga tradizione, che risale anche più lontano dello scritto di Kant Zum ewigen Frieden, dove l'A. proponeva l'abolizione degli eserciti permanenti. La tradizione liberale occidentale si è mostrata incline a riconoscere negli eserciti e negli armamenti la causa prima delle guerre; e per ottant'anni, sia pure irregolarmente, i governi hanno negoziato per il disarmo. Nel 1962 sia l'Unione Sovietica che gli Stati Uniti hanno proposto piani ambiziosi di disarmo generale e completo da attuarsi in tre fasi, fino a raggiungere il livello minimo necessario alla sicurezza interna. Ambedue i piani prevedevano che la riduzione fosse assoggettata al controllo di speciali organismi delle Nazioni Unite. Il piano sovietico prevedeva un processo rapido, da completare in cinque anni, comprendente nel primo stadio l'eliminazione di tutti i mezzi di lancio di armi nucleari e nel secondo di tutti gli stock nucleari. Il piano americano proponeva che la riduzione delle armi nucleari procedesse di pari passo con quella delle armi convenzionali. Alla prova, i due piani non si rivelarono negoziabili, sia perché l'Unione Sovietica non era disposta a consentire ispezioni efficaci miranti a controllare il livello degli armamenti dopo ogni riduzione, sia perché gli Stati Uniti insistevano sulla necessità della presenza, in un mondo disarmato, di una forte autorità centrale in grado di agire indipendentemente dai governi nazionali, proposta questa che né l'Unione Sovietica né moltissimi altri paesi erano disposti a prendere in considerazione.
Nella concezione occidentale, l'eliminazione delle forze militari non può andare disgiunta da misure per la loro centralizzazione; almeno in parte, ciò è dovuto alla circostanza, dimostrata da esaurienti studi scientifici, per cui una potenza nucleare potrebbe riuscire a occultare piccole quantità di materiali fissili senza che nessun sistema di ispezione, per quanto rigoroso, sia in grado di rivelarne l'esistenza; e, in un mondo per il resto disarmato, ciò determinerebbe un potere enorme nei confronti degli altri paesi. Ma in un sistema internazionale che in vent'anni ha visto raddoppiare il numero degli Stati sovrani e per giunta in un periodo d'intenso nazionalismo (almeno nel mondo in via di sviluppo, giacché nella sua culla originaria, l'Europa, il nazionalismo va perdendo forza), le prospettive di una centralizzazione del potere, quale ad esempio la trasformazione delle Nazioni Unite in una forma di governo mondiale, sono estremamente remote. Ciò che poteva forse essere realizzabile nei tempi della Chiesa o dell'impero universale, ciò che forse le nazioni saranno pronte ad accettare nel futuro dopo una qualche terribile catastrofe, non è possibile oggi.
Un'altra impostazione data al problema del controllo della guerra - anch'essa con una lunga storia alle spalle - è quella che mette l'accento sulla sicurezza collettiva. Il Patto della Società delle Nazioni fu stretto nel 1919 proprio per creare un sistema universale di sicurezza collettiva, e così la Carta delle Nazioni Unite nel 1944. L'esperienza del XX secolo ha però dimostrato come, a meno che non vi sia un'effettiva convergenza tra le grandi potenze (quale esistette in Europa per mezzo secolo dopo la sconfitta di Napoleone), un simile sistema non possa funzionare, nemmeno se le grandi potenze firmano clausole per il mantenimento della pace e per la punizione degli aggressori altrettanto precise come quelle contenute nel cap. VII della Carta dell'ONU. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che dispone, nominalmente, di poteri considerevoli al fine di mobilitare forze contro un'aggressione, concede tuttavia il diritto di veto ai membri permanenti. È per questo motivo che in un solo caso fu possibile al Consiglio agire secondo il dettato della Carta, nel caso cioè dell'aggressione della Corea del Nord nel 1950, quando il delegato sovietico si era ritirato dal Consiglio di sicurezza in seguito a un precedente dissidio con le potenze occidentali. Il Consiglio di sicurezza è rimasto tuttavia una sede cruciale per la composizione di crisi causate da seri conflitti regionali, come le guerre arabo-israeliana del 1956 e del 1967 o la guerra indo-pakistana del 1965. Inoltre, i servizi resi dalle Nazioni Unite con le loro opere di mediazione e di controllo ai confini, con la formazione di corpi internazionali da far intervenire in contese di confine tra Stati e tra comunità sono stati e continuano a essere di grande utilità nel diminuire l'intensità, la durata e la violenza dei conflitti locali. I medesimi servizi hanno reso, su scala minore, le organizzazioni regionali.
Ma il ricorso alla sicurezza collettiva, all'impegno pubblico di paesi con interessi convergenti per aiutarsi l'un l'altro o per agire all'unisono in caso di attacco, si è rivelato anche uno strumento importante per aprire un'altra strada verso il controllo della guerra, la strada cioè dell'equilibrio del potere militare. L'equilibrio delle forze è un fenomeno complesso, il cui influsso sulle relazioni internazionali ha ramificazioni che esorbitano dal mero ambito del controllo della guerra; comunque, l'emergere delle superpotenze nel dopoguerra ha conferito all'equilibrio delle forze un carattere bipolare in tutti i casi in cui siano implicate considerazioni di carattere strategico, benché possa essere multipolare sul piano della potenza tecnologica ed economica o su quello dell'influenza politica. E in questo equilibrio strategico bipolare le alleanze quali il Patto Atlantico (1948) o il Patto di Varsavia (1955) in Europa, o il Trattato di sicurezza reciproca tra Stati Uniti e Giappone (1951) o il Trattato di amicizia russo-indiano (1971), sono caratterizzate da una maggiore stabilità rispetto alle alleanze del passato. La NATO e il Patto di Varsavia, in particolare, hanno apparati altamente organizzati per la programmazione centralizzata, la ripartizione degli oneri militari e la gestione delle crisi politiche. Gli Stati Uniti hanno legami di alleanza con più di quaranta Stati, tra cui venti Stati dell'America Latina, con i quali hanno firmato nel 1947 un trattato di sicurezza collettiva (il Patto di Rio), quattordici paesi dell'area nordatlantica e gli Stati non comunisti della costa del Pacifico. L'Unione Sovietica è alleata di sei paesi europei, della Cina in base a un trattato trentennale del 1950 (che però è ormai lettera morta), e dell'Egitto, dell'India e dell'‛Irāq in base a trattati di amicizia e di cooperazione. Le potenze industrializzate, inoltre, hanno accordi, per la fornitura di armi, con paesi dei quali non sono alleate; ad esempio: gli Stati Uniti con Israele e l'Etiopia; l'Unione Sovietica con Cuba, il Vietnam del Nord e l'Algeria; la Francia con il Sudafrica e alcuni Stati arabi; la Gran Bretagna con i paesi del Commonwealth in Africa.
Infine, vi è la strada del controllo degli armamenti che consiste nel negoziare accordi specifici per vietare o limitare armi e forze, le quali minacciano o di provocare una guerra, minando la stabilità dell'equilibrio delle forze, o di renderla ancora più tremenda nel caso dovesse scoppiare. In questo campo, le proposte e gli accordi più recenti possono essere classificati, grosso modo, in quattro categorie. La prima comprende i casi in cui l'intento specifico è quello d'impedire che nelle relazioni tra le superpotenze sopravvengano squilibri dovuti a mutamenti politici o tecnologici. Nel 1963, gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e la Gran Bretagna raggiunsero un accordo sul divieto degli esperimenti atomici nell'atmosfera, accordo poi ampliato nel 1974 per la limitazione dell'entità degli esperimenti sotterranei. Nel 1972, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, dopo quattro anni di negoziati, si accordarono per rinunciare alla produzione di sistemi antimissilistici, con l'eccezione di due impianti per ciascun paese, e per non superare, nei cinque anni successivi, certi livelli quanto all'entità dei sistemi di missili offensivi. Nel 1974 questo accordo sui livelli, in verità molto alti, fu esteso a dieci anni.
La seconda categoria comprende un certo numero di accordi miranti a evitare che il confronto militare venga esteso a nuove aree o nuovi ambienti. Si sono avuti così accordi multilaterali sulla non-militarizzazione dell'Antartide, sul divieto di usare lo spazio per scopi militari (cioè sul divieto di mettere in orbita armi, ma non su quello di mettere in orbita satelliti-spia), sulla rinuncia a usare il fondo marino per fini analoghi. Rientra in questa categoria (quella cioè degli accordi per contenere più che ridurre gli armamenti) il Trattato di non proliferazione negoziato tra l'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Il trattato è stato firmato nel 1968 ed è entrato in vigore nel 1970; è stato sottoscritto dalla maggior parte delle nazioni, e tutti i paesi scientificamente progrediti (tranne due: India e Israele) si sono accordati sulla rinuncia allo sviluppo delle armi nucleari. Il sistema d'ispezioni previsto è congegnato in modo da consentire lo sviluppo dell'energia nucleare per scopi civili. Le due eccezioni summenzionate sono, tuttavia, molto significative per ragioni sia politiche che geografiche; nel 1974 l'India ha fatto esplodere un ordigno nucleare e il presidente d'Israele ha fatto intendere che il suo paese è in grado di fare altrettanto. Ciò potrebbe modificare in futuro le valutazioni di altri paesi. Inoltre, gli Stati dell'America Latina hanno raggiunto, di loro iniziativa, un accordo con il Trattato di Tlatelolco del 1967, che vieta la collocazione di armi nucleari in qualsiasi zona di quel subcontinente. Tutti gli Stati dell'America Latina lo hanno firmato, ma l'Argentina e il Cile non lo hanno ancora ratificato.
Un'altra categoria di accordi miranti a stabilizzare l'equilibrio riguarda i tentativi effettuati per ridurre il livello delle forze in zone delicate. Ad esempio, varie proposte sono state formulate affinché le grandi potenze si astengano dallo spiegamento di forze navali nel Mediterraneo o nell'Oceano Indiano. Negli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta vi sono state molte discussioni e qualche negoziato sulla possibilità di limitare o ‛disimpegnare' militarmente, escludendo soprattutto le forze delle grandi potenze, la Germania e l'Europa centrale. Dal 1973 è in corso, tra i paesi del Patto di Varsavia e quelli della NATO, un negoziato formale sulla riduzione reciproca delle forze nell'Europa centrale. Esso non si è concluso, finora, per una divergenza di vedute tra le parti: le potenze occidentali cercano di trovare un accordo su un massimo globale di forze valido per ciascun blocco, mentre le potenze comuniste cercano di negoziare massimi validi per i singoli paesi.
Va notato che non si è tentato di arrivare ad accordi per controllare il traffico d'armi, benché gli Stati Uniti abbiano pubblicamente dichiarato che simili tentativi sarebbero augurabili.
6. Conclusione
È impossibile delineare brevemente i tratti di un fenomeno così multiforme come quello della guerra e della violenza nel mondo contemporaneo. Si può con buon fondamento sostenere che, per le caratteristiche terrificanti delle armi moderne e per gli effetti controproducenti delle tradizionali strategie militari di intervento, oggigiorno si faccia ricorso alla pressione militare, di qualsiasi specie, in modo considerevolmente più cauto che nel passato. Le superpotenze hanno gradualmente imboccato la strada di quella che è stata chiamata una ‛partnership contrapposta', mentre il mantenimento della forza militare e il suo eventuale impiego vengono sempre più spesso considerati legittimi solo sul piano della difesa e della deterrenza, ma non come mezzi per promuovere i propri scopi ideologici o materiali.
In un sistema internazionale, nel quale l'influsso e l'autorità delle grandi potenze sono nettamente diminuiti, nel quale è fortemente aumentato il numero degli Stati sovrani, nel quale le comunicazioni hanno facilitato il passaggio di armi e tecniche militari attraverso le frontiere, nel quale gli odi locali persistono o si sono intensificati, nel quale infine le antiche fonti di rivalità - ad esempio gli odi religiosi o per il possesso di materie prime - stanno riaffiorando, in un tale sistema internazionale la prospettiva di eliminare guerre e conflitti, o pressioni politiche messe in atto con l'uso o la minaccia di una qualche forma di violenza organizzata, non s'intravvede ancora.
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