Guerra
di Marco Cesa
Guerra
sommario: 1. Le armi di distruzione di massa. 2. Le guerre convenzionali. 3. Le guerre civili e l'intervento umanitario. 4. L'obsolescenza della guerra? 5. Le guerre del futuro. □ Bibliografia.
1. Le armi di distruzione di massa
Nel corso dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, la politica internazionale è stata profondamente condizionata dalla competizione geopolitica e ideologica tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica (nonché tra i rispettivi blocchi), in quella che è stata sin dall'inizio chiamata 'guerra fredda'. Tra i vari elementi che hanno impedito che l'antagonismo Est-Ovest sfociasse in un confronto militare diretto tra le due superpotenze, occorre ricordare, a detta di molti, la presenza sempre più massiccia di armi nucleari, l'uso delle quali avrebbe comportato danni talmente catastrofici per ambo le parti da indurre cautela e prudenza nella gestione delle molteplici crisi che pure hanno accompagnato la guerra fredda. In questo senso, la deterrenza nucleare ha contribuito alla stabilità generale del sistema internazionale - pur non impedendo guerre in scenari secondari, senza la partecipazione diretta di entrambe le superpotenze - ed è stata uno dei pilastri della sicurezza europea. Del resto, al controllo degli armamenti nucleari sono stati dedicati lunghi e delicati negoziati, il successo o l'insuccesso dei quali ha frequentemente indicato il tono generale delle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica: la distensione degli anni settanta è stata accompagnata da alcuni importanti trattati sulla limitazione degli armamenti strategici, così come la sua crisi ha visto un'accelerazione del riarmo da parte delle due superpotenze; e nella prima metà degli anni ottanta, un importante indicatore della cattiva salute dei rapporti bilaterali è stata la sospensione di ogni negoziato. Non sorprenderà, allora, che la fine della guerra fredda si sia manifestata, tra le altre cose, proprio con una serie di trattati dedicati alla riduzione (e non più alla semplice limitazione) delle armi nucleari: nel 1987 si sono rimossi i missili americani e sovietici a raggio intermedio, dislocati in Europa mentre due trattati firmati nel 1991 e nel 1993, nell'ambito del processo START (Strategic Arms Reduction Talks), hanno tagliato di circa tre quarti il numero delle testate nucleari strategiche in possesso delle due superpotenze. Infine, un accordo raggiunto nella primavera del 2002 dagli Stati Uniti e dalla Russia prevede una ulteriore riduzione fino al numero di 1.700-2.200 testate strategiche per parte. Se si pensa che queste, all'inizio degli anni novanta, erano circa 12.000 per arsenale, non si possono non notare gli evidenti progressi compiuti in breve tempo.
Ma anche se la fine della guerra fredda ha fatto sì che le armi nucleari non si trovino più al centro delle analisi e dei dibattiti sulla stabilità del sistema internazionale, ciò non significa che esse, improvvisamente, siano divenute irrilevanti. Il Trattato di non-proliferazione (la cui prima firma risaliva al 1968) è stato rinnovato, nel 1995, da parte di 179 paesi; tuttavia, nel corso dei lavori, alcuni importanti partecipanti (come l'Egitto, il Venezuela, la Nigeria e l'Indonesia) hanno espresso posizioni tali da sconsigliare di mettere ai voti il testo del Trattato per timore di giungere a una votazione non unanime. E se è vero che il Sudafrica ha smantellato, tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta, il proprio arsenale nucleare e che la Bielorussia, l'Ucraina e il Kazakistan hanno reso alla Russia gli ordigni che si trovavano dislocati sul loro territorio al momento della disgregazione dell'Unione Sovietica, gli esperimenti condotti nel 1998 dall'India e dal Pakistan hanno trasformato ufficialmente i due paesi in potenze nucleari, e Israele ha continuato nella sua politica - che risale alla seconda metà degli anni sessanta - di possesso non dichiarato di una forza di dissuasione.
Gli Stati Uniti, proiettati dalla fine della guerra fredda in una posizione di indiscussa supremazia, hanno concentrato i loro sforzi nell'ostacolare i tentativi, reali o presunti, di divenire potenze nucleari da parte di un gruppo di Stati i cui piani sarebbero particolarmente preoccupanti alla luce dei loro intenti revisionistici, dell'ostilità mostrata dai loro regimi nei confronti della superpotenza e delle discrete capacità tecnologiche in ambito missilistico di cui dispongono. Si tratta dei cosiddetti 'Stati canaglia' (rogue States), tra i quali sono stati spesso annoverati soprattutto la Corea del Nord, l'Iran e l'Iraq. Ed è proprio per mettersi al riparo dal potenziale ricatto di questi Stati che il governo americano, con l'amministrazione Clinton prima e con quella Bush poi, ha ripreso una idea cui già il presidente Reagan aveva dato ampia risonanza negli ultimi anni della guerra fredda, quella cioè di costruire un sistema di difesa in grado di abbattere i missili nemici una volta lanciati. Mentre Reagan aveva in mente di neutralizzare l'intero arsenale strategico sovietico, l'obiettivo della National Missile Defense (NMD) - il nome ufficiale del progetto, che dovrebbe giungere a compimento intorno al 2010 - è più modesto, essendo concepito per fronteggiare un attacco su scala assai più ridotta. Ma è chiaro che un simile sistema difensivo avrebbe implicazioni anche nei confronti delle due potenze nucleari tradizionalmente rivali degli Stati Uniti, la Russia e la Cina, le quali, non a caso, non hanno nascosto il loro malcontento: indipendentemente dalle prestazioni della NMD, infatti, i due paesi si troverebbero ulteriormente svantaggiati nei confronti degli Stati Uniti.
L'insistenza sulla difesa rivela forse il più notevole mutamento nella strategia nucleare americana dopo la guerra fredda. Durante il confronto Est-Ovest, infatti, la deterrenza nucleare si basava sulla reciproca vulnerabilità delle due superpotenze, una vulnerabilità che era stata addirittura sancita nel 1972 con un trattato bilaterale (il Trattato ABM, Anti-Ballistic Missile) che vietava la costruzione di sistemi difensivi; se nessuna delle due parti avesse avuto modo di evitare la rappresaglia - si diceva - nessuna di esse avrebbe potuto pensare seriamente ad attaccare per prima. Il progetto difensivo americano vuole proprio rompere questa logica, passando da una deterrenza basata sulla punizione (deterrence by punishment) a una fondata invece sulla capacità di negare al nemico il raggiungimento dei suoi obiettivi (deterrence by denial). È comprensibile che chi ne ha i mezzi cerchi di porre fine alla propria vulnerabilità, dato che nulla garantisce il funzionamento della deterrenza; ma si tratta di una profonda trasformazione nei meccanismi di base che hanno retto i rapporti tra potenze nucleari per decenni: mentre nella deterrence by punishment le due parti si condizionano a vicenda in modo più o meno simmetrico, nella deterrence by denial è soprattutto la parte che 'nega' a condizionare le mosse dell'altra.
Se le armi nucleari hanno monopolizzato strategie e dibattiti durante la guerra fredda, nel corso degli anni novanta l'attenzione si è concentrata anche sulle armi chimiche e biologiche, le quali, pur non essendo in grado di infliggere danni paragonabili alle prime, hanno comunque ampie potenzialità distruttive. Anche se le armi chimiche e biologiche non sono una novità, molti sostengono che il loro ruolo è oggi mutato. In primo luogo, esse non sono più la punta avanzata della tecnologia bellica, ma sono divenute le armi di chi non riesce a tenere il passo con le innovazioni più sofisticate: in una parola, le armi dei deboli. Poiché tanto in campo nucleare quanto in quello convenzionale la superiorità americana è schiacciante, coloro che, per vari motivi, vogliono sottrarvisi possono essere tentati di fare ricorso a questo tipo di armi. Ciò vale non solo per gli Stati, ma anche per gruppi di terroristi. Quindi, il rischio sempre più spesso denunciato dagli Stati Uniti è quello di Stati od organizzazioni terroristiche che, consapevoli della loro drastica inferiorità militare, facciano ricorso, anche a scopo punitivo o dimostrativo, ad armi biologiche e chimiche, da usare in particolare contro bersagli civili, soprattutto le città. Le armi chimiche e biologiche possono essere prodotte con relativa facilità; e mentre l'impiego su larga scala delle prime presenta ancora notevoli difficoltà logistiche e operative, le seconde sembrano essere più maneggevoli, e quindi più efficaci. Secondo stime americane, circa una ventina di paesi posseggono, o stanno cercando di sviluppare, armi biologiche e chimiche, malgrado i trattati internazionali (la Biological Weapons Convention, del 1972, e la Chemical Weapons Convention, del 1994); cosa che, unita alla diffusione della tecnologia missilistica, tratteggia un quadro futuro dai contorni poco rassicuranti.
2. Le guerre convenzionali
Negli ultimi due decenni del XX secolo, gli Stati hanno ripetutamente fatto uso della forza militare nella risoluzione dei conflitti che li hanno visti contrapposti. Ci limitiamo qui a ricordare quelle guerre che, a vario titolo, possono dirsi più significative. Dall'aprile al giugno del 1982, la Gran Bretagna e l'Argentina si sono scontrate nella guerra delle isole Falklands/Malvinas, un piccolo arcipelago situato in prossimità della punta meridionale dell'America Latina, occupato dagli Inglesi nel 1833 e reclamato dagli Argentini come parte integrante del loro territorio nazionale. A seguito dell'ennesimo punto morto cui erano giunti i negoziati, il governo militare argentino decideva l'invasione delle isole, al che la Gran Bretagna replicava inviando immediatamente nell'Atlantico meridionale un corpo di spedizione che nel giro di due mesi riconquistava l'arcipelago. La vittoria inglese è stata frutto di una indiscussa superiorità qualitativa, tanto negli uomini (tutti professionisti) quanto nei mezzi: gli Argentini, non riuscendo ad affondare le due portaerei inglesi per mancanza di armi adeguate, non sono riusciti neppure a contrastare efficacemente lo sbarco, mancando dei mezzi di trasporto che avrebbero consentito la mobilità necessaria a un contrattacco. Si calcola che i caduti siano stati circa un migliaio (236 inglesi e 655 argentini).
Ben più notevole, per la durata e per i costi, è stata la guerra che ha visto contrapposti l'Iran e l'Iraq dall'agosto del 1980 al settembre del 1988. Iniziata dall'Iraq nel tentativo di ottenere un pieno controllo dello Shatt el Arab, la sua posta in gioco era in realtà il predominio regionale. I primi due anni della guerra sono stati caratterizzati da una serie di offensive irachene, fino al contrattacco iraniano che sospingeva il fronte al confine col territorio nemico. Si giungeva così, alla metà degli anni ottanta, a una vera e propria guerra di attrito, che è stata paragonata da alcuni osservatori a una versione moderna della guerra di trincea tipica del primo conflitto mondiale. A seguito di una nuova offensiva irachena, nella primavera del 1988, e di ripetuti bombardamenti missilistici contro le città iraniane, Teheran accettava un accordo di pace svantaggioso, il quale, pur non riflettendo appieno gli obiettivi iniziali iracheni, riconosceva la superiorità di Baghdad. La guerra ha dimostrato che due paesi del Terzo Mondo potevano fare uso di missili balistici e di armi chimiche, impiegate, queste, in molte circostanze da ambo le parti e nel modo più esteso che possa essere documentato dai tempi della prima guerra mondiale. Il numero delle vittime è molto incerto; si calcola che l'Iraq abbia perso circa 375.000 uomini, e l'Iran circa 300.000. Ma secondo altre stime, il conto complessivo andrebbe oltre il milione di caduti.
Se il conflitto Iran-Iraq è stato, per lunghi anni, guerra di posizione tra due eserciti contrapposti, ben diverso è stato il caso del contemporaneo, e altrettanto prolungato, coinvolgimento sovietico in Afghanistan (dicembre 1979 - febbraio 1989). Iniziata come intervento per mettere al potere un leader amico, e quindi come un'operazione, nei piani del Cremlino, breve e a basso costo, l'invasione sovietica si è invece trovata a fare i conti con una tenace guerriglia che, con i determinanti aiuti militari forniti soprattutto dagli Stati Uniti, alla lunga ha costretto i Sovietici al ritiro. La situazione in cui questi ultimi sono venuti a trovarsi - nonché l'esito della guerra - ha sollecitato molti paragoni con l'esperienza americana in Vietnam: il disorientamento psicologico dovuto alla imprevista resistenza, il mutamento forzato, in corso d'opera, di tattiche e procedure pensate per un diverso tipo di guerra, le difficoltà di coordinamento tra le operazioni aeree e quelle terrestri, l'inadeguatezza dei mezzi meccanizzati e corazzati su terreni impervi; insomma, tutti i ben noti ostacoli che gli eserciti regolari incontrano quando si trovano a combattere guerriglieri organizzati in unità estremamente mobili che colpiscono e fuggono, sottoponendo le vie di comunicazione a un martellamento continuo e bloccando quindi il grosso delle forze nemiche in compiti di sorveglianza. Mai, comunque, i Sovietici hanno impiegato più di 100-120.000 uomini in Afghanistan (mentre gli Americani giunsero a dislocare in Vietnam fino a mezzo milione di soldati). Quanto ai caduti, la cifra ufficiale fornita da Mosca è di circa 15.000 militari (ma si ipotizza che possano essere stati persino il doppio); per gli Afghani, guerriglieri e civili, il totale è oggetto di congetture che vanno al di là del milione di morti.
Con la guerra del Golfo (gennaio-febbraio 1991), la guerra convenzionale è entrata in una nuova era, grazie all'impiego di tecnologie molto avanzate. Nel tentativo di impossessarsi di notevoli risorse petrolifere, l'Iraq, con un colpo di mano nell'estate del 1990, occupava il Kuwait. Gli Stati Uniti, alla testa di una vastissima coalizione - che, combinata col mandato delle Nazioni Unite, conferiva legittimità internazionale alle operazioni militari - dopo alcuni mesi di preparazione sferravano una violenta campagna aerea durata cinque settimane, seguita poi da una fulminea offensiva terrestre che si risolveva in quattro giorni con la liberazione del Kuwait. La guerra ha dato la prima seria possibilità di sperimentare in condizioni ideali - data la debolezza del nemico e il tipo di terreno su cui si è combattuto - tutta una serie di nuove tecnologie, tra cui le 'bombe intelligenti' ad altissima precisione, sofisticati sistemi di comunicazione satellitare, e altri congegni elettronici che, uniti alla superiorità aerea, hanno permesso di 'accecare', paralizzare e colpire a oltranza le forze irachene in vista dell'offensiva terrestre. E del resto, il conto dei caduti la dice lunga: mentre gli alleati hanno lasciato sul campo circa 200 soldati, per gli Iracheni le stime più diffuse parlano di oltre 100.000 morti. La guerra del Golfo ha ufficializzato l'inizio di quella 'rivoluzione negli affari militari' di cui parleremo successivamente. A ogni buon conto, anche se la tecnologia militare americana ha dato una dimostrazione impressionante del suo livello di sviluppo, occorre fare una serie di precisazioni. Malgrado l'uso di 'bombe intelligenti', quelle tradizionali sono state impiegate in quantità molto maggiori; numerosi bersagli non sono stati colpiti né tantomeno localizzati (fra tutti, le rampe di lancio mobili dei missili iracheni); e per quanto si sia tentato, almeno ufficialmente, di evitare i 'danni collaterali' - cioè l'uccisione di civili - non sempre si è riusciti a farlo. Uno dei risultati meno controversi riguarda il ruolo cruciale del potere aereo: se la campagna terrestre è stata così breve e si è risolta con perdite tanto modeste da parte alleata, ciò si spiega proprio con il lavoro preparatorio svolto dai ripetuti bombardamenti che l'hanno preceduta.
Il potere aereo ha dato una ulteriore prova dei risultati che esso può offrire in un'altra occasione pochi anni dopo, tra l'aprile e il giugno del 1999, quando la NATO è intervenuta nella guerra civile in corso tra Serbi e Kosovari, in difesa di questi ultimi. Dopo 78 giorni di bombardamenti, e con nessuna perdita da parte alleata, la Serbia ha capitolato, accettando le condizioni dettate dagli Stati Uniti riguardo alla sistemazione del Kosovo. Alcuni osservatori hanno salutato, in questo episodio, la definitiva affermazione del potere aereo, il quale avrebbe raggiunto per la prima volta la vittoria da solo, senza l'ausilio delle altre armi; inoltre, l'accattivante prospettiva di ottenere risultati decisivi senza perdere neppure un uomo ha indotto molti a vedere in questo il modo di combattere la guerra del futuro, per gli Stati tecnologicamente avanzati. Anche in questo caso, è opportuno tuttavia ridimensionare il tono di queste analisi. Non è stato, a ben guardare, un risultato lusinghiero, per la più formidabile alleanza militare di tutti i tempi, impiegare più di due mesi per sottomettere - e non sconfiggere, dato che le forze militari serbe si sono ritirate senza pressione terrestre - un piccolo Stato balcanico già indebolito e impoverito da un decennio di guerre e sanzioni di vario tipo. Inoltre, è difficile sostenere che i bombardamenti della NATO, da soli, abbiano convinto la Serbia a cedere: la prospettiva che essi potessero andare avanti ancora per molto, la minaccia di una campagna terrestre e, soprattutto, l'isolamento diplomatico di Belgrado dopo che la Russia si era allineata sulle posizioni alleate, sono tutti elementi che non devono essere dimenticati.
3. Le guerre civili e l'intervento umanitario
Nel corso dell'ultimo decennio del secolo si è registrato anche un notevole numero di guerre civili, i cui motivi sono diversi. Anzitutto, e specialmente in Africa, si avvertono ancora le conseguenze del processo di decolonizzazione e della creazione di Stati che sono spesso tali solo nominalmente, in quanto minati da rivalità tribali, etniche e religiose e dal mancato sviluppo di un adeguato apparato amministrativo centrale. Nell'Europa balcanica e nel Caucaso, poi, il crollo dei regimi comunisti e la scomparsa dell'Unione Sovietica hanno scatenato sanguinosi conflitti, anch'essi su base etnica e religiosa. Le cose si sono poi ulteriormente ingarbugliate per la presenza - che alcuni legano alla globalizzazione - di organizzazioni transnazionali, le quali, in nome di principî religiosi o etnici, maneggiano denaro, trafficano in armi, reclutano mercenari e volontari. Questi networks trovano la loro base ideale là dove gli Stati sono troppo deboli per opporvisi e coinvolgono gruppi privati, vari 'signori della guerra' e i resti degli apparati statali. Dinamiche di questo tipo si sono riscontrate non solo nei luoghi già ricordati, ma anche in Medio Oriente e nell'Asia centrale.
È soprattutto a causa di questi fenomeni che alcuni osservatori hanno creduto di vedere nelle guerre civili contemporanee qualcosa di profondamente diverso da quelle dei decenni precedenti, soprattutto quelle legate a una più o meno articolata ideologia rivoluzionaria. Si è così sostenuto, per esempio, che mentre in passato la violenza era tutto sommato controllata e almeno una parte in causa era mossa da obiettivi di giustizia sociale e godeva dell'appoggio di buona parte della popolazione, nelle 'nuove' guerre civili dominano obiettivi di arricchimento individuale, la popolazione nel suo complesso non si sente coinvolta e la violenza è gratuita. In una parola, le 'nuove' guerre civili sarebbero depoliticizzate e, quindi, i loro connotati diverrebbero criminali. Generalizzazioni di questo tipo sono ovviamente molto discutibili, per due ragioni. In primo luogo, è quantomeno fuorviante impostare l'analisi in termini puramente cronologici, senza distinguere caso per caso: la descrizione sopra abbozzata può valere per alcune guerre civili in Africa, ma non per quelle dei Balcani. In secondo luogo, le differenze non devono essere esagerate, poiché molto spesso, nelle guerre rivoluzionarie e civili del passato, obiettivi sociali e ambizioni di gruppo erano strettamente legati; l'appoggio popolare è stato ottenuto nel corso della lotta e spesso ricorrendo alla coercizione e alle intimidazioni; per non dire, poi, delle crudeltà, che sono forse la più costante caratteristica delle guerre civili.
È in questo contesto turbolento che si inquadra il fenomeno degli 'interventi umanitari armati' (forcible humanitarian interventions), cioè di operazioni militari condotte sotto l'egida delle Nazioni Unite, con il fine ufficiale di imporre la pace e il rispetto dei diritti umani, tra cui soprattutto quelli delle minoranze. Si potrebbero forse indicare, come precedenti, gli interventi delle potenze europee, nel XIX secolo, a tutela delle popolazioni cristiane dell'Impero turco. Come che sia, nel corso degli anni novanta, si sono avuti numerosi casi di questo tipo di uso della forza: in Liberia, Iraq, Ruanda, Somalia, Bosnia e Kosovo, Timor Est. La fine della guerra fredda ha senza dubbio facilitato l'adozione di misure multilaterali di questo tipo. A ciò si aggiunga l'impatto sull'opinione pubblica occidentale di una copertura mediatica degli eventi sempre più capillare e massiccia. Infine, bisogna ricordare la diffusione di modelli ideologici e culturali che fanno dei diritti umani un principio universale e assoluto. Salutati, da una parte, come testimonianza della progressiva trasformazione della realtà politica e giuridica internazionale - l'unica guerra ammissibile oggi è quella in difesa dell''umanità' - e giudicati, dall'altra, come operazioni spesso maldestre e controproducenti, capaci, nel migliore dei casi, di ottenere modesti risultati temporanei, gli 'interventi umanitari armati' sono al centro di un vivacissimo dibattito che ha messo in luce tutte le loro ambiguità. Trattandosi di interventi negli affari interni degli Stati, il nodo cruciale riguarda naturalmente la sovranità. Quando è lecito intervenire? I due criteri di solito indicati - il primo dalle Nazioni Unite, il secondo da alcuni studiosi e osservatori - possono essere così riassunti: la presenza di situazioni interne che costituiscano una minaccia alla pace e alla sicurezza, vale a dire crisi e politiche le cui ripercussioni esterne sono giudicate tanto serie da giustificare l'intervento di altri Stati; e i casi detti di 'sofferenze sistematiche e massicce' da parte della popolazione. Come si può facilmente capire, si tratta di parametri così vaghi da permettere ogni tipo di arbitrio, in senso attivo o omissivo. E se è così, sono considerazioni politiche di stampo tradizionale che continuano a guidare gli Stati nelle loro decisioni relative all'uso della forza, persino nel quadro di questo tipo di intervento multilaterale. Nell'inverno tra il 1999 e il 2000, il comportamento delle truppe russe in Cecenia non è stato sicuramente migliore di quello tenuto dai Serbi nel Kosovo fino a pochi mesi prima; ma nessuno se l'è sentita di sottoporre la Russia a un trattamento come quello inflitto alla Serbia.
Dal momento che ogni intervento armato promette inevitabilmente di essere costoso, gli Stati che vi prendono parte cercano di limitare questi costi più che possono, pregiudicando così l'efficacia della loro azione (come è accaduto per esempio, agli Stati Uniti in Somalia e a Haiti); ovvero, se si è disposti a correre certi rischi, allora vi sono presumibilmente in gioco obiettivi di politica estera che non possono essere ricondotti al bene dell''umanità'. Particolarmente significativo, da questo punto di vista, è il caso della campagna aerea della NATO nei Balcani del 1999, sopra ricordata: a detta di molti, non vi era nulla, nel marzo 1999, che richiedesse un urgente intervento militare, ed era opinione diffusa che la guerriglia albanese fosse responsabile tanto quanto l'esercito serbo delle continue violazioni dei cessate il fuoco. La tesi 'umanitaria' è stata fatta circolare per agire senza attendere il mandato delle Nazioni Unite, perché la NATO, in ultima analisi, temeva che aspettare ancora fosse pericoloso per se stessa, per la propria coesione e per la leadership americana, più che per i Kosovari. Ed è stato con l'inizio dei bombardamenti che la tragedia umanitaria - centinaia di migliaia di profughi diretti in Macedonia - si è verificata, il che ha fornito all'alleanza una ulteriore, paradossale, giustificazione: occorreva continuare a combattere per arrestare un fenomeno che essa stessa aveva creato.
4. L'obsolescenza della guerra?
Alla diffusione dei tipi di guerra di cui abbiamo sin qui parlato, secondo alcuni studiosi, si accompagna un'altra tendenza, vale a dire la scomparsa - anzi l'obsolescenza - delle guerre tra le grandi potenze. Le ragioni del fenomeno sarebbero essenzialmente due: i costi eccessivi e i guadagni decrescenti che questo tipo di conflitto comporterebbe. I costi di solito sottolineati non sono semplicemente legati al possibile uso delle armi nucleari: anche la armi convenzionali, ormai, hanno raggiunto un potenziale distruttivo tale da essere capaci di infliggere danni molto gravi, se usate in modo massiccio. Inoltre, riprendendo un'idea tipica del pensiero liberale classico, più volte ribadita negli ultimi due secoli, si sostiene che dove i rapporti economici tra gli Stati sono particolarmente stretti - come avviene nell'era della interdipendenza e della globalizzazione - una loro interruzione a seguito di una guerra avrebbe implicazioni tanto serie da costituire un ulteriore disincentivo al ricorso alla forza su larga scala. Dal punto di vista dei guadagni, poi, si sarebbe assistito a una progressiva svalutazione degli obiettivi tradizionali: l'espansione territoriale non prometterebbe più quei vantaggi che in passato erano tipici e, in generale, i valori di onore e gloria, per millenni associati alle attività militari, avrebbero via via perduto il loro peso, sostituiti da una crescente riluttanza ad accettare perdite di vite umane e dall'affermazione, a livello ufficiale, di una diffusa ideologia pacifista. A ciò si aggiunga, dopo la fine della guerra fredda, l'affermazione delle democrazie, cioè di regimi che sembrano in grado di mantenere rapporti pacifici tra di loro, per motivi legati alle loro caratteristiche istituzionali (il ruolo della pubblica opinione e i numerosi pesi e contrappesi tra gruppi e poteri) e ideologiche (tolleranza e composizione pacifica dei conflitti sono valori interni che le democrazie tendono a proiettare anche all'esterno). Insomma, secondo alcuni, il destino della guerra sarà simile a quello di altri fenomeni sociali del passato, come la schiavitù e il duello, che sono progressivamente scomparsi.
Argomenti di questo tipo, peraltro molto diffusi, devono essere energicamente ridimensionati. Che l'interdipendenza economica sia una barriera formidabile alla guerra è stato, come noto, ampiamente smentito dal primo conflitto mondiale, il quale è scoppiato malgrado gli strettissimi legami commerciali tra gli Stati europei. Parimenti, che l'espansione territoriale abbia perso tutte le sue attrattive è una tesi che non tiene conto della scarsità di alcune risorse naturali di primaria importanza - acqua e petrolio, per esempio - le quali, come vedremo, sono al centro delle preoccupazioni di molti Stati. Per quanto il desiderio di ridurre al minimo le perdite umane sembri avvertito ovunque, ci si può chiedere quanto di nuovo ci sia in questo atteggiamento: anche nel Settecento, per esempio, il costo degli eserciti scoraggiava i sovrani dal rischiare la vita dei soldati in battaglie in campo aperto, se non in condizioni di estrema necessità. Similmente, è ben vero che persino la più grande potenza militare oggi esistente, gli Stati Uniti, è condizionata dal bisogno di contenere le perdite umane. Tuttavia ciò sembra riflettere non tanto - o non solo - un mutamento culturale, quanto una comprensibile riluttanza a sacrificare vite quando non sono in gioco interessi nazionali fondamentali. Così, se è stata sufficiente la perdita di pochi soldati per porre fine all'intervento in Somalia, e se la campagna aerea nei Balcani è stata condotta con rischi minimi per i piloti, era chiaro a molti che nel Golfo gli Stati Uniti erano pronti ad accettare un costo umano molto più elevato. Quanto alla svalutazione delle virtù militari, essa sembra tipica di alcuni paesi, ma non di tutti: le grandi potenze, infatti, continuano a coltivarle (si pensi alla grande parata militare con la quale gli Stati Uniti hanno celebrato il trionfo nella guerra del Golfo). E sulla 'pace democratica' è da molti anni in corso un incessante dibattito tra gli studiosi, dal quale si evince che se può essere storicamente fondato sostenere che due democrazie non si sono mai combattute, sono plausibili altre spiegazioni del fenomeno, le quali esulano dalla rassicurante tesi secondo cui sarebbe proprio questo tipo di regime a rendere la guerra meno probabile: sino alla fine della guerra fredda, infatti, l'esistenza di un nemico comune ha indotto le democrazie occidentali a cooperare strettamente; inoltre, si sono registrati periodi di pace molto lunghi, nel corso del XX secolo, anche in America Latina, malgrado la presenza diffusa di regimi non democratici.
A ben guardare, le tesi relative alla obsolescenza della guerra riguardano non tanto le grandi potenze, ma i paesi dell'Europa occidentale. È qui che la politica internazionale di stampo tradizionale, guerra compresa, è scomparsa da mezzo secolo. Ma le ragioni di questo fenomeno non sono solo quelle comunemente addotte, poiché un ruolo ancora più importante è stato giocato dalla potenza americana, impegnata, prima, nella contrapposizione con l'Unione Sovietica, e lasciata libera, poi, di continuare a esercitare funzioni di tutela sugli alleati. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti hanno svolto non solo la funzione di difensore dell'Europa, sollevando gli Stati europei dal compito di badare a se stessi, ma anche quella di pacificatore, prevenendo la formazione di politiche nazionali che avrebbero potuto condurre a ulteriori scontri. Affrancati dagli oneri di una politica estera e di sicurezza autonome, gli Stati europei hanno potuto così concentrarsi su obiettivi di natura prevalentemente economica. Il risultato è stato un periodo di stabilità e prosperità, in Europa occidentale, che non ha forse precedenti. Ma è bene capire che ciò è stato in primo luogo un riflesso della debolezza degli Stati europei e della loro conseguente rinuncia a giocare un ruolo significativo a livello internazionale.
Del resto, persino coloro che teorizzano l'obsolescenza della guerra ammettono che vi sono ancora grandi potenze che hanno mantenuto, nei confronti dell'uso della forza, un atteggiamento più simile a quello tradizionale che a quello proprio dei paesi europei. Oltre agli Stati Uniti, si devono ricordare a tale proposito la Russia e la Cina. Queste ultime, anche se non sembrano intenzionate a volgersi decisamente verso l'esterno, sono alle prese con problemi analoghi di irredentismo (nei confronti di alcune ex repubbliche sovietiche e di Taiwan, rispettivamente) e di potenziale secessionismo (nel Caucaso e nel Tibet, rispettivamente), i quali inducono gli osservatori a tracciare scenari, più o meno plausibili, di conflitti che vedono il coinvolgimento di altre grandi potenze - gli Stati Uniti e l'India, per esempio.
5. Le guerre del futuro
A seguito della guerra del Golfo, si è cominciato a parlare, soprattutto negli Stati Uniti, di una 'rivoluzione negli affari militari' (RAM), frutto delle tecnologie dell'età informatica. Più esattamente, la RAM è il risultato dell'interazione tra sistemi che raccolgono, elaborano e trasmettono le informazioni, e sistemi che applicano la forza militare. Questi ultimi possono quindi operare nel modo più efficiente, con rapidità, precisione e minimi costi umani. Gli Stati Uniti hanno così sviluppato un modello ideale di guerra per il quale sarebbe loro possibile colpire con precisione da distanze considerevoli, e impegnare solo un modesto numero di soldati professionisti nel combattimento vero e proprio, contenendo tanto le perdite proprie quanto i 'danni collaterali'. L'ovvia preferenza americana - e di riflesso europea - per questo modo di fare la guerra può trovare attuazione solo con chi accetta di combattere nei termini occidentali. Ma non è irrealistico ipotizzare l'adozione, da parte dell'avversario, di varie tecniche che ridimensionerebbero i vantaggi della RAM. Al riguardo, si è coniata l'espressione 'guerra asimmetrica' per riferirsi alle strategie spesso adottate dai deboli nei confronti dei più forti: guadagnare tempo, cercare di indebolire il consenso interno del nemico, sfruttarne la riluttanza tanto ad accettare un numero elevato di perdite quanto a provocare vittime tra i civili. E del resto, il fatto che uno dei primi requisiti in caso di intervento - umanitario o meno - sia una sicura strategia di disimpegno è sintomatico di un certo timore, persino da parte americana. Queste preoccupazioni sono accresciute dallo spettro delle armi chimiche e batteriologiche, le quali, anche se non si prestano ai fini di una vittoria in senso militare, possono essere impiegate contro la popolazione nell'ambito di una strategia coercitiva o più semplicemente vendicativa.
Infine, sempre da un punto di vista americano, negli ultimi anni ha assunto proporzioni sempre più rilevanti la minaccia terroristica. È dagli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania (1998) che gli Stati Uniti hanno lanciato la 'guerra al terrorismo', una guerra che ha fatto un salto di qualità dopo gli attentati a New York e a Washington nel settembre 2001. Nemici di questo tipo difficilmente possono essere eliminati con un missile ben guidato. La risposta americana - una intensissima campagna aerea sull'Afghanistan - ha distrutto le basi dei terroristi e ha rovesciato un governo sin troppo tollerante nei loro confronti; ma il risultato si rivelerà assai meno lusinghiero se, malgrado il successo militare, il numero di coloro che sono disposti a impegnarsi nella lotta anti-americana risulterà aumentato, lasciando al tempo stesso le società occidentali in preda all'incubo di nuovi attentati. La RAM, insomma, promette il raggiungimento di un obiettivo molto attraente (per l'Occidente): riservare la guerra ai soli militari di professione e risolverla con un intervento breve e decisivo. Ma la storia della guerra, nonché le condizioni prevalenti nell'età contemporanea, suggeriscono che tenere separati combattenti e non combattenti è un'impresa molto problematica. Persino indipendentemente dalle intenzioni delle parti in causa, è arduo impedire che un conflitto investa la società civile: gli attacchi alle centrali elettriche, ai nodi di comunicazione e al sistema dei trasporti, per esempio, possono trovare una loro giustificazione nel tentativo di indebolire lo sforzo bellico del nemico.
Un'ulteriore considerazione, poi, riguarda l'importanza delle informazioni che le nuove tecnologie assicurano. Secondo alcuni entusiasti fautori della RAM, siamo giunti a rimuovere uno dei più seri problemi indicati da Karl von Clausewitz, il quale giudicava la difficoltà di ottenere informazioni attendibili uno dei maggiori 'attriti' in guerra, e come tale, costante elemento di disturbo e perenne fonte di errore da parte dei comandanti. Satelliti, sensori e computer avrebbero ora dissipato questo tipo di incertezza, permettendo finalmente di giungere a decisioni ottimali. Ma anche in questo caso occorre mostrare una certa cautela. Al di là delle effettive capacità della tecnologia (i mezzi a disposizione riescono a osservare bene forze convenzionali che si apprestano alla battaglia, ma hanno ancora una resa limitata nel monitorare la guerriglia e nel localizzare armi tradizionali, come i vecchi pezzi di artiglieria, o i missili non troppo sofisticati), c'è già chi nota tutta una nuova serie di 'attriti' legati a una quantità eccessiva di informazioni (tra le quali diventa quindi difficile individuare quelle davvero rilevanti), alla tendenza verso la centralizzazione delle decisioni (che toglie spazio ai comandanti sul campo, gli unici che vedono davvero ciò che sta accadendo), alla dipendenza nei confronti di questi sistemi (con il conseguente rischio di paralisi, nel caso di un arresto nel flusso delle informazioni), alla sottovalutazione di elementi non rilevabili dai sensori né suscettibili di essere elaborati dai computer (primo tra tutti, il morale delle truppe nemiche).
Ma se la RAM manterrà davvero le sue promesse? E se essa riguarderà un numero crescente di paesi? Le molte tecnologie per uso civile su cui la RAM si basa si stanno già diffondendo e si calcola che una ventina di Stati siano oggi in grado di costruire proiettili ad alta precisione. La prospettiva di condurre operazioni brevi, efficaci e a basso costo, nel corso della storia, ha sempre fornito un potente incentivo all'uso della forza. A questa tendenza, dai contorni ancora incerti, se ne affiancano altre due che non hanno una specifica dimensione militare ma che, sommate alla RAM, potrebbero avere effetti dirompenti: la crescita demografica e le esigenze di una industrializzazione sempre più diffusa. La prima solleva inquietanti interrogativi legati alla crescente urbanizzazione di milioni di diseredati in molti paesi del Terzo Mondo, alla inadeguata produttività agricola, all'esaurimento delle falde acquifere, allo sfruttamento, già al limite delle possibilità, delle risorse ittiche; le seconde fanno prevedere, tra l'altro, una domanda sempre più massiccia di petrolio da parte dell'Asia (soprattutto la Cina, naturalmente), con inevitabili ripercussioni su disponibilità e prezzi. Se la popolazione del pianeta continuerà ad aumentare a un ritmo al quale la produzione agricola non riesce a tenere dietro, e se lo sviluppo industriale farà lievitare sempre più il costo delle risorse naturali, disporre di un territorio più ampio diventerà, per molti Stati, desiderabile e, per alcuni, indispensabile. E se le tecnologie militari si evolveranno e si renderanno accessibili più rapidamente di quelle produttive, gli scenari che possono essere tracciati sono tutt'altro che rassicuranti, persino per quelle zone nelle quali la guerra sembra davvero diventata obsoleta.
In conclusione, riprendendo l'analogia sopra ricordata, se si può ragionevolmente azzardare la previsione che né la schiavitù né il duello conosceranno una nuova diffusione nei prossimi, diciamo, due decenni, lo stesso non può essere detto per quanto riguarda la guerra. Poiché, malgrado i più o meno profondi mutamenti culturali, l'interdipendenza economica e la distruttività delle armi disponibili, non si possono escludere situazioni nelle quali non ricorrere alla forza militare comporterebbe conseguenze giudicate persino peggiori della guerra - proprio come è avvenuto di solito nel passato.
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