GUIDO DELLE COLONNE
Scarsissime, come per tutti i poeti siciliani, le notizie biografiche che non siano frutto di ingegnose ma spesso ardite congetture. Nel caso di G. gli sforzi ricostruttivi sono stati ancor più sollecitati dalle menzioni che di lui fa Dante nel De vulgari eloquentia e hanno riguardato principalmente: a) l'origine messinese; b) l'identificazione della famiglia di appartenenza; c) gli anni presumibili della vita; d) il rapporto con l'autore della Historia destructionis Troiae (1272-1287). Non si può dire però che un esame spassionato dei dati accumulati dalla ricerca autorizzi oggi la ricostruzione di un profilo del poeta più preciso di quello (meglio, di quelli) che tracciarono, animosamente contrapponendosi, soprattutto gli eruditi della scuola storica. Si direbbe anzi che le pochissime certezze in nostro possesso non consentono di escludere nessuna ipotesi, neanche in verità le più avventurose: come, per esempio, quella del legame del rimatore con la famiglia romana dei Colonna, che suscitò, da parte di Francesco Torraca, una garbata accusa di campanilismo (non soddisfatto dall'avvenuta annessione alla Scuola dell'Abate di Tivoli) al romano Ernesto Monaci che l'aveva proposta, e un'ampia e spiritosa rassegna tendente a dimostrare viceversa la radice toponomastica del cognome. Anche la presunta parentela con l'altro rimatore siciliano, Odo, non può fondarsi che sull'identità della designazione. L'unico dato certo, come è evidente, è la qualifica di giudice, attribuitagli per ben due volte da Dante nel trattato latino (II, v, 4: "Iudex de Columpnis de Messana" e II, vi, 6: "Iudex de Messana") e confermata dai quindici atti in cui compare il suo nome nel periodo compreso tra il 1242 e il 1280; nel primo dei sette documenti in cui si trova anche la sua firma autografa, del 9 marzo 1243, egli si nomina "Guido de Columpnulis iudex Messanae", negli altri, fino all'ultimo del 3 giugno 1277, "Guido de Columpnis iudex Messanae" (Scandone sospettava un improbabile trascorso nel diminutivo della prima firma; Gaspary, fantasiosamente, pensava a uno sdoppiamento, con successiva erronea sovrapposizione, tra padre e figlio, essendo l'eredità del nome di battesimo e della professione fatto non raro nel periodo in questione). Anche l'origine messinese, che parrebbe indubbia, fu contestata da Monaci, convinto che G. rientrasse nella categoria dei giudici di cui Federico II aveva vietato che coincidessero città natale e sede dell'attività professionale (ma ancora una volta Torraca, citando documenti poco controvertibili, credette di poter rintuzzare tali conclusioni: G., secondo la formula riassuntiva di Francesco Scandone, "fu 'giudice a contratti' e, come tale, faceva parte della curia dello stratigoto di Messina, negli anni in cui a tale ufficio veniva eletto dai suoi concittadini"; Scandone, 1904). Inoltre il lungo arco di anni in cui è documentata la sua attività di giudice, se da una parte esclude che egli possa essere aggregato "agli epigoni della scuola siciliana" (Torraca, 1902), come si è spesso fatto, non rende senz'altro irricevibile, dall'altra, la sua identificazione con l'omonimo autore della Historia destructionis Troiae, rifacimento latino del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, iniziato nel 1272 ma portato a termine solo nel 1287. Identificazione, com'è noto, sostenuta, oltre che da Gorra, Torraca, Scandone, ecc., anche, in tempi recenti, da uno studioso come Carlo Dionisotti al quale risulterebbe altamente inverosimile credere "all'esistenza immediatamente successiva e probabilmente in parte contemporanea di due omonimi entrambi messinesi, entrambi giudici, entrambi uomini di lettere a tempo perso, e accordatisi per giunta a scrivere, l'uno soltanto rime volgari, ma nient'affatto popolari, testi d'una raffinata cultura e tecnica, l'altro soltanto la prosa latina della Historia" (Dionisotti, 1965). A conferma della plausibilità di una così dilatata cronologia, Dionisotti riteneva, non troppo inverosimilmente ma certo per avallare la sua ipotesi, di poter parlare di una "scuola siciliana" che "si apre nel decennio in cui è documentato il Notaro, fra il 1230 e il 1240, e non può certo chiudersi prima della morte di Enzo a Bologna, nel 1272" (ibid.). Eppure, nonostante tutto, qualche dubbio residuo permane.
Nessun dubbio invece sul rilievo assoluto del poeta, consacrato dai citati riconoscimenti danteschi che indussero Contini, forse non solo provocatoriamente, a ipotizzare in questo poeta il primo "Guido" della celebre dichiarazione di Purgatorio XI, 97. Il suo corpus, esiguo numericamente, è composto di sole canzoni, cinque in tutto: La mia gran pena e lo gravoso affanno, Gioiosamente canto, La mia vit'è sì fort'e dura e fera, Amor, che lungiamente m'ài menato e Ancor che ll'aigua per lo foco lassi (dei dubbi sulla paternità di La mia vit'è si parlerà più avanti). Le ultime due sono vistosamente riportate in totale isolamento, senza il nome dell'autore, in De vulgari I, xii, 2: manifestazioni non solo ben note, ma da ritenersi esemplari del perfetto adeguamento dei poeti della Scuola alla volontà, al prestigio e alla virtù dei sovrani, Federico II e Manfredi, nominati poco dopo a tutte lettere come autentici promotori e guide della poesia siciliana. Il giudizio di assoluta eccellenza verrà più avanti convalidato, sempre per i due componimenti citati, in base a considerazioni di carattere tecnico: a II, v, 4 Amor, che lungiamente m'ài menato sarà riportata tra gli esempi di canzoni illustri inizianti con un endecasillabo, e a II, vi, 6 Ancor che ll'aigua per lo foco lassi tra gli esempi del gradus constructionis excellentissimus, in ambedue i casi, questa volta, col nome dell'autore. Ma l'influenza esercitata dal vecchio rimatore siciliano sull'autore del De vulgari (non si dimentichi che G. scomparirà del tutto, come Cino, dalla Commedia quando, piuttosto che alla vetta della canzone tragica, Dante sarà interessato senza residui alle 'teste di serie', per così dire, ufficialmente riconosciute della tradizione poetica precedente, fossero pure autori francamente detestati come Guittone, nella celebre serie di Purgatorio XXIV, 56, dove il Notaro soppianta per sempre il giudice messinese) va anche al di là delle pur importantissime menzioni dirette: non il titolare di una produzione tramite la quale sia possibile esemplificare alcuni tratti ritenuti essenziali per la teoria dello stile tragico, ma quasi il modello da cui ricavare le regole (destinate di lì a poco a dissolversi nel poema) di quella poetica. Punto di partenza decisivo è appunto il privilegio accordato al genere canzone, unico praticato da G.; ma poi, in ben due casi su cinque, La mia gran pena e Amor, che lungiamente, la stanza risulta intessuta di soli endecasillabi (cf. De vulgari II, xii, 3: "quedam stantia est que solis endecasillabis gaudet esse contexta, ut illa Guidonis de Florentia Donna me prega, perch'io voglio dire, et etiam nos dicimus Donne ch'avete intelletto d'amore" ['c'è un tipo di stanza che si compiace di essere intessuta di soli endecasillabi, come nella famosa canzone di Guido di Firenze Donna me prega, perch'io voglio dire e così noi pure cantiamo Donne ch'avete intelletto d'amore'; trad. Mengaldo], luogo capitale del trattato come dimostrano le supreme allegazioni); assiduamente praticata è la concatenatio, cioè la ripresa rimica tra ultimo verso della fronte e primo verso della sirma (ben tre casi su cinque, due dei quali tramite rima interna; cf. ibid., xiii, 7); praticamente costante la combinatio, cioè la chiusura di stanza con un distico a rima baciata (solo in La mia vit'è, che è l'unica canzone d'altronde su cui grava qualche incertezza d'attribuzione, il modello canonico è sostituito dalla corrispondenza in rima interna; cf. ibid., xiii, 8); persino l'ammissione, peraltro solo teorica (come dimostra la contraddizione tra ibid., x, 4 e xii, 4), della fronte tripartita o, meglio, secondo l'esatta terminologia dantesca, della presenza di tre pedes ("rarissime tamen"), potrebbe esser fatta risalire al rarissimo affiorare del fenomeno nella stanza di La mia vit'è (tre piedi AB AB AB); senza contare, infine, la ricerca di una forma lunga, distesa, che consenta il pieno sviluppo della sententia, implicito Leitmotiv del trattato da ricondurre verosimilmente proprio alla meditazione sulle complesse operazioni costruttive di G. e soprattutto sulla stanza di Ancor che ll'aigua da cui discende il celeberrimo 'manifesto' guinizzelliano. E si noti, in quest'ultimo caso, come l'estensione atipica della stanza (ben diciannove versi!), il complesso intreccio metrico e retorico e la novità, destinata a un grande avvenire, dell'uso di ingegnose analogie naturalistiche e parascientifiche, facciano aggio sulla massiccia prevalenza del settenario sull'endecasillabo (tredici contro sei), sconsigliata da Dante (ibid., xii, 5).
Già il filtro prestigioso della valutazione dantesca, come si vede, permette di isolare alcuni dei tratti più significativi della prassi poetica di G. e ne evidenzia la funzione, per così dire, seminale nei confronti della grande poesia successiva, funzione probabilmente incomparabile con quella di ogni altro poeta della Scuola. Ma converrà ora esaminare più in dettaglio i componimenti, inserendoli nel quadro complessivo della produzione siciliana. Per quanto riguarda le testimonianze manoscritte, quattro delle cinque canzoni sono riportare da V (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793), sempre con esatta designazione dell'autore (due volte giudicie e una volta messer) tranne che per La mia vit'è, anonima. Solo di La mia gran pena il Vaticano è manoscritto unico; le altre canzoni presenti nel Vaticano sono anche in altri testimoni e delle questioni poste dalla non sempre perspicua pluritestimonianza ci occuperemo qui di seguito. L'unico testo non trasmesso da V è Ancor che ll'aigua, riportata da L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Redi 9) e parzialmente da P (ivi, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Banco Rari 217, già Palatino 418).
La mia gran pena e lo gravoso affanno è alla c. 5v di V, testimone unico, attribuita al "giudicie guido delecolonne di misina". Si tratta di una canzone di cinque strofe singulars e capfinidas di nove endecasillabi ciascuna (le stanze III e IV sono anche capcaudadas), con concatenatio tramite la rima interna e combinatio. Nei primi due versi della sirma la rima interna vale probabilmente a "spezzare programmaticamente [...] la 'monotonia' delle lunghe sequenze endecasillabiche" (Brugnolo, 1995), così come nell'altra canzone monometrica Amor, che lungiamente. Appartiene al versante 'euforico' della produzione di G. con rifunzionalizzazione di molti motivi caratteristici della poesia occitanica. La quale viene principalmente evocata sulla traccia di un testo di Perdigon, Ben aiȯl ma ėl afan ėl consir, la cui "utilizzazione estensiva" è stata messa in luce da Fratta sulla scia delle indicazioni di Torraca. Spia incontrovertibile ne è il parallelo attacco: "La mia gran pena e lo gravoso afanno / c'ò lungiamente per amor patuto / madonna lo m'à 'n gioia ritornato" ‒ "Ben aiȯl ma ėl afan ėl consir / qu'ieu sufert lonjamen per amor", dove si annuncia con evidenti riprese letterali (trascurando le sinonimie, si badi solo ai termini evidenziati) il tema centrale della trascurabilità, ma meglio auspicabilità (non solo "lo sofrire molta malenanza / ag'ubrïato, e vivo in allegranza", vv. 8-9, ma addirittura "Soferendo agio avuto compimento / e per un ciento m'àve più di savore / lo ben c'Amore mi face sentire / per lo gran mal che m'à fatto sofrire", vv. 24-27), di un protratto stato di sofferenza che metta capo alla realizzazione del desiderio (e il memorabile incipit di G., staccato dalla sua fonte, riecheggerà in molti toscani successivi, come Dante da Maiano, Lemmo Orlandi, Panuccio del Bagno, ecc.). Altri estesi recuperi anche letterali (per esempio ai vv. 13-18 e 25-27) fanno della canzone di Perdigon un vero e proprio ipotesto di quella di G., intarsiata peraltro di numerosi e non discutibili prelievi da una veramente cospicua serie di rimatori occitanici e passibile di ampi riscontri con altri componimenti, anche molto noti, della Scuola e successivi (basti il rimando a Ben mi degio alegrare di Ruggerone da Palermo e a Li contrariosi tempi di Chiaro Davanzati). Un testo dunque che riformula con molta compattezza il tema già noto (se ne veda la realizzazione più nota nel Bernart de Ventadorn di Non es meravelha) della necessità di soffrire (sof[e]rire compare in rima nelle prime quattro stanze) per godere più ampiamente delle gioie d'amore, insistendo su tale nozione non solo per sfoggio di variationes retoriche ma col marcato intento di esaurirne, per così dire, l'articolazione concettuale. Di rilievo, anche se in rapporto a una questione che non riguarda solo né specificamente G., la dimostrazione, incentrata proprio su questa canzone, che Di Girolamo-Fratta (1998) hanno effettuato dell'ammissibilità, nella metrica dei poeti fridericiani, di endecasillabi a cesura epica (cf. vv. 25, 34 e 43) e a cesura lirica (cf. v. 44) a partire dai versi a rima interna che "hanno l'ovvio vantaggio di segnalare in maniera indiscutibile la cesura e di non essere tanto facilmente sfoltibili" (v. Scuola poetica siciliana, metrica).
Sempre al versante euforico e a una matrice marcatamente provenzaleggiante riconduce Gioiosamente canto, canzone di cinque strofe singulars di dodici versi ciascuna (due piedi di quattro settenari ognuno e due volte endecasillabiche di distici a rima baciata), con concatenatio tramite la rima interna (come nella precedente) e combinatio. Più complesse, in questo caso, sia la situazione testuale che la corretta interpretazione dei legami con i modelli occitanici. Riassumendo e semplificando, la canzone compare, completa (cioè in versione lunga) e con attribuzione a G., in V, cc. 5v-6r ("giudicie guido dele colon(n)e dimesina") e nella sezione affine di L, c. 102rv ("Giudici Guido delecolonne"); con varianti, in versione ridotta e con sequenza alterata delle tre stanze residue (nell'ordine di V e L: I, IV, II) in P, c. 17rv e nel Chigiano L. VIII. 305 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana), c. 83r, ma attribuita all'altro messinese (l'autore si dichiara di Messina al v. 45) Mazzeo di Ricco (lo stesso vale per il frammento riportato dalla Poetica del Trissino, p. 28v, notoriamente dipendente da P). Per di più, la prima stanza è anche, attribuita a G., tra i prelievi dal "Libro Siciliano" del Barbieri, testimonianza probabilmente indipendente con lievi ma sicure tracce linguistiche siciliane. Lo studio dei testimoni depone per una tradizione sostanzialmente bipartita, che consiglia l'adozione del ramo V, L sia per la questione dell'attribuzione (stante la provata affidabilità dell'ordinatore di V e la traccia di connessioni intertestuali significative con la produzione certa di G., su tutte l'immagine dell'assessino tratta da Aimeric de Pegulhan che ritorna, con la stessa intonazione iperbolica, ai vv. 6-8 di Amor, che lungiamente per poi essere consegnata, com'è noto, ai toscani della seconda metà del secolo); sia, conseguentemente, per il numero e l'ordine di successione delle stanze (anche se un'attenta disamina dei collegamenti interstrofici potrebbe far pensare a una prima stesura ridotta per l'altro ramo della tradizione); sia ancora per la scelta delle lezioni di pari autorevolezza e per la complessiva veste formale. Il quadro, di non semplice decifrazione, non getta però ombre davvero inquietanti sulla paternità. Più delicato, e di gran peso per l'interpretazione e la valutazione del testo, il problema dei collegamenti coi modelli occitanici. La canzone viene letta da Meneghetti come "la più fornita esposizione di banalità trobadoriche che un poeta del XIII secolo potesse allestire" (Meneghetti, 1992, pp. 170-173), non però, si badi, per inerte subordinazione all'autorità delle fonti, ma a scopi intenzionalmente parodici di pastiche e divertissement. L'osservazione, in senso generale, è impeccabile: è difficile infatti reperire un altro testo della tradizione post-provenzale così infarcito di topoi descrittivi, ideologici e (pseudo)psicologici, immagini, similitudini, calchi linguistici fini e grezzi, tratti di peso dai modelli occitanici (cf. i riscontri ibid., p. 172). Senonché anche per questo componimento è rintracciabile uno specifico ipotesto trobadorico, la canzone di Folchetto da Marsiglia Cantar vuoill amorosamen (cf. Fratta, 1996, pp. 5-8) che, indirizzata encomiasticamente a Federico II, potrebbe essere stata scritta in anni molto vicini all'esordio della Scuola siciliana (tra la fine del secondo e l'inizio del terzo decennio del secolo). Dunque, fermo restando il riconoscimento del vistoso, marcatissimo 'occitanismo' del nostro testo, esso può esser letto o come estenuata parodia di modelli quasi irrisi nell'atto stesso in cui vengono esibiti, o come implicito omaggio, agli esordi dell'esperienza poetica siciliana, all'alta figura del sovrano, evocato, per chi ha orecchi per intendere, nel riecheggiamento privilegiato (non certo unico) di un testo molto recente contrassegnato dall'elogio della sua persona. In quest'ultimo caso, ovviamente, con rilevanti conseguenze sul ruolo che questa canzone, e G., possono aver avuto nell'avvio stesso della Scuola.
A un registro intermedio fra apprensione ed euforia può annettersi Amor, che lungiamente m'ài menato, tutta di endecasillabi ma intarsiata di rime interne come La mia gran pena, con cinque strofe di tredici versi ciascuna, senza concatenatio ma con regolare combinatio e non priva di qualche sperimentale asimmetria nella struttura dei piedi. La canzone è integralmente in V, c. 98rv e, fino alla prima parola del v. 20, in P, c. 60v; è inoltre riportata nella Giuntina, p. 215 (testimonianza utile per emendare qualche guasto evidente di V) e alcuni frammenti (vv. 1 e 27-34) compaiono nella Poetica del Trissino, pp. 24v e 36r. Senza eccezioni l'attribuzione a Guido. Si tratta di una lunga, densa canzone che, a un lettore attento, mostra subito le ragioni della predilezione dantesca. I debiti con la tradizione occitanica, che non mancano, coinvolgono questa volta solo porzioni puntuali del testo ed escludono il riferimento a una fonte privilegiata (si noti solo la notevole risemantizzazione, nella stanza IV, del motivo occitanico, ormai poco più che formulare, del celar e cubert tener). Isolando il momento in cui il doloroso 'travaglio' d'amore non esclude ancora la speranza e dunque la richiesta diretta a madonna (e ad Amore) affinché allentino la loro presa che potrebbe essere mortale (si tratta dell'attesa di quel sospiratissimo compimento raggiunto in Gioiosamente canto, tale da riscattare il penoso itinerario affrontato per conseguirlo), G. si muove distesamente tra un alto uso della retorica (cf. per esempio i preziosi ossimori dei vv. 9-10 "affanno diletoso" e "dolze pena"; le dittologie di voci verbali in rima ai vv. 4 "à vinto e stancato", 20 "'ncresca e grave", 28 "convegna e steavi bene", 49 "asconde ed incoverchia"; ecc.) e la tendenza ad articolare concettualmente i passaggi. L'obiettivo è, piuttosto che il lamento e la perorazione personale, la descrizione di un percorso oggettivo, punteggiato di dichiarazioni sentenziose, di epifonemi generalizzanti (cf., per esempio, vv. 18-19 "ké sì gran travi poco ferro serra / e poca piogia grande vento aterra", con analogia naturalistica raddoppiata a chiasmo; vv. 22-23 "E cierto no lgli è troppo disinore, / quand'omo è vinto d'uno suo melgliore"; v. 26 "sagio guerrieri vincie guerra e prova"; vv. 29-32 "c'a bella donna orgolglio ben convene, / che si mantene im prescio ed in grandeza. / Troppa altereza è quella che scovene; / di grande orgolglio mai ben non avene"; ecc., con progressiva intensificazione nel procedere del discorso). Notevole, nella terza stanza da cui provengono gli ultimi versi citati, lo sviluppo di un suggerimento di Bernart de Ventadorn (Ab joi mou lo vers, v. 33 "Ben estai a domn' ardimens") che sfocia nel motivo della distinzione tra "giusto orgoglio" ed "eccesso di orgoglio", attivo fino al Petrarca di Mai non vo' più cantar.
Dubbi non facilmente liquidabili sull'attribuzione a G. suscita La mia vit'è sì fort'e dura e fera, innanzitutto per ragioni tecniche. La canzone (ma "canzonetta" secondo la designazione dell'ultima stanza che funge da congedo) si compone di cinque strofe singulars di dieci versi ciascuna, con rarissima fronte endecasillabica tripartita (AB AB AB) e sirma indivisa di quattro versi, un ottonario (ma i codici oscillano tra ottonario e settenario), due settenari e un endecasillabo. Mancano sia la concatenatio che la combinatio (anche se l'ultimo verso della stanza è collegato al precedente tramite la rima interna, che isola un quaternario nelle stanze II, III e IV, un quinario nelle estreme). L'accumularsi di tante anomalie metriche, obiettive o in rapporto alla produzione certa di G., è solo la prima ragione (e neanche la più consistente) che giustifica qualche dubbio sulla paternità della canzone. Ad essa si aggiungono le numerose rime tra vocali aperte e chiuse che insospettirono già Contini e si prospettano ora a Castellani, che condivide le conclusioni di Tallgren, come elementi sufficienti a dichiarare la non attribuibilità del componimento a un siciliano e dunque a G.; senza contare le obiezioni in chiave stilistica di Parodi, che pensò piuttosto all'opera di un siculo-toscano. Né minor peso ha l'adespotia del componimento in V, c. 22v, dove compare all'ultimo posto di una serie di anonime immediatamente prima della sezione di Mazzeo di Ricco; solo P (e la Poetica del Trissino che, però, come si sa, da P dipende) dà la canzone, alla c. 21rv, a "Messer Guido iudice dalecolonne", ma isolata nel settore alfabetico. In realtà nessuna delle obiezioni riportate pare davvero insormontabile, anche se il loro accumulo suggerisce prudenza; converrà in ogni caso continuare ad annettere il componimento al canone tradizionale di G. sulla base dell'unica attribuzione, quella di P (solitamente, è vero, non affidabilissimo), storicamente attestata. Contrariamente alle altre composizioni di G., questa canzonetta appartiene tutta al versante disforico della tematica amorosa di genere: il poeta si sente a un passo dalla follia e dalla morte (dal v. 4 "e sto com'on ke non si pò sentire" nasceranno forse la "statua d'ottono" di Guinizzelli, Lo vostro bel saluto, vv. 12-14, e il celebre automa devitalizzato di Cavalcanti, Tu m'hai sì piena, vv. 9-14); l'unica persona che potrebbe salvarlo è madonna; certo, se ella sapesse la condizione in cui ha messo il suo amante, non esiterebbe a intervenire. Alla fine, nell'ultima stanza-congedo, il poeta prega la canzonetta di farsi tramite suo presso la donna. Specialmente memorabili, ai vv. 33-36, le cadenze che assume il vano appello al mondo e agli amici, quasi un andare di porta in porta in cerca di aiuto: "Di tanto mondo quant'agio cercato / nullo consillio non posso trovare: / a tutti li miei amici sono andato, / dicon che no mi possono aiutare"; cui segue il motivo della donna che ha potere di dare "morte e vita", presente anche in un sonetto del Notaro Molti amadori, v. 8, e ricavato probabilmente dal provenzale più amato dai siciliani, Folchetto da Marsiglia (ma si veda l'ampia ricostruzione di Picchio Simonelli, 1982, pp. 207-208). L'unico nucleo tematico (non certo l'unico luogo puntuale) della poesia in cui è possibile riconoscere l'influenza decisiva di precedenti occitanici è quello espresso organicamente, ma serpeggiante in realtà per tutta la sua lunghezza, ai vv. 21-24, dove si dichiara la certezza della risposta positiva della donna qualora si rendesse conto dello stato dell'amante.
Ancor che ll'aigua per lo foco lassi, la canzone più celebre (e più celebrata, soprattutto, si è visto, da Dante) della piccola raccolta di G., presenta cinque stanze con due piedi (di quattro versi ciascuno) speculari a rime invertite (AbbA BaaB) e una lunghissima sirma indivisa di ben undici versi (nove settenari e due endecasillabi); tra fronte e sirma, concatenatio endecasillabo/settenario, unico caso, nelle rime di G., di concatenatio realizzata da un verso autonomo e non tramite la rima interna; in chiusura normale combinatio. Il testo è tràdito integralmente solo da L, cc. 78v-79r, unico componimento di G. nel codice, e solo per le prime tre stanze (che sono capfinidas) da P, cc. 61v-62r: indecidibile, allo stato dei fatti, l'eventualità che la versione P possa costituire un'originaria redazione autonoma ridotta. I primi otto versi sono anche nella Poetica del Trissino, p. 31r, dipendente, come sempre, da P. Impressiona l'assenza di questo testo, ammiratissimo da Dante, in V: ora, è vero che probabilmente Dante leggeva i Siciliani in un codice affine a V, ma si sarà trattato con ogni verosimiglianza di un codice più alto nello stemma. Qualche luce può venire dalla collocazione della canzone in P dove Ancor che ll'aigua segue Amor, che lungiamente: con le parole di Contini (1952, p. 387), "nasce fortissimo il sospetto che nell'eventuale tradizione comune entrambe le canzoni di Guido stessero in coda, fuori dell'ordine competente, in altre parole che V abbia perduto P 104 [=Ancor che ll'aigua] perché era alla fine dell'antigrafo". Qui, come già in Amor, che lungiamente (non a caso le due canzoni elette nel De vulgari), da una parte si diradano vistosamente i debiti rispetto ai modelli occitanici, dall'altra le fasi della solita vicenda personale vengono programmaticamente passate al vaglio di estese e articolate analogie naturalistiche (il medium tra acqua e fuoco, la "neve", la "calamita"). Il sistema, tra retorico e (pseudo)dimostrativo, che regola questo nesso replicato tra dati dell'esperienza fattuale e costanti della fenomenologia amorosa, investe la struttura delle prime due strofe e dell'ultima, in cui la sirma, a enfatizzare il passaggio, è sempre introdotta dal modulo comparativo "così". L'ordine che ne deriva svela la preminenza dell'istanza oggettivante, e la consequenzialità quasi deterministica degli stati e delle reazioni dell'amante. Ne deriva la coerente realizzazione, a un livello di altissima consapevolezza, di uno dei tratti più tipici della nuova poesia siciliana: la sostanziale obliterazione dell'oggetto d'amore (la donna viene convenzionalmente designata come "gentil criatura", "donna d'aunore", "colorita e blanca / gioia de lo mio bene", "madonna mia" e altrettanto prevedibili sono i segni puramente esteriori della sua avvenenza: "vostre beltate", "ghaia persona", "vostro amoroso vizo netto e chiaro"); e, di contro, l'assoluta ipertrofia del soggetto e di Amore in quanto tale. Nell'amplissimo disegno di G. manca forse la coerenza connettiva, la coe-sione logica dell'insieme: ma non v'è dubbio che da qui prenderanno le mosse, con il decisivo innesto di altre istanze speculative, i grandi protagonisti dell'avanguardia poetica bolognese-fiorentina di fine secolo, a partire dal Guinizzelli di Al cor gentil rempaira sempre amore (una prova puntuale della connessione, se ce ne fosse bisogno, la offre il distico 24-25 "Amor è uno spirito d'ardore / che non si pò vedire", con cui si inaugura quella questione sulla 'visibilità' di Amore che sarà al centro della capitale digressione del cap. XXV della Vita nuova e della dimostrazione cavalcantiana di Donna me prega). Certo molto altro varrebbe la pena notare di questa grande canzone: l'intreccio sapiente tra atipica struttura metrica e sintassi, già evidentissimo nel complesso esordio; il gioco spesso ricercato di rime non ovvie, talora difficili; la non comune energia lessicale che si accompagna a nessi arditamente scorciati, per cui si è persino parlato di modi (tutt'al più occasionali) da trobar clus.
Si è già detto che l'eventualità che la figura del poeta e quella del tardo autore della Historia destructionis Troiae coincidano appare, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alquanto remota. In attesa di improbabili, nuovi documenti che possano dirimere la questione, occorre semplicemente scegliere tra la posizione sostenuta energicamente da Carlo Dionisotti, di cui si è già detto, e quella che, incredula comunque di una così protratta longevità, trova anche in ragioni interne motivo di distinguere nettamente le persone dei due omonimi. Capitale, tra queste ragioni, l'inconciliabilità, tra poeta e prosatore, delle rispettive idee dell'amore (ma, si noti, l'austera condanna che si legge nella Historia potrebbe configurarsi, per i sostenitori dell'opposta tesi, come una ritrattazione senile, non rara, com'è noto, nella prassi del periodo). L'opera, comunque per gran parte interna al nuovo ambiente angioino e su cui dunque converrà in questa sede soffermarsi solo per cenni, viene iniziata, secondo le notizie forniteci dallo stesso autore, nel 1272 su invito del vescovo di Salerno Matteo della Porta; completato il primo libro, è abbandonata per essere ripresa e terminata, in soli tre mesi, nel 1287. Si tratta, cosa già di per sé di particolare interesse, della versione latina del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, scritto poco dopo la metà del sec. XII, o forse di una versione in prosa di questo. Ma il sicuro ipotesto francese viene taciuto dall'autore che preferisce citare come proprie fonti due opere tardoantiche del I sec. tradotte in latino fra IV e VI sec., il De excidio Troiae di Darete Frigio e l'Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese. Oltre al profilo dell'opera in quanto tale (ispirata a un razionalismo di maniera, moralistica, antivirgiliana e soprattutto antiovidiana e dunque violentemente polemica, tramite Ovidio, con la complessiva matrice erotica dell'esperienza letteraria romanza), ciò che interessa è l'operazione linguistica in essa realizzata e soprattutto la straordinaria fortuna che le arrise (essa figura certamente, a tacer d'altro, tra i precedenti inoppugnabili del Filocolo boccacciano). Quanto alla prima questione, converrà riconoscere, con Dionisotti, l'assoluta eccezionalità, nel Duecento e nel primo Trecento, di una "traduzione in grammatica e retorica di un testo romanzesco che, se anche nel corso del Duecento già era scaduto dalla poesia alla prosa, restava però fermamente ancorato alla tradizione narrativa francese o comunque volgare". L'operazione svela forse una sottile ambivalenza, se è vero che la materia francese, collegata ai nuovi dominatori, viene in qualche modo assunta e rovesciata, sia tematicamente (nel passaggio dalla leggenda alla storia e nella pronunciata tonalità antieroica e antierotica) sia, soprattutto, linguisticamente. E la straordinaria fortuna di cui l'opera godette, testimoniata dall'altissimo numero di codici tre e quattrocenteschi che la tramandarono e dai numerosi volgarizzamenti, ne fa "uno dei pochi testi che propriamente possano dirsi fondamentali della letteratura italiana del Duecento" (Dionisotti, 1965), vera fonte diretta, essa e non gli originali francesi, delle innumerevoli storie troiane in volgare prodotte in Veneto, in Toscana e nel Meridione d'Italia dall'ultimo Duecento alla fine del Medioevo.
Se davvero fosse possibile dimostrare l'identità tra il grande poeta fridericiano e il prosatore latino della Historia, e sanare la sconcertante cesura che potrebbe surrettiziamente spaccarne in due tronconi quasi irrelati la fisionomia, G. si dimostrerebbe non solo uno dei massimi lirici delle nostre origini, ma anche tra le personalità storicamente più influenti dell'intera tradizione letteraria italiana. Un riconoscimento che converrà, per il momento, limitare prudenzialmente alla figura del poeta.
Fonti e Bibl.: i testi si citano secondo la lezione fermata nella nuova edizione critica e commentata in corso di allestimento da parte di vari autori per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani; le rime di Guido delle Colonne sono state curate da Corrado Calenda. Le canzoni di Guido delle Colonne, comprese naturalmente nella raccolta complessiva di B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 75-82, 405-407 e 428-430, avevano già fruito di un'eccellente edizione critica a cura di G. Contini, Le rime di Guido delle Colonne, "Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani", 2, 1954, pp. 178-200, poi riprodotta, "con minimi ritocchi", in Poeti del Duecento, I-II, Milano-Napoli 1960: I, pp. 95-110; II, p. 807. Le due edizioni Contini, corredate di commenti molto diversi e complementari, rendono del tutto superflue, e in qualche caso emendano vistosamente, tutte le edizioni precedenti. Importante l'edizione diplomatico-interpretativa compresa nelle Clpio (Concordanze della lingua poetica italiana delle origini), a cura di d'A.S. Avalle, I, ivi 1992, passim. La Historia destructionis Troiae va ancora letta nell'edizione a cura di N.E. Griffin, Cambridge (Mass.) 1936. Per la biografia e la questione dell'identità o meno dei 'due Guidi': A. Gaspary, La scuola poetica siciliana, Livorno 1882, p. 17; E. Gorra, Testi inediti di storia troiana preceduti da uno studio sulla leggenda troiana in Italia, Torino 1887; E. Monaci, Di Guido della Colonna trovadore e della sua patria, "Atti della R. Accademia dei Lincei, Rendiconti. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche", 1, 1892, pp. 190-198; C.A. Garufi, La Curia stratigoziale di Messina, a proposito di Guido delle Colonne, ibid., 9, 1900; F. Torraca, Il giudice Guido delle Colonne di Messina, in Id., Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 379-468 (cui si rimanda anche per la precisa indicazione delle fonti; dello stesso volume cf. anche le pp. 366-377); F. Scandone, Guido delle Colonne, in Id., Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana con documenti, Napoli 1904, pp. 223-285; R. Chiantera, Guido delle Colonne poeta e storico latino del secolo XIII e il problema della lingua nella nostra primitiva lirica d'arte, ivi 1956; C. Dionisotti, Proposta per Guido Giudice, "Rivista di Cultura Classica e Medioevale", 7, 1965, pp. 452-466. Tra i non molti contributi filologici e critici: G. Contini, Questioni attributive nell'ambito della lirica siciliana, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, pp. 367-395 (passim); G. Folena, Cultura e poesia dei siciliani, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi-N. Sapegno, I, Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 271-347 (in partic. pp. 319-322); A.E. Quaglio, I poeti della 'Magna Curia' siciliana, in Letteratura Italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, I, Il Duecento dalle origini a Dante, a cura di E. Pasquini-A.E. Quaglio, Bari 1970, pp. 169-240 (soprattutto pp. 203-210); M. Marti, Il giudizio di Dante su Guido delle Colonne, in Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, pp. 29-42; Id., Guido delle Colonne, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, pp. 323-324; V. Moleta, Guido delle Colonne's 'Amor che lungiamente m'hai menato': A Source for the Opening Metaphor, "Italica", 4, 1977, pp. 468-484; M. Beretta Spampinato, La scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, IV, Napoli 1980, pp. 387-425 (in partic. pp. 415-416); R. Russel, Significato come forma: una lettura della canzone 'Ancor che l'aigua per lo foco lassi' di Guido delle Colonne, "Romanic Review", 71, 1980, pp. 183-196; M. Picchio Simonelli, Il 'grande canto cortese' dai provenzali ai siciliani, "Cultura Neolatina", 42, 1982, pp. 201-238 (passim); F. Bruni, Boncompagno da Signa, Guido delle Colonne, Jean de Meung: metamorfosi dei classici nel Duecento, "Medioevo Romanzo", 12, 1987, pp. 110-115; M.L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poesia cortese fino al XIV secolo, Torino 1992, pp. 170-173; F. Brugnolo, La scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, I, Dalle origini a Dante, Roma 1995, pp. 265-337 (in partic. pp. 295-296 e passim); A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996, pp. 5-8, 10-11, 30-48; F. Beggiato, Percorso di un vettore tematico, in Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1998, pp. 156-166; C. Di Girolamo-A. Fratta, I decenari con rima interna e la metrica dei Siciliani, ibid., pp. 167-186. Per l'attribuzione di La mia vit'è sì fort'e dura e fera: O.J. Tallgren, Sur la rime italienne et les Siciliens du XIIIe siècle Observations sur les voyelles fermées et ouvertes, "Mémoires de la Société Néo-Philologique de Helsingfors", 5, 1909, pp. 235-374 (in partic. p. 308); E.G. Parodi, Rima siciliana, rima aretina e bolognese, in Lingua e Letteratura, a cura di G. Folena, Venezia 1957, pp. 152-188 (in partic. p. 161); A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I, Introduzione, Bologna 2000, pp. 510-511.