Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla fine della Repubblica, la musica in Inghilterra risente della chiusura verso le arti decretata dal puritanesimo. I musicisti della nuova generazione guardano a Italia e Francia, le nazioni dotate delle più forti e autonome tradizioni musicali del momento, per avviare una rifondazione della musica inglese che culmina nella produzione di Henry Purcell.
La restaurazione musicale inglese sotto Carlo II
Quando nel 1658, alla morte di Cromwell, ha termine in Inghilterra l’esperienza repubblicana e si creano i presupposti per il ripristino della monarchia Stuart, non è solo l’assetto politico ed economico della nazione ad apparire profondamente modificato.
Le arti, come ogni altro aspetto della vita culturale inglese, risentono della chiusura verso la Repubblica operata dal resto d’Europa, e incrementata dall’interno dallo stesso spirito isolazionista del movimento puritano.
A parte alcuni rari casi di felice militanza artistica (si pensi all’opera poetica di John Milton), la severa religiosità puritana colpisce, riducendone fortemente la pratica pubblica (se non addirittura interdicendola), due forme artistiche che nell’Inghilterra del primo Seicento avevano dato origine a tradizioni e scuole schiettamente nazionali: il teatro e la musica (nelle sue accezioni teatrale e liturgica).
Per quanto riguarda specificamente la musica, che pur continua a venire coltivata nella sua dimensione strumentale (piccoli complessi di viole, detti consorts) nell’intimità delle case borghesi, la condanna morale decretatale dal puritanesimo si manifesta nella sua radicale messa al bando dalle chiese, nelle quali è ammesso, come unica eccezione, il canto comunitario dei salmi.
Le istituzioni all’interno delle quali il musicista di professione da sempre aveva trovato non solo un impiego stabile regolarmente retribuito, ma anche il più assiduo dei committenti, chiudono le loro porte alla musica d’arte.
L’interdizione della musica d’arte dalle chiese d’Inghilterra ha come conseguenza l’interruzione di una tradizione musicale liturgica fiorente, e causa la drastica diminuzione di istituzioni all’interno delle quali formare musicalmente i fanciulli dotati e far lavorare i professionisti, con una conseguente crisi nelle “vocazioni” musicali.
E ciò proprio nel periodo, cruciale per la storia della musica europea, che vede l’affermarsi della monodia sulla polifonia, della accordalità tonale sul contrappunto modale, e l’imporsi dell’idea di concerto.
La monarchia restaurata ripristina l’impiego della musica nelle chiese, ma quanto è sopravvissuto stilisticamente dell’antica scuola inglese, dopo quasi un ventennio di stasi, suona inevitabilmente vecchio.
È naturale perciò che i musicisti preposti da Carlo II a una “restaurazione” musicale guardino alle due più fiorenti e importanti tradizioni musicali esistenti, quella italiana e quella francese. Lo stesso re prende parte in prima persona alla rinascita musicale del Paese.
Reduce da 11 anni d’esilio trascorsi presso il cugino Luigi XIV, Carlo II istituisce immediatamente al suo rientro un complesso di 24 violini, modellato sui Vingt-quatre violons du roy uditi alla corte di Francia, la cui modernità rispetto agli autoctoni consorts di viole va oltre il mero aspetto timbrico, per interessare stile e tecnica orchestrali. Ma non solo.
Con la guida di Henry “Captain” Cooke, viene ripristinato il coro della Cappella Reale, ove fanciulli dotati ricevono un’adeguata educazione musicale (tra essi Pelham Humfrey, Henry Hall, John Blow, Michael Wise, William Turner, Robert Smith e Thomas Tudway), e dalla metà degli anni Sessanta musicisti italiani, soprattutto, e francesi, sono chiamati a lavorare per la corte (tra gli altri Bartolomeo Albrici, Giovanni Battista Draghi e Louis Grabu).
Che la restaurazione musicale nazionale assuma i caratteri di un vero e proprio affare di Stato è poi sancito dai viaggi-missione d’istruzione compiuti tra il 1661 e il 1662 da John Banister in Francia e tra il 1664 e il 1667 da Humfrey in Francia e Italia (finanziato, quest’ultimo, nientemeno che dalle casse dei servizi segreti, è da escludersi che Humfrey fosse una spia in missione).
È vero che anche Nicholas Lanier 40 anni prima si era recato in Italia per ordine del re, riportandone molte idee e suggestioni che avevano poi trovato chiara attuazione nelle sue musiche, ma le attitudini e le ragioni che motivano il suo viaggio da una parte, e quelli di Banister e Humfrey dall’altra sono affatto differenti.
Non è infine un caso che in quegli anni, in cui in Inghilterra scarseggiano scuole e maestri di musica, l’Introduzione alla perizia musicale (Introduction to the skill of musick) di John Playford, pubblicata per la prima volta nel 1654, conosca un successo strepitoso, raggiungendo, quale irrinunciabile vademecum della new wave musicale inglese, le 16 edizioni in 40 anni (alla sedicesima, del 1694, avrebbe collaborato anche Henry Purcell).
Tra Italia e Francia: assimilazione e sintesi nello stile musicale di Purcell
In generale i musicisti inglesi attivi durante il regno di Carlo II (1660-1685) dimostrano un’estrema attenzione a quanto il continente può offrire in fatto di musica, assimilando, senza pregiudizi nazionalistici, stili e forme dalle tradizioni musicali italiana e francese.
Amalgamati ai residui del vecchio substrato musicale autoctono, rielaborati, adattati alle particolarità accentuative e sonore della lingua inglese (per le composizioni vocali), elementi stilistici italiani e francesi concorrono alla formazione di uno stile che, nonostante il carattere composito, non pecca di disorganicità.
Lo stile italiano diviene il riferimento per la musica vocale, solistica o d’assieme che sia; quello francese per la musica corale e strumentale, in particolar modo per quella destinata alla liturgia (si pensi alle analogie di scrittura esistenti fra il grand motet francese e l’anthem inglese coevo).
Nei 20 anni che seguono la Restaurazione si assiste in Inghilterra al fiorire di una generazione di musicisti che, praticando l’assimilazione di stili di provenienza continentale, porgerà alla generazione successiva, della quale Henry Purcell (1659-1695) è il più importante rappresentante, uno stile inglese già in via di definizione.
Conservativo e innovativo, lo stile musicale di Purcell compendia, in un organismo ove procedimenti compositivi tra loro storicamente distanti convivono in assoluta armonia e senza fratture, le esperienze stilistiche inglesi del XVII secolo.
La polifonia dell’antica scuola britannica e lo stile monodico italiano, l’omogeneità sonora e timbrica della musica scritta per consorts di viole (tanto in voga in Inghilterra nel primo mezzo secolo del Seicento) e la varietà connaturata invece a quella forma gerarchizzata che è il concerto, il senso della cantabilità italiano e quello della pulsione ritmica francese, la flessibilità del modalismo legato alla vecchia scrittura contrappuntistica e la rigidità della nuova scrittura organizzata secondo le sequenze predefinite dell’armonia tonale, tutto fa parte del linguaggio musicale purcelliano.
Nella musica di Purcell nuovo e vecchio, convivendo, rompono con le loro rispettive convenzioni per generare uno stile originale autenticamente inglese.
Emblematico da questo punto di vista è un brano come il Lamento di Didone che conclude Didone ed Enea, dove con insuperato talento Purcell tratta uno dei procedimenti compositivi più rigidi e vincolanti della musica del tempo, appreso negli anni di apprendistato alla scuola di John Blow: la composizione su basso ostinato.
In esso elementi eterogenei si congiungono senza contraddizioni grazie a un magistero compositivo in cui tecnica e invenzione sono in costante ribellione contro la forma assoluta e pedissequa della scuola.
Opera in musica e dramatic opera
La società inglese del XVII secolo, analogamente a quella francese (e sia pur per ragioni in parte differenti), dimostra una certa refrattarietà di fronte alla tendenza espansionistica dell’opera italiana.
Una causa è certo da ricercarsi nella chiusura dei teatri seguita all’inizio della guerra civile e continuata fino alla fine della Repubblica (1642-1660), ma non va dimenticato che sui palcoscenici inglesi prima del 1642 è vivissima una tradizione teatrale colta con la quale ogni nuova eventuale forma di teatro dovrà fare i conti, quella del teatro elisabettiano, alla quale la componente musicale, benché nella veste di musica di scena, non è affatto estranea.
Anche a Restaurazione avvenuta, l’istituzione di un teatro d’opera italiana, appare improponibile in una nazione il cui pubblico è abituato a comprendere quanto detto in scena. L’idea di un’opera inglese, invece, è scoraggiata da quanti, come l’autorevole John Dryden, non ritengono il loro idioma adatto al canto come l’italiano. Dryden si ricrederà solo dopo il Diocleziano di Purcell, del quale diverrà un acceso sostenitore.
È vero che un primo tentativo per creare un’opera in lingua inglese era già stato fatto nel 1656 con L’assedio di Rodi (un testo a carattere storico di William Davenant musicato a sei mani da Henry Lawes, Henry Cooke e Matthew Locke, e dissimulato, per non destare l’ostilità puritana, con il sottotitolo di “Rappresentazione in cinque entrate”), ma per quanto fortunato fosse stato, l’esperimento non aveva avuto seguito.
Grazie alla francofilia musicale di Carlo II, invece, la tragédie lyrique fa la sua comparsa nel 1674 con Arianna, ovvero il matrimonio di Bacco (Ariane ou le mariage de Bacchus) di Louis Grabu, e, di lì a 10 anni, nel 1686 con una rappresentazione, allestita da una compagnia francese, di Cadmo e Armonia di Jean-Baptiste Lully.
Né Arianna, che si risolve in un fiasco, né Cadmo e Armonia, che invece è accolta con entusiasmo, riescono ad avviare una tradizione operistica d’oltremanica in suolo britannico. La loro rappresentazione testimonia però di un interesse per la musica drammatica francese, soprattutto tra i musicisti, che va al di là della mera curiosità (dal 1680 le partiture operistiche di Lully sono regolarmente pubblicate e accessibili perciò a chiunque voglia studiarle).
Il primo frutto in lingua inglese nato dallo studio dei modi operistici francesi è Venere e Adone, composto nella prima metà degli anni Ottanta da Blow, seguito nel 1685 da Albione e Albano, secondo fallimento operistico di Grabu su testo nientemeno che di Dryden.
La brevissima opera di Blow, se per l’ascendenza francese delle sezioni strumentali denota una certa raffinatezza di scrittura, risulta però goffa dal punto di vista vocale: le parti recitative e le sezioni più cantabili sono lontane tanto dalla vivace e sensuale vocalità italiana, quanto dall’aristocratico declamato francese.
Bisogna attendere la composizione di Didone ed Enea da parte di Purcell, frutto più di una commissione casuale che di una deliberata scelta vocazionale del compositore, perché si possa parlare di un prototipo riuscito di opera inglese.
Italiana è la vocalità, non di rado virtuosistica, italiano il tipo di recitativo, vicino all’arioso dell’opera veneziana di metà Seicento, mentre, come già in Blow, di matrice chiaramente francese è l’ouverture di tipo lulliano e l’inserzione nell’azione drammatica di digressioni spettacolari collettive, con cori e danze, anch’esse chiaramente ricalcate sui divertissements della tragédie lyrique.
In Didone ed Enea però, assai simile per forma, dimensioni e carattere del soggetto a Venere e Adone di Blow, Purcell va oltre la mera giustapposizione di elementi italiani e francesi, per miscelarli, grazie a un talento melodico e armonico affatto originali, in un tessuto ove le due componenti risultano assolutamente necessarie e complementari l’una all’altra.
Purcell stesso descrive il suo approccio alle due tradizioni “maestre” nella prefazione, messa in bell’inglese da Dryden e preposta alla partitura delle musiche per Diocleziano.
Henry Purcell
Musica e poesia si completano
Diocleziano
Musica e poesia sono sempre state riconosciute per sorelle che, procedendo mano in mano, si sostengono a vicenda. Se la poesia è l’armonia delle parole, la musica è l’armonia delle note; e come la poesia si solleva sopra la prosa e l’arte oratoria, così la musica esalta la poesia. Ciascuna di esse può eccellere singolarmente: congiunte, esse sono eccellentissime, poiché soltanto allora non manca nulla alla loro rispettiva perfezione, e brillano come brillano spirito e bellezza in un’unica persona. Nella nostra nazione la poesia e la pittura hanno raggiunto la loro maturità: anche la musica, sebbene si trovi tuttora nella minore età, è una ragazza precoce e fa ben sperare di ciò che essa potrà diventare in futuro in Inghilterra, quando i di lei maestri troveranno maggiore incoraggiamento. Per ora sta imparando l’italiano, che è il suo miglior precettore, e studia anche un poco di modi alla francese, per darsi maniere un po’ più gaie e aggraziate. Più lontani dal sole noi siamo d’una maturazione più lenta che non le nazioni vicine, e ci dobbiamo accontentare di scuoterci di dosso la barbaricità poco a poco. L’età presente pare già disposta a una certa raffinatezza, e impara a distinguere tra una fantasia selvaggia e una proporzionata, esatta composizione.
in L. Bianconi, Il Seicento, Torino, Edt, 1992
Didone ed Enea rimane, comunque, un’esperienza isolata per Purcell. Pur consacrandosi quasi interamente alla musica drammatica negli ultimi cinque anni di vita, il compositore inglese non scriverà più una sola vera opera, né Didone sarà mai più ripresa lui vivente.
Tra il 1690 e il 1695, anno della morte, Purcell rivolge l’attività di musicista drammatico alla composizione di arie, ouvertures, danze, cori, cioè a quanto costituisce il momento “operistico” di quel genere affatto inglese che passa sotto il nome di dramatic opera.
In quel quinquennio dopo le musiche del Diocleziano, Purcell scrive, oltre a una grande quantità di musiche di scena per i teatri londinesi, le musiche per Re Artù, La regina delle fate, e La regina indiana.
Il dramatic opera, però, che per usare le parole di Robert Moore è “come uno spettacolo di impressionante bellezza che affascinava un pubblico convinto di assistere a due spettacoli al prezzo di uno, quelli offerti dalla musica e dal dramma parlato”, non è assolutamente un genere che può portare alla maturazione di una tradizione operistica nazionale, giacché, relegando l’intervento della musica ai momenti secondari dell’azione, non consente al compositore di sperimentare a fondo le potenzialità drammaturgiche e narrative della musica.
Quando nei primi anni del XVIII secolo Londra diverrà sede di un teatro ove saranno allestite opere italiane, di compositori italiani, su libretti in italiano, cantate da cantanti italiani, la scommessa sulla nascita di un’opera inglese sarà definitivamente persa, e interrogarsi oggi su quelle che avrebbero potuto essere le possibili sorti di un’ipotetica opera nazionale inglese se Purcell non fosse prematuramente morto è cosa futile.