Sorpresa, i giovani tornano a teatro
Il Piccolo Teatro di Milano fa più abbonamenti delle squadre di calcio. Un segnale positivo, ma basta il bonus ai diciottenni per rilanciare i consumi culturali in Italia?
Il 25 gennaio 2016 la Gazzetta dello Sport riportava con sorpresa che il Piccolo Teatro di Milano vendesse più abbonamenti delle squadre di calcio cittadine: «Questo gol non lo potevano parare nemmeno Handanovič e Donnarumma: il Piccolo batte Inter e Milan, a Milano preferiscono... il teatro. Sì, avete letto bene: per la prima volta nella sua storia, infatti, il teatro milanese supera il record di 25.000 abbonati; meglio di nerazzurri e rossoneri (...) di sicuro il fenomeno coinvolge tutti, anche e soprattutto i più giovani: il 35% degli abbonati al Piccolo sono ragazzi al di sotto dei 26 anni, con un aumento di quasi il 10% rispetto al passato (e degli oltre 300.000 spettatori a stagione, il 46% sono ventenni)».
Lo sconcerto s’allargava anche agli altri quotidiani: un consumo culturale qualificato, oltretutto relativo a un medium considerato obsoleto ed elitario, faceva concorrenza alla ‘religione laica degli italiani’. E per di più intercettando un pubblico giovane, la generazione descritta e criticata nel 2013 da Michele Serra nel suo best seller Gli sdraiati. Anche se poi andrebbero paragonati il prezzo e l’offerta degli abbonamenti a teatro e allo stadio...
Per spiegare il sorpasso possono aiutare alcune considerazioni.
Da un lato la fortuna del calcio in TV (o meglio nelle pay-TV), l’obsolescenza degli stadi italiani e l’atmosfera di violenza che a volte li infiamma, forse l’impatto degli scandali legati al calcio-scommesse e soprattutto la crisi delle 2 milanesi decadute nell’area della mediocrità calcistica. Dall’altro c’è l’attenzione all’organizzazione del pubblico da parte del Piccolo, una delle eredità di Paolo Grassi che nel 1947 fondò il teatro con Giorgio Strehler, accompagnata da una sapiente attenzione al mondo della scuola e dell’università e da un’accorta strategia di marketing anche sul web. Nel mondo del teatro italiano il Piccolo Teatro è un’eccellenza, ma non un’eccezione: anche Elfo e Parenti, sempre a Milano, o il Teatro Stabile di Torino possono vantare ottimi risultati. Insomma, la cultura può intercettare ampie fasce di pubblico – anche giovane – e fidelizzarlo.
Sulle pagine dell’Avanti! il 26 aprile 1946 Grassi parlava della cultura (e del teatro) come di «un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco». Oggi la crisi dello stato sociale e le ristrettezze di bilancio di ministeri ed enti locali spingono a interrogarsi sulle ragioni profonde del sostegno pubblico alla cultura, trovando motivazioni più articolate e complesse.
Si tratta di preservare e diffondere il patrimonio della nazione (le Patrimoine, alla francese, oppure the Heritage, secondo i britannici), anche per disporre di una memoria condivisa (una funzione che diventa cruciale nel momento in cui si tratta di integrare alcuni milioni di ‘nuovi italiani’). Si ritiene che l’educazione e la cultura portino a costruire cittadini migliori (con l’inquietante annotazione che l’amore per Bach, Mozart e Beethoven degli ufficiali delle SS non impedì loro di gestire i campi di sterminio). Servono presìdi e servizi culturali nelle aree disagiate. E poi, in un paese a forte vocazione turistica, la conoscenza del patrimonio da parte dei cittadini è un presupposto della sua tutela e valorizzazione.
In Italia il settore è già cruciale dal punto di vista economico e occupazionale, ed è anche strategico. Nell’era della globalizzazione avanzata, per essere competitiva l’economia di un paese deve disporre di lavoratori qualificati (e creativi): la diffusione della cultura consente di aumentare il ‘capitale cognitivo’ di un territorio. La curiosità culturale dovrebbe essere l’ingrediente chiave nella formazione dei giovani, soprattutto se vogliono avviarsi verso le cosiddette ‘professioni creative’ e dunque devono costruirsi un’ampia banca dati a cui attingere e a cui fare riferimento.
Non è un caso che Milano – una città dalla ricca e articolata attività culturale – sia la capitale italiana non solo del teatro e dell’editoria, ma anche della moda, del design, dell’architettura, della pubblicità...
In un contesto del genere, il successo del Piccolo avrebbe dovuto essere vissuto come un fatto normale, dopo anni di risultati in crescita e considerando la sostanziale tenuta dei consumi culturali negli anni della crisi.
Invece ha sorpreso sia gli appassionati di calcio sia molte persone colte.
Per molti in Italia la cultura è e deve restare un elemento di distinzione, e dunque elevata, alta, elitaria. Dario Fo, che ha vinto il premio Nobel per la letteratura perché ha valorizzato le culture popolari, in Italia veniva guardato con diffidenza. Per molti intellettuali nostrani, la distanza tra la cultura alta e le culture basse – quelle popolari ma anche il pop – resta incolmabile. Da una parte ci sarebbe il canone, ovvero i capolavori che si devono studiare all’università. Dall’altra i sottoprodotti kitsch della cultura di massa, che producono indottrinamento e abbrutimento.
Il dibattito culturale di questi anni in Italia si potrebbe sintetizzare nello scontro tra prodotti da classifica (guardando a box office e hit parade) e prodotti di qualità sostanzialmente invendibili. Anche se è italianissimo uno dei maggiori «best seller di qualità» (per usare un’espressione di Giancarlo Ferretti): Il nome della rosa di Umberto Eco (1980), non a caso vituperato da molti custodi dell’ortodossia culturale.
Non sorprende che i consumi culturali degli italiani – soprattutto al Sud – restino molto bassi, come ha dimostrato la ricerca di Eurobarometer nel 2013.
L’80% degli italiani si disinteressa della cultura, della musica, della scrittura, del cinema e della fotografia. Le motivazioni: al primo posto la mancanza di interesse per il 50%, seguito dalla mancanza di tempo per il 44%, di denaro per il 25%, mentre la mancanza di scelta è la scusa adottata dal 10% degli intervistati.
Questi dati, sempre secondo Eurobarometer, ci mettono in fondo alla classifica dei paesi europei, poco al di sopra di Grecia e Portogallo, ma al di sotto della Spagna. Ugualmente al di sotto della media europea è l’investimento pubblico in cultura (anche se è difficile ottenere dati precisi), malgrado le dichiarazioni d’intenti di molti esponenti politici. Non è tutto.
L’investimento pubblico in cultura va prima alla tutela che alle attività, come è accaduto di recente per i 33 interventi del Piano ‘Cultura e turismo’ annunciato dal ministro Franceschini il 2 maggio 2016: 1 miliardo di euro a favore, tra gli altri, di Pompei, Uffizi, Grande Brera, Palazzo Ducale a Mantova ecc. Anche l’Art-Bonus (d.l. 83/2014), che favorisce il mecenatismo culturale dei cittadini, riguarda i beni culturali pubblici e le strutture.
Quando non va alla conservazione, il sostegno pubblico tende a privilegiare la produzione, ovvero il lato dell’offerta. In questa direzione vanno il tax credit, il FUS (Fondo unico dello spettacolo) con cui il MIBACT finanzia lo spettacolo dal vivo (i nuovi criteri di assegnazione stabiliti dal decreto 1° luglio 2014 hanno suscitato inevitabili strascichi polemici) e il sostegno al cinema. In generale, il mercato culturale italiano pare mosso più dall’offerta che dalla domanda (anche se questo non implica automaticamente un eccesso d’offerta).
In Italia mancano politiche e progetti mirati a sostenere l’allargamento e il coinvolgimento del pubblico, o meglio a creare una domanda qualificata. I recenti programmi europei di sostegno alla cultura cercano invece di stimolare (anche) la domanda, a partire da Creative Europe, il programma con cui l’Unione Europea sostiene lo spettacolo dal vivo e l’audiovisivo, che ha come obiettivo l’audience involvement and participation, vale a dire il coinvolgimento e la partecipazione del pubblico.
In Italia il sostegno all’offerta si è finora dispiegato in particolare attraverso i festival (teatrali, cinematografici, letterari, ecc.), sostenuti soprattutto dagli enti locali. Queste manifestazioni abbassano la soglia d’accesso anche per i giovani a causa dell’eventizzazione, dell’informalità e del basso costo, se non della gratuità. Il Festivaletteratura di Mantova e il FestivalFilosofia di Modena, Pordenonelegge, il Salone internazionale del libro di Torino, Bookcity a Milano superano ogni anno le 100.000 presenze, dimostrando che anche in Italia esiste una forte domanda di cultura e di partecipazione. Nel 2015 l’AIE (Associazione italiana editori) ha lanciato una iniziativa di sostegno alla lettura, #ioleggoperché (con risultati discutibili e aspre polemiche).
Il provvedimento più eclatante di sostegno alla domanda è arrivato quando il governo ha stanziato risorse per un bonus di 500 euro a testa per i 571.000 italiani che nel 2016 compiono 18 anni, da spendere in cultura: «I diciottenni sono un simbolo» ha dichiarato il 1° dicembre 2015 il premier Matteo Renzi. «Vorrei che andassero a teatro. Diamo un messaggio educativo come Stato, quello che le mostre sono un valore bello. Diciamo ai ragazzi che sono cittadini e non solo consumatori». Al di là dell’effettiva implementazione del provvedimento, cosa potranno e vorranno acquistare i diciottenni?
Di quali strumenti di informazione e formazione disporranno? Chi trasmetterà loro l’idea che la cultura è un valore e un piacere, prima che un imperativo categorico? Gli indici di lettura tendono ad abbassarsi drasticamente dopo i 18 anni (più per i maschi che per le femmine): come invertire la tendenza? Oggi esiste uno straordinario fornitore di contenuti culturali a costo zero, la rete. È diffusa la convinzione di un ‘diritto alla cultura’ che legittima la gratuità.
Ma come qualificare – in maniera non autoritaria o paternalistica, ma offrendo adeguati strumenti di scelta – i consumi culturali, soprattutto quelli dei giovani? Non si tratta solo di ‘consumare cultura’, ma quale cultura, e come.
Perché stanno emergendo nuove motivazioni e nuove tipologie di consumatori: la cultura del futuro la stanno già facendo loro. Ed è una cultura più partecipata, che deve compensare i filtri tecnologico-mediatici dei social networks per recuperare la liveness dell’evento. Forse anche per questo il ‘qui e ora’, la compresenza di attore e spettatore offerta dal teatro, sta trovando nuovo fascino.
Il terzo Paradiso
Nel corso del Salone del libro 2016 al Lingotto di Torino, l’artista Michelangelo Pistoletto presenta l’installazione Il terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico di infinito composta da 10.000 libri salvati dal macero, contrassegnati da uno sticker che li rende unici. Al termine del salone i libri sono stati donati al pubblico. L’opera è stata realizzata in collaborazione con il Dipartimento educazione del Castello di Rivoli.
I numeri del rapporto Io sono cultura
«Le imprese del sistema produttivo culturale (industrie culturali propriamente dette, industrie creative – attività produttive ad alto valore creativo ma ulteriori rispetto alla creazione culturale in quanto tale –, patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive) sono 443.458, il 7,3% del totale. A loro si deve il 5,4% della ricchezza prodotta in Italia: 74,9 miliardi di euro. Che arrivano a 80 circa (il 5,7% dell’economia nazionale) se includiamo istituzioni pubbliche e non profit. Ma non finisce qui: perché la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,67: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,67 in altri settori. Gli 80 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 134, per arrivare a quei 214 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano. Le imprese del sistema produttivo culturale (da sole, senza considerare i posti
di lavoro attivati negli altri segmenti della nostra economia) danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,8% del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,2%, se includiamo pubblico e non profit)»
(Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi, Unioncamere-Fondazione Symbola, rapporto 2014)