IACOPO da Varazze
La data di nascita di I. risale probabilmente al 1228 o al 1229. Il luogo, come testimonia il toponimico che gli viene attribuito nelle fonti, "Iacopus de Varagine", potrebbe essere Varazze oppure, come appare più probabile, Genova, dove è attestata la presenza di una famiglia originaria di Varazze, denominata "de Varagine".
La formula "de Voragine", con cui I. è talora designato in fonti anche antiche, è da considerarsi una variante di "da Varagine"; del tutto fantasiosa dunque l'idea, risalente al sec. XVI e divenuta poi tradizionale, che "Voragine" venisse da vorago, a indicare l'abisso di dottrina di cui I. dava prova nelle sue opere.
Le fonti relative alla biografia di I. sono soprattutto le note autobiografiche presenti nelle sue opere, alcuni documenti relativi alla storia dell'Ordine domenicano e una serie di atti notarili che documentano l'attività amministrativa di I. come arcivescovo di Genova. Su questa documentazione Giovanni Monleone, nello Studio introduttivo all'edizione della Chronica civitatis Ianuensis, ha ricostruito una biografia di I. che, oltre ad aver fatto giustizia degli errori, delle imprecisioni e delle immaginarie ricostruzioni delle precedenti biografie, talora segnate da intenti agiografici, non ha, a tutt'oggi, subito variazioni o aggiunte di rilievo restando dunque un prezioso strumento a disposizione degli studiosi di Iacopo da Varazze.
La prima data certa della biografia di I., se si esclude il 1239, anno di un'eclisse solare che I. racconta di aver visto nella sua infanzia (Chronica, p. 378), è il 1244 quando, adolescente, come egli stesso dichiara (ibid., p. 382), entrò a far parte dell'Ordine dei frati predicatori. Dopo questa data segue un lungo periodo di silenzio interrotto ancora una volta dal racconto autobiografico di un fatto portentoso, e cioè l'apparizione di una cometa, avvenuta nel 1264, che I. scrive di aver visto e ammirato per quaranta giorni (ibid., pp. 390 s.). Non sappiamo se la sua formazione di frate predicatore si sia svolta tutta all'interno del convento genovese, dove abbia esercitato l'officio della predicazione e come sia proceduta la sua carriera all'interno dell'Ordine: non esiste infatti alcuna prova di suoi soggiorni di studio a Bologna e a Parigi, né della sua nomina a lector e poi a magister theologiae e poi ancora a priore del convento di Genova, come sostengono alcuni biografi. Incerta, in quanto fondata sulla sola testimonianza della Cronica di Girolamo Albertucci de' Borselli (sec. XV), è anche la sua nomina a priore del convento di Asti che sarebbe avvenuta nel 1266 e che potrebbe essere confermata indirettamente dalla presenza di un capitolo dedicato a s. Secondo, patrono della città, nella Legenda aurea. Tuttavia possiamo supporre che I. abbia assunto responsabilità di rilievo all'interno dell'Ordine se, come si sa per certo, nel 1267, nel capitolo generale di Bologna, fu elevato all'officio di priore dell'importante provincia di Lombardia, che all'epoca comprendeva tutta l'Italia settentrionale, l'Emilia e il Piceno. I. mantenne questa carica per dieci anni, partecipando ai capitoli provinciali e generali e risiedendo probabilmente nel convento di Milano o in quello di Bologna, fino a quando al capitolo generale di Bordeaux del 1277 fu absolutus dall'incarico. Dopo qualche anno, nel capitolo provinciale di Bologna del 1281, fu nuovamente nominato priore della provincia lombarda, carica che occupò fino al 1286.
Nel giorno di Pasqua del 1283, come racconta egli stesso nell'opuscolo Historia reliquiarum que sunt in monasterio sororum Ss. Philippi et Iacobi de Ianua, I. fece trasportare una preziosa reliquia, la testa di una delle vergini di s. Orsola, da Colonia al convento delle suore domenicane di Genova dei Ss. Giacomo e Filippo, cui anni prima, durante il suo precedente priorato, aveva donato un'altra reliquia, un dito di s. Filippo, da lui stesso staccato dalla mano del santo che si trovava nel convento domenicano di Venezia. In quell'occasione I., dopo la solenne processione, tenne messa e predicò al popolo.
Dal 1283 al 1285 esercitò funzioni di reggente dell'Ordine dopo la morte di Giovanni da Vercelli e prima dell'elezione del nuovo maestro generale Munio de Zamora. Nel 1288, quando ormai da due anni non era più priore della Lombardia, fu candidato alla carica di arcivescovo di Genova, ma non ottenne, come gli altri tre candidati, la maggioranza dei voti; papa Niccolò IV sospese la nomina e conferì la reggenza dell'arcivescovado genovese a Opizzo Fieschi, affidando a I., il 18 maggio dello stesso anno, il compito di assolvere in una cerimonia pubblica, che si tenne nella chiesa di S. Domenico, i cittadini genovesi scomunicati per aver avuto rapporti commerciali con i Siciliani, a loro volta scomunicati a causa della guerra del Vespro. Nello stesso anno fu nominato diffinitor nel capitolo generale di Lucca.
Nel 1290, in occasione del capitolo generale di Ferrara, I., insieme con altri tre autorevoli frati, ricevette una lettera dei cardinali romani nella quale veniva sollecitato a far sì che il maestro generale Munio de Zamora, che per il suo rigore aveva suscitato molta avversione all'interno dell'Ordine e della Curia romana, si dimettesse. Le pressioni dei cardinali presso i frati riuniti nel capitolo non ebbero alcun successo: non solo il maestro generale non si dimise ma venne sostenuto da una pubblica dichiarazione, firmata anche da I., che ne esaltava le virtù e ne approvava la politica. Secondo Albertucci de' Borselli e, dopo di lui, secondo molti altri biografi, fu a causa dell'appoggio dato alla linea rigorista di Munio de Zamora che I. avrebbe subito in quell'anno un tentativo di omicidio da parte di confratelli che volevano gettarlo nel pozzo del convento di Ferrara. Tentativo che, racconta ancora Albertucci de' Borselli, si sarebbe ripetuto l'anno successivo, il 1291, a Milano, questa volta perché I. aveva escluso dal capitolo provinciale frate Stefanardo, priore del convento milanese.
Nel 1292 fu nominato da papa Niccolò IV arcivescovo di Genova e, morto il pontefice il 4 aprile, consacrato a Roma il 13 aprile dal cardinale Latino Malabranca, uno dei firmatari della lettera nella quale I. veniva sollecitato a operare contro il generale Munio de Zamora. Al governo della diocesi genovese I. dedicò gli ultimi anni della sua vita: la sua azione fu rivolta dapprima alla riorganizzazione legislativa del clero sotto l'autorità arcivescovile. A questo scopo convocò un concilio provinciale, che si tenne nella cattedrale di S. Lorenzo nel giugno del 1293, al quale parteciparono tutte le autorità ecclesiastiche. Durante questo concilio fu compiuta, alla presenza dei governanti e dei notabili della città e poi di tutto il popolo, una ricognizione delle ossa di s. Siro, patrono di Genova, durante la quale l'autenticità della reliquia fu solennemente e pubblicamente riconosciuta (Chronica, pp. 405-408).
Intensa fu l'attività di I. sul piano politico: nei primi mesi del 1295 promosse la pacificazione tra le due fazioni della città, i mascherati (ghibellini) e i rampini (guelfi), e celebrò la pace finalmente raggiunta in un'assemblea pubblica nella quale predicò e intonò, insieme coi suoi ministri, lode a Dio; seguì quindi una solenne processione per le vie della città guidata dallo stesso I. a cavallo che si concluse con il conferimento del cingolo di miles al podestà di Genova, il milanese Iacopo da Carcano (ibid., pp. 411 s.). Nello stesso anno, in aprile, insieme con gli ambasciatori inviati dal Comune, compì un viaggio a Roma, convocato da papa Bonifacio VIII che cercava di prolungare l'armistizio tra Genova e Venezia.
I. descrive dettagliatamente (ibid., pp. 102-109) questo episodio: ascrive alla necessità di mantenere la concordia tra i cristiani e di favorire la riconquista della Terrasanta l'interessamento del papa negli affari delle due città; ricorda il lungo soggiorno di cento giorni presso la Curia romana, mostrando un certo fastidio per l'indecisione del papa e, soprattutto, per le manovre dilatorie degli ambasciatori veneti; riferisce della determinazione dei Genovesi che, dopo una lunga attesa, decisero di andare allo scontro con Venezia allestendo, tra l'entusiasmo popolare, una flotta che avrebbe dovuto affrontare i nemici in una battaglia decisiva presso Messina; conclude ricordando che i Veneziani non si presentarono all'appuntamento costringendo il comandante Oberto Doria a ritornare a Genova senza aver combattuto, accolto però dalla città e dal vescovo "cum immenso gaudio et triumpho" (ibid., p. 108).
Alla fine del 1295 I. subì una sconfitta politica e una profonda delusione personale che lo portò a scrivere le amare parole "cithara nostra cito versa est in luctum et organum nostrum in voce flentium est mutatum": si ruppe infatti la pace tra le fazioni cittadine, da lui voluta e da lui solennemente celebrata pochi mesi prima; scoppiarono incidenti violenti durante i quali fu incendiata la cattedrale di S. Lorenzo (ibid., pp. 412 s.). I danni furono così gravi che I. chiese al papa un risarcimento che gli fu concesso il 12 giugno 1296.
Della sua attività amministrativa, variamente documentata, vale la pena di ricordare la vendita, avvenuta nel 1297, delle signorie di Ceriana e Sanremo a Oberto Doria e Giorgio De Mari, che appartenevano entrambi a famiglie ghibelline, e alcuni atti notarili, nei quali l'arcivescovo, poco prima di morire, dettò le sue ultime volontà rispetto alla gestione dell'arcidiocesi e confermò il precedente testamento.
I. morì nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1298. Il suo corpo, prima sepolto nella chiesa di S. Domenico del convento dei frati predicatori di Genova, fu trasferito, alla fine del secolo XVIII, in un'altra chiesa domenicana, S. Maria di Castello, dove tuttora si trova. In virtù della venerazione e del culto di cui fu fatto oggetto per secoli, I. fu beatificato nel 1816 da papa Pio VII.
Importante per il ruolo all'interno dell'Ordine e per la sua azione come arcivescovo di Genova, I. è noto soprattutto per le sue opere, che ebbero grande diffusione ai suoi tempi e molta fortuna anche nei secoli successivi. Lo stesso I., nell'ultimo capitolo della Chronica, ne dà un elenco seguendo molto probabilmente l'ordine cronologico di composizione: le Legende sanctorum (Legenda aurea), tre raccolte di modelli di sermoni, i Sermones de omnibus sanctis, i Sermones de omnibus Evangeliis dominicalibus, i Sermones de omnibus Evangeliis que in singulis feriis in Quadragesima leguntur, quindi il Liber Marialis e la Chronica civitatis Ianuensis. Sono esclusi da questo elenco alcuni opuscoli di carattere agiografico ritenuti dalla critica opera di I.: la Legenda seu Vita sancti Syri episcopi Ianuensis, la Historia translationis reliquiarum sancti Iohannis Baptistae Ianuam, la Historia reliquiarum que sunt in monasterio sororum Ss. Philippi et Iacobi de Ianua, il Tractatus miraculorum reliquiarum sancti Florentii unito alla Historia translationis reliquiarum eiusdem, la Passio sancti Cassiani.
In alcuni manoscritti dei secoli XIV-XV viene attribuito a I. un Tractatus de libris a beato Augustino editis, che secondo G.P. Maggioni, corrisponde alle inserzioni dell'ultima redazione della Legenda aurea presenti nel capitolo De sancto Augustino; il testo è stato studiato ed edito da J.A. McCormick (Iacobus de Voragine, Tractatus de libris a beato Augustino ep. editis, edited from manuscripts and unique printing, in Dissertation Abstracts, XXV [1965], p. 4132), che ne sostiene l'autenticità (per l'elenco dei manoscritti v. Kaeppeli, II, n. 2165 p. 369).
La prima, e la più famosa, delle opere di I. è nota come Legenda aurea, titolo vulgato che si è consolidato nel tempo ma che non compare nei manoscritti più antichi che riportano invece il titolo Legende sanctorum, lo stesso con cui I. designa l'opera nel passo della Chronica ricordato più sopra. Anche gli altri titoli con cui l'opera viene talora ricordata, Liber passionalis, Vitae o Flores o Speculumsanctorum, Historia Lombardica o Longobardica (dal penultimo capitolo, dedicato a papa Pelagio, in cui si narrano i principali eventi accaduti dall'arrivo dei Longobardi in Italia fino al 1245) non appartengono alla tradizione più antica del testo. L'opera si compone di racconti dedicati alle vite dei santi e alle feste liturgiche (178 secondo l'ed. Maggioni, 182 secondo l'ed. Graesse) disposti, e questo costituisce un'innovazione rispetto a opere dello stesso genere, secondo l'ordine del calendario liturgico. Un breve prologo, cui segue l'indice, dà conto della struttura del testo in cinque parti, che rimandano alle cinque fasi del calendario liturgico, a loro volta corrispondenti alle cinque fasi della storia della salvezza: l'Avvento (tempus renovationis), il periodo che comprende Natale ed Epifania e arriva fino a settuagesima (tempus reconciliationis et peregrinationis), il periodo che va da settuagesima alla Passione del Cristo (tempus deviationis), quello che comincia con la Pasqua e finisce con Pentecoste (tempusreconciliationis) e infine quello che va da Pentecoste all'Avvento (tempus peregrinationis). I santi, la cui vita è oggetto di narrazione, appartengono nella maggioranza dei casi ai primi secoli del cristianesimo, ma non mancano santi più tardi: due del secolo XII, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso Becket, quattro del XIII, Domenico, Francesco, Pietro martire, Elisabetta di Ungheria. L'opera appartiene al genere delle legendae novae, compilazioni del XIII-XIV secolo in cui il materiale agiografico, che si era accumulato fin dai primi secoli dell'Era cristiana, veniva raccolto in forma condensata attraverso un lavoro di scelta e abbreviazione che privilegiava gli aspetti essenziali e universali delle vite dei santi tralasciando quelli più particolari e legati a culti locali. Queste compilazioni, che furono per lo più opera di esponenti dell'Ordine dei frati predicatori, avevano innanzitutto lo scopo di mettere a disposizione di quanti erano impegnati nell'azione pastorale un materiale agiografico altrimenti troppo abbondante e disperso, e in seguito anche di offrire alla lettura testi nello stesso tempo piacevoli ed edificanti. Tali furono anche le intenzioni con cui fu compilata la più famosa delle legendae novae, la Legenda aurea, scritta da I. a partire dal 1260 e successivamente rielaborata, quando già ne circolavano le prime versioni, fino a poco prima della morte, come ha dimostrato Giovanni Paolo Maggioni. Se in un primo momento prevalse la volontà da parte di I. di confezionare uno strumento utile alla predicazione, le successive rielaborazioni, con l'inserzione di alcuni racconti in cui rispetto all'intento edificatorio prevale il gusto del meraviglioso e del sensazionale, mostrano uno I. attento alle esigenze di un pubblico di lettori certo devoti ma anche colti e interessati. Le fonti di cui I. si serve per la compilazione del testo sono molteplici: la Sacra Scrittura, i testi dei Padri e dei più autorevoli esponenti della tradizione monastica e canonicale, le fonti agiografiche (a questo riguardo I. fa largo uso, attraverso citazioni letterali o epitomi, delle precedenti legendae novae compilate all'interno dell'Ordine domenicano, l'Abbreviatioin gestis sanctorum di Giovanni da Mailly e il Liber epilogorum in gesta sanctorum di Bartolomeo da Trento), fonti storiche, tra cui l'Historiascholastica di Pietro Comestore, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, la Chronica di Martino Polono, testi per predicatori composti da confratelli dell'Ordine, come il Tractatus de diversis materiis praedicabilibus di Stefano di Borbone, testi teologici e filosofici, come le Sententiae di Pietro Lombardo e il commento di Averroè al Liber de anima di Aristotele, fonti liturgiche e giuridiche, come, ancora per fare qualche esempio, il Corpus antiphonalium da un lato e la Collectio canonum dall'altro, qualche raro autore profano, come Cicerone e Macrobio. Molto probabilmente anche nella Legenda, come è stato dimostrato da Bataillon a proposito dei sermonari, per i quali I. ha certamente utilizzato la Catena aurea di Tommaso d'Aquino, le citazioni in molti casi provengono non dalla fonte diretta ma da florilegia di auctores, spesso appositamente compilati a uso dei predicatori.
La Legenda ebbe un successo rapido (già nel 1275 si sa per certo che a Parigi veniva trasmessa per pecia), duraturo ed esteso a tutta l'Europa come nessun altro testo in epoca medievale, a parte la Bibbia; lo testimoniano il numero di manoscritti rimasti, più di 1200 (per l'elenco cfr. Fleith, 1991), e le numerose edizioni che si successero a partire dall'editio princeps di Colonia 1470. A causa di questa straordinaria diffusione il testo della Legenda fu in continua trasformazione. Già lo stesso I., come abbiamo prima segnalato, ne aveva dato successive redazioni; a queste si aggiunsero le rielaborazioni (abbreviazioni, inversione, eliminazione o aggiunta di capitoli) a opera dei vari utenti dell'opera che intervennero sul testo adattandolo alle pratiche cultuali locali e all'uso che ne veniva fatto nell'ambito della predicazione e della devozione. L'edizione a cura di Theodor Graesse (Dresden 1846; rist. anast. Dresden-Leipzig 1890 e Osnabrück 1969), basata su una delle prime edizioni a stampa, quella di Dresda 1472, dà conto del testo vulgato della Legenda che si è venuto costituendo nei due secoli della sua massima diffusione; la più recente edizione curata da Giovanni Paolo Maggioni (Firenze 1998, cui è seguita, nell'anno successivo, una seconda edizione rivista dal curatore con allegato un Cd-rom del testo della Legenda, a cura di L.G.G. Ricci) presenta l'ultima redazione d'autore dell'opera ed è fondata su cinque manoscritti identificati, all'interno del corpus dei 70 manoscritti più antichi, come testimoni dell'ultima redazione compiuta da I. sul testo.
Molti furono i volgarizzamenti dell'opera in tutte le lingue europee (cfr. Lexikon des Mittelalters, V, coll. 1796-1801). La più antica, già alla fine del secolo XIII, come sembra, è una versione catalana (Vides de sants rosselloneses, a cura di C.S. Maneikis - E.J. Neugaard, Barcelona 1977), le altre si collocano invece tra la metà del XIV e il XV secolo: si conoscono tre versioni in lingua d'oc (una di queste è edita: Die altokzitanische Version B der "Legenda Aurea", Ms. Paris, Bibl. nat. Nouv. acq. fr. 6504, a cura di M. Tausend, Tübingen 1995), undici traduzioni francesi, tra cui la più importante è quella di Jean de Vignay che risale agli anni 1333-48 (La Légende dorée [Lyon, 1476]. édition critique de la Légende dorée dans la révision de 1476 par Jean Batailier, d'après la traduction de Jean de Vignay [1333-1348] de la Legenda aurea [c. 1261-1266], a cura di B. Dunn-Lardeau, Paris 1997), alcune versioni inglesi, tra le quali quella di William Caxton nella seconda metà del XV secolo, almeno una dozzina di versioni nelle lingue dell'area germanica, tra le quali, particolarmente diffusa, quella alsaziana redatta verso il 1350 (Die elsässische "Legenda aurea", I, Das Normalcorpus, a cura di U. Williams - W. Williams-Krapp, Tübingen 1980; II, Die Sondergut, a cura di K. Kunze, ibid. 1983), oltre a versioni in olandese, danese, svedese, islandese, ceco, polacco. Non sono molti né molto precoci i volgarizzamenti italiani: il primo è un volgarizzamento toscano della fine del Trecento (edito a cura di A. Levasti, Firenze 1924-26). Nei volgarizzamenti, così come accadeva nella tradizione latina, il testo della Legenda aurea subì continue trasformazioni, abbreviazioni, inversioni dell'indice, inserimenti di nuovi capitoli, attraverso i quali l'opera veniva adattata ai diversi contesti sociali e geografici in cui venne a trovarsi e ai diversi usi che ne furono fatti. Prevale, tra i volgarizzamenti, l'uso dell'opera come testo di lettura, una lettura che talora privilegia il piacere del racconto, come avviene soprattutto tra i laici, e talora invece insiste sugli aspetti devozionali ed edificanti del testo, come avviene soprattutto nelle comunità religiose femminili, dove l'opera è particolarmente diffusa.
Va infine segnalata l'importanza che la Legenda assunse in ambito artistico, costituendo un inesauribile repertorio di temi cui attingere nella rappresentazione delle vite dei santi e favorendo un rinnovamento dell'iconografia agiografica con una rappresentazione della santità nella quale tendono a prevalere elementi narrativi, come le scene dei miracoli e dei martirî. Inoltre sono numerosi i manoscritti e le edizioni del testo latino e, soprattutto, dei volgarizzamenti che presentano miniature, particolarmente preziose quando l'opera si rivolge ad ambienti nobiliari o altoborghesi, dove vengono rappresentate le figure dei santi o gli episodi salienti delle loro vite.
Il successo della Legenda non termina con il Medioevo. Certo il giudizio negativo di umanisti e riformati contribuì al suo declino come testo religioso sia nella predicazione sia nella devozione privata. Resta però il piacere della lettura che questo testo continua a dare e che ne garantisce la tradizione anche contemporanea in opere teatrali, musicali, figurative e in traduzioni in tutte le principali lingue moderne. Ricordiamo per l'Italia la traduzione integrale, condotta sul testo dell'edizione Graesse, di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone (Torino 1995).
I. scrisse tre sermonari, i Sermones de sanctis et festis, i Sermones de tempore, i Sermones quadragesimales, il cui scopo è di mettere a disposizione dei predicatori modelli di sermoni da utilizzare nelle varie occasioni. Ogni sermone è sviluppato secondo la tecnica del sermomodernus: da un thema iniziale, sempre costituito da un passo scritturale, prende corpo una divisione che individua le parti del sermone, che sono in genere tre, ma il numero può variare a seconda dei casi da due a otto; ogni parte è poi soggetta a specifiche e più o meno estese divisioni, all'interno delle quali trovano posto passi scritturali, citazioni di auctoritates, metafore, etimologie, inserti dottrinali, agiografici, liturgici. Se la tecnica è la stessa in tutti i sermonari, tuttavia nel De sanctis i modelli appaiono più schematici, mentre nel De tempore e poi, in modo ancora più accentuato, nel Quadragesimales gli schemi si fanno più articolati e più ricchi di contenuti. I modelli di sermoni di I. sono caratterizzati, oltre che da una certa schematicità, come si è detto, da moltissime citazioni scritturali, dall'assenza del prothema, dall'uso parco di auctores profani, dalla scarsa ed episodica presenza di exempla, dal ricorso costante al linguaggio figurato, dall'uso continuo e pervasivo della distinctio, cui spesso è affidata la divisio del sermone e le divisioni interne delle singole parti. Le fonti, spesso citate indirettamente grazie ad appositi florilegia, sono quelle già utilizzate nella compilazione della Legenda aurea: la letteratura patristica e monastica, i testi per la predicazione elaborati in ambito domenicano, qualche opera di carattere storico e qualche autore profano. Sulla data di composizione non ci sono certezze. Possiamo a ragione ritenere che l'ordine di composizione dei tre sermonari sia l'ordine con cui I. li elenca nella Chronica, e cioè prima De sanctis, poi De tempore e infine i Sermones quadragesimales; e poiché il primo sermonario, il De sanctis, è stato composto dopo la stesura della Legenda aurea, come si legge nel prologo presente in alcuni manoscritti, e l'ultimo, il Quadragesimales, potrebbe essere stato portato a termine nel 1286, come appare nel colophon dei manoscritti di area inglese ("expliciunt sermones fratris Ianuensis ordinis praedicatorum compilati anno Domini MCCLXXXVI"), si può supporre che nell'insieme le tre raccolte siano state scritte dopo il 1267, cioè dopo la prima redazione della Legenda, o forse dopo il 1277, cioè dopo la fine del primo provincialato, come molti biografi sono portati a credere, e non oltre il 1286. Le tre raccolte conobbero un larghissimo successo, come testimonia il grande numero di manoscritti rimasti; se si sommano le copie dei manoscritti dei tre sermonari, I. è senza dubbio il predicatore medievale di cui ci sono rimaste più testimonianze (più di 1120 manoscritti). Anche per questo, oltre che per la rilevanza culturale del loro autore, i sermonari di I. sono stati scelti da un gruppo di ricercatori europei, coordinati da Nicole Bériou, come oggetto del primo Thesaurus sermonum su base elettronica. Grazie all'immissione su Cd-rom del testo dei sermoni di I. e a un opportuno trattamento di classificazione analitica, viene messo a disposizione degli studiosi uno strumento che consente di interrogare questi testi da vari punti di vista. Il Thesaurus sermonum Iacobi de Voragine è utilizzabile in rete all'indirizzo: www.sermones.net.
I Sermones de omnibus sanctis et festis comprendono 305 modelli di sermoni dedicati ai santi e alle feste liturgiche. A ogni santo o festa sono dedicati da due a nove modelli di sermoni. Nella Chronica I. dichiara di aver scritto due volumi di questi sermoni, uno "multum diffusum", che è quello che ci pervenuto, l'altro "magis breve et angustum", di cui non si ha notizia. La raccolta dipende in larga misura dalla Legenda aurea, da cui riprende molti brani in forma compendiata e moralizzata oltre alla serie dei santi e delle feste, che sono elencati secondo l'ordine del calendario ecclesiastico già adottato nella Legenda, se pure in numero ridotto: dei 178 capitoli della Legenda, più di cento non vengono ripresi nei Sermones, per lo più quelli dedicati a santi minori dei primi secoli, martiri e monaci. La composizione di questa raccolta è dovuta, come dichiara lo stesso I. nel prologo, alle richieste dei confratelli in seguito alla compilazione della Legenda aurea: il testo appare dunque come una sorta di dimostrazione, compiuta dallo stesso autore, dei modi in cui il materiale agiografico raccolto nella Legenda poteva essere utilizzato nella predicazione. Il successo della raccolta è testimoniato da più di 300 manoscritti e dalle edizioni che si susseguono ininterrottamente dal XV al XIX secolo a partire dall'editioprinceps di Colonia 1478 (per l'elenco dei manoscritti, cfr. Schneyer, pp. 266-268; Kaeppeli, II, n. 2155 pp. 359-361; IV, p. 141).
La seconda raccolta, conosciuta sotto vari titoli (Sermones de omnibus Evangeliis domenicalibus, secondo l'indicazione dello stesso I., oppure Sermones de tempore per annum, Sermones dominicales, Sermones festivales), comprende 160 modelli di sermoni, tre per ogni Vangelo della domenica. Anche quest'opera è stata scritta, come dichiara I. nel prologo, su sollecitazione dei confratelli ("importuna fratrum instantia") e dedicata alla Trinità, alla Vergine Maria e a s. Domenico, alla cui intercessione ci si raccomanda per il buon esito dell'opera. Anche per questa raccolta si contano moltissimi manoscritti, più di 350, e numerose edizioni che seguono la princeps di Colonia 1467-69 (vedi Schneyer, pp. 233-235; Kaeppeli, II, n. 2156 pp. 361-364; IV, p. 141). A conferma della secolare fortuna della raccolta segnaliamo una traduzione italiana edita a Milano presso Fabbiani nel 1913-14 con il titolo Sermoni domenicali.
I Sermones quadragesimales comprendono modelli di sermoni predicabili nel periodo quaresimale per un totale di 96 sermoni (due per ogni feria). Di questa raccolta sarà presto disponibile l'edizione per cura di G.P. Maggioni (in corso di stampa), nata all'interno del gruppo impegnato nella costruzione del Thesaurus sermonum Iacobi con lo scopo di mettere a disposizione dei ricercatori un testo più affidabile rispetto a quello dell'edizione seicentesca curata da Rodolph Clutius (Magonza 1616) su cui il gruppo ha inizialmente cominciato a lavorare. L'edizione Maggioni è basata su sei testimoni delle principali aree di diffusione del testo (area italiana, germanica e britannica): Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acq. e doni 344; Graz, Universitätsbibliothek, 1472; Londra, Lambeth Palace Library, 23; Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm, 18850; Todi, Biblioteca comunale, Mss., 142; Würzburg, Universitätsbibliothek, M.p.th., f. 54. I manoscritti appartengono tutti al secolo XIII tranne il testimone inglese, risalente agli ultimi decenni del secolo XIV, il più antico della famiglia insulare, l'unica caratterizzata dalla datazione 1286, presente negli explicit. L'edizione, presentata dal curatore "come una sorta di prolegomena, come uno studio preliminare che, per aver identificato alcune dinamiche della tradizione e alcune particolarità della trasmissione del testo, può servire come base per ulteriori approfondimenti che possono portare a loro volta ad una ricostruzione testuale più sicura", costituisce tuttavia un notevole avanzamento rispetto alle precedenti edizioni e consente di giungere ad alcune conclusioni: la conferma che I. si sia servito di florilegia per la citazione delle auctoritates, l'ipotesi, altamente probabile, che il testo sia frutto di un'unica redazione, la certezza che i due sermoni finali presenti in molte edizioni, il Sermo de Passione Domini e il Sermo in planctu beatae Virginis Mariae, non appartengono alla raccolta originale. Questo dovrebbe finalmente risolvere in senso negativo la questione della loro autenticità. Come le altre raccolte, anche i Sermones quadragesimales ebbero uno straordinario successo, testimoniato da più di 300 manoscritti e numerose edizioni dal XV fino al XIX secolo, seguite alla princeps di Brescia 1483. Per l'elenco dei manoscritti vedi l'Appendice all'ed. Maggioni che riprende e integra gli elenchi di Schneyer (pp. 244-246) e Kaeppeli (II, n. 2157 pp. 364-367; IV, p. 141).
Ai tre sermonari fin qui analizzati viene tradizionalmente affiancato il Liber Marialis, per molto tempo considerato anch'esso una raccolta di sermoni, come testimonia, per esempio, il titolo Sermones aurei de Maria Virgine Dei Matre, con cui compare nell'edizione Venezia 1590, e la recente inclusione nel Repertorium dei sermoni dello Schneyer. In realtà, il Liber Marialis, pur essendo anch'esso un testo composto a uso dei predicatori, non è una raccolta di sermoni (I., nel prologo, lo definisce un opuscolo che raccoglie le lodi in onore della Vergine), ma una raccolta in ordine alfabetico di caratteristiche, funzioni, immagini, virtù tradizionalmente attribuite alla Vergine. I termini elencati sono 160, da Abstinentia a Vulnerata, passando per Ancilla, Aurora, Conceptio, Domus, Fons, Gaudium, Humilitas, Luna, Mater, Palma, Regina, Salutatio, Stella, Templum, tanto per fare qualche esempio; ognuno di essi costituisce il punto di partenza di una schematica trattazione che assomiglia nella struttura e nei contenuti a quella dei sermoni, costruita a partire da una distinzione in più punti, nei quali trovano posto passi scritturali, citazioni da auctores, altre distinzioni, metafore. La data di composizione dell'opera deve essere collocata tra il 1292, anno in cui I. viene nominato arcivescovo, e il 1298, anno della morte. Lo stesso I., nel prologo, dichiara infatti di aver composto l'opera in età senile, quando era "in episcopali speculo constitutus" e quando, ormai prossimo alla morte, sentiva il bisogno di affidarsi alla tutela della Vergine. Se pure in misura minore rispetto alle altre opere, anche il Liber Marialis conobbe una certa fortuna nel Medioevo e nei secoli successivi. Si contano una settantina di manoscritti e, a partire da quella di Amburgo 1491, molte altre edizioni dal XV al XIX secolo (vedi Schneyer, p. 283; Kaeppeli, II, n. 2158 pp. 367 s.). È segnalata anche una traduzione in lingua fiamminga del secolo XV (Axters, pp. 163-165). Attualmente sta lavorando alla traduzione in lingua italiana padre Valerio Ferrua.
La Chronica civitatis Ianuensis ab origine urbis usque ad annum 1297 è l'ultima opera di I., scritta tra il 1295, o tra l'inizio del 1296, come ritiene Stefania Bertini Guidetti, e il 1298, anno della morte, cioè durante gli ultimi anni del suo mandato arcivescovile a Genova. Il testo si divide in dodici parti: le prime cinque trattano della fondazione della città, delle prime fasi della sua storia, delle origini del nome, della conversione al cristianesimo e del suo progressivo sviluppo fino all'anno 1294; seguono quattro parti che costituiscono una sorta di trattato politico sulla natura e sulla tipologia del governo secolare e sui modelli del rector e del civis cristiano; concludono l'opera tre parti dedicate, la prima alla trasformazione di Genova da sede vescovile a sede arcivescovile, le altre due alla rassegna in ordine temporale dei vescovi e degli arcivescovi e dei principali avvenimenti accaduti a Genova e nel mondo durante il loro mandato. La narrazione si conclude con l'autopresentazione di I. come arcivescovo di Genova, una sorta di piccola autobiografia, con tanto di elenco delle proprie opere, cui abbiamo fatto più volte riferimento, e con il racconto fino al 1297 degli eventi relativi agli anni del suo mandato in città. Come si vede, si tratta dunque di un testo in cui si alternano registri discorsivi propri di generi letterari diversi: l'encomio delle laudescivitatum, la narrazione delle cronache universali, il resoconto degli avvenimenti secondo i moduli della storia annalistica, il discorso dottrinale e normativo degli specula. Questa molteplicità di generi risponde ai diversi obiettivi cui l'opera tende. È evidente innanzitutto l'intento immediatamente politico di sottolineare l'importanza del potere vescovile nelle dinamiche cittadine: I. enfatizza a più riprese il ruolo del vescovo nella storia genovese scandendo gli avvenimenti cittadini secondo la successione dei vescovi e degli arcivescovi e legando la nascita e lo sviluppo della città alla figura dei suoi vescovi. Lo stretto legame tra storia cittadina e azione vescovile è parte di una più complessiva concezione della storia, di matrice agostiniana, nella quale gli eventi umani acquistano un senso solo se rientrano nei piani di Dio, divenendo tappe di un progressivo avvicinamento alla salvezza eterna; concezione che porta I. a mettere in evidenza l'intervento nella storia di Dio, dei suoi angeli e dei suoi ministri, a considerare alcuni fatti come conferme o prefigurazioni dei piani divini, a leggere gli eventi in senso morale come insegnamenti di Dio agli uomini. Questa concezione della storia è solidale e conseguente all'intento generale dell'opera, scritta, come dice esplicitamente I. nel prologo, "ad instructionem et hedificationem". Per conseguire questo scopo, I. non si limita ad alternare il racconto degli eventi con considerazioni di carattere dottrinale e morale, ma dedica la parte centrale del testo all'esposizione di un vero e proprio speculum civitatis in cui, all'interno di un discorso che non si rivolge più solo ai Genovesi ma che acquista valore universale, si analizzano e si valutano le diverse forme del governo secolare, si mostrano le qualità del buon rector e dei suoi consiliarii, si indicano i doveri del buon cittadino nei suoi rapporti con i governanti, la moglie, i figli e i servi. L'intento didattico ed edificatorio dell'opera, evidente nella parte centrale ma presente anche nelle parti narrative, la rende molto vicina ai testi per la predicazione: non a caso I. vi inserisce lunghi brani che vengono sia dalla Legenda aurea sia dai sermonari, e inoltre il testo è stato utilizzato come supporto per la predicazione, come dimostra la presenza nella tradizione manoscritta di indici tematici alfabetici, tipico strumento di consultazione per predicatori. Anche le fonti della Chronica sono in larga parte comuni con le opere per la predicazione: accanto a fonti storiche specifiche, come gli Annali di Caffaro, relativi alla storia di Genova, ritroviamo infatti quell'insieme variegato di auctores già utilizzato per la compilazione della Legenda e dei sermonari. Da segnalare anche l'utilizzo del De regno di Tommaso d'Aquino, in particolare riguardo all'analisi delle diverse forme di governo, ferma restando la distanza tra la concezione politica di I. da quella del teologo domenicano. La Chronica ebbe, se pure in misura minore rispetto alle altre opere di I., una certa fortuna nel Medioevo e nei secoli successivi: si contano 44 manoscritti (vedi Monleone, I, pp. 351-509 con l'integrazione di Kaeppeli, II, p. 368) e un'edizione parziale in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., IX, Mediolani 1726, coll. 1-56. Va segnalato che la parte finale del testo, quella relativa alle biografie dei vescovi e degli arcivescovi genovesi, circolò autonomamente e venne erroneamente considerata un'opera autonoma di Iacopo. Nel 1941 Giovanni Monleone diede un'edizione critica della Chronica nell'ambito delle Fonti per la storia d'Italia [Medioevo], Roma 1941, premettendo al testo uno Studio introduttivo sulla vita di I. e le sue opere. L'edizione Monleone, oltre a mettere a disposizione una versione criticamente affidabile della Chronica, ha il merito di aver ribadito il carattere del tutto peculiare dell'opera di I. all'interno del genere cronachistico sottraendola ai duri giudizi sul suo valore di opera storica che l'hanno accompagnata nei secoli, da Coluccio Salutati a Ludovico Antonio Muratori, tanto per citare i due nomi più conosciuti. Recentemente (Genova 1995) Stefania Bertini Guidetti ha fornito una traduzione integrale della Chronica in lingua italiana, preceduta da un riesame critico dell'opera in rapporto con la storia di Genova e l'azione pastorale e politica dei frati predicatori.
I. scrisse inoltre cinque opuscoli di carattere agiografico che sono tradizionalmente ritenuti autentici. Alcuni di essi sono ricordati dallo stesso I. in vari passaggi della Chronica, altri gli vengono attribuiti nei manoscritti e risultano per lo stile molto vicini alla Legenda aurea. Tre riguardano santi e reliquie legati alla storia di Genova.
La Legenda seu Vita sancti Syri episcopi Ianuensis fu scritta nel 1293, nell'occasione, ricordata sopra, della ricognizione delle reliquie del santo promossa dallo stesso Iacopo. L'opuscolo, che viene presentato nella Chronica (pp. 248 s.) come un'integrazione a un'antica leggenda, corrisponde al capitolo dedicato a s. Siro che I. inserì nella Legenda aurea in una delle sue ultime revisioni editoriali (Maggioni, Ricerche, p. 15). Il testo è stato pubblicato nel 1874 da Vincenzo Promis come opera autonoma in Leggenda e inni di s. Siro vescovo di Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, X (1874), pp. 357-383.
L'Historiatranslationis reliquiarum sancti Iohannis Baptistae Ianuam racconta in forma di solenne discorso ai Genovesi le vicende delle reliquie del Battista dalla morte alla sepoltura a Mira fino all'arrivo a Genova nel 1099. L'autenticità dell'opera è garantita dallo stesso I., che, raccontando nella Chronica la storia delle reliquie, afferma di aver scritto a questo proposito "historiam et ymnos" (p. 304). La composizione è molto probabilmente contemporanea a quella della Chronica, quindi tra il 1296 e il 1298. Se degli inni non è rimasta traccia, l'Historia è pubblicata a cura di A. Vigna e L.T. Belgrano in Due opuscoli di J. da Varagine, in Atti della Società ligure di storia patria, X (1874), pp. 480-491.
L'Historia reliquiarum que sunt in monasterio Ss. Philippi et Iacobi de Ianua descrive in undici brevi capitoli la storia e le virtù delle reliquie conservate nel convento domenicano femminile di Genova. Lo stesso I., come si racconta nel testo e come è stato ricordato sopra, aveva contribuito ad assegnare al convento genovese alcune di queste preziose reliquie. L'opera è stata probabilmente composta tra il 1286 e il 1292, nel periodo in cui I. non era più priore provinciale di Lombardia e non era ancora arcivescovo di Genova. Nell'incipit del testo si legge infatti "Incipit historia reliquiarum […] compilata per fratrem Jacobum de Varagine quondam priorem provincialem fratrum predicatorum in Lombardia". L'edizione è a cura di A. Vigna e L.T. Belgrano in Due opuscoli di J. da Varagine, cit., pp. 465-479.
Il Tractatus miraculorum reliquiarum sancti Florentii e l'Historia translationis reliquiarum eiusdem sono contenute in un manoscritto del secolo XV privo di segnatura conservato presso l'Archivio parrocchiale di Fiorenzuola d'Arda, (cc. 33r-53v), dove sono precedute da una lettera dedicatoria rivolta da I. a Bonifacio di Cerdego, arciprete di Fiorenzuola, che ne aveva fatto richiesta. L'attribuzione a I. sarebbe confermata dallo stile delle due operine, molto vicino a quello della Legenda aurea. Si ritiene siano state composte tra il 1281 e il 1285, durante il secondo provincialato di Iacopo. La traduzione italiana è in G. Bonnefoy, S. Fiorenzo vescovo di Orange, Roma 1945, pp. 108-126. Per la bibliografia sul manoscritto e sull'opera cfr. Kaeppeli, II, p. 369.
La Passio sancti Cassiani è stata scritta da I. nel 1282 su richiesta del vescovo di Imola, Sinibaldo de' Milotti, che aveva consacrato nel 1271 la nuova cattedrale della città a s. Cassiano. Al testo, che per l'uso delle fonti, in particolare il leggendario di Bartolomeo da Trento, ricorda lo stile della Legenda aurea, è premessa una lettera, datata Bologna 18 giugno 1282, nella quale I. scrive al vescovo di aver compilato la leggenda del martire "diligenti studio" (Lanzoni, pp. 34 s. e Bibliotheca hagiographica Latina, 1635b-c).
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Puncuh, Liber privilegiorum Ecclesiae Ianuensis, Genova 1962, nn. 124 pp. 185 s., 194 s. pp. 294 s. La bibliografia critica su I. e sulle sue opere è vastissima: si propone qui una bibliografia selettiva soprattutto per quanto riguarda gli studi più datati rinviando per un panorama più completo a T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevi, II, Romae 1975, pp. 348-369 (che comprende studi fino al 1973); IV, a cura di E. Panella, ibid. 1993, pp. 139-141 (che comprende studi fino al 1991, e a La Légende dorée (Lyon, 1476). Édition critique…, cit., a cura di B. Dunn-Lardeau, Paris 1997, che, alle pp. 1515-1557, presenta un'amplissima bibliografia su I. e sulle sue opere, in particolare la Legenda aurea, dove sono compresi studi fino al 1996. F. Lanzoni, Le leggende di s. Cassiano da Imola, in Didaskaleion, III (1925), pp. 34-44; E.C. Richardson, Material for a life of J. da Varagine, New York 1935; A. 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