Del Cassero, Iacopo
Nipote del giurista Martino, figlio di Uguccione podestà di Macerata nel 1268, Iacopo nacque intorno al 1260; attese principalmente alla vita politica e alle armi, e comandò nel 1288 le milizie fanesi contro Arezzo, in soccorso di Firenze. La famiglia Del C., fanese, era di Parte guelfa e annoverava varie amicizie tra i Fiorentini.
Fu amico dei conti Guidi, di Maghinardo da Susinana, dei conti Alberti da Mangona. G. Villani lo ricorda tra gli alleati di Firenze: non è improbabile che D. lo abbia conosciuto in quella circostanza. È singolare che sia ricordato in Pg V 64-84, insieme a Buonconte che prese parte alla stessa vicenda bellica di Campaldino. Iacopo fu per un anno (1294) podestà di Rimini, e ivi ambasciatore delle città di Fano, Pesaro, Fossombrone, nel 1296, al parlamento generale, quindi, l'anno medesimo, capitano delle milizie e podestà di Bologna. A questo periodo risale la sua complessa attività di governo, onde evitare che la città cadesse sotto la signoria degli Estensi. Vari tentativi fece il marchese Azzo VIII per crearsi un appoggio interno in Bologna, servendosi dei fuorusciti e delle cospirazioni ghibelline, sì da provocare contro di lui la convenzione del 9 giugno 1296 tra il reggimento di Bologna e i fuorusciti di Ferrara. Di qui l'odio e la vendetta del marchese estense contro Iacopo allora capitano della repubblica bolognese. Avendo egli infatti rifiutata la conferma a podestà di Bologna, sembra che nel gennaio del 1297 tornasse a Fano, ma la città era già nelle mire ambiziose dei Malatesta, al punto che la nomina di lui a podestà di Milano poté apparire, ad alcuni studiosi, frutto dell'intrigo del signore di Rimini con Matteo Visconti.
Nominato podestà a Milano, Iacopo per raggiungere la città seguì la costa adriatica. Agli odi degli Estensi contro di lui contribuivano non solo l'accennata convenzione, ma il suo carattere impetuoso e le gravi dicerie e accuse propalate da lui stesso su Azzo VIII. Una nota inserita a commento del V canto del Purgatorio nel cosiddetto codice Gradenighiano conservato nella Biblioteca Gambalunga di Rimini (carta 67) afferma infatti che Iacopo, a proposito del marchese estense, " continuamente usava cative et vilane parole, dicendo esso avere giagiuto con la matrigna et che quella caxa erano dissexa da una lavandara de panni et che elio era un bugiardo et cativo huomo, né mai la sua lingua se saciava de vilanigiare di lui ".
Benvenuto, favorevole agli Estensi, sostenne le ragioni del marchese attribuendo alla temerità di Iacopo la responsabilità dell'omicidio; il Serravalle, invece, sottolineata la giovane età del fanese al momento dell'uccisione, lo definì " rigidus, austerus et severus officialis ". Iacopo compì il viaggio sino a Venezia, da Fusina, sulla sponda sinistra del Brenta, si diresse verso Dolo: fu ucciso a Oriaco dai sicari estensi mentre stava per salire a cavallo. Le Chiose Cassinesi citano il nome di Marcone da Mestre che avrebbe colpito mortalmente Iacopo (" amputavit cosciam cum toto sexu et ideo forte quod vidit sanguinem super quo sedebat ") con un colpo di roncone. Non estranei al tradimento furono Rizzardo da Camino e suo padre Gerardo signore di Treviso, e forse i Carignano di Fano. La salma, trasportata nella sua città, fu sepolta nella chiesa di S. Domenico " in ingressu a latere sinistro ". Nei sedici versi leonini dell'epigrafe sepolcrale è narrata la sua fine.
Chi legge il c. V del Purgatorio e lo considera in ordine alla figura di Buonconte di Montefeltro e di Pia dei Tolomei, avverte l'emozione ancor viva nell'animo del poeta per la rievocazione di uno dei delitti che ebbero più risonanza in quell'epoca. Pur facendo riconoscere a Iacopo i suoi torti, lo pone avanti alle altre vittime della violenza; come oratore e dignitario gli presta un linguaggio consono alla sua posizione politica. La tragedia di Iacopo, per quanto lontana, si proietta nella sua parola come un fatto che ha scavato nella coscienza di D. un incolmabile dolore. Il sangue sparso e lo scempio toccato al suo corpo lasciano Iacopo - in mezzo alla rievocazione lirica del suo paesaggio, quello delle Marche e quello della terra padovana - non certamente indifferente. Lo stile e il racconto sonò " da uomo d'arme e asciutto ", come ben vide il Momigliano. Elegia e dramma, melanconia della fine immatura, desiderio di pace e di preghiera nella chiesa della sua città, emergono dalla grandiosa e terribile fine di un uomo, il cui tragico destino commosse l'animo di Dante.
Bibl. - A. Boschini, Alcuni documenti inediti intorno a Jacopo del C., Pesaro 1898; G. Castellani, Jacopo del C. e il Codice dantesco della Biblioteca di Rimini, in " Le Marche " n.s., II (1907) 41- 72; A. Montanari, I marchigiani nella D. C., Macerata 1911, 85- 121; G. Berardi, Due illustri fanesi del sec. XIV, in " Studia Picena " XVII (1942); G. Fallani, La chiesa di Domenico e Jacopo del C., in Fano (Notiziario d'informazioni) suppl. al n. 3, Fano 1966, 5-12; M. Natalucci, D. e le Marche, Bologna 1967, 96-98.