idea
Il termine gr. ἰδέα («aspetto, forma, apparenza» dal tema di ἰδεῖν «vedere») passò nel linguaggio filosofico già nell’età presocratica, quando, per es., venne usato da Democrito per significare, in conformità con il suo senso originario, l’atomo stesso, che in forza del suo carattere prevalentemente formale e geometrico era in primo luogo «forma, schema visibile».
Ma la grande fortuna del termine si deve all’uso che Platone fece di esso, al pari di quello di εἶδος, che gli equivaleva tanto nell’etimologia quanto nel significato. ’Ιδέαι o εἴδη furono per Platone le entità eterne, che dominavano il divenire delle cose in quanto queste ultime, o partecipando della loro essenza o assumendole come modelli da imitare, dirigevano il loro processo in funzione di quelle: la genesi degli uomini aveva per causa finale l’i. dell’uomo. Di qui il significato di «tipo» e «modello», che più tardi venne al termine e meglio ancora al suo derivato «ideale», e che si può dire il contributo platonico all’evoluzione del termine, il cui significato originario quadrava d’altronde perfettamente con il carattere della dottrina platonica, tutta costituita di una contemplazione visiva del rapporto fra le i. e le cose e quindi portata a considerare le stesse i. come pure forme, percepibili, se non dall’occhio sensibile, tuttavia dall’occhio dell’intelletto. Né questo carattere visuale, intuitivo, dell’i. si smarrì nei tentativi, che Platone fece nella più tarda fase della sua evoluzione filosofica, di togliere a essa il più possibile della sua materiale concretezza mediante una riduzione a entità matematica, perché anche in questo caso intervenne, a render possibile tale riduzione, l’intuitività spaziale della geometria. E l’aspetto formale dell’i. platonica si accentuò nella stessa critica aristotelica, che, riducendo l’εἶδος a pura μορφή della concreta individualità, lo considerò come semplice forma, o concetto di classe.
Questo concetto platonico-aristotelico della realtà ideale si perpetuò in tutto il pensiero del Medioevo, ma naturalmente con le varie oscillazioni con cui questo considerò di volta in volta il problema dell’esistenza di tali valori (e cioè la ‘questione degli universali’) con occhio o platonico o aristotelico o addirittura empiristico-scettico, attribuendo maggiore o minore indipendenza ed esistenza all’esse idealiter (già Cicerone aveva dato cittadinanza latina al termine idea).
Solo nell’età moderna il nome cominciò invece ad assumere quel significato di entità propriamente mentale, di contenuto di pensiero, che poi gli è rimasto proprio nella sua accezione più comune: né per tale mutazione di valore era stata priva di efficacia la stessa formula medievale dell’esse idealiter, che attraverso il concettualismo e il nominalismo aveva riportato l’idealitas dalla sfera dell’oggettività metafisica a quella della soggettività pensante. Per Cartesio, i. è ogni contenuto di coscienza, nell’accezione più generale («ostendo me nomen ideae sumere pro omni eo quod immediate a mente percipitur»): di qui la distinzione, che tanta importanza doveva assumere per la sua gnoseologia e metafisica, fra le i. «innate» e quelle «avventizie» e «fattizie». Ma più frequente, anche nella prima età moderna, fu la limitazione dell’uso del termine a quei contenuti di pensiero che non implicassero l’immediata attestazione d’una realtà esterna (il cui esse idealiter, si sarebbe appunto detto nel Medioevo, non corrispondesse immediatamente a un esse realiter); così Spinoza definì l’i. come «mentis conceptum, quem mens format, propterea quod res est cogitans», e Leibniz come «propinquam quamdam cogitandi de re facultatem sive facilitatem». Analogamente, l’empirismo inglese (Hobbes, Locke, Hume) considerò le i. come riflessi mnemonici del senso, e dalla loro «associazione» derivò tutto lo sviluppo del sapere umano; ma Berkeley tornò alla cartesiana larghezza di significato, e chiamò i. anche le percezioni sensibili, che d’altronde non riflettevano per lui alcuna realtà materiale esistendo oggettivamente solo nel pensiero di Dio. Valore assai più speciale attribuì invece al termine Kant, che l’adoperò per designare i concetti della ragione, i quali, a differenza delle categorie dell’intelletto, non avevano per la conoscenza valore costitutivo, ma semplicemente regolativo, rappresentando ideali a cui si doveva tendere nell’ampliamento della conoscenza, senza peraltro poter mai presumere di chiuderli, salvi di antinomie dialettiche, nel cerchio dell’esperienza possibile. Tali le quattro i. cosmologiche, la psicologica, la teologica, l’estetica, e via dicendo.
Dopo Kant, caduta già con Fichte la preoccupazione di una realtà esterna a cui dovesse riferirsi la fenomenizzazione conoscitiva, i valori che per Kant vivevano nel puro regno dei fini e delle norme e non potevano discendere al concreto contatto con il reale non ebbero più bisogno, per esistere, di tale realistica integrazione: di qui l’idealismo (➔) trascendentale di Schelling, e quello assoluto di Hegel, a cui l’i. apparve come categoria suprema del tutto, sintesi ultima della concettualità e della realtà, dell’essere e del pensiero. Schopenhauer, invece, che opponendosi al panlogismo degli idealisti vedeva nella volontà cosmica il principio del mondo, considerò le idee come semplici gradi dell’oggettivazione rappresentativa di tale principio. L’idealismo novecentesco è stato tale più nel senso soggettivistico in cui con quel nome si presentava (ed era combattuta da Kant) la dottrina di Berkeley, che non in quello panlogistico dei postkantiani; tale idealismo si è affermato come, si potrebbe dire, un idealismo senza i., tendendo sempre più a relegare anche questo concetto nel vecchio armamentario logico-gnoseologico da cui si viene liberando, o almeno a risolverlo senz’altro in quello stesso del «concetto».