Il califfato di Assad
Il presidente siriano e l’ex premier iracheno al-Maliki sono i principali responsabili dell’ascesa dei terroristi dello Stato Islamico. Il primo con la sua politica di brutale repressione di una opposizione agli inizi pacifica. Il secondo con la spietata guerra contro i sunniti.
Tra i numerosi fattori che hanno determinato la nascita e la crescita del cosiddetto Stato Islamico (poi autoproclamatosi Califfato), a partire dal 2012 nel territorio siriano e dall’autunno 2013 progressivamente allargatosi all’Iraq centro-settentrionale, ve ne sono 2 che possiamo senz’altro individuare come i più importanti.
Il paradosso, che aiuta a capire quanto complessa sia la creazione di una coalizione regionale in grado di combattere con efficienza il fenomeno, sta nel fatto che sulla carta entrambi i fattori dovrebbero costituirne i nemici accerrimi, da cui nessuno può davvero prescindere se intende annullarlo una volta per tutte. Essi sono il presidente siriano Bashar al-Assad, dato quasi per finito 2 anni fa ma oggi ancora saldamente in sella, e l’ex premier iracheno Nuri al-Maliki, a sua volta deciso a conservare un ruolo centrale anche nel governo del nuovo primo ministro Haydar al-Abadi.
Le ‘colpe’ di Assad e del suo regime oggi sono in parte offuscate dalle efferatezze criminali volutamente diffuse dai dirigenti e militanti del Califfato. Un elemento, quest’ultimo, che segna una peculiarità: in genere, infatti, si tende a nascondere i propri crimini. Ma non nel caso dei jihadisti sunniti in Iraq e Siria, i quali deliberatamente terrorizzano i loro avversari postando in rete e sui social media i filmati, le foto, i dettagli di decapitazioni, fucilazioni di massa, torture e abusi di ogni tipo. Occorre però sottolineare che sin dai primi giorni delle manifestazioni di piazza contro il regime, nella primavera del 2011, furono proprio la repressione spietata, il ricorso alla tortura sistematica nelle prigioni, i bombardamenti di villaggi inermi, gli assassini e i rapimenti di intellettuali, medici e infermieri ‘colpevoli’ solo di aver curato le vittime civili, tutti metodi applicati con metodica ferocia dai militari di Assad, a spingere l’opposizione a organizzarsi per combattere il regime. Va ricordato che le prime rivolte in Siria furono sostanzialmente pacifiche. I primi gruppi consistenti dell’opposizione armata cominciarono a comparire tra Hama, Homs e Aleppo verso la fine dell’estate, e va sottolineato che per lungo tempo questi stessi gruppi guardarono all’Occidente, alla NATO, agli Stati Uniti e all’Europa come possibili alleati.
Pur se inorriditi di fronte alla decapitazione dei giornalisti americani nell’agosto 2014, non possiamo dimenticare che ancora nel febbraio 2012 la celebre giornalista di guerra Marie Colvin, inviata del Sunday Times e uccisa a Homs dalle bombe dei militari lealisti con un fotografo francese, era stata aiutata in ogni modo dai gruppi della resistenza siriana. I loro corpi, assieme a quelli di altri reporter feriti, vennero poi portati in Libano ancora grazie al sacrificio delle milizie ribelli, che persero una decina di uomini nell’operazione. Tutto questo per sottolineare che fu proprio la brutalità indicibile della repressione militare, sommata alla mancanza di aiuti da parte dei governi occidentali, a spingere le milizie ribelli nelle braccia degli estremisti islamici. Non è neppure escluso che Assad abbia facilitato l’arrivo dei qaedisti dall’estero proprio per indebolire le brigate di patrioti laici e contemporaneamente criminalizzare l’intero movimento di opposizione. Quella che era nata come una rivolta ispirata dall’elemento sunnita contro la ‘nomenklatura’ della dittatura alawita (una setta sciita) è oggi innegabilmente dominata da un gruppo terrorista violento, aggressivo e intollerante che minaccia l’intero Medio Oriente con gravi ripercussioni anche in Occidente.
In Iraq, la politica programmaticamente settaria e specialmente anti-sunnita del premier sciita al-Maliki ha determinato lo sfaldamento del paese. Al-Maliki era stato eletto nel 2006 con la promessa di rafforzare l’unità nazionale. La sua intenzione di proseguire il processo di de-baathificazione per cancellare una volta per sempre i resti del regime di Saddam Hussein allora non apparve proporsi automaticamente come l’esclusione delle componenti non sciite. Anzi, la scelta statunitense di cooptare le grandi tribù sunnite del governatorato di al-Anbar nella lotta contro i gruppi qaedisti tra il 2006 e il 2008 fu coadiuvata da al-Maliki. La situazione cambiò però rapidamente dopo il ritiro militare statunitense dall’Iraq nella seconda metà del 2011. Fu allora che al-Maliki rafforzò i legami con Teheran e soprattutto creò milizie speciali sciite reclutate a Baghdad e nel sud che divennero i suoi pretoriani personali. Le tensioni con la zona autonoma curda nel nord si fecero progressivamente più acute. Con i sunniti gli attriti divennero quindi guerra aperta quando venne reso noto il mandato di arresto con l’accusa di ‘terrorismo’ per il vice presidente Tariq al-Hashimi alla fine del 2011. Questi, considerato la massima personalità sunnita nella compagine governativa, trovò rifugio nelle regioni curde, e oggi è in esilio in Turchia. Nell’estate del 2013 è quindi scoppiata la rivolta armata sunnita. Conseguenza più importante è stata l’alleanza tra i sunniti iracheni, compresi gli stessi moderati che si erano battuti contro al-Qaida, e le brigate dello Stato Islamico in Siria. Le clamorose vittorie militari dei jihadisti sunniti nel giugno-agosto 2014 non sono dunque state un fulmine a ciel sereno, bensì conseguenze evidenti delle politiche dei 2 regimi a Damasco e Baghdad. Al-Maliki e Assad sono stati cause del problema, difficilmente potranno essere parte della sua soluzione.