Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nonostante sia oggetto di polemiche e venga accusato di corrompere il gusto e la poesia, il dramma per musica settecentesco – prodotto artistico sovranazionale – gode in Europa di un interesse e di una diffusione senza precedenti. Strutturato in una serie di arie intercalate da recitativi, è funzionale all’esibizione dei virtuosi del canto, ed è esposto ai loro condizionamenti; ma nel corso del secolo viene investito da propositi di riforma e da un’attenzione crescente per la coerenza dell’intreccio drammatico.
L’affermazione internazionale del dramma per musica all’italiana
Nel XVIII secolo il successo europeo del dramma per musica all’italiana è incontrastato: in tutte le corti europee diviene il genere di spettacolo alla moda e domina sia il teatro di corte sia quello impresariale. Gli unici fenomeni in grado di contrastarlo, in qualche misura, sono l’opera tedesca di Amburgo e la tragédie lyrique francese. Tuttavia non è un prodotto del quale gli italiani detengano l’esclusiva: fra i maggiori compositori che si dedicano alla sua creazione si contano Händel, Hasse, Gluck e Mozart; rappresenta piuttosto un prodotto artistico internazionale, fondato su una tradizione e su convenzioni comuni, del tutto passibili di esportazione.
Il successo internazionale del dramma per musica trova riscontro nel vigoroso interesse teorico dal quale è investito: letterati, intellettuali e filosofi si interrogano sullo statuto estetico di questo genere, e affrontano problemi attinenti al rapporto tra musica e poesia o alla costruzione di un intreccio drammatico verosimile ed efficace. Ne nascono querelles intellettuali e polemiche, che prendono di mira soprattutto il costume teatrale dell’epoca: le critiche si appuntano contro gli abusi e la disinvoltura dei virtuosi di canto, che trascurano il recitativo e sono interessati solo a esibirsi nell’aria solistica, o vengono rivolte contro l’assurdità e l’inverosimiglianza degli intrecci drammatici, e sottolineano la presunta responsabilità dell’opera in musica nella corruzione della poesia. Se le critiche sono giustificate dal fatto che il melodramma, nei casi peggiori, è ridotto a semplice merce di consumo, tuttavia esse non intaccano seriamente la vitalità del genere, che per tutto il secolo continua a godere di un successo senza precedenti.
Apostolo Zeno e Pietro Metastasio svolgono un ruolo di primo piano nella definizione di quei meccanismi poetici e drammatici che per tutto il secolo avranno valore paradigmatico.
I drammi del secondo, in particolare, hanno uno straordinario successo e vengono messi in musica, ancora in epoca assai tarda, da innumerevoli musicisti. Con i loro testi poetici entrambi risollevano il genere dalla decadenza nella quale era piombato, causa l’acquiescenza del librettista alla prassi teatrale dell’epoca, nella quale l’alternanza dei pezzi – per volere del musicista, dell’impresario ma soprattutto dei cantanti – poteva essere fissata senza alcun riguardo per la continuità d’azione e la verosimiglianza del dramma.
I soggetti drammatici
Dallo spettacolo d’opera secentesco, nel quale si trovano frammisti elementi tragici, comici e coreutici, si sviluppano nel Settecento tre generi distinti: il dramma per musica, l’opera buffa e il ballo. La divisione comporta una specializzazione degli artisti, che tuttavia non impedisce loro di coesistere, in momenti distinti, all’interno di uno stesso evento spettacolare.
I soggetti adottati di preferenza dal dramma per musica sono di tipo storico, ambientati nell’antichità greco-romana, o mitologico e attingono alle fonti classiche della storia antica e del mito: Plutarco, Ovidio, Livio, Svetonio. Francesco Algarotti, fra gli altri, raccomanda nel Saggio sopra l’opera in musica (1755) l’adozione di soggetti storici o mitologici in quanto permettono di portare sulla scena grandi ed esemplari passioni. Seppur meno frequentemente, il dramma per musica coltiva anche il genere fantastico-fiabesco. I soggetti danno costantemente adito ad allusioni e allegorie sulla virtù, l’eroismo, il coraggio, la fedeltà, l’amicizia.
Nella seconda metà del secolo, i soggetti storici e mitologici vengono rivitalizzati dall’interesse diffuso e crescente per l’antichità, dalle scoperte e dalle grandi spedizioni archeologiche, in armonia con quella temperie neoclassica che porta a ricercare i modelli artistici nell’antichità classica (non più considerata solo come oggetto di interesse archeologico, ma come una sorta di patria ideale). I toni arcadici, allora, vengono sempre più estromessi dall’opera seria in favore degli accenti austeri e tragici, di appelli ideali al rigore morale delle antiche civiltà e di un linguaggio drammatico più severo.
Carattere e tipologie formali dell’aria
Lo spettacolo operistico settecentesco è incentrato su una successione di arie, che ne costituiscono le unità più significative, unite da recitativi secchi; vi si aggiungono pochi duetti e pezzi d’insieme. Il recitativo secco è schematico, scorre rapido e procede libero nelle sue modulazioni. Il recitativo obbligato è riservato a pochi momenti fortemente patetici (ma nella seconda metà del secolo numero e lunghezza dei recitativi accompagnati aumentano notevolmente) e spesso introduce scene lugubri o notturne, o ambienta luoghi desolati e solitari.
Il testo dell’aria esprime un affetto singolo che promuove il dramma, nel senso che suscita i conflitti drammatici nei quali il personaggio viene a essere coinvolto; spesso lo stato d’animo del personaggio che canta è descritto facendo ricorso a un’immagine (che può stimolare la fantasia descrittiva del compositore), una metafora o una sentenza. Il carattere astratto del concetto favorisce la trasmigrazione di un’aria da un dramma all’altro, senza che venga compromessa la coerenza drammatica dell’opera: l’intercambiabilità delle arie, nel melodramma settecentesco, è fenomeno assai comune.
Le arie, che seguono una tipologia codificata, vengono definite secondo la situazione drammatica (arie “di sdegno”, “di pazzia”, “del sonno”, “di caccia”), o il carattere stilistico (arie “di sentimento”, “di mezzo carattere”), o la tecnica vocale impiegata (arie “di portamento”, “di bravura”, “di agilità”). Arie “di sorbetto” sono quelle di interesse minore, perché intonate da personaggi secondari, durante l’esibizione delle quali gli spettatori si dedicano volentieri ad altro; “di baule” è definita un’aria che un cantante si porta appresso e inserisce in un dramma, appena può, per colpire gli spettatori o per sostituire un’aria che non gli aggrada.
Nel dramma per musica settecentesco le arie rispondono sostanzialmente a due tipi formali.
Vi sono innanzitutto le “ariette” bipartite, secondo lo schema AB, dove B è spesso una variante di A; vi sono poi le arie tripartite in forma ABA’, o arie col “da capo”. Quest’ultimo, codificato da Alessandro Scarlatti, diviene lo schema più consueto; ha fortuna europea e finisce per estendersi anche all’oratorio, alla cantata da camera, alla musica sacra. La sezione A intona la prima strofa del testo poetico, B la seconda; A e B si svolgono su temi, metro e tonalità diversi. La seconda sezione, che in genere è più breve, ha il compito di fornire un efficace contrasto con la prima. L’ultima parte dell’aria (A’) costituisce una variazione ornamentale della prima: qui il cantante virtuoso, improvvisando gli abbellimenti, ha modo di sfoggiare tutta la sua abilità.
Coi primi decenni del secolo, l’arte canora raggiunge un grado altissimo di perfezione e di virtuosismo: le arie, di conseguenza, si fanno più complesse e articolate. Ciò comporta una dilatazione della struttura formale; si prediligono arie divise in cinque sezioni in forma AA’BAA’, che rappresentano un ampliamento della struttura tripartita col “da capo”. Spesso, inoltre, le sezioni sono separate da ritornelli strumentali. Più ampie sono le arie, minore è il loro numero all’interno del dramma.
L’organizzazione formale del dramma per musica, articolato in una serie di arie solistiche, è funzionale ai virtuosi del canto, che nel Settecento – grazie anche alla perfezione raggiunta dall’arte canora – esercitano sul genere il loro dominio assoluto e condizionano le scelte di librettista e compositore. All’interno dello spettacolo, l’ordine in cui i personaggi fanno il loro ingresso, il numero e l’importanza delle arie loro assegnate riflettono l’ordine gerarchico dei cantanti che le interpretano.
Un dramma per musica, a volte, può essere il semplice risultato dell’assemblaggio di musica scritta in precedenza da diversi autori, o commissionata loro per l’occasione: è il caso del “pasticcio”. L’idea che il compositore sia autore unico e responsabile del prodotto artistico è scarsamente fondata: nel dramma la musica è solo una delle componenti, non necessariamente la più importante, dello spettacolo.
Caratteri stilistici del dramma per musica settecentesco
Per tutta la prima metà del secolo punto di riferimento del gusto e delle forme melodrammatiche sono le opere di Alessandro Scarlatti. La sua produzione fornisce le norme codificate per la composizione dei melodrammi, tanto da identificarsi, in tutta Europa, con l’opera napoletana, o italiana tout court.
Il ruolo del compositore è essenziale nell’individuazione drammatica dell’aria, cioè nella definizione del suo affetto specifico, restituito con appropriati mezzi musicali. L’esempio scarlattiano diviene normativo: per quasi un cinquantennio è il naturale punto di riferimento, è lo schema all’interno del quale operano tutti i compositori di melodrammi.
Nel solco della tradizione scarlattiana si inseriscono anche le opere italiane di Händel. A partire dal Rodrigo, scritto per Firenze nel 1707, e dall’Agrippina, messa in scena a Venezia nel 1709, il musicista si adegua ai modelli formali e stilistici del dramma per musica all’italiana, ma invece di ripetere all’infinito un modello prestabilito, tenta di superarne le convenzioni; abbandona così di frequente lo schema dell’aria col “da capo” in favore di arie brevi e semplici, di carattere espressivo-affettuoso, che contrastano col tono eroico di tante arie all’italiana.
In una seconda fase, verso la metà del secolo, è Johann Adolph Hasse la personalità di maggior spicco. Di formazione napoletana (è allievo di Scarlatti e Porpora), Hasse esercita la parte più cospicua della sua attività di operista a Venezia, Vienna e Dresda. Nella maggior parte dei suoi melodrammi intona versi di Metastasio, del quale è perfetto interprete: la sua arte musicale valorizza in pieno la qualità del testo metastasiano. Con un atteggiamento tipico dei maestri napoletani in quegli anni, Hasse concentra tutto l’interesse nella parte vocale, sfronda il discorso degli elementi contrappuntistici (ancora così importanti in Scarlatti) e adotta un linguaggio melodico più semplice e immediato, caratterizzato da una chiara articolazione e dalla simmetria delle frasi.
Intorno alla metà del secolo si fa più incisivo il dibattito intellettuale sull’opera in musica. Grazie all’influsso crescente delle idee illuministe sul rinnovamento delle arti, ispirato a quei principi di natura e ragione cui lo spettacolo d’opera pare sottrarsi, si auspica da più parti un’opera nella quale parola e dramma abbiano importanza pari alla musica. I drammi metastasiani vengono elogiati tuttora; ma si fa sempre più vivo il desiderio di superarne le strutture poetiche e drammatiche. La Francia è un punto di riferimento importante nel dibattito sulla riforma dell’opera: nella tragédie lyrique, dove convergono poesia, musica, ballo e pantomima, viene individuato un modello drammaturgico più coerente e meglio articolato; suo punto di forza è anche quella declamazione drammatica che attutisce il tagliente divario fra aria e recitativo dell’opera italiana.
Per ciò che riguarda la sfera musicale, le resistenze a modificare le strutture tecniche e formali del genere sono notevoli; tuttavia il dramma per musica evolve lentamente, e rinnova il suo linguaggio – pur senza scalfire l’aulicità dello spettacolo barocco – dall’interno, con trasformazioni che riguardano l’ambito strettamente musicale.
Anche all’infuori della riforma gluckiana, il dramma per musica all’italiana mostra una capacità di rinnovamento sul piano pratico, pur mantenendo invariate le abitudini esecutive e le modalità di fruizione. L’armonia, nel melodramma del secondo Settecento, si fa espressiva; cresce l’importanza dell’orchestra e dei recitativi accompagnati; i temi si ispirano a una crescente simmetria; aumentano i concertati d’insieme, ampi pezzi multisezionali; il coro assume un ruolo drammatico partecipando attivamente all’azione, sul modello dell’opera francese coeva. Classici esempi di queste nuove tendenze sono Niccolò Jommelli e TommasoTraetta, entrambi di scuola napoletana, ma attivi in varie capitali europee. Tra i mutamenti più appariscenti, oltre a quelli già citati, vi è la sperimentazione di nuove strutture formali tese a “dinamizzare”, cioè a drammatizzare internamente il pezzo chiuso: l’aria solistica, così, è sottratta all’esclusiva funzione statico-contemplativa del dramma metastasiano e inserita nel vivo dell’azione, come da tempo si faceva nell’opera buffa.
Tra le forme di teatro musicale che si sviluppano al di fuori del dramma all’italiana, il caso dell’opera tedesca ad Amburgo è degno di rilievo. Nel 1678 viene aperto, nella città anseatica, un teatro d’opera (Auf dem Gänsemarkt), che allestisce regolarmente spettacoli fino al 1738.
Almeno inizialmente, i libretti vengono tradotti o adattati da libretti italiani; i drammi rappresentati si servono di strutture formali semplici, che si riallacciano alla tradizione dei canti spirituali viva nella Germania protestante.
Mattheson, Graupner, Telemann scrivono per il teatro amburghese; qui fa le prime esperienze teatrali anche Händel, che vi fa rappresentare quattro opere su libretto tedesco. Compromesso tra opera italiana e tedesca, ma pronta anche ad accogliere elementi francesi (soprattutto con Telemann), l’esperienza amburghese svolgerà, alla lunga, un ruolo essenziale nella nascita del teatro nazionale tedesco.