Il Mediterraneo
Il Mediterraneo non è un’espressione geografica, non indica solo una regione, e meno ancora il mare da cui prende il nome. È invece un’idea evocativa, espressa simbolicamente, che apre a significati contraddittori, un campo discorsivo in cui s’intrecciano speranze e illusioni, passioni e interessi, passato e futuro. È, infine, un’arena di studi, o meglio un terreno che unifica parzialmente un insieme di ricerche scientifiche disciplinarmente distinte: geografiche, antropologiche, storiche, economiche e delle relazioni internazionali. Appartiene, per così dire, a una famiglia di concetti geostorici divenuti anche geopolitici, concetti anfibi, che vivono per strada come nelle aule universitarie, nei discorsi dei politici altrettanto che nei laboratori di ricerca. Si tratta di termini propri della geografia simbolica e dell’immaginario collettivo, che si propongono di definire uno spazio, ritagliandolo, ma che concretamente finiscono soprattutto per evocare immagini, sensazioni, valori: concetti come Medio Oriente, Levante, Mitteleuropa o, in Italia, Meridione e, più recentemente, Padania. Tra essi il Mediterraneo si distingue per una sua collocazione mista: non fa parte dei termini che designano nettamente lo spazio dell’alterità rispetto all’Europa, ma al contempo non è considerato un luogo pienamente europeo. Nella mitografia vi è infatti l’idea della filiazione dell’Europa dal bacino mediterraneo, che ne sarebbe stato la culla; ma questa nozione del Mediterraneo come territorio padre/madre dell’Europa si accompagna a una persistente tradizione esotizzante, che vuole che in quelle contrade si esprima appieno l’istinto dionisiaco, il naturale arcaico vitalismo che la civilizzazione reprimerebbe nelle società più evolute. «Contiguo, anzi cerniera tra altri due potenti poli simbolici, l’Oriente e l’Occidente, il Mediterraneo è sempre così pronto a sfumare i propri confini in quelli dell’uno o dell’altro, che talvolta sembra sul punto di venirne risucchiato, di diventare parte dell’una o dell’altra costruzione simbolica. E invece rimane pur sempre Mediterraneo, non tutto Oriente né tutto Occidente» (A. Signorelli, postfazione ad Antropologia del Mediterraneo, 2007, p. 327, trad. it. di L’anthropologie de la Méditerranée, 2001). Né completamente esotico né completamente familiare, il Mediterraneo si ritrova così in bilico tra un qui e un altrove, tra un noi e un loro, tra una genealogia dell’intimità e una geografia dell’alterità. Questo suo situarsi a metà strada tra la civiltà e la barbarie, tra il progresso e l’arretratezza, tra lo sviluppo e il sottosviluppo dipende ovviamente da una gerarchia dei valori implicita e naturalizzata che definisce a priori cosa è bene, lecito e bello, chi sono i superiori e chi gli inferiori. E tuttavia, anche qui, il Mediterraneo non sta unicamente dal lato ‘sbagliato’ del mondo, non è solo degrado e corruzione, criminalità e povertà. Vi è un codice estetico, radicato nella tradizione classicista e nel Grand tour, che attribuisce al Mediterraneo una superiorità naturale (nel sole, nel clima, nel paesaggio), unita a un’insuperabile eccellenza artistica (sia pure passata). Nella Parigi della prima metà del 19° sec., in coincidenza con la ‘scoperta’ dell’Oriente, i passanti potevano ammirare su grandi tele chiamate panoramas quelle scene di Atene e di Gerusalemme che avevano imparato ad amare attraverso gli scritti di François-René de Chateaubriand; giusto prima che l’invenzione dei dioramas permettesse di ricreare la lucentezza dei cangianti panorami marini abbagliati dal sole. A questo codice estetico fatto di racconti di viaggio e poi, sempre più, di immagini si è aggiunto, in tempi più recenti, il rimpianto per il ‘mondo che abbiamo perduto’, per una realtà che è stata la nostra e che non è più tale, un mondo fatto di rapporti più aperti, di un’esistenza più lenta e più semplice, meno segnata dal ‘logorio della vita moderna’. In tal modo il Mediterraneo ha aggiunto al suo fascino di naturale complemento vitalistico della razionalità occidentale un tocco di struggente nostalgia per come eravamo, e non siamo più.
Così inteso il Mediterraneo è un concetto recente. Mentre la storia del termine (dall’aggettivo mediterraneus=in mezzo alle terre) è stata più volte ricostruita, lungo un itinerario che da Isidoro di Siviglia (il primo a testimoniare la trasformazione dell’aggettivo in nome proprio) giunge fino alla scuola geografica di lingua tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento – che, da Carl Ritter ad Alfred Philippson tematizza il concetto di Geschichtsregion e il termine Mittelmeer – (Geschichtsregionen. Concept and critique, 2003, pp. 173-88), meno sottolineato è stato il fatto che il concetto di Mediterraneo così come oggi lo si intende, riferito cioè metonimicamente alle terre che circondano quel mare e alla gente che le abita, è sorto in rapporto alla conquista coloniale europea e poi al faticoso processo di decolonizzazione. In particolare fu all’indomani della Seconda guerra mondiale, parallelamente all’esplosione del turismo di massa (ben rappresentata dalla diffusione dei villaggi del Club Méditerranée), che arrivarono nel Mediterraneo studiosi delle potenze vincitrici, statunitensi e inglesi soprattutto: economisti, sociologi, antropologi, storici, archeologi. Si trattava a volte di ex militari che tornavano nei luoghi dove avevano combattuto, a volte di oriundi dei Paesi mediterranei attratti dalla ricerca delle proprie radici, altre ancora di uomini e donne desiderosi di partecipare allo sviluppo di un’area usufruendo dei finanziamenti statunitensi previsti dal Piano Marshall. Tra essi spiccava un gruppo di antropologi che svolgeva le proprie ricerche sul campo, prediligendo appartati villaggi contadini in Anatolia o sperdute comunità pastorali nascoste sulle montagne dei Balcani. Nel 1949 Fernand Braudel, il grande storico francese, pubblicò il celeberrimo La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II (trad. it. 1953), di sicuro il libro più influente nel proporre la possibilità di guardare al Mediterraneo come a un soggetto unitario o, per dirla con Braudel stesso, come a un personaggio. Un personaggio influente, per di più, capace di segnare con la forza secolare di un condizionamento ambientale possente la vita di tutte le popolazioni rivierasche. Nacque così, attraverso percorsi diversi, l’idea del Mediterraneo come un’area culturale, come qualcosa che lega andalusi e siciliani, libanesi e algerini e li rende tra loro simili e, nello stesso tempo, diversi dalle genti settentrionali.
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso una sezione dell’antropologia anglosassone ha provato a costruire quest’area culturale, producendo quell’orientamento che Michael Herzfeld sferzerà più tardi chiamandolo Mediterraneism. Il termine è ricalcato da Orientalism, titolo del libro famoso di Edward Said (1978; trad. it. 1991), una riflessione di grande impatto sulla costruzione degli stereotipi e sugli effetti che essa ha per l’affermazione delle identità sociali. I ‘mediterraneisti’ individuano un gruppo di valori, dipendenti da specifiche forme di famiglia e caratterizzati dalla tendenza alla segregazione delle donne e dalla prevalenza del cosiddetto complesso dell’onore-vergogna, da considerare come tipici dell’intera area mediterranea, cuore di una vera e propria cultura, diversa e distinta da quella dell’Europa nord-occidentale. Questa nozione ha suscitato negli anni Ottanta e Novanta una serie di critiche, in parte dipendenti dall’evidente fallacia di generazioni improprie costruite su un perdurante etnocentrismo, e in parte dall’atteggiamento maggiormente riflessivo dell’antropologia – rispetto ad altre scienze sociali – nei riguardi del proprio ‘peccato originale’ di scienza al servizio del colonialismo. Non si può dire che la storiografia in particolare abbia maturato una consapevolezza adeguata di tutti quanti i guasti prodotti affiancando gli imperialismi e i vari nazionalismi dell’area. Se le autorità e l’opinione pubblica italiana, per es., sembrano non volerne sapere del proprio passato coloniale – come dimostra la censura soft del film Lion of the desert, 1981, un kolossal diretto da Moustapha Akkad e finanziato da Muammar Gheddafi Mu῾ammar (al-Qaḏḏāfi), dedicato alla figura di ῾Omar al-Mukhtār, leader della resistenza contro l’occupazione italiana in Libia –, la storiografia italiana, da parte sua, ha relegato al margine la vicenda coloniale.
La scoperta del Mediterraneo subì una potente accelerazione a seguito della caduta del muro di Berlino (1989). Su un territorio ridivenuto strategico, almeno a partire dalla crisi petrolifera del 1973-1975, si delineò per un momento una concreta possibilità di sviluppo. La caduta dell’Unione Sovietica e del sistema dei blocchi contrapposti sembrò infatti liberare le potenzialità di un’area fino ad allora politicamente ‘ingessata’, proprio mentre i negoziati arabo-palestinesi paiono preludere a una soluzione dell’annoso conflitto. Così, mentre l’Unione Europea avviava i programmi di cooperazione internazionale con i Paesi rivieraschi che sarebbero culminati poi (1995) nell’iniziativa di partenariato euromediterraneo conosciuto come processo di Barcellona, il Mediterraneo divenne di moda, come segnalato – almeno nel caso italiano – da un altro film: Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, che ottenne il premio Oscar nel 1992 come miglior film straniero. È interessante notare come il film sviluppi un tentativo di riproporre, attraverso il prisma mediterraneo, un discorso sugli ‘italiani brava gente’, che anche da soldati in guerra restano quello che sono: donnaioli, amanti del calcio, pronti a scherzare e a fraternizzare con i locali.
Su questa tendenza, che – almeno potenzialmente – prospettava di fornire una sostanza più realistica al concetto di Mediterraneo si sono però abbattute, da subito, vicende storiche drammatiche, che ne hanno messo fortemente in dubbio non solo l’orizzonte ma anche i presupposti. È venuta prima (1991) la guerra del Golfo, poi la disgregazione della Iugoslavia, che ha prodotto tra il 1991 e il 1995 una drammatica guerra civile in Bosnia e un conflitto armato tra Croazia e Serbia: una vicenda tragica che ha messo in evidenza l’incapacità protratta dell’Unione Europea di far fronte a un’emergenza politica e umanitaria di grandi proporzioni. È seguita poi la ripresa del conflitto israelo-palestinese, con la stagione dell’Intifāḍa e dell’incapacità delle parti di riannodare il filo del dialogo fino al prevalere di contrapposte e speculari visioni fondamentaliste sul passato e il futuro della Palestina, e l’intervento militare NATO in Kosovo (1999). Infine, è venuto l’11 settembre 2001 e con esso il trionfo della nuova tematizzazione delle relazioni internazionali segnata dalla riflessione sullo ‘scontro delle civiltà’, elaborata tra il 1993 e il 1996 da Samuel P. Huntington. Nella nuova dinamica internazionale apertasi con gli interventi in Afghānistān (2001) e in ῾Irāq (2003), il Mediterraneo è ridiventato una frontiera e lo storico Henri Pirenne, autore del celebre Mahomet et Charlemagne (1937; trad. it. 1969) – che descrive lo stabilirsi, con la conquista musulmana del 7° sec., di una frattura in quell’universo composito ma sostanzialmente unificato che era stato il Mediterraneo antico – si è preso la sua rivincita postuma su Braudel.
Malgrado ciò, i discorsi sul Mediterraneo continuano ad alimentarsi e in tal modo a prolungare la sua fascinazione: nell’opinione pubblica, nella pubblicità turistica, nell’immaginario della gente del Nord così come di quella del Sud, ma anche nella pubblicistica scientifica: in quest’ultimo campo, anzi, si assiste a un proliferare senza precedenti di dibattiti, convegni, riviste, pubblicazioni, inchieste sul tema. Il Mediterraneo appare oggi come un caleidoscopio, capace di offrire, a ogni giro, immagini multiformi e cangianti, scorrendo le quali, forse, è possibile cogliere almeno alcune delle ragioni della sua insistita presenza in questo inizio del 21° secolo.
Il Mediterraneo degli storici
All’inizio c’era Braudel. È al Mediterraneo di Braudel che si ispirano principalmente la grande quantità di riviste di taglio storico nate nell’ultimo quarto di secolo. È il caso anche della «Mediterranean historical review», forse la più nota: fondata nel 1986 da un gruppo di ricercatori di Tel Aviv, si rifà esplicitamente all’opera del maestro francese, oltre che caratterizzarsi, come recita l’editoriale del primo numero, «per un penchant verso il paesaggio – fisico e umano– del mondo mediterraneo» (S.E. Alcock, Alphabet soup in the Mediterranean basin. The emergence of the Mediterranean serial, in Rethinking the Mediterranean, 2005, p. 327). La descrizione offerta da Braudel di una storia del rapporto uomo-ambiente segnata da mutamenti lenti, distesi su una lunga durata intessuta di cicli e di ripetizioni, ha ampiamente stimolato il dibattito con altre discipline sociali. E, più di recente, il paradigma braudeliano di un Mediterraneo inteso soprattutto come crocevia di scambi si è prestato bene a interpretare il desiderio di sfuggire a schemi troppo rigidi nella concettualizzazione del rapporto centro-periferia, specie a seguito delle suggestioni di un’epoca segnata dall’irrompere della tematica della globalizzazione. Non è perciò strano che, ancora rileggendo Braudel, sia venuto in mente a uno storico dell’antichità classica di Oxford, Nicholas Purcell, di verificare la possibilità di interpretare in modo unitario il Mediterraneo di epoca antica e medievale (fino all’anno Mille). Ne è derivato, scritto a quattro mani con il medievista Peregrine Horden e pubblicato nel 2000, un affresco magniloquente intitolato, con una citazione da Platone, The corrupting sea. Il Mediterraneo come fonte di contaminazione viene esaminato da Horden e Purcell attraverso un complesso schema interpretativo basato su un ecosistema che produce un elevato grado di rischio e di insicurezza, su una logica produttiva che si mette in moto per far fronte a tali rischi, sull’esistenza di microregioni a estrema frammentazione topografica determinate dalla tettonica dell’area, e infine su un sistema di comunicazione e di scambi, essenzialmente marittimo, che ne deriva quasi come output obbligato. È stato giustamente notato che questo Mediterraneo, creatore di traffici, contrasti e contatti (medium che resiste all’omogeneità, all’ordine, al controllo sociale), pensato come un kulturraum privo di centro (e che trova la sua parola magica nella connectivity tra popoli, società e culture), si attaglia bene a una caratteristica postmoderna che tende a rigettare le gerarchie convenzionali, il prevalere di un alto che ordina il basso, di un prima che spiega il poi.
Ma le ragioni del persistente interesse tra gli storici di quella che Horden e Purcell chiamano una storia del Mediterraneo e non solamente una storia nel Mediterraneo, non stanno solo nell’attrazione ricorrente per il paradigma braudeliano, ancorché contestato, almeno in parte, e rivisto. Lo stesso anno in cui moriva lo storico francese, il 1985, veniva a mancare anche il grande studioso delle comunità ebraiche nel mondo arabo medievale Shelomo Dov Goitein. Coetaneo di Braudel (era nato due anni prima di questi, nel 1900), professore di studi islamici a Gerusalemme e poi a Princeton, Goitein ha scritto un’opera monumentale in sei volumi, dal titolo A Mediterranean society (1967-1993). Si tratta di uno studio di grande importanza sulle società mercantili ebree del mondo musulmano tra il 10° e il 13° sec., reso possibile dal ritrovamento e dallo spoglio della corrispondenza conservata nella gĕnīzāh, un magazzino che funzionava da archivio attiguo alla sinagoga situata a Il Cairo. Per quanto non paragonabile all’influenza di Braudel – è notevole tra l’altro che i due studiosi abbiano lavorato in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro – l’opera di Goitein rischia di lasciare un’impronta duratura negli studi sul Mediterraneo. Essa, infatti, incrocia l’attenzione crescente per le minoranze etniche, religiose e linguistiche, per la loro capacità di muoversi dentro e fuori i confini imposti dagli Stati e dalle osservanze di fede. Ne fa testo, per es., l’evoluzione della storiografia sulla Sicilia medievale, che punta decisamente in questa direzione, pur potendo contare su un’opera esemplare di scuola braudeliana quale quella di Henry Bresc (Un monde méditerranéen: économie et société en Sicilie 1300-1450, 1986). Si tratta di una prospettiva che, ben lungi dal limitarsi al Mediterraneo antico o medievale, si espande verso quello della prima epoca moderna, quasi fosse rivelatrice di una profonda revisione storiografica; un riorientamento che si connette e dipende dai cambiamenti metodologici intervenuti nel frattempo nella disciplina, a seguito della cosiddetta svolta linguistica, della nuova attenzione per la costruzione identitaria dei gruppi sociali, e soprattutto per l’emergere di importanti filoni di studi postcoloniali, segnati dalla ricerca di punti di vista subaltern, nell’ambito dei Cultural Studies. Come ha osservato Anthony Molho, la storiografia tradizionale, impregnata delle categorie proposte da Max Weber, ha lungamente trattato lo Stato nazionale unitario, coeso e centralizzato, come una categoria naturale dello sviluppo storico, oltre che un passaggio obbligato sulla via della modernizzazione. Ne è derivato un profluvio di studi accademici dedicati ai processi di formazione delle nazionalità e di nazionalizzazione delle identità. In questo quadro, le società mediterranee di epoca preindustriale come la Spagna, l’Italia o la Grecia erano considerate semplicemente arretrate, per non parlare poi di società come quella turca, egiziana o del Maghreb che, incapaci di conformarsi a quel progetto progressista chiamato modernità, erano trattate alla stregua di inutili relitti (A. Molho, Comunità e identità nel mondo mediterraneo, in Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo, 2002, pp. 29-44). Più recentemente, però, continua Molho, gli storici paiono meno sicuri dei loro giudizi, al punto che taluni tratti considerati in passato come retrogradi (per es., la capacità di resistenza della famiglia sul piano economico e su quello sociale) vengono rivalutati. Si tratta a questo punto di studiare e approfondire le identità collettive delle popolazioni delle epoche prenazionalistiche. E qui il Mediterraneo ha molto da dire: infatti «sia che fossero arabi, turchi, greci ortodossi, cattolici vecchi o nuovi cristiani, marrani, ebrei ponentini o levantini, mercanti o missionari italiani, iberici o nordeuropei, gli abitanti del bacino del Mediterraneo nei primi anni della modernità si confrontavano con un mondo che non presentava né consentiva la creazione di identità sociali semplici, lineari e ben integrate. I confini fisici e simbolici erano molto più fluidi di quanto lo siano stati in tempi più recenti; le autorità politiche esercitavano il proprio potere in modo più tenue; le conversioni religiose forzate o volontarie, strumentali o genuine, accadevano abbastanza frequentemente per indebolire le pretese di ortodossia avanzate dalle autorità religiose». E ancora: «L’unità fisica del Mediterraneo nell’epoca premoderna era assicurata dai marinai e dai mercanti che trafficavano nelle sue acque. La forma mentis e le pratiche di questi gruppi itineranti, tra i quali si trovavano cristiani greco-ortodossi e cristiani cattolici romani, musulmani arabi e musulmani osmanli, armeni ed ebrei, creavano una cultura comune che, anche in tempi in cui il Mediterraneo era diviso in sfere politiche e religiose distinte, forniva a esso un’ulteriore dimensione d’unità» (p. 37).
Una prospettiva di questo genere, che guarda positivamente al meticciato, alla ‘creolizzazione’ e alla ‘polifonia delle culture’, conduce evidentemente a una diversa valutazione dell’esperienza storica degli imperi, quelli asburgico e zarista, certo, ma segnatamente quello ottomano. Com’è stato recentemente ricordato, mentre in Europa lo Stato moderno si veniva formando attraverso procedimenti espulsivi (dalla cacciata degli ebrei nella Spagna dei re cattolici all’espulsione degli ugonotti nella Francia del Re Sole), la Sublime Porta, tenendo fermo il proprio impianto universalistico, considerava la religione come indifferente per lo status di un cittadino e praticava la tolleranza religiosa, ospitando tra l’altro gli ebrei sefarditi fuggiaschi. Un esempio di rilettura in questo senso è offerto dal romanzo In an antique land di Amitav Ghosh (1992; trad. it. Lo schiavo del manoscritto, 1993), che peraltro si basa ampiamente sulle ricerche di Goitein.
La sensibilità storiografica recente (tematizzata come memoria) per gli orrori accaduti nei processi di pulizia etnica – dallo scambio forzato di popolazione greca e turca nel 1912-13 al genocidio degli armeni nel 1915-16 – fa rimbalzare per contrasto una valutazione più positiva della tradizione storica imperiale ottomana, che finisce per fondersi con l’idea di una mediterraneità originaria, aperta e tollerante, violentata dalla rivoluzione dei Giovani turchi del luglio 1908 e dalle altre spinte nazionalistiche via via manifestatesi (Guarracino 2007, p. 171).
Il Mediterraneo degli antropologi
Il ‘mediterraneismo’ è stato definito come la dottrina per la quale le culture del Mediterraneo hanno o hanno avuto caratteristiche comuni, al punto che si può estrapolare l’importanza di certe pratiche sociali e il loro significato da una società mediterranea a un’altra, per quanto lontane nel tempo e nello spazio. Già nel 1989, tuttavia, l’antropologo João de Pina-Cabral si era chiesto se davvero gli andalusi sono più simili ai tunisini che ai gallegos (The Mediterranean as a category of regional comparison. A critical view, «Current anthropology», 1989, 3, pp. 399-406). Negli anni Ottanta, su questa scia, le tesi mediterraneiste sono state a una a una smantellate: si è fatto notare come la costante competizione tra maschi sia più frequente nei pub della periferia londinese che nei caffè andalusi; che le donne andaluse o sarde dei paesi dell’interno, che parlano liberamente e possiedono un grado elevato di autonomia, non somigliano per nulla alle donne tunisine; che la Francia, per quanto abbia un’estesa costa mediterranea, non è stata mai presa in considerazione come terreno ‘mediterraneo’ di ricerca; che, viceversa, l’estrapolazione di determinati tratti culturali comporterebbe l’inclusione nel Mediterraneo di tutto il continente indiano, e così via.
Tuttavia, malgrado queste e altre critiche stringenti, il conferimento di arditi prestiti da una cultura a un’altra è proseguito, come pure non si è del tutto interrotta l’abitudine di tracciare suggestive continuità culturali tra il Mediterraneo antico e quello recente. Horden e Purcell, pur limitando la propria indagine al mondo mediterraneo antico e primo-medievale non rinunciano a confrontarne i dati con le indagini compiute dagli antropologi nel 20° sec., alla ricerca di tratti comuni che possano sostenere l’idea di una qualche unità nel tempo della mesoarea mediterranea. A cinquant’anni di distanza dalla prima conferenza di Burg Wartenstein (1959) di antropologia mediterranea e nonostante le numerose critiche serrate, permane dunque ancora oggi la tendenza a rintracciare e a porre in evidenza (presunti) tratti culturali comuni alla gente del Mediterraneo. Si nota, certo, un più frequente uso delle virgolette e si riconosce apertamente come all’origine di questa branca minore dell’antropologia delle ‘società calde’ vi sia stato non solo il celebrato interesse per la processualità storica della scuola di Edward E. Evans-Pritchard, ma anche gli interessi accademici di una generazione che, avendo difficoltà a frequentare i ‘nativi’ in un mondo in tendenziale decolonizzazione, aveva preso a rintracciarli nelle più comode, almeno relativamente, località mediterranee. Si era venuto costruendo, così, un soggetto di studi sufficientemente esotico per rispondere alle richieste della disciplina (un anno di ‘osservazione partecipante’ tra gli ‘indigeni’) e si era perpetuata quella che è stata chiamata una doppia gerarchia: la gerarchia dell’intellettuale europeo sul contadino europeo, più quella del contadino europeo sui popoli esotici.
Tuttavia, nonostante il vero e proprio fuoco di sbarramento prodotto dall’antropologia più avvertita, non è scomparsa la tendenza a ricercare ciò che oggi, in modo certo più raffinato, viene chiamato un ‘campo di somiglianze’. Quel gruppo di valori ritenuti quintessenziali di una cultura mediterranea vengono in sostanza riproposti, in modo certo più sfumato, come ‘concetti custodi’ (una definizione presa in prestito da Arjun Appadurai), quelli cioè che definiscono le domande fondamentali su un’area (Ch. Bromberger, J.-Y. Durand, Conclusion. Faut-il jeter la Méditerranée avec l’eau du bain? in L’anthropologie de la Méditerranée, 2001, pp. 733-52).
Si prenda il notissimo concetto di patronage che, creato dall’antropologia mediterranea, ha circolato e si è diffuso in varie scienze sociali e in storia. Come ha recentemente osservato Henk Driessen, gli antropologi non hanno inventato il clientelismo, lo hanno incontrato nelle regioni mediterranee, poi lo hanno descritto e tipizzato: ma al dunque, di fronte alla domanda cruciale: «come si può essere clienti di un altro uomo?», solo una risposta fortemente viziata da etnocentrismo può attribuire questa dimensione, propria (potenzialmente) di ogni rapporto sociale, solo o prevalentemente a un contesto, conferendogli, per così dire, ‘un passaporto’; forme di patronage sono state individuate molto più a nord del suo domicilio preferito, quello mediterraneo, e molto più a est, fino al Giappone. Senza dimenticare poi quanto il patronage, diversamente inteso, sia ampiamente diffuso nel mondo accademico, anche in quello anglosassone, e cioè nel mondo proprio dell’osservatore e non solo in quello degli osservati (H. Driessen, Divisions in Mediterranean ethnography. A view from both shores, in L’anthropologie de la Méditerranée, 2001, pp. 625-44).
Qualcosa di simile si può dire per la famiglia ‘mediterranea’, motore immobile di un numero incalcolabile di nequizie e, allo stesso tempo, capro espiatorio fondamentale di tutte le mancanze registrate nello sviluppo dell’area. All’esaltazione di una famiglia nord-occidentale nucleare e neolocale (Peter Laslett) ha corrisposto infatti la definizione di una generica famiglia mediterranea allargata e patrilocale. Poi, di fronte all’evidenza che nella Spagna e nell’Italia del Sud la famiglia era storicamente nucleare e neolocale si è cominciato a rivalutare la famiglia contadina appoderata, condannando la famiglia meridionale, perché troppo nucleare e non cooperativa. Anche sul piano delle attribuzioni valoriali il tentativo di spiegare il mancato sviluppo attraverso una connessione con la famiglia ha portato a esiti discutibili e contraddittori: a parte le condanne generali di ‘familismo amorale’ (Edward C. Banfield), la letteratura scientifica antropologica e sociologica ha oscillato, attribuendo alla gente del Mediterraneo strutture comportamentali arcaiche (e perciò impregnate di valori premoderni e avversi allo sviluppo) o, alternativamente, strutture valoriali individualistiche (e perciò non socialmente utili e dunque ugualmente avverse allo sviluppo).
Ha pienamente ragione perciò Michael Herzfeld quando scrive che la comparazione non dovrebbe essere indirizzata a «culture reificate all’interno di una regione mediterranea ugualmente reificata, ma nel comparare i processi di reificazione che producono sia le costruzioni locali sia quelle antropologiche» (Debated spaces, in L’anthropologie de la Méditerranée, 2001, pp. 203-14). In altre parole, la persistenza del Mediterraneo come topos nell’immaginario comune e in quello degli studiosi degli inizi del 21° sec. è essa stessa un fenomeno culturale di notevole interesse, che va spiegato. Una delle ragioni di questa persistenza sta nella circolarità tra produzione scientifica, creazione letteraria e artistica (e più in generale dei media) e infine autopercezione della gente comune (M. Herzfeld, Practical mediterraneanism. Excuses for everything, from epistemology to eating, in Rethinking the Mediterranean, 2005, pp. 45-63). Un topos si afferma non perché sia vero, ma perché è utile e risponde a certi bisogni. Nel suo affermarsi, poi, produce uno straordinario ‘effetto di realtà’, che, risalendo dai discorsi della strada alla comunicazione pubblica, raggiunge la comunità scientifica nella forma di una profezia che si autoavvera. Non soltanto il mondo antropologico (e più in generale delle scienze sociali) è permeabile al mondo che descrive, ma le categorie che crea, i costrutti che propone al fine di semplificare la realtà divengono potenti agenti di classificazione sociale, che producono effetti reali nella misura in cui incontrano bisogni soggettivi pronti a servirsene.
Il Mediterraneo delle istituzioni europee
Nel 1987, alla richiesta del governo di Rabat di presentare domanda per avviare la pratica di integrazione con gli altri Paesi europei, le autorità comunitarie risposero che il Marocco non poteva afferire, non essendo un Paese europeo. I discorsi sull’identità, sull’Europa come sul Mediterraneo, sono discorsi di classificazione (e quindi di inclusione/esclusione) e non riguardano solo la gente comune, ma anche le istituzioni. Un recente orientamento degli studi delle relazioni internazionali, che può essere definito come geografia simbolica o anche costruttivismo discorsivo, parte dal presupposto che insieme a un territorio esiste sempre anche una sua rappresentazione e che questi due piani non coincidono o combaciano perfettamente. Ne deriva che i discorsi sul Mediterraneo promossi dalle istituzioni politiche non sono semplicemente descrizioni di una realtà, ma parte del processo di costruzione di quella realtà; e che compito degli analisti non è solo quello di definire una regione ma anche quello di chiedersi perché una data regione venga definita in una specifica maniera. In particolare, il concetto di Mediterraneo, visto attraverso i documenti ufficiali, appare fluido, mutevole, soggetto a negoziazione e teso ad abbracciare il Mediterraneo com’è ma anche come potrebbe o dovrebbe essere. Mentre la tendenza a descriverlo in maniera semplificata e olistica, come una regione geopolitica che accomuna le nazioni che si affacciano sulle rive di quel mare, naturalmente portatrici di comuni preoccupazioni e di interessi condivisi, è solo uno dei discorsi in campo (Pace 2006, pp. 52-58).
Alla base delle politiche europee verso l’area mediterranea (ma l’uso del termine è recente: per molto tempo la Francia, per es., ha chiamato la propria politica mediterranea politique arabe) sta una preoccupazione, e quindi un’enfasi, verso la sicurezza reciproca e verso il presupposto di essa, la stabilità politica. È stato così sin dai tempi della global mediterranean policy sviluppata negli anni Settanta e della successiva new (o redirected) mediterranean policy, intrapresa sul finire degli anni Ottanta. Dopo la caduta del muro di Berlino e mentre si andava varando il Trattato di Maastricht (1992) per una politica comune della sicurezza, veniva emergendo l’esigenza di favorire la stabilità soprattutto attraverso iniziative economiche in grado di alleviare le condizioni di povertà di molti Paesi della sponda meridionale e orientale. È caratteristico che i tre ‘panieri’ in cui si articola la politica di partenariato euromediterraneo, avviata a Barcellona, comprendano in primo luogo la ricerca della stabilità e in secondo luogo l’impegno a facilitare le relazioni economiche e lo sviluppo dei Paesi mediterranei. Va notato che a Barcellona, nel 1995, l’Europa si presentava come un aggregato composto da 15 Paesi, tra cui la Grecia e il Portogallo, mentre tra i dieci ammessi al partenariato spiccavano l’assenza della Libia (ammessa come osservatore nel 1999) e la presenza della Giordania. Tra gli intenti di fondo del partenariato euromediterraneo vi era tra l’altro, più o meno apertamente, quello di offrire un’alternativa alla politica statunitense nell’area, volta alla creazione (attraverso il Piano Mena, varato dal presidente Bill Clinton) di una zona di libero scambio tra Stati Uniti e Medio Oriente a partire dal 2013.
Le valutazioni degli effetti del partenariato euromediterraneo, misurate a distanza di un decennio, non sono state senza riserve. Nonostante investimenti dei Paesi membri e della Banca centrale europea per quasi 13 miliardi di euro, le attese su una crescita degli interscambi non si sono materializzate. Il divario tra i Paesi europei e i partner mediterranei rimane impressionante. I dati della Banca mondiale per il 2001 indicano un reddito medio degli Stati della costa meridionale del Mediterraneo pari a un decimo della media dell’Unione Europea. Certo ci sono oscillazioni, ma se Israele, che rappresenta un’eccezione, raggiunge l’80% e il Libano tocca il 19%, l’Algeria è al 7,8%, il Marocco al 5,6% e la Siria al 4,8%. Circa un 30% della popolazione del sud del Mediterraneo deve far fronte alle esigenze quotidiane con meno di due euro al giorno. Il cambiamento di enfasi che si realizza dopo l’11 settembre è sensibile. Laddove prima si pensava che il miglioramento delle relazioni economiche fosse la via maestra per una politica nell’area, dopo l’attacco alle Twin Towers di New York il panorama si presenta profondamente mutato (Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo, 2002, pp. 17-28). Da una parte il nuovo quadro internazionale ha condotto a un’accentuazione dei temi della sicurezza, dall’altra ha indotto il bisogno di dare contenuti a quello che a Barcellona era il ‘terzo paniere’, sociale, rideclinato ora come ‘dialogo tra le culture’, indirizzato specialmente alla cura e valorizzazione di un comune cultural heritage (Palacio 2003). Al di là delle modeste somme impegnate (57 milioni di euro nel decennio 1995-2005), il progetto Euromediterranean heritage, rinnovato nella cornice della nuova European neighbourhood politics (continuazione del partenariato con una maggiore enfasi sulle relazioni bilaterali tra Stati), si segnala per i principi che introduce: la mutua comprensione della cultura, della storia, delle attitudini e dei valori va realizzata mediante il dialogo multiculturale, il contatto dei popoli, la cooperazione sia a livello di istituzioni sia a livello di società civile, e lo scambio di giovani. Il patrimonio culturale, materiale e immateriale, è in questo modo identificato come un campo prioritario di azione, un fattore essenziale dell’identità di ciascun Paese e, al tempo stesso, un mezzo privilegiato per facilitare la comprensione reciproca (European commission 2007).
Effetti di questo riorientamento sono stati nel 2005 la nascita ad Alessandria d’Egitto della Anna Lindh Euromediterranean foundation for the dialogue between cultures e l’istituzione (voluta da Romano Prodi) di un High level advisory group on dialogue between peoples and cultures. Il documento redatto da quest’ultimo gruppo ha tentato di proporre come obiettivo di lungo periodo la creazione di una consapevolezza diffusa di un destino condiviso tra la gente dei Paesi mediterranei, insistendo sulla necessità di oltrepassare i tradizionali meccanismi di assistenza e di cooperazione, con il fine di raggiungere una maggiore conoscenza e comprensione, non solo tra le istituzioni dell’area ma anche tra la gente comune. Un forum su Cultural heritage: a shared responsibility for the Mediterranean, tenutosi a Istanbul nell’ottobre 2006, fissava il valore dell’autostima e dell’appropriazione dell’identità culturale, e ribadiva, insieme alla crescente consapevolezza dell’importanza della cultura per le relazioni internazionali e per l’adozione di politiche comuni, la necessità di adottare (come avvenuto nell’ottobre 2005) la Convenzione dell’UNESCO sulla protezione e promozione della diversità di espressioni culturali, incentrata sul principio che quest’ultima, come quella naturale, è una ricchezza e va preservata (European commission 2007).
Se questa propensione a incentrare sul dialogo culturale la politica mediterranea può far pensare a un rilancio dell’idea di un’area mediterranea di condivisione culturale, le scelte di accettazione (o non accettazione) di nuovi membri compiute dall’Unione Europea propongono un discorso parzialmente diverso. Negli ultimi anni, a fronte dell’enorme allargamento a est, si sono realizzati alcuni mutamenti dell’assetto meridionale dell’Unione che rischiano di far ripensare ancora una volta la sua politica mediterranea: l’ingresso di Malta e Cipro (2004) è stato seguito infatti, all’inizio del 2007, da quello di Romania e Bulgaria (Paesi, tra l’altro, di religione cristiano-ortodossa), dall’abbattimento del muro che separava Nicosia (anche se l’unificazione di Cipro è ancora di là da venire) e dall’apertura delle pratiche di ammissione per la Croazia (Guarracino 2007, pp. 180-87). Dall’altra parte, invece, la domanda di ammissione della Turchia, di grande importanza per la fede ufficiale islamica, per il peso demografico (oltre 70,5 milioni di ab. al censimento del 2007) e per il tradizionale ruolo geopolitico di bastione degli interessi statunitensi nell’area, è stata fermata dall’esito negativo del referendum francese. Nel primo discorso da neopresidente eletto della Repubblica francese, nel maggio 2007, Nicolas Sarkozy ha lanciato l’idea di un’union pour la Méditerranée, uno spazio di cooperazione per la realizzazione di infrastrutture e la difesa del patrimonio ambientale e culturale, cui dovrebbero partecipare tutti i Paesi rivieraschi. Il progetto, accolto con qualche scetticismo nel mondo arabo e rigettato dalla Libia, prende avvio – tra molte speranze e non minori indeterminatezze – nel luglio 2008. Il risultato di queste scelte produce effetti sui discorsi dei singoli Stati. Per la Turchia vale l’osservazione di fondo dello storico Edhem Eldem per cui il Paese non si sente molto mediterraneo (Bono 2008, p. 224); a ciò si aggiunga che ogni ipotesi culturale ‘mediterraneista’ è stata spiazzata dall’alternativa secca Europa/non Europa (come si vede bene dall’incertezza nell’adesione al progetto di Sarkozy). In altri Paesi come la Grecia, la scomposizione dei confini tra gli Stati a seguito del Trattato di Schengen (1985) ha comportato una ridefinizione degli attributi di appartenenza e dei segni identitari. L’attuale antropologia greca, per es., tende a mettere in secondo piano le proprietà mediterranee e a rafforzare quelle europee. Per questa via, ironia della sorte, l’antropologia della società europea occidentale si trova a essere influenzata fortemente dalle ricerche di quella che una volta era chiamata antropologia mediterranea. Allo stesso tempo, sul piano della sfera pubblica, un problema di grande valenza sociale come quello dell’immigrazione, viene riformulato di conseguenza. Sempre in Grecia, la categoria generale dello straniero è progressivamente slittata verso l’accezione di clandestino, a sua volta identificato con l’immigrato albanese che impersona lo stereotipo del criminale pericoloso, malgrado le statistiche criminali non avvalorino questo giudizio (G.B. Dertilis, Dall’emigrazione all’immigrazione: Grecia, 1989-2000, in Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo, 2002, pp. 157-82). E qualcosa del genere accade in Spagna con gli immigrati marocchini o in Italia con quelli romeni. Entrare in Europa sembra aver significato per questi tre Paesi di antica emigrazione un rovesciamento di ruoli e la pronta adozione di atteggiamenti pararazzisti, che pure erano stati un tempo sofferti dalla propria gente emigrata; che è poi il tema del film Lamerica di Gianni Amelio (1994). Tragedie come la strage di 300 immigranti a seguito di un misconosciuto naufragio nelle acque del canale di Sicilia durante il Natale del 1996, ricostruiti dall’inchiesta di Giovanni Maria Bellu (I fantasmi di Portopalo, 2004) sembrano delineare un’Italia che ‘non ne vuole sapere’ degli immigrati clandestini e li considera – per dirla con Alessandro Dal Lago – non-persone (Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, 1999).
Il Mediterraneo della speranza
Un’analisi delle relazioni euromediterranee, e in specie dei tentativi delle organizzazioni internazionali di mediare tra i diversi interessi dell’area, ha condotto alcuni studiosi a elaborare una conclusione pessimista: il Mediterraneo rimarrà una frontiera, o se si preferisce un confine, ma non riuscirà a trasformarsi in un’area di vera cooperazione economica e culturale (Calleya 2005). E tuttavia il discorso sul Mediterraneo resta attivo, pronto a essere utilizzato e riformulato all’occorrenza, entro l’opinione pubblica di ciascun Paese. Si prenda il caso dell’Egitto: per una corrente culturale, ostile a suo tempo al panarabismo nasseriano, il richiamo al Mediterraneo ha significato suggerire un’alternativa al mondo arabo come fonte dell’identità egiziana. La pubblicazione del libro dell’intellettuale umanista Ṭaha Ḥusayn, The future of culture in Egypt (1938), era stata all’epoca molto contestata. Ḥusayn vedeva a fondamento della cultura egiziana l’identificazione con radici non arabe né orientali e nemmeno islamiche, ma transnazionali e mediterranee. In occasione della ristampa del testo, nel 1996, invece, il ministro dell’educazione Aḥmad Fathī Srūr ha giudicato il tentativo di Ḥusayn di recuperare all’Egitto l’eredità della cultura greca e romana un contributo positivo alla formazione della cultura nazionale, un ponte verso l’Europa, una base per entrare nel 21° sec. (R.S. Bagnall, Egypt and the concept of the Mediterranean, in Rethinking in the Mediterranean, 2005, pp. 339-47). È molto interessante che in questa chiave alcune caratteristiche indesiderabili, come il nepotismo, la corruzione, l’inaffidabilità e l’imprecisione, spesso ritenute dall’antropologia anglosassone (e da tanto senso comune) tipicamente mediterranee, sono ricategorizzate come ‘orientali’. Non si tratta di un fenomeno nuovo: già nella seconda metà dell’Ottocento lo sviluppo in Turchia di progetti di riforma modernizzatori si accompagnava alla presa di distanza e alla stigmatizzazione delle province orientali (e quindi arretrate) dell’impero della Sublime Porta (Makdisi 2002).
Su un piano diverso, nella recente cultura accademica europea, il Mediterraneo è diventato oggetto di attrazione per quella sinistra radicale che, insediata nei dipartimenti universitari di Cultural Studies, si ispira a Edward Said, medita sul Walter Benjamin dei Passagen-Werk, reinterpreta Antonio Gramsci attraverso Jacques Derrida, legge il Massimo Cacciari di L’arcipelago (1997), e aderisce alle prospettive storiografiche postcoloniali aperte da Provincializing Europe (2000; trad. it. 2004) di Dipesh Chakrabarty. Per chi si muove alla ricerca di una politica e di una poetica postcoloniali, per chi rilegge come melanconia coloniale il rimpianto per il mondo perduto di epoca preindustriale, il Mediterraneo rappresenta allora ‘uno squarcio nella logica occidentale’ ben rappresentato dalla contrapposizione proposta dall’economista e filosofo Serge Latouche tra i due figli di Minerva, Logos, rappresentativo della razionalità moderna, e Phronesis, sua sorella maggiore, considerata come simbolo della ‘ragione mediterranea’. Mentre nel mondo greco l’uno sarebbe stato sottomesso all’altra, insostituibile portatrice dell’antidoto divino alla dismisura, alla dissimmetria, al disquilibrio, nel tempo della modernità Logos si porrebbe mostruosamente come bastevole da solo a sostenere una vita equilibrata e illuminata (S. Latouche, Le défi de Minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, 1999; trad. it. 2000). Il Mediterraneo diventa in questo modo il luogo della riappropriazione e della conciliazione, e il suo bagaglio mitico vitalistico e romantico viene riletto, in chiave postmoderna, come la proposizione di un nuovo modo di essere «in cui la movenza del corpo, la performance di una poetica, l’essenza dell’essere in un suono eccedono la logica finita di un monumento, un libro, una mappa, un archivio, una legge»; di più, il Mediterraneo viene visto come il luogo a partire dal quale esercitare uno sguardo fortemente critico sulla modernità: «un’area geopolitica e una formazione storica e culturale sono qui trasformate in uno spazio critico, nella sede di interrogativi e di mappe di significato insospettate. Un nord contemplato dal sud del mondo non rappresenta un semplice ribaltamento bensì una rivalutazione dei termini adoperati e delle distinzioni che hanno storicamente determinato i contrasti e la complessità di questo spazio» (Chambers 2008; trad. it. 2007, p. 13).
Questa riscoperta di un orgoglio mediterraneo, contrapposto a una hybris nord-occidentale e che si ripromette di capovolgere di segno i binomi polarizzati che definivano tradizionalmente la subalternità mediterranea (moderno/arretrato, sviluppato/in via di sviluppo, razionale/arcaico, individualista/familista ecc.), ha esercitato molto fascino in Italia su una pattuglia di studiosi cresciuti nella critica della tradizione meridionalista (Franco Cassano, Mario Alcaro e, in parte, Piero Bevilacqua), che hanno intravisto nel mediterraneismo un nuovo orizzonte (F. Ferrarotti, Elogio del Mediterraneo, in Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo, 2002, pp. 229-40). Ai loro occhi il mediterraneismo sembra possedere una virtù che il vecchio meridionalismo (logorato dal fallimento delle politiche di sviluppo e di intervento straordinario degli anni Ottanta e in ultimo dalla propaganda d’ispirazione leghista) sembra aver irrimediabilmente perduto: la capacità di evocare immagini positive e, mediante esse, di proporre una prospettiva di riscatto. La questione meridionale viene così riscritta come questione mediterranea: e tuttavia il Mediterraneo riletto come nuovo Sud, non va inteso come un Sud da giudicare tradizionalmente alla luce della modernità, cui manca sempre qualcosa per conformarsi agli standard settentrionali, ma invece un Sud da cui promana un punto di vista critico sulla modernità. Il Meridione riletto come Mediterraneo diventa allora, come sostiene Cassano, non più luogo degradato, regno del non ancora moderno, un ‘inferno’ come ha detto qualcuno, ma terra d’avanguardia, pronta a rovesciare una posizione che era sempre stata vista come uno svantaggio in un’occasione di eccellenza, terra dell’ospitalità e dell’amicizia. Si tratta in altre parole, com’è stato scritto, di pensare al Mediterraneo come a un progetto politico di lungo periodo, che fa del mare-confine o del mare-frontiera il punto di partenza per una critica del punto di vista etnocentrico: quello di chi guarda alla propria cultura come forma esemplare di vita e alle altre come forme imperfette o inferiori. Contro ogni etnocentrismo e, a fortiori, contro ogni fondamentalismo, il Mediterraneo diventa così l’icona della battaglia per affermare la pluralità, la diversità e l’eguaglianza delle varie culture: «un mare-confine lo sa: nessuna parte può inglobare dentro di sé tutte le ragioni, solo la polifonia delle fedi, dei racconti e delle sapienze può tutelare la ricchezza delle esperienze dell’umanità […] Il primo comandamento mediterraneo è invece: tradurre le tradizioni, far sì che gli uomini divengano amici non nonostante le differenze, ma grazie a esse» (p. 53).
Il Mediterraneo delle emozioni
Queste idee, indirizzate a un progetto politico o almeno a una prospettiva di cambiamento, hanno varie debolezze, ma anche un punto di forza. Si giovano infatti del repertorio quasi infinito di immagini che il Mediterraneo continua a produrre, di quella che è stata chiamata la loquacità o anche la verbosità mediterranea. Si tratta spesso di immagini positive. Malgrado gli scontri religiosi e civili, le ondate di immigrazione clandestina, gli attentati terroristi, la guerra strisciante o aperta, le basi militari, le scomuniche reciproche, il Mediterraneo continua a proporsi con il suo tradizionale repertorio seduttivo, quello di una volta del cielo più aperta, di un sole più caldo, di un mare più avvolgente, di una luce più forte e più intima. Ma com’è possibile che le due prospettive convivano, che i due Mediterranei, quello «del sole, del mare, dell’arte e del profumo dei gelsomini» e quello della guerra e dello ‘scontro delle civiltà’ abbiano entrambi spazio nell’immaginario collettivo? Come possono convivere nella percezione sociale l’uno accanto all’altro? (A. Signorelli, postfazione ad Antropologia del Mediterraneo, 2007, p. 330, trad. it. di L’anthropologie de la Méditerranée, 2001). La ragione sta forse nella capacità di queste immagini di tenere più registri: a quello realistico, per il quale risulta inconcepibile che una stazione turistica si trovi a pochi chilometri da luoghi dove si è combattuto o che una famosa località balneare sia stata da poco teatro di un attentato terrorista, si sostituisce un registro mitico e poetico. Si tratta probabilmente di quel processo che Gaston Bachelard ha chiamato poetica dello spazio nell’omonimo libro (La poétique de l’espace, 1957) e per il quale uno spazio acquisisce progressivamente senso emotivo, e poi anche razionale. Il Mediterraneo cessa allora di essere un luogo fisico e diviene un luogo dell’anima.
Si prenda un libro affascinante e di grande successo quale il Mediteranski brevijar di Predrag Matvejević, pubblicato a Zagabria nel 1987, poi ampliato e riedito come Mediterraneo. Un nuovo breviario (1993, introduzione di Claudio Magris). Classicista croato, Matvejević ha composto un’opera che sta a mezzo tra il saggio e il racconto, un’opera che, proprio come i peripli antichi, oltrepassa i confini tra storia reale e racconto fantastico, facendo parlare la realtà e al contempo innestandola nell’evocazione fantastica. Si tratta di una sorta di meditazione nata negli anni della giovinezza dell’autore, a Mostar, dall’osservare che le caratteristiche dell’ambiente mediterraneo, così vive nel suo circondario sino a una cinquantina di chilometri dal mare, sfumano poco più in là, tra i monti: dove l’entroterra appare più rozzo, gli abitanti differenti (cantano canzoni diverse, gareggiano in altro modo ecc.) e risultano incomprensibili ed estranei. In altri punti, invece, magari ancora più lontani dal mare, l’aspetto mediterraneo torna a farsi sentire, cambiando sia la terra sia le abitudini sociali e perfino gli uomini.
Matvejević si misura qui con un tema classico della letteratura mediterranea, quello dell’impossibilità di stabilire con esattezza i confini dell’area. Braudel aveva scritto di cento frontiere diverse, dipendenti dai criteri adottati nella definizione del Mediterraneo e i geografi a loro volta hanno a lungo discettato se la linea della vite e dell’ulivo a nord e quella della palma a sud possano rappresentare dei confini accettabili per fissare un perimetro (con l’inquietante conclusione di dover annettere al Mediterraneo almeno regioni centro-europee, come l’Alsazia, e l’intera valle del Nilo). Il fatto è, ammette Matvejević, che non si sa come determinare i confini stessi. Per un momento egli sembra allora tentato dall’attribuire la mediterraneità a uno stile di vita, impersonato dai pescatori, che «non ci mostrano mai le loro mani incallite dal sale e dalle reti, dalle funi e dai remi. I veri pescatori bestemmiano, ma non rubano. Si adirano e litigano (a causa del maltempo, della pesca scarsa, dell’incapacità degli aiutanti), ma non danno addosso l’uno all’altro: non si picchiano come sanno fare talvolta i lavoratori portuali o i semplici contadini. Nascono delle liti anche fra loro (per le posizioni, le ‘poste’ da cui gettare le reti, per i tempi e i modi in cui tirarle su), ma in numero assolutamente non paragonabile a quelle che scoppiano per il possesso della terra. È più facile dividere il mare Mediterraneo che la terra, è più difficile possederlo» (p. 53). Ma poi, dopo aver delineato questa quintessenza della mediterraneità, è costretto ad ammettere che «nessun popolo ha tutte le caratteristiche mediterranee: ce l’hanno magari i singoli individui, sparsi dappertutto». E ancora: «è possibile, indipendentemente dal luogo di nascita e di residenza, diventare mediterranei. Ma la mediterraneità non si eredita, si consegue. È una decisione, non un vantaggio. Dicono che di veri mediterranei ce ne siano sempre meno, nel Mediterraneo» (p. 133).
La mediterraneità, insomma, è un quadro emotivo, una disposizione dello spirito, e come tale si incarna negli oggetti e nelle forme culturali più varie e cangianti. Rimane a disposizione di invenzioni politiche, di fusioni artistiche, di utopie e nostalgie, di buone disposizioni e di cattive intenzioni. È una risorsa simbolica per un futuro in cui, carsicamente, essa potrà un giorno apparire come una prospettiva reale, portatrice di aggregazioni identitarie, sparire e ancora riapparire, a seconda che qualcuno ne abbia necessità. È un’invenzione, come piacerebbe a Friedrich W. Nietzsche, al ‘servizio della vita’.
Può sembrare bizzarro parlare, come fa adesso qualcuno, di letteratura mediterranea, mettendo insieme autori così diversi come Albert Camus (antesignano del tema, anche se spesso frainteso), Paul Valéry, Jorge Semprún, Naǧīb Maḥfūẓ, Tahar Ben-Jelloun, Lawrence Durrell, Orhan Pamuk e Andrea Camilleri. E può apparire strana la mescolanza musicale creata dai tanti gruppi che si dedicano all’ibridazione e alla riproposizione di temi etnomusicali, mescolando motivi etnici tra i più vari, pop e folk, e producendo temi che affondano, come la ‘pizzica’ salentina, nel cuore di quel mondo arcaico scandagliato da Ernesto De Martino; o, come nel caso del croato-bosniaco Goran Bregović, assurto a notorietà internazionale dopo essere stato un divo della ex Iugoslavia per le colonne sonore dei film del regista serbo di etnia rom Emir Kusturica. Niente, del resto, racconta meglio questa storia di invenzioni e di reinvenzioni della cosiddetta dieta mediterranea. Ideata dal nutrizionista statunitense Ancel Benjamin Keys sulla base di un famoso studio su sette diversi stili nutritivi nel mondo (1980), si è diffusa spontaneamente come complemento di quell’aureola impalpabile che è stata chiamata la ‘grazia mediterranea’. La base della dieta, poi, lungi dall’essere un prodotto a denominazione di origine controllata, è frutto di innesti, prestiti, transazioni: le arance, i limoni e il riso sono stati portati dal lontano oriente dagli arabi, le melanzane vengono dall’India, le pesche dalla Cina, attraverso la Persia, la canna da zucchero dalla Cina in Egitto, da dove arriva nella Sicilia musulmana; in quanto a pomodori, fichi d’india, fagioli, peperoncino e granoturco, si sa, vengono dall’America. Sembra che il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdahl abbia detto una volta : «Le frontiere? Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrato molte, e stanno tutte nella mente degli uomini».
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