Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il significato del modernismo europeo è legato alla rottura con le costrizioni vittoriane espressa dagli scrittori del gruppo londinese di Bloomsbury, capeggiato da Virginia Woolf. Intanto, si irradia nel continente una serie di sperimentazioni formali e tematiche, la destrutturazione del romanzo canonico per via dell’inserzione di frammenti saggistici o poetici, al punto da rendere irriconoscibili l’intreccio e le figure dei personaggi. L’interesse per i moti della coscienza, per nuovi temi affini alla scienza e alla tecnica, determina così la nascita dei capolavori di Joyce, Svevo, Proust, Musil.
Digressioni e ritmi della modernità
Virginia Woolf
Gita al faro
“Ma potrebbe diventare bello - credo che sarà bello” disse la signora Ramsay, attorcigliando la calza rossiccia che stava lavorando a maglia, con impazienza. Se l’avesse finita quella sera, se dopo tutto fossero andati al Faro, era destinata al guardiano del Faro per il bambino, minacciato di tubercolosi all’anca; insieme a un fascio di vecchi giornali, un po’ di tabacco, qualsiasi cosa, in breve, trovasse in giro, non proprio necessaria, ma che soltanto ingombrava la stanza, per darla a quella povera gente che doveva annoiarsi a morte a starsene tutto il giorno seduta senza niente da fare se non lucidare il fanale o regolare lo stoppino e lavorare con il rastrello quel fazzoletto di giardino, qualcosa per distrarli. A te piacerebbe rimanere chiuso per un mese di seguito, e forse più se il tempo volgeva alla tempesta, su uno scoglio non più grande di un campo da tennis? Chiedeva; e senza lettere né giornali e senza vedere mai nessuno; se poi eri sposato, senza vedere tua moglie, senza sapere come stavano i tuoi figli - se erano malati, se erano caduti e si erano rotti le braccia o le gambe.
V. Woolf, Gita al faro, Milano, Mondadori, 2003
Dopo avere convissuto con la definizione di moderno fino agli anni del secondo dopoguerra, il sostantivo modernismo, come l’aggettivo modernista, si emancipa fino a godere di una certa fortuna presso la critica degli anni Sessanta e Settanta, in particolare quella anglosassone. Sono anni in cui si guarda indietro all’arte che ha segnato la propria distanza rispetto agli esiti del tardo Ottocento, e vi si ravvede una forte tensione sperimentale, una volontà di riscrivere le regole dello stile o quelle relative ai generi letterari, per esempio portando il romanzo sempre più in prossimità del territorio poetico: indubbiamente, è il caso di due opere che si vedranno più da vicino, Ulisse di James Joyce (Ulysses, 1922), e Le onde di Virginia Woolf (The Waves, 1931). Restano fluidi, ancora, i confini temporali della corrente modernista: alcuni pongono l’accento sulla continuità con l’Ottocento, legando opere e autori dei primi decenni del nuovo secolo all’età vittoriana; altri sottolineano la frattura nella transizione e isolano alcuni punti fermi al suo interno. Avremmo così un primo periodo modernista (una fase protomodernista o “paleomodernista”, secondo il critico americano Frank Kermode) che, avviatosi con i primi anni del Novecento, si arresta con lo scoppio della Grande Guerra; una fase della pienezza modernista, che abbraccia il periodo postbellico, gli anni Venti e Trenta; infine, una lunga transizione, un periodo tardomodernista, che trascolora in quella nuova temperie culturale che risulterà dominante nella seconda metà del secolo, il postmoderno.
Se ci atteniamo a queste oscillazioni cronologiche, non avremo però dubbi sul carattere spiccatamente inglese del modernismo e sulla centralità geografica di Londra, una metropoli pulsante di vita culturale, di cenacoli letterari (celebre quello londinese di Bloomsbury, frequentato da Virginia Woolf e dalla sorella Vanessa, pittrice, dal critico e scrittore Lytton Strachey e dal romanziere Edward Morgan Forster e altri) e di fermento editoriale, nella quale si può leggere il carattere complesso e frenetico della nuova vita sociale, le nevrosi dell’individuo, il crollo dell’equilibrio psichico e ambientale: ne è un esempio il reduce dal fronte, impersonato da Septimus Warren Smith, che si suicida in Mrs Dalloway di Virginia Woolf (1925), assediato da rumori e luci della città. Più propriamente si dovrà parlare di un fenomeno legato primariamente ai Paesi di lingua inglese, dove rientrano i nomi irlandesi di Joyce e di William Butler Yeats, e quelli statunitensi di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound, attivamente legati all’Inghilterra, e almeno quello di Gertrude Stein, oltre alla neozelandese Katherine Mansfield. Ma, da più parti, si invoca l’estensione della definizione critica a prodotti letterari extrabritannici (da tempo è assodata una nozione di modernismo tedesco, per esempio), alle periferie europee dove prendono forma opere segnatamente novecentesche (per l’Italia, la Trieste di Italo Svevo, la Sicilia di Luigi Pirandello, la Toscana rurale e delle piccole città di Federigo Tozzi) e questo per evitare l’impropria sovrapposizione con i fenomeni di avanguardia intesi in senso stretto (Franco Moretti). Nel cuore del modernismo, l’Inghilterra, si possono ravvisare i caratteri di una poetica così composita quale quella modernista, a livello di veri e propri ordigni narrativi: tale è la portata del monumentale Ulisse di James Joyce, un romanzo che fonde una miriade di percezioni della città – la Dublino attraversata dal protagonista, Leopold Bloom, dal giovane Stephen Dedalus, e che infine si riconnette, negli interni di casa Bloom, sulla moglie del protagonista, Molly – per mezzo di deviazioni fisiche, digressioni narrative, divagazioni della coscienza del personaggio. La profonda impronta modernista dell’opera risiede prima di tutto nella sua organizzazione interna: il romanzo è costituito per blocchi, episodi autonomi che ritraggono da punti di vista spesso distinti il protagonista nella sua giornata dublinese; la narrazione rifiuta così di seguire l’ordine lineare, cronologico delle vicende garantito a suo tempo dal romanzo del XVIII e XIX secolo). In secondo luogo nella sua tessitura stilistica: ci si sorprende spesso a chiedersi chi sia a pronunciare le parole che leggiamo, in un moto sempre articolato, scomposto, di voci che contendono al narratore il saldo possesso del racconto. L’impasto linguistico che ne deriva è ricco di citazioni, spesso argute e ironiche, dalla tradizione letteraria, filosofica e religiosa, saturo di irruzioni di voci appartenenti a personaggi sullo sfondo, al limite della riconoscibilità. Joyce adatta un particolare registro stilistico a ogni singolo episodio narrato, ne consegue un effetto di disorientante quanto ammirevole polifonia, di fuga continua sul motivo conduttore della giornata di Bloom: il punto massimo di libertà nelle associazioni di idee sarà costituito dal monologo finale di Molly, nel quale ella ripensa al primo incontro con il marito, e forse, in nome di un sentimento genuino nei suoi confronti, riscatta la propria precedente connotazione come ironica, fedifraga Penelope. Infine, nella sua complessità strutturale: da alcuni scritti preparatori si comprende la volontà di Joyce di assegnare un sottotesto omerico a ognuno degli episodi, stringendo in maniera ora più calzante ora più libera il disegno dell’Odissea intorno alle mosse del personaggio qualunque Bloom. È un metodo che procede suggestivamente in parallelo anziché accumulare dati narrativi intorno al personaggio (a tal proposito Eliot parla di un pionieristico “metodo mitico” utilizzato da Joyce; oggi ascriveremmo l’operazione alle pratiche dell’intertestualità, così diffuse nel postmoderno). Il progetto sovversivo dell’Ulisse si lega dunque, inestricabilmente, a una conoscenza approfondita della cultura alle spalle della modernità letteraria, e a un suo ampio riuso in funzione apertamente parodica. Il grado di libertà raggiunto per mezzo di una simile rivoluzione espressiva è secondo solo all’opera legata agli ultimi anni di Joyce, La veglia di Finnegan (Finnegans Wake, 1939), la rappresentazione di una moderna Babele attraverso il prolungato flusso di coscienza che trasfonde il personaggio di Anna Livia Plurabelle in pura voce, nel puro fluire della materia. Nella sintassi sregolata del libro Joyce isola “parole cariche di istanze emozionali”, come scrive Carla Marengo Vaglio, giungendo così a scorporare lo statuto canonico di trame e personaggi romanzeschi, a imprimere una forma estrema alla frammentazione e al caos moderni, rispecchiati nelle profondità psichiche del soggetto.
Virginia Woolf dà forma ai propri personaggi ricorrendo anch’essa alla tecnica del monologo interiore per esplicitare il moto ondivago dei loro pensieri, le associazioni di idee che si susseguono nella loro coscienza e che il lettore è chiamato a seguire pagina dopo pagina. Se ne possono cogliere i risultati in Mrs Dalloway, dove la narrazione scorre in un tempo quasi paralizzato, seguendo i mille rivoli di pensiero che la protagonista alberga dentro di sé, durante le sue passeggiate in Bond Street, scandite dai tocchi del Big Ben. Oppure, si può riscontrare l’ampio ricorso al procedimento in un altro romanzo, Gita al faro (To the Lighthouse, 1927), la cui prima parte è concentrata sul “tempo interiore” della protagonista, la signora Ramsay, alle prese con un calzerotto da rammendare e contemporaneamente rapita da diverse preoccupazioni relative ai figli e alla felicità dei propri ospiti, in un’andatura altalenante che la pagina registra e asseconda. I romanzi che forse, però, segnano le conseguenze estreme della sperimentazione modernista di Woolf sono il già citato Le onde e, scritto qualche anno prima, Orlando (1928), nel quale la scrittrice si inserisce nel filone delle biografie immaginarie (praticato in precedenza da Walter Pater con Marius the Epicurean, 1885): il libro racconta di un personaggio singolare la cui esistenza copre lo scorrere di diversi secoli e trasmuta da un sesso all’altro, dalla sovranità alla rinucia al potere, al quale antepone finalmente l’amore. Se Orlando dispiega una grande libertà nei temi e nel modo di raccontarli, è nel segno di una volontà di aprire il genere romanzesco a una sua libera reinterpretazione che si colloca Le onde, nel cui titolo risuona già il moto in battere e levare della scrittura. Il testo appare infatti una sorta di partitura, imperniato sull’alternarsi di voci tra sei personaggi che si raccontano in una progressione modulare lirico-drammatica, una reiterata serie di monologhi che fornisce informazioni sugli avvenimenti (su tutti, emerge lo spettro distruttivo della guerra) e insieme mette a nudo l’interiorità degli stessi personaggi. Al culmine della sperimentazione vorticista, Wyndham Lewis pubblica il singolare Tarr (1918), letto come emblematico della sperimentazione letteraria modernista. La narrazione intreccia una voluta infrazione nei confronti della trama naturalistica del romanzo, rifiutando la lettura in profondità della coscienza che anima gli altri protagonisti del modernismo. Tutto ruota intorno all’artista Tarr e alle sue manovre a fini erotici, tortuose e non di rado comiche, divise tra due volitivi modelli femminili, Bertha e Anastasya: ne consegue, come spiega Massimo Bacigalupo, “un romanzo di idee, gelido nonostante gli elementi comici, retto da una violenza di fondo”, nel quale la disarticolazione sintattica (l’impiego costante, per esempio, del segno grafico di uguaglianza) esprime il grado di consapevolezza dell’autore nel ripudiare le forme tradizionali di scrittura.
Assetti e assestamenti. Individuo e società
Il modernismo inglese tematizza inoltre i conflitti che travagliano la società del primo Novecento, etnici e di classe. Nel primo caso, Edward Morgan Forster dipinge un’India sospesa tra languore della tarda dominazione inglese ed echi di una religiosità arcaica in Passaggio in India (A Passage to India, 1924). Lo scontro tra la cultura britannica e quella indiana emerge nella seconda sezione del romanzo, quando, dopo l’incontro tra la signora Moore e la futura nuora Adela con il dottor Aziz, formatosi in Inghilterra, quest’ultimo invita le due donne a visitare le grotte di Marabar: dalla visita solitaria di Adela a una grotta incantata, dalla quale esce in preda ad allucinazioni, verrà l’accusa rivolta ad Aziz di aggressione sessuale nei suoi confronti. L’ingiusta accusa diviene così il movente per il trascinarsi, durante e dopo il processo, di freddezza e sospetti reciproci tra le due comunità. Nella madrepatria, il conflitto si insedia all’interno del nucleo familiare e delle diverse sensibilità al suo interno, in Figli e amanti (Sons and Lovers, 1913) di David Herbert Lawrence. Il romanzo, dalla chiara impronta autobiografica, mette in scena, in un villaggio inglese, lo scontro tra la rozzezza del padre e l’educazione e le pretese culturali della madre di Paul, il figlio sul quale sono incentrate le vicende, diviso tra le sue conquiste amorose e la gelosia della madre: quando questi potrà davvero scegliere, scoprirà di aver perduto ogni affetto. L’opera più ambiziosamente modernista di Lawrence è con tutta probabilità Donne innamorate (Women in Love, 1921), romanzo che, se pure non gareggia con quelli di Joyce o Woolf in sperimentazioni vorticose, attua un’impegnativa riduzione dell’interesse concentrato sui singoli personaggi (due sorelle e i loro fidanzati) a favore delle forze profonde, spesso inconsce, che li muovono all’interno di una trama dissolta in singoli episodi volti a rispecchiare i moti della vita interiore. Il quadro inglese del periodo si completa per mezzo di un’altra opera significativa, Il buon soldato (The Good Soldier, 1915) di Ford Madox Ford (1873-1939), una “storia triste” assemblata intorno al personaggio di Dowell, che, come afferma Vita Fortunati, rifletterebbe il modo di rappresentazione pluriprospettico proprio del cubismo.
Sul versante mitteleuropeo, l’austriaco Arthur Schnitzler ricorre all’impiego di una tecnica eminentemente modernista, un monologo interiore che sconfina in un flusso disarticolato di idee, per registrare gli ultimi pensieri che non trovano un’espressione verbale coerente nella protagonista di La signorina Else (Fräulein Else, 1924), una giovane suicidatasi con un farmaco in seguito a una delusione amorosa. La scrittura modernista dell’autore si carica di intense connotazioni psicanalitiche con Doppio sogno (Traumnovelle, 1925), una duplice fantasticheria di tradimento che coinvolge una coppia di coniugi, dalla quale Stanley Kubrick adatterà la sua ultima pellicola, Eyes Wide Shut nel 1999, e con Fuga nelle tenebre (Flucht in die Finstemis, 1931), al cui centro Schnitzler descrive un personaggio paranoico, in fuga dai familiari che vorrebbero salvarlo. L’Austria imperiale di Francesco Giuseppe è invece ritratta, appena dissimulata, da Robert Musil nel suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità (Der Man ohne Eigenschaften, 1930-1943), dall’autore stesso definito Gedankenexperiment, “esperimento di pensiero”, e dunque assimilabile alla tradizione del romanzo di idee, sorretto da forti influssi scientifici e filosofici. Musil, dopo avere tratteggiato la storia di una formazione inquieta in un collegio di provincia con I turbamenti del giovane Törless (Die Verwirrungen des Zöglings Törless, 1906), proietta sul protagonista Ulrich alcuni dati autobiografici, riverberando negli altri personaggi tratti di conoscenti e figure in vista nella Vienna del tempo: ma l’intento del romanzo è, come abbiamo visto in parte con Tarr, di ricondurre i dati narrativi a uno schema generale di interpretazione della realtà, per convertire di frequente gli oggetti osservati a un procedimento di tipo saggistico.
Se i capolavori di Thomas Mann sono, nella loro interezza, rappresentativi delle tensioni dell’epoca in cui sono stati scritti, va senz’altro ascritta a una poetica pienamente modernista un’opera come La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924), meno per ragioni stilistiche che per ragioni tematiche: tutta un’atmosfera di angoscia e di morte, portatrice di crisi del soggetto e di tensioni politiche all’interno del sanatorio isolato nelle Alpi, il Berghof, simboleggia lo spirito del tempo di Mann, il volto più critico e meno euforico del modernismo europeo, e insieme lo specifico cimentarsi del modernismo stesso corrente con romanzi ampi e irti. Carattere distintivo di Berlin Alexanderplatz (1929), romanzo composto da Alfred Döblin, è invece la capacità di riprodurre le pulsioni, le ansie della metropoli berlinese: le avventure del protagonista, Franz Biberkopf, sono rese con una scrittura frammentata, nervosa, che pare quasi riprodurre la topografia della città moderna. Ancora su temi profondamente modernisti, eppure universali, quasi astorici, si muove la lingua asciutta e pungente di un ebreo boemo, Franz Kafka. Nelle sue opere, dal racconto lungo La metamorfosi (Die Verwandlung, scritto nel 1912) ai capolavori romanzeschi, tutti incompiuti, America (il cui primo nucleo, Il fuochista, risale al 1912), Il processo (Der Prozess, 1914) e Il castello (Das Schloss, 1922), Kafka sottopone ambienti e tempo del racconto a un processo di stilizzazione, di calcolata astrazione: su sfondi ambigui, misteriosi, deve risaltare un tema fondamentale, l’inesorabilità della colpa, sancita da un’autorità superiore. È così per Gregor Samsa, il giovane che si risveglia trasmutato in orribile insetto nel racconto che tematizza e non spiega la sua Metamorfosi; lo stesso si può dire per Josef K., il quale, mentre fa rientro alla pensione dove abita, si imbatte in agenti che gli notificano la propria iscrizione a un non meglio precisato Processo, per poi essere coinvolto in una serie di stazioni dolorose, destinato a essere ucciso da figure misteriose; non diversamente, l’agrimensore K., convocato in circostanze poco chiare per un incarico, attende di conoscere una verità sul Castello, la sede dell’autorità superiore, ed è diviso tra la volontà di inserirsi nella vita del villaggio nel quale nel frattempo si è ambientato e il desiderio di una conoscenza profonda e proibita.
Quanto al modernismo nella narrativa francese, un ruolo eclatante è occupato dal romanzo fluviale di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu, 1912-1927), incentrato sui ricordi di un narratore che sfida la propria morte nel cercare di ricomporre il passato, i luoghi, le persone care in un quadro completo, come l’ultimo dei volumi, Il tempo ritrovato (Le temps retrouvé) racconta. Se i sette libri di cui l’opera si compone apparentano per un verso la Recherche ai grandi romanzi realisti francesi dell’Ottocento, come l’enciclopedico Bouvard et Pécuchet di Gustave Flaubert o il ciclo della Comédie humaine di Honoré de Balzac, o ancora agli ampi progetti narrativi del naturalismo, come la storia sociale di una famiglia, i Rougon-Macquart di Émile Zola, sotto un altro punto di vista il discorso di Proust appare sostanzialmente nuovo, proiettato verso un’idea di romanzo non più totalizzante, organica. La forma ciclica si rivela, a uno sguardo più approfondito, meno vincolante e più disponibile a digressioni, pause saggistiche, descrizioni prolungate, ellissi e ritorni circolari del tempo. Se insomma, per utilizzare una metafora architettonica, si parla di cattedrale, si tratta di una cattedrale edificata su materiali disomogenei, su asimmetrie, vuoti oltre che pieni al suo interno. In questo risiede la tensione modernista dell’opera proustiana: in uno slancio progettuale, in una volontà di raccontare senza paragoni, che lo situa accanto all’epopea del quotidiano dell’Ulisse tra i segni inaugurali del Novecento letterario.
Metanarrazioni
Un carattere proprio delle tecniche moderniste è quello metanarrativo: opere letterarie che riflettono sulla scrittura, che tematizzano il momento del fare romanzi o la scrittura dello stesso romanzo che stiamo leggendo. È la linea di I falsari (Les faux-monnayeurs, 1925) di André Gide, dove il racconto del narratore viene interrotto di continuo dall’introduzione di passi dal romanzo che il romanziere Édouard sta scrivendo: ne deriva un gioco di moltiplicazione dei piani di lettura, un effetto labirintico, disorientante nei confronti del lettore. Per concludere sui nomi italiani citati in precedenza, La coscienza di Zeno di Italo Svevo è senz’altro uno dei capisaldi del modernismo europeo. Tra gli elementi probanti, la frammentazione del tempo narrativo in episodi isolati riconnessi dal narratore (il mentitore Zeno, che scrive i suoi ricordi autobiografici come “cura” prescrittagli dal dottor S.) intorno a nuclei tematici fondamentali, l’interesse per la psichiatria e per il senso universale della malattia al suo centro, la fine conclamata dell’integrità del personaggio, l’insistito gioco ironico sui nomi dei personaggi.
A livello tematico, i romanzi di Luigi Pirandello offrono anch’essi notevoli spunti a chi voglia comprendere una modernità letteraria italiana: la crisi dell’identità, la frammentazione dell’io in mezzo alle apparenze del mondo, lo sdoppiamento Mattia Pascal/Adriano Meis (Il fu Mattia Pascal, 1921); il “vedersi” dall’interno, il congeniale tema della follia (Uno, nessuno e centomila, 1925-1926); quello che forse è il tema più nuovo e prossimo all’immaginazione modernista europea, la riflessione sulla tecnica e sulle nuove arti, e il conseguente ritratto di un’alienazione, quella descritta nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (la cui redazione definitiva è del 1925).
In ultimo, la voce appartata, intrisa di inflessioni toscane di Federigo Tozzi si salda all’Europa per via delle atmosfere di crudeltà e sensualità che attraversano il suo capolavoro, Con gli occhi chiusi (1919), come dei “misteriosi atti nostri” che sorreggono la sua indagine – avvicinandola così a un procedimento cardine del modernismo, consacrato negli splendidi racconti di Joyce, i Dubliners (1914): l’epifania, la rivelazione di un elemento esterno che apporta, al personaggio o al lettore, la chiave con cui interpretare l’accaduto. È il meccanismo che presiede a Bestie (1917), un libro di raccontini o prose liriche, frammenti contrassegnati dall’allusione o dalla presenza, in ciascuno di essi, di un animale che investe la scrittura di arcani significati simbolici.