Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
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Con la città occupata e dolente di Roma città aperta è Roberto Rossellini ad aprire un solco riconoscibile nel presente drammatico e urgente che chiede di essere raccontato, attraverso tecniche e metodi nuovi e fuori dagli studi cinematografici. È quello che verrà chiamato "neorealismo", non proprio un movimento, ma una ricerca che avrà alcuni capisalidi in Visconti, De Sica, Zavattini, de Santis, e che segna un passaggio decisivo nel cinema europeo e mondiale, con una concezione completamente rinnovata del ruolo dell’autore, degli attori, della scena e dello spazio, ma soprattutto del cinema e della sua funzione sociale.
Cinema del presente
L’anno in cui il neorealismo cinematografico italiano fa la sua comparsa sulla scena mondiale è il 1945: il film di Roberto Rossellini, Roma città aperta, attira l’attenzione della critica internazionale vincendo il Festival di Cannes del 1946.
Vagamente ispirato alla vicenda di Don Luigi Morosini, prete fucilato dai tedeschi per avere collaborato con i partigiani, il film è sorprendente soprattutto per la maniera organica con cui riesce a fare di necessità virtù, fondando la vera e propria estetica di un cinema che non può ignorare il confronto con una realtà tragica e dolorosissima come quella che sta vivendo un paese appena uscito da un devastante conflitto mondiale. Il film, infatti, viene concepito mentre ancora sul suolo nazionale si combatte e realizzato in maniera avventurosa, fra le macerie di Roma appena liberata, utilizzando pellicola messa insieme in modo casuale, maestranze e attori presi per lo più dalla strada, che forniscono uno sfondo particolarissimo a una vicenda che pure conserva moduli recitativi, quelli di attori collaudati come Anna Magnani e Aldo Fabrizi e narrativi di stampo melodrammatico e popolare. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato dal film di Rossellini e nel solco da esso tracciato, negli anni immediatamente successivi vengono realizzati parecchi film che sviluppano questa idea di cinema in modo più diretto ed estremo, arrivando così a definire una sorta di movimento che – in quanto tale – avrà vita piuttosto breve, riuscendo però a lasciare una traccia profonda nel cinema dei decenni successivi.
Le origini
D’altra parte, se di "neorealismo" avevano parlato critici letterari per designare lo stile particolare di romanzi, come Gente in Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro o Gli indifferenti (1929) di Alberto Moravia, che avevano scosso il panorama culturale degli anni Venti con la loro capacità di tradurre in scrittura il parlato del mondo circostante, il termine era già stato applicato al cinema prima del capolavoro rosselliniano. Il critico Umberto Barbaro , infatti, aveva scomodato questa categoria nel 1943 per descrivere la diversità del primo lungometraggio di Luchino Visconti, Ossessione, liberamente ispirato all’opera dell’americano James Cain Il postino suona sempre due volte (1934) e realizzato secondo i dettami del realismo promulgato da Jean Renoir in area francese, curiosamente sostenuto anche dalla rivista "Cinema", organo ufficiale della Federazione nazionale fascista dello spettacolo, diretta da Vittorio Mussolini (1916-1997) ma aperta ai contributi di intellettuali come Carlo Lizzani o Pietro Ingrao , per nulla allineati con il regime.
In effetti, se a Visconti, regista di vocazione europeista, vengono forniti i mezzi per esordire con un film stigmatizzato pubblicamente ma privatamente apprezzato dal Duce, e se Rossellini aveva avuto già la possibilità di realizzare tre lungometraggi nell’ambito della cinematografia di propaganda, è altresì vero che al Centro Sperimentale di Cinematografia, fondato nel 1938, vengono formati quegli autori e sostenuto quel clima di raffinata consapevolezza linguistica e culturale che costituirà l’humus del futuro movimento neorealista.
Gli autori e le opere
È quindi un attore e regista già simbolo del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi promosso dal fascismo, Vittorio De Sica a raccogliere le istanze di Roma città aperta (1945) per rilanciarle in una tetralogia, che ha inizio con Sciuscià (1946), il racconto delle tremende condizioni di vita di due piccoli lustrascarpe destinati al carcere minorile, e si conclude con il durissimo ritratto di Umberto D. (1952), pensionato abbandonato a un’esistenza di stenti e solitudine dopo una vita di lavoro e sacrificio. Miracolo a Milano (1952) riprende alcuni schemi del cosiddetto realismo poetico francese, ma è Ladri di Biciclette (1948) probabilmente il capolavoro di questa fase della carriera di De Sica, segnata dal sodalizio con Cesare Zavattini. Il film è ispirato a un romanzo cronachistico di uno scrittore minore, Luigi Bartolini (1892-1963), che si prestava perfettamente alla concezione di un cinema che traeva la sua ragione dai fatti minori della vita quotidiana per cercare di afferrare la realtà profonda della componente umana e sociologica in essi implicata. Da qui deriva un’articolata teorizzazione che mette al centro l’idea di pedinamento e di vita colta sul fatto, proseguendo una tradizione che risale ai cineasti sovietici come Dziga Vertov e francesi come Jean Vigo e ancora Jean Renoir. Il non-attore Lamberto Maggiorani (1909-1983) ha tutti i tratti dell’antieroe: basta che gli venga rubata la bicicletta, e il suo mondo crolla: perde il lavoro e si trova d’un tratto nell’impossibilità di mantenere la propria famiglia. Il film racconta pertanto di una detective story con un padre e un figlio che vanno in cerca del più banale degli oggetti in un crescendo drammatico gestito magistralmente da De Sica per le strade di una Roma straniante nella sua normalità osservata dalla prospettiva febbrile del disperato.
Diverso nello spirito ma mosso da un’analoga tensione morale nell’uso del mezzo cinematografico il prosieguo del cammino propriamente neorealista di Rossellini, che si concretizza in una trilogia che comprende fra l’altro Paisà (1946), film a episodi che accompagna la risalita dell’Italia compiuta dalle truppe alleate e l’ecumenico Germania anno zero (1948), che mette al centro del racconto il popolo tedesco, sopravvissuto alla tragedia, e il pianto per le giovani generazioni, costretti a crescere in un mondo invivibile, nell’assenza assoluta di qualsiasi speranza. Come osservato dalla critica, l’apporto principale di Rossellini all’estetica del neorealismo e – dunque – a un’idea moderna di cinema, è quello di avere concepito uno stile in cui la macchina da presa sembra mettersi al servizio degli eventi rappresentati piuttosto che pretendere che essi vengano predisposti a suo uso e consumo.
Anche Luchino Visconti, dopo Ossessione, torna alla regia riprendendo un progetto concepito prima della guerra, ovvero una versione cinematografica dei Malavoglia di Verga destinato a diventare, nel 1948, La terra trema, opera che spinge alle estreme conseguenze i presupposti del movimento. Il film, ambientato ad Aci Trezza e interpretato da gente del luogo che parla in un dialetto strettissimo, fonde una analisi sostanzialmente marxista – interessata a rivelare le condizioni di sfruttamento di un Sud arcaico – e una visione estetizzante di stampo decadente nella messa in scena maestosa ed epica di gesti e paesaggi, investiti completamente da un’aura mitica.
Dopo il neorealismo
Se la data di nascita del movimento è incerta, pur entro alcune coordinate essenziali, più difficile ancora appare stabilire il momento in cui la sua parabola può definirsi conclusa. Un punto di svolta è certamente rappresentato dall’intervento in Parlamento di Giulio Andreotti che criticò il neorealismo per l’immagine poco lusinghiera del paese che i film realizzati nel suo ambito promuovevano all’estero (dal quale derivò anche una legge nel 1949 in materia di importazione ed esportazione di pellicole), per nulla idonea a incoraggiare l’investimento di capitali stranieri in Italia. In realtà, salvo rarissime eccezioni, il cinema di Rossellini e colleghi ha sempre avuto enormi difficoltà ad affermarsi presso il pubblico dei connazionali, travolti dall’invasione di pellicole statunitensi – le quali erano state bandite dal territorio nazionale dal 1938 – mentre all’estero, in Francia come negli USA, essi godranno di una grandissima risonanza. Eppure, il neorealismo è un movimento che ha sempre avuto una fortissima matrice popolare, particolarmente evidente nei film di Giuseppe de Santis, uno dei suoi esponenti più abili a conciliarne i presupposti estetici con elementi appartenenti ai generi cinematografici classici, dal western al melodramma, presenti in film come Caccia tragica (1947) e Riso amaro (1949). Il cinema che verrà prodotto nella rinata Cinecittà, definita giustamente "la Hollywood sul Tevere", si muoverà esattamente lungo queste coordinate, fondendo uno sguardo acuto e realistico sull’Italia contemporanea con un sapiente utilizzo delle convenzioni di generi, sia nel campo della commedia, nei film del cosiddetto neorealismo rosa, da Due soldi di speranza, 1951, di Renato Castellani, a Pane, amore e fantasia, 1953, di Luigi Comencini, sia in quello del melodramma, il cui emblema è senz’altro Catene, 1949, di Raffaello Matarazzo. I grandi autori, dal canto loro, proseguiranno le proprie carriere seguendo percorsi che li porteranno ad approfondire e adeguare ai tempi l’idea di un cinema moderno. In questo senso, Viaggio in Italia , 1953, di Rossellini e Rocco e i suoi fratelli, 1960, di Visconti possono essere considerati altrettante riproposizioni in chiave prettamente autoriale di moduli neorealisti.