Il romanzo di guerra del soldato poeta
Kevin Powers è stato mitragliere ed esploratore tra il 2004 e il 2005 nell’Iraq settentrionale.
In Yellow birds, un romanzo solo in parte autobiografico, tenta di dare voce, tra lirismo e brutalità, ai ragazzi americani fatti a pezzi dal conflitto.
Una pattuglia di soldati americani avanza sotto il fuoco nemico nel nord dell’Iraq, cercando di prendere posizione. Alcuni notano un corpo riverso. È un soldato come loro, ferito. Sta morendo. La paura di essere colpiti – sopravvivere è l’unica missione che si sono dati – non vince la curiosità. Si fermano a guardare. Il sergente che li guida si china sul ferito. Perde sangue, ma non è privo di conoscenza e sembra stia per dire qualcosa. I ragazzi attendono, come se da quelle labbra potesse sgorgare una rivelazione o un messaggio. Ma il soldato muore senza aver detto nulla. Il sergente, un veterano quasi nichilista, spiega che di solito è così. La morte non trova parole, la guerra non crea significato. È la scena chiave del romanzo d’esordio di Kevin Powers, Yellow birds, pubblicato negli USA nel 2012 e recentemente tradotto in italiano. Si tratta di un romanzo di guerra – se può essere considerato un genere – e, per quanto ne so, uno dei primi sulla efferata guerra in Iraq che ha insanguinato il decennio scorso. Si è combattuta in ogni angolo della Mesopotamia e si è conclusa senza vincitori, lasciando un paese in macerie, centinaia di migliaia di morti iracheni, migliaia di morti occidentali e reduci devastati nel corpo e nella psiche. Occorre tempo perché un’esperienza vissuta diventi storia e poi narrazione: i migliori romanzi sulla Prima guerra mondiale sono spesso degli anni Venti o Trenta (Remarque, Hemingway, Lussu), quelli sulla Seconda degli anni Cinquanta e Sessanta (Rigoni Stern, Bedeschi), quelli sul Vietnam degli anni Settanta (O’Brian, Herr). Anche Powers, che in Iraq ha servito nel 2004-05, ha dovuto lasciar sedimentare l’esperienza per poter dare parole alla morte. Cioè chinarsi sul soldato morente – che non può parlare né rivelare alcunché – e scrivere. Per tracciare, come ha dichiarato lui stesso, una «cartografia della coscienza» di chi resta.
Il romanzo è breve, intenso e fratturato come la memoria del narratore: il soldato John che, dopo il ritorno, sconta la sua pena in un carcere militare, assalito dagli incubi, dal desiderio di dimenticare e dalla necessità di ricordare per ritrovarsi e ritrovare l’amico perduto. Oscillando fra i campi di battaglia dell’Iraq e la Germania, la neve della Virginia e i frutteti di Al Tafar, non segue un andamento lineare, né una cronologia ordinata. Vive di illuminazioni, di scene slegate, di epifanie, come volesse restituire il caos della mente e della guerra stessa. Powers è anche poeta, o soprattutto poeta. La sua prosa è solenne e insieme telegrafica, sempre ricca di immagini e metafore. La trama è scarnificata: 2 ragazzi di 18 anni della Virginia si arruolano nell’esercito e vengono spediti in guerra. Il più maturo, John Bartle, prende sotto la sua protezione il più fragile, Daniel Murphy, e promette alla madre di vegliare su di lui per riportarlo a casa. Non ci riuscirà – lo sappiamo fin dall’inizio – e la morte orrenda dell’amico diventa la sua colpa e la sua dannazione.
In Iraq, ha desiderato solo tornare a casa: ma a casa, ogni cosa lo riporta laggiù, perché dopo aver visto ‘l’orrore’ non c’è davvero ritorno.
Fin qui, la storia somiglia a tante altre e anche a tanti film: penso a Birdy (1984) di Alan Parker, Platoon (1986) di Oliver Stone, Tornando a casa (1978) di Hal Ashby. Ciò che però distingue il romanzo di Powers è la singolare
commistione di astrazione metafisica e onirica attenzione ai dettagli, lirismo e brutalità, epica e anti-epica: l’Iraq è una landa malefica di cui riemergono appena, con abbacinante nitidezza, dei giacinti, una torre e la corrente del Tigri, l’esercito si riduce a 3 personaggi (i 2 ragazzi e il sergente Sterling, violento ma anche protettivo e paterno), le scene di guerra si disgregano in istanti insensati, la crudezza delle uccisioni, dei bombardamenti e delle mutilazioni è contraddetta dal ritmo della prosa e dalla bellezza delle parole.
Powers è nato nel 1980 a Richmond (Virginia). La guerra in Iraq è stata, per gli americani, una guerra di ragazzi: combattuta da soldati adolescenti, innocenti e perciò capaci di trasformarsi in spietati assassini. Solo un narratore giovane poteva tentare di dare voce a quei ragazzi fatti a pezzi dalla guerra, fisicamente o metaforicamente.
Lo fa con l’ingenuità di riferimenti altisonanti (penso al nome del protagonista, che echeggia il Bartleby di un racconto di Herman Melville) e qualche squilibrio nella costruzione. Ma proprio l’imperfezione dona al suo romanzo la verità lancinante della ricerca di un senso e comunica una commovente fiducia nella letteratura. Per questo, saluto l’esordio di Powers con rispetto e gratitudine.
L’Iraq e il cinema
a guerra in Iraq è il tema di diversi film girati negli Stati Uniti, soprattutto negli anni 2000, pellicole attraverso le quali l’opinione pubblica americana si è interrogata sugli aspetti controversi delle guerre contemporanee. Si ricordano tra le opere più significative: In the Valley of Elah (2007) di Paul Haggis, sui traumi e i disturbi psichici che possono colpire i soldati al fronte; Redacted (2007) di Brian De Palma, sulle violenze rivolte contro i civili, storia di un gruppo di militari statunitensi che violentano una quindicenne, dopo aver ucciso la sua famiglia; The hurt locker (2008, premiato con 6 Oscar tra cui quelli per il miglior film e la miglior regia) di Kathryn Bigelow, sulla vita quotidiana degli sminatori; la commedia The men who stare at goats (2009) di Grant Heslov.
Chi è Kevin Powers
Nato a Richmond, in Virginia, nel 1980, si è arruolato nell’esercito all’età di 17 anni e ha servito inIraq, a Mosul e a Tal Afar, nel 2004-05; dopo il ritorno ha studiato letteratura alla Virginia Commonwealth University e alla University of Texas. Il suo primo romanzo, The yellow birds, nasce dall’esigenza di far comprendere alle persone che cosa provi realmente un soldato al fronte: sul piano fisico, emotivo e psicologico. Celebrato in modo pressoché unanime dalla critica statunitense e paragonato in particolare a Im Westen nichts Neues (1929) di Erich Maria Remarque, il romanzo è apprezzato per il lirismo, la struttura narrativa non lineare, l’introspezione psicologica, l’apertura alla riflessione esistenziale, e non meno per la capacità di testimoniare l’esperienza della guerra irachena in modo autentico e personale. Il titolo è tratto da una crudele filastrocca cantata durante le marce militari, nella quale un uccellino giallo viene fatto avvicinare con un pezzo di pane e poi violentemente ucciso: i soldati divengono così gli ‘uccellini gialli’ che la guerra prova continuamente – e insensatamente – a uccidere.