Il Sud e i conflitti sociali
Nella straordinaria successione di eventi che portò all’unificazione della penisola italiana fra il 1859 e il 1861, nessuna vicenda fu più spettacolare di quella a cui si assisté nell’Italia meridionale. Dalla prima rivolta palermitana nell’aprile del 1860 all’arrivo dei Mille a Marsala, dalle sconfitte inflitte all’esercito borbonico a Calatafimi, a Palermo e a Milazzo fino all’ingresso trionfale di Giuseppe Garibaldi a Napoli all’inizio di settembre, poche campagne militari sono state altrettanto sorprendenti e celebrate o hanno avuto conseguenze a lungo termine così importanti.
Per cinque mesi, nel 1860, l’attenzione della stampa mondiale si concentrò sull’Italia meridionale, e su Garibaldi e i suoi successi cominciarono a circolare le storie più incredibili. Per molti, anche se non per tutti, egli era un eroe. Agli occhi dei liberali di ogni paese, la spedizione di Garibaldi rappresentava un miracolo, una storia d’avventura divenuta realtà, la conferma del suo «genio», la prova che la causa della libertà umana e del progresso era eterna e non poteva essere fermata dalla repressione politica. Per quelle migliaia di giovani uomini, e qualche donna, che si unirono a Garibaldi per combattere nel Sud, la sua era una «nobile spedizione» ed essi avrebbero sempre ricordato i «fantastici mesi» della loro esperienza di guerra. Ma per altri, vale dire i conservatori, i reazionari e gran parte della Chiesa cattolica, la spedizione garibaldina non fu che «un atto di pirateria» commesso da «un’orda di briganti», da quelli che erano «barbari dell’età moderna» guidati niente meno che da un «Anticristo», e il successo dei Mille veniva da essi attribuito a un complotto internazionale realizzato con l’aiuto e la complicità del governo britannico (Riall 2007, pp. 300, 307, 347).
Le iperboli, vuoi negative che positive, suscitate all’epoca dalla spedizione di Garibaldi sono un segno di quanto inaspettati fossero la sua natura e i suoi esiti, ma la realtà dei fatti è assai più ambivalente. Ovviamente i liberali avevano ragione nel sostenere che il successo della campagna militare di Garibaldi era in parte dovuto alla sua abilità e versatilità come comandante, nonché alla capacità, al coraggio e alla passione politica dei suoi seguaci. Inoltre, soprattutto in Sicilia, Garibaldi godette di un’autentica popolarità, e il suo regime fu sostenuto da una parte delle élites locali, del clero rurale e dei contadini. Come vedremo, però, l’entusiasmo popolare non fu l’unico motivo del crollo del Regno delle Due Sicilie. Allo stesso modo, i conservatori potevano a buon diritto affermare che l’esercito dei volontari aveva attaccato senza provocazione uno Stato legittimamente costituito. È vero che i Mille riuscirono a sbarcare senza ostacoli a Marsala solo perché la presenza delle navi da guerra britanniche indusse il comandante della marina borbonica a non aprire il fuoco, e sappiamo che l’esercito garibaldino fu in parte finanziato con soldi raccolti fra la popolazione britannica. Tuttavia, pur tenendo presenti i vantaggi derivanti dall’aiuto britannico, non vi è alcuna prova che il governo della Gran Bretagna avesse cospirato con Garibaldi per rovesciare la monarchia borbonica.
Dietro il racconto morale dei liberali e la teoria del complotto dei conservatori, possiamo scorgere una storia ben più dura e complessa. Per poter spiegare il trionfo di Garibaldi nel 1860, dobbiamo riconoscere che un ruolo cruciale fu quello svolto dalla crisi politica, sociale e finanziaria che imperversava nel Meridione. A essa sono connessi vari problemi che è opportuno prendere in esame perché ci aiutano a comprendere per quale motivo la successiva unificazione del Sud con il Nord si sarebbe rivelata così problematica.
Quella che il Regno delle Due Sicilie dovette affrontare nel 1860 fu una crisi allo stesso tempo di breve e di lungo termine, e si rivelò particolarmente grave in Sicilia. La recente ricerca storica ha messo in discussione la prospettiva interpretativa tradizionale, che vedeva nella monarchia borbonica un regime corrotto, oppressivo e ancorato al passato, e ha prestato molta più attenzione alle influenze dinamiche e modernizzatrici operanti all’interno del suo governo. Esistevano tuttavia molteplici fattori che tendevano a indebolirne la stabilità politica. In primo luogo, lo sforzo messo in atto a partire dal 1815 per riorganizzare il sistema amministrativo, accentrando il governo e rafforzando il controllo sulle più remote province del Regno, non ebbe un particolare successo. Infatti, la riforma amministrativa, andando a colpire sia interessi consolidati che interessi recenti, creò spesso altrettanti problemi di quelli che risolse. È ormai da molto tempo un dato acquisito, infatti, che alla radice del sostegno ottenuto dalla rivoluzione delle Due Sicilie nel 1820 vi furono il risentimento delle province nei confronti del governo centrale e una profonda avversione per i privilegi e la corruzione della capitale napoletana. La costante crescita dei movimenti di opposizione, malgrado i ripetuti tentativi di reprimerli, costituì un’altra minacciosa tendenza. Sia nella loro versione murattiana o carbonara (gruppi entrambi ereditati dal regime napoleonico che aveva governato Napoli dal 1806 al 1814) che in quella mazziniana o moderata, sia che operassero per l’unificazione politica con il resto d’Italia oppure in senso separatista, questi movimenti furono un forte segnale della crisi del regime, e testimoniavano che nei territori del Regno vi erano molti che ormai non si identificavano più nella monarchia borbonica.
Nei successivi anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, il Regno delle Due Sicilie fu colpito da una grave depressione economica, esacerbata dall’enorme debito pubblico. Anche se alla radice delle rivoluzioni che all’inizio del 1848 imperversarono in Sicilia e nel Meridione continentale vi furono proprio i problemi economici, nessuno nel governo sembrò far tesoro di quell’esperienza. Dopo di allora, il re continuò a spendere a profusione per l’esercito, a scapito degli investimenti infrastrutturali e a lungo termine. Nel corso degli anni Cinquanta, una serie di problemi diplomatici destabilizzò il regno, e un effetto particolarmente grave ebbe l’isolamento dell’Impero asburgico, suo principale alleato e protettore, conseguente alla guerra di Crimea del 1856 (si tenga presente che la crisi del 1820 e quella del 1848-49 erano state superate grazie all’aiuto austriaco). A questo punto, però, il problema forse più importante riguardava la legittimità stessa del regime. Il combinarsi, dopo il 1849, di repressione e censura, e l’evidente decrepitezza dei ministri borbonici e dello stesso sovrano Ferdinando II (che morì verso la fine del 1859) furono elementi tali da alimentare le rimostranze dell’opposizione al governo, soprattutto fra gli esuli politici che continuavano, anche da lontano, a cospirare contro il regime.
Questi problemi politici, amministrativi e finanziari esplosero a partire dall’estate del 1859. La storica sconfitta dell’Austria contro la Francia e il Piemonte nell’Italia settentrionale, e l’evidente agonia dello Stato pontificio che ne derivò, ebbero un effetto letale anche per la monarchia borbonica. Il nuovo sovrano, Francesco II, era troppo debole e inesperto per potere affrontare la crisi che si stava aprendo; a Malta, in Piemonte, in Francia e in Inghilterra gli esuli politici cominciarono a percepire che stava per arrivare il loro momento. Quando nell’aprile del 1860 scoppiò una rivolta a Palermo, il governo scese in campo per contenerla; l’esercito riuscì a reprimere il complotto iniziale e ad arrestarne i capi, mandandone a morte alcuni, ma la sommossa popolare che aveva affiancato la rivolta rimase viva, e si estese rapidamente alle campagne circostanti. I documenti governativi di questo periodo mostrano infatti che non appena la rivolta fu arrestata in città, le ondate di violenza e i disordini popolari si diffusero nelle province.
Fu attraverso questa rivolta fallita che gli eventi di Torino e di Milano si intrecciarono con quelli della parte meridionale della penisola. Il governo della Sicilia costituiva da molto tempo un problema per gli amministratori borbonici, e nel corso degli anni Cinquanta vi erano stati ripetuti tentativi di fomentare un’insurrezione nell’isola e in altre zone del Meridione, ma fu solo agli inizi del 1860 che le battute d’arresto subite dai democratici nell’Italia settentrionale spostarono decisamente l’attenzione dei loro capi verso il Sud. Dopo il fallimento della rivolta di aprile a Palermo, inoltre, le attività cospirative condotte nell’isola da esuli di parte mazziniana come Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa si intensificarono ulteriormente. Furono loro a fare appello a Garibaldi perché accorresse in loro aiuto al fine di salvare la Sicilia dai Borbone, e in particolare fu Crispi a operare infaticabilmente facendo pressione su Garibaldi finché questi non accettò di capeggiare una spedizione di volontari nel Meridione.
L’arrivo di Garibaldi e dei suoi volontari in Sicilia, all’inizio di maggio del 1860, rese ancora più gravi le difficoltà che il governo borbonico si trovava a fronteggiare. Il successo contro l’esercito borbonico a Calatafimi e lo spostamento dell’esercito garibaldino verso Palermo furono a loro volta assai favoriti dal dilagare dei disordini e dal cedimento dell’apparato governativo. All’inizio dell’estate, infatti, in gran parte della Sicilia occidentale il collasso della legalità e dell’ordine pubblico era ormai pressoché totale. Nella stessa Palermo l’instabilità era tale che il governo richiamò le truppe in città per proteggersi, lasciando indifese le province.
Dove non vi era la presenza delle truppe, scoppiavano disordini. Nelle campagne proliferavano le bande armate, che misero in subbuglio il territorio e soprattutto tagliarono le comunicazioni fra le zone rurali e la capitale, rendendo difficile a quanti stavano a Palermo sapere quello che succedeva fuori della città. I funzionari pubblici abbandonarono i loro posti, le forze di polizia si dileguarono, e le banche furono prese d’assalto. Al momento del suo arrivo in Sicilia, Garibaldi aveva promesso di concedere la terra a tutti coloro che si fossero arruolati nel suo esercito, e il suo proclama aveva provocato un’ondata di occupazioni delle terre; i contadini si sentirono parte del cambiamento di regime che stava con tutta evidenza avvenendo, e rivendicavano apertamente il proprio diritto alla proprietà. Infine, si registrarono gravi disordini politici anche a Messina e a Catania, due roccheforti dell’opposizione liberale ai borbonici.
Fu in questa situazione caotica che Garibaldi riuscì ad avvicinarsi di nascosto a Palermo e a farvi ingresso il 27 maggio. L’apparire del suo esercito fu una «totale sorpresa» per i soldati borbonici schierati a difesa della città – come scrisse il volontario Ippolito Nievo nel proprio diario (Nievo 1961, p. 157) – e Garibaldi poté conquistare rapidamente il controllo del centro della capitale. Dopo alcuni giorni segnati da violenti combattimenti, nel corso dei quali le navi borboniche bombardarono la città, un comandante della marina britannica appostato nel porto di Palermo negoziò una tregua. Poco dopo, le truppe borboniche ammisero la sconfitta e cominciarono a ritirarsi da Palermo.
La partenza delle truppe borboniche, prima dal castello di Milazzo fra Palermo e Messina, e dopo la loro sconfitta in quel luogo, anche dall’entroterra, implicava il riconoscimento dell’impossibilità di mantenere il controllo della Sicilia. Le dimensioni e la rapidità della sconfitta, e il fatto che fosse avvenuta per mano di una piccola forza di volontari armati alla meglio, conferì un inesplicabile e meraviglioso sapore all’episodio finale della storia del governo borbonico sull’isola. In verità, tuttavia, il successo della spedizione di Garibaldi fu facilitato non da un miracolo, ma dal crollo dell’amministrazione governativa e dalla corrispondente crescita della minaccia di una sommossa contadina. Quando nel maggio del 1860 i garibaldini arrivarono in Sicilia, si trovarono di fronte un vuoto politico. Fu questo vuoto che li accompagnò e affrettò la loro avanzata verso Napoli nel corso dell’estate seguente.
Nel Mezzogiorno continentale, Garibaldi non trovò una situazione così immediatamente favorevole. Il sostegno popolare all’eroe fu meno entusiastico, e la crisi politica non era così grave, almeno nella capitale, ma anche in questo caso, dopo aver concesso in giugno una costituzione liberale, il governo sembrò rinunciare alla pretesa di mantenere il controllo degli eventi. In alcune aree rurali, i funzionari cominciarono ad abbandonare i loro posti, com’era avvenuto in Sicilia. E una volta che Garibaldi riuscì ad attraversare lo stretto di Messina, a metà di agosto, la situazione si deteriorò rapidamente. Alla fine del mese, le sue forze avevano già conquistato la Calabria, e il 6 settembre egli arrivò a Salerno, che solo un breve viaggio in treno separava da Napoli. A quel punto, il comandante procedeva così rapidamente da essersi lasciato alle spalle la maggior parte del suo esercito. L’inviato britannico a Napoli, Sir Henry Elliot, fu informato che «l’intera parte meridionale del Regno [...] è stata conquistata da Garibaldi, che ha agito da solo e senza un esercito […], con le popolazioni che insorgevano e le truppe che si ritiravano o capitolavano via via che egli avanzava» (Elliot 1922, p. 71). «I monarchici sono stati dispersi come la polvere che si solleva per la loro fuga», scrisse a sua volta Marc Monnier, un francese residente a Napoli, che assisté agli eventi (Monnier 1861, p. 296).
L’avanzata di Garibaldi aveva a tal punto demoralizzato il nemico che, secondo uno dei suoi compagni, Alberto Mario, egli aveva assunto «grado grado le proporzioni e la parvenza del Fato» (Mario 1982, p. 145). Il 7 settembre Garibaldi prese un treno da Salerno a Napoli e fece il suo ingresso nella capitale accolto da una folla vociante. Il re Francesco II aveva abbandonato la città pochi giorni prima, per ritirarsi nella fortezza di Capua, qualche chilometro più a Nord.
Ancora una volta, tuttavia, la natura apparentemente miracolosa del successo con cui Garibaldi aveva conquistato Napoli contro ogni previsione mascherava una realtà più pericolosa; come ha scritto Salvatore Lupo, il suo arrivo a Napoli «sembrò sancire la facile vittoria della rivoluzione; invece le cose si stavano complicando» (Lupo 2002, p. 466). In molte province i liberali si erano scontrati con i sostenitori dei Borbone, nel tentativo di assumere il controllo dell’amministrazione locale, e i contadini si erano sollevati per difendere le loro rivendicazioni, dando vita all’occupazione di terre, in alcuni casi in forma violenta. L’aspetto più preoccupante era che questa violenza fosse in parte diretta contro Garibaldi, e che scoppiarono alcune insurrezioni filoborboniche nelle province settentrionali del regno, quelle più vicine alla frontiera con lo Stato pontificio. All’approssimarsi di ottobre, quando l’esercito di Garibaldi e i Borbone si stavano preparando alla battaglia finale sul Volturno (1-2 ottobre 1860), cominciarono a formarsi gruppi armati «reazionari» capeggiati da ex militari dell’esercito borbonico e di quello pontificio, nei cui ranghi erano accorsi numerosi contadini poveri.
Sul Volturno le forze di Garibaldi ebbero la meglio su quelle borboniche. Nel novembre del 1860, dopo una serie di plebisciti, egli consegnò personalmente il potere al re Vittorio Emanuele II del Piemonte, nel celebre incontro di Teano, a nord di Napoli, che segnò la fine della rivoluzione democratica nel Sud e l’inizio del Regno d’Italia. Nonostante l’andamento degli eventi, Francesco II mantenne il controllo della fortezza di Gaeta. Lungi dal rassegnarsi alla perdita del suo Regno, ora egli guardava ai contadini, che in passato avevano aiutato la sua famiglia a ritornare al potere (l’episodio più famoso è quello del 1799 contro la Repubblica napoletana) nonché agli eserciti del papa e magari della Spagna, perché lo affiancassero per riconquistare quanto Garibaldi gli aveva tolto.
Per spiegare le difficoltà del processo di unificazione del Sud con il Nord dopo il 1860, è necessario tenere presenti varie problematiche. In primo luogo, la portata del collasso amministrativo e finanziario che abbiamo descritto significava che il governo aveva di fatto cessato di funzionare in vaste parti del Regno. In Sicilia, nel corso dei mesi rivoluzionari, gli edifici governativi erano stati saccheggiati e gli archivi dati alle fiamme, le comunicazioni erano state interrotte, le tasse non venivano più riscosse, e si era semplicemente rinunciato a qualsiasi tentativo di mantenere il controllo dell’ordine pubblico. Nell’Italia meridionale l’autorità politica, e con essa la legalità e l’ordine, di fatto non esistevano più.
La radice di questi problemi va ricercata nel governo stesso. Secondo un rapporto relativo al circondario di Girgenti (l’odierna Agrigento), all’epoca della rivoluzione vi erano comuni «che vollero credersi indipendenti, ed assoluti padroni di loro stessi, e commisero in nome della libertà atti della più assoluta anarchia, e della più sfrenata licenza» (Riall 2004, p. 115). Negli ultimi giorni dell’amministrazione borbonica e nel corso dei mesi della successiva dittatura di Garibaldi, era raro poter fare affidamento sui funzionari del governo locale, i quali o si unirono all’indiscriminato accaparramento di terre, soldi e altre risorse, o abbandonarono i loro incarichi e ritornarono a vita privata (e talvolta si resero irreperibili). Non di rado, si scontrarono fra di loro per assumere il controllo del governo locale. Infatti, gran parte della violenza a cui si assisté nel Sud fra il 1860 e il 1861 può essere spiegata in base alle faide e alle rivalità fra le élites locali per assicurarsi la spartizione delle risorse residue delle amministrazioni locali.
Al momento della loro conquista dell’Italia meridionale, Garibaldi e i suoi uomini poterono certamente trarre vantaggio del vuoto politico che si era creato, ma dopo l’ottobre del 1860 essi e i loro successori piemontesi dovettero anche risolvere il problema di come colmare quello stesso vuoto che aveva favorito la loro affermazione. Si trattava del compito senza dubbio più urgente al quale dovevano accingersi, e che si sarebbe rivelato molto più impopolare e infinitamente più difficile dello stesso rovesciamento del governo borbonico. Secondo Alfonso Scirocco, il «fatto che distingue nettamente il crollo del regno delle Due Sicilie dai mutamenti di governo avvenuti nell’Italia Centrale […] è la grande crisi che investe tutta la vita dello Stato» (Scirocco 1981, p. 27). Questa «grande crisi» fece sì che quel pacifico passaggio di poteri al quale si era assistito in Toscana o in Emilia-Romagna all’inizio del 1860 non potesse ripetersi in Italia meridionale.
Fu soprattutto in alcune zone della Sicilia che la crisi dello Stato assunse aspetti talmente gravi che spesso il governo si trovò privo dei mezzi essenziali per garantire il regolare funzionamento delle amministrazioni. I funzionari governativi – come ad esempio gli esattori delle tasse e gli ufficiali di polizia – erano in numero spesso scarso rispetto al territorio e, quando erano disponibili, poteva darsi che si rivelassero incapaci o inaffidabili, o entrambe le cose insieme. Nel 1861, l’intendente di Termini Imerese avvertì i superiori che nel suo circondario molti impiegati erano del tutto incompetenti, sottolineando che «il presente personale politico» era «inferiore assai alla importante sua missione, e del tutto inopportuno e pericoloso». Quando il marchese di Montezemolo, primo luogotenente generale nell’isola, arrivò nel 1861 dal Piemonte, si espresse così riguardo al suo personale amministrativo: «il senso pratico, le idee e le abitudini amministrative, gli uomini versati ed esperti nel maneggio delle cose, tutto qui fa difetto» (Riall 2004, p. 163).
Problemi analoghi si sarebbero manifestati, e in modo persistente, a ogni livello dell’amministrazione governativa. Alle proprie lamentele, Montezemolo aggiungeva che era impossibile accertare quello che stava avvenendo nelle province: le richieste di informazioni inviate ai governatori provinciali avevano ottenuto risposte la cui «stupidità» lo aveva «atterrito» (ibid.). Nella serie di relazioni che seguirono venivano replicate simili accuse. A Misilmeri, si diceva che il sindaco era «ignorante, pauroso e senza iniziativa»; ad Alia il primo cittadino veniva descritto come «uomo da poco, ignorante e malevolo». E non si può dire che la polizia fosse più affidabile. Il delegato di pubblica sicurezza di Caltanissetta era quasi analfabeta, un «uomo campestre, il quale non ha quindi né fior di lettere, né la menoma tintura d’istruzione, riuscendo appena a segnare imperfettamente la propria firma!»; quello di Chiusa Sclafani era definito «ignorante e debosciato»; i militi a cavallo di Termini usavano metodi che il loro intendente descriveva come «insidie, minaccie, torture […] vendette», mentre era opinione comune che in caso di emergenza non si potesse fare affidamento sulla Guardia nazionale. La polizia, scriveva nel 1867 il prefetto di Palermo, «come è qui ordinata, è un non senso» (ivi, pp. 167-168).
La monarchia borbonica, i democratici di Garibaldi e lo Stato piemontese erano divisi da aspre contrapposizioni, e ognuno di essi vedeva negli altri la causa dei problemi che il governo incontrava nel Meridione. Suona quindi come un’ironia il fatto che i tre regimi che si succedettero si basassero sullo stesso sistema amministrativo accentrato che era stato introdotto da Napoleone una sessantina d’anni prima dell’unificazione italiana. Questo sistema presupponeva una catena di comando gerarchica e uniforme controllata dal centro, che si estendesse senza ostacoli dal governo fino ai livelli inferiori dell’amministrazione locale, consentendo di trasmettere i provvedimenti legislativi e le istruzioni governative fino alle zone più remote del territorio. La funzione dell’amministrazione locale, in altre parole, era di attuare la politica del governo centrale e di fungere da collegamento fra governanti e governati, in accordo con le strutture amministrative create da Napoleone.
Il problema era che nelle province meridionali del nuovo Regno d’Italia un tale collegamento non esisteva. «Come farete – scrisse nel 1861 un agente del governo, Giuseppe Finzi – ad introdurre un paese così disorganizzato nel nostro sistema liberale, come vi porterete le provincie che sono ancora sottratte alla vostra azione, come vi metterete in vigore lo Statuto, come provocherete le elezioni al Parlamento, dove non avete né le istituzioni Comunali e Provinciali corrispondenti, né il personale di vostra confidenza che dia l’impulso e che si faccia vostro interprete?» (ivi, p. 159). Secondo l’inviato speciale Diomede Pantaleoni, i problemi dell’amministrazione della Sicilia potevano essere attribuiti direttamente a quelli del governo: «non può trovare un questore di pubblica sicurezza, non trova sindaci che lo servano, non riescono le elezioni municipali, s’attraversano i consigli provinciali, e la stessa Guardia Nazionale si mostra restia al suo capo quando si tratta di fare onore al rappresentante del governo» (ibid.).
Queste difficoltà nell’esercizio della giurisdizione territoriale e del potere politico risalivano a prima del 1860, ed erano la conseguenza della cronica mancanza di risorse dello Stato borbonico e della sua persistente incapacità di organizzare fonti adeguate di sostegno e di consenso nelle province, e di fatto quasi ovunque al di fuori di Napoli e delle campagne circostanti la capitale. Nel Regno delle Due Sicilie, anzi, dopo il 1815 si formarono nuove élites provinciali che nel migliore dei casi avevano solo tenui legami di fedeltà con il potere centrale. Con la rivoluzione del 1860, comunque, questa situazione già instabile diventò incontrollabile, e il nuovo governo si trovò nell’incapacità di imporre la propria autorità e di far applicare la legge.
Un secondo problema derivava dal fatto che l’unificazione del Meridione con il Nord avvenne in modo assai rapido e inaspettato. La spedizione dei Mille fu una brillante impresa militare, ma colse tutti di sorpresa. I Mille erano in grande maggioranza uomini del Nord (quasi la metà, vale a dire 434 su un totale di 1.089, provenivano da città lombarde), e la loro disponibilità e imbarcarsi verso il Sud a combattere e morire per la libertà della Sicilia costituisce una straordinaria testimonianza di quanto nell’Italia di metà Ottocento fosse forte e diffuso il sentimento nazionalista. E tuttavia, se essi arrivarono a Marsala pieni di giovanile energia e di entusiasmo patriottico, nella maggior parte dei casi sarebbero rimasti degli estranei, con gli occhi puntati verso Roma, che rappresentava l’ambita meta finale. Questi democratici settentrionali animati da un forte interesse per il Sud, come ad esempio Antonio Mordini che fu prodittatore in Sicilia nell’autunno del 1860, si videro allontanati dal nuovo regime che si instaurò dopo l’incontro di Teano fra il re e Garibaldi.
Allo stesso tempo, i moderati piemontesi che presero il posto di Garibaldi nell’Italia meridionale mostravano in gran parte uno scarso interesse per l’ex Regno che ora si trovavano a governare. Prima del 1860, i progetti di Cavour per affermare l’egemonia piemontese non prevedevano alcun piano territoriale per l’Italia centrale, e tantomeno mostravano alcuna volontà di conquistare Napoli o Palermo (e personalmente, egli non si era mai spinto più a sud di Firenze, città che visitò per la prima volta proprio nel 1860). Inoltre, quello che nella maggior parte dei casi i moderati sapevano della Sicilia lo avevano appreso dalla letteratura romantica o dalla storia antica. Nonostante i successivi tentativi di glorificare gli eventi del 1860 ci raccontino un’altra storia, in verità Cavour inviò l’esercito piemontese nei territori pontifici e incontro a Garibaldi a Teano non tanto con l’intento di unificare la penisola, quanto semmai per interrompere la sua avanzata e riprendere nelle proprie mani l’iniziativa politica che il generale si era conquistato nei mesi precedenti.
Anche se non dobbiamo dimenticare che l’unificazione nazionale del 1860 rifletté una sincera ondata di entusiasmo patriottico, è necessario peraltro riconoscere che questo processo politico venne spinto avanti da un’aspra lotta per il potere che vide contrapporsi i moderati e i democratici, e che questa lotta si incentrava essenzialmente sulle questioni della diplomazia, del Parlamento e dell’opinione pubblica, piuttosto che sui problemi del mutamento sociale. Il nazionalismo italiano si basava su un formidabile arsenale di parole e di immagini, ma spesso i suoi principali esponenti non avevano che una conoscenza piuttosto astratta delle società che tentavano di liberare. È in ciò che possiamo individuare la fonte di un’importante conseguenza della lotta politica che portò all’Unità, vale a dire che entrambi gli schieramenti spesso ignoravano, ed erano comunque impreparati ad affrontare, la portata della crisi nella quale erano entrati. Di fatto, i garibaldini, e dopo di loro i moderati piemontesi, giunsero in Italia meridionale con poche idee sulla concreta linea politica da seguire, e privi di qualsiasi piano dettagliato riguardo a quello che avrebbero fatto una volta che avessero preso in mano le redini del potere.
Naturalmente, gli esuli politici che nel 1860 fecero ritorno nel Meridione furono di qualche aiuto a quanti arrivarono con loro dal Settentrione. In Sicilia, Garibaldi si affidò in gran parte alla conoscenza dei luoghi che avevano uomini come Crispi e Pilo, senza i quali la conquista di Palermo alla fine di maggio sarebbe stata impossibile. Ma la maggior parte di questi esuli mancava dall’isola da dieci anni o più, e ognuno di essi aveva una propria prospettiva politica, e fra alcuni di loro i rapporti erano pessimi. Fra i siciliani facenti parte del governo di Garibaldi o a esso vicini si contavano moderati che operavano per un’immediata annessione al Piemonte, autonomisti che si esprimevano a favore dell’istituzione di un’assemblea siciliana e mazziniani che sognavano una repubblica unitaria. Essi erano in fiero disaccordo su punti cruciali della linea politica da seguire e spesso trovarono molto difficile lavorare insieme. A Napoli, affiorò una serie di divisioni fra coloro che erano andati in esilio una decina di anni prima e quelli che erano rimasti nel Regno. In presenza di tutte queste difficoltà, nel 1860 la politica rivoluzionaria non fu tale da preparare il terreno per la formazione di un nuovo consenso politico.
Quali che fossero le ragioni, è assai chiaro che sia i garibaldini sia i moderati sottovalutarono la gravità della crisi in atto nel Sud. La maggior parte di essi credeva in quella che Massimo L. Salvadori ha definito «la leggenda del Mezzogiorno paese ricco, ma sventurato per aver avuto governi corrotti» (Salvadori 1960, p. 30). Colpiti come furono dalla bellezza del paesaggio meridionale, da una parte, e dalla povertà dei suoi abitanti, dall’altra, questi primi governanti italiani furono fin troppo contenti di attribuire la causa dei problemi che vi trovarono al malgoverno e al regime di oppressione politica del passato. La Sicilia, disse nell’ottobre del 1860 in Parlamento Agostino Depretis, «è un vero paradiso [… ma] era stata governata da Satana». A questa diagnosi corrispondeva una semplice cura: la soluzione stava nel buongoverno, e il buongoverno veniva identificato con il governo piemontese. «Lo scopo è chiaro», scrisse Cavour al re nel dicembre del 1860, «imporre l’unità alla parte più corrotta, più debole dell’Italia [… con] la forza morale e se questa non basta la fisica». Per Luigi Farini, luogotenente generale a Napoli fra il 1860 e il 1861, il piano consisteva nell’«andare a stabilire l’autorità della Monarchia e quella della morale e del senso comune nel reame di Napoli e di Sicilia» (Riall 2004, pp. 143-144). Oppure, come scrisse a Cavour alla fine del 1860 l’inviato Diomede Pantaleoni, il compito dell’unificazione con le province meridionali era senz’altro «un’ardita prova», ma «con la nostra forza, col nostro coraggio più grande, con la nostra superiore intelligenza e superiore morale, con la nostra esperienza e il nostro carattere, possiamo sperare di governarle e domarle» (Moe 1992, p. 67).
Come parte di questo nuovo programma di «buongoverno», la nuova amministrazione introdusse nel Meridione una serie di riforme economiche e sociali. La mancanza di comunicazioni adeguate fu un problema riconosciuto per tutto il Mezzogiorno, e la costruzione di strade, e in particolare di ferrovie, divenne per queste regioni una delle priorità perseguite dallo Stato italiano; secondo l’ortodossia liberale dell’epoca, le ferrovie erano considerate allo stesso tempo un mezzo per stimolare la crescita economica e un modo per integrare le nuove province all’interno del Regno d’Italia. Nella stessa ottica, il governo destinò significative risorse al settore dell’istruzione, e in particolare alle scuole elementari (nel 1861 la legge piemontese Casati, che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare, venne estesa al Sud); esso incoraggiò inoltre la rapida crescita delle istituzioni di credito e delle banche, smantellò le barriere commerciali interne ed estese al Mezzogiorno i trattati di libero scambio in vigore con i paesi stranieri. Infine, venne attuato un tentativo di riforma del sistema che regolava la proprietà terriera, che era la causa di tanto malcontento popolare, ricorrendo in gran parte alla confisca delle terre ecclesiastiche e all’istituzione di un sistema di redistribuzione delle stesse alle classi più povere.
Appare opportuno sottolineare questi tentativi di riforma, in quanto essi sono stati messi in ombra dalla violenza e dal malcontento che a partire dal 1861 segnarono l’unificazione delle due parti della penisola. Tuttavia, questi interventi si conclusero in molti casi con degli insuccessi, in parte a causa della difficoltà di metterli in pratica, in parte perché furono troppo lenti e non abbastanza estesi. Le strade e le ferrovie avrebbero trasformato il volto delle società meridionali, ma ciò avvenne solo alla fine dell’Ottocento o ancora più tardi. L’istruzione era un elemento vitale, ma occorse tempo per costruire scuole, formare gli insegnanti e convincere la gente che valeva la pena andare a scuola; inoltre, le ferrovie e le scuole richiedevano enormi investimenti, mentre dopo il 1860 il nuovo Stato italiano era a corto di risorse finanziarie. Il libero commercio, nel quale i liberali piemontesi credevano appassionatamente, danneggiò vasti settori dell’economia meridionale (anche se ne beneficiarono i settori agricoli a carattere più commerciale), mentre la riforma agraria, nonostante le buone intenzioni, richiedeva a sua volta un investimento in termini finanziari e di istruzione per aiutare i nuovi contadini proprietari a trarre profitto dalle loro terre. La Chiesa deteneva un’enorme quota del patrimonio fondiario, e quindi la confisca delle sue terre poté apparire una buona idea ai governanti di Torino, spesso animati da sentimenti anticlericali, ma il provvedimento intensificò l’ostilità dell’istituzione ecclesiastica verso il nuovo regime affermatosi nel Sud.
Per questo complesso di ragioni, il programma riformatore non riuscì che a scalfire alla superficie i problemi economici dell’Italia meridionale, e fece poco o nulla per alleviare le cause del malcontento popolare. Tuttavia, quando si rivelò impossibile imporre il «buongoverno» al Sud, i moderati piemontesi non ripresero in esame né misero in discussione la propria linea politica, e anzi addossarono la colpa ai loro immediati predecessori. Come rilevò nel marzo del 1861 Crispi, in Sicilia «il governo non vede[va] altre cagioni di disordini che l’opera dei mazziniani, repubblicani ecc.» (Riall 2004, pp. 144-145, corsivo nell’originale). Molti erano convinti che la disintegrazione dell’autorità politica fosse opera di Garibaldi, e che i suoi seguaci, ora insediatisi nelle amministrazioni locali, stessero attivamente ostacolando il ristabilimento della legalità e dell’ordine nell’Italia meridionale, allo scopo di fomentare un sentimento repubblicano e di favorire un ulteriore cambiamento di regime basato sui princìpi mazziniani. I piemontesi erano in allarme anche a causa della più generale prospettiva di instabilità politica della penisola nel suo complesso. In particolare, avevano paura che, se ai garibaldini fosse stato lasciato il controllo del Sud, essi avrebbero utilizzato il loro potere come base per sferrare un attacco contro l’Impero austriaco, che era ancora in possesso del Veneto, e contro il papa di Roma. Essi temevano inoltre che queste iniziative avrebbero provocato un intervento straniero e creato il rischio di un nuovo conflitto, compromettendo così la paziente opera del governo di Cavour per far accettare l’espansione piemontese e l’unificazione italiana alle grandi potenze europee.
Così, in gran parte ignari della crisi all’interno della quale si trovavano e animati da enormi sospetti verso Garibaldi e i suoi seguaci, dopo il novembre del 1860 i governanti piemontesi commisero nel Sud una serie di gravi errori. Innanzi tutto, venne deciso di procedere rapidamente all’unificazione, mediante una serie di decreti amministrativi e concedendo un minimo spazio alla discussione e al dibattito in Parlamento. Prima dei plebisciti di ottobre, Cavour aveva detto ai separatisti siciliani che sarebbe stato disposto a concedere un certo grado di autonomia all’isola, ma dopo novembre ribaltò questa decisione, e nel corso del 1861 il sistema amministrativo accentrato introdotto in Piemonte venne esteso alla Sicilia e al Mezzogiorno continentale. Nel 1865 l’unificazione amministrativa venne completata, e l’Italia meridionale venne governata da Torino (prima del trasferimento della capitale a Firenze, dove sarebbe rimasta fino al 1871).
Una così rapida imposizione del governo piemontese dopo il 1860 mirava a rafforzare l’autorità dell’amministrazione centrale, ma produsse in realtà l’effetto opposto. La capitale del nuovo Regno, ora situata a Torino, era ancora più lontana di prima dalle province meridionali, e così le comunicazioni politiche diventarono tese al massimo grado. La classe dirigente napoletana, nel complesso, non appoggiò il nuovo regime, e le gerarchie ecclesiastiche rimasero accanitamente fedeli alla monarchia borbonica. In Sicilia, il tradimento da parte di Cavour delle promesse di autonomia non contribuiva certo a far benvolere il suo governo ai separatisti. Fra di essi si contavano i più potenti ed esperti leader della classe dirigente siciliana, la cui identità politica si era formata proprio in opposizione a quel tipo di amministrazione accentrata che ora veniva imposta dal Piemonte. La maggior disaffezione fu quella provata a Palermo, il centro tradizionale del potere politico e del sentimento autonomista, che si trovò soggetta al nuovo sistema e oltre a ciò retrocessa allo status di capoluogo di provincia. In generale, le modalità con cui venne realizzata l’unificazione – rapidamente e senza discussione – contribuirono alla crescente sensazione che il nuovo governo non era né più liberale né più disposto al dialogo di quanto fosse stata la monarchia borbonica. Tutti questi fattori comportavano la conseguenza che in gran parte del Meridione il nuovo Stato fosse privo di sostegno e di collaborazione a livello locale.
Le difficoltà provocate dalla distanza fisica e dall’isolamento politico vennero ulteriormente aggravate dalla politica ambivalente che fu adottata verso i precedenti regimi che avevano governato il Sud. La logica della linea da seguire nei confronti dei Borbone venne espressa sinteticamente dallo stesso Cavour nell’ottobre del 1860: «ristabilire l’ordine a Napoli, domare il re [Francesco II] dopo». A Napoli i funzionari ricevettero l’istruzione di «conservare il più possibile dell’amministrazione precedente, riordinando ciò che sia confuso e disordinato» (Molfese 1983, p. 33). Così, si adottò un atteggiamento conciliatorio verso molti funzionari dell’ex monarchia borbonica, ai quali fu spesso consentito di rimanere ai loro posti e, nel caso degli ufficiali dell’esercito (sebbene non sempre per i soldati semplici), di essere incorporati nel nuovo esercito italiano.
Questo tentativo di garantire una tranquilla transizione del potere fu accompagnato dalla determinazione a estromettere i garibaldini dalle posizioni che avevano conquistato. All’inizio del 1861, Cavour e i suoi alleati cominciarono a muoversi contro i garibaldini presenti al Sud, decisi ad allontanarli dai loro posti e a impedire che l’esercito dei volontari venisse incorporato nelle forze armate piemontesi. Particolarmente spietata fu la decisione, pianificata e messa in atto dal generale Manfredo Fanti, di liquidare di fatto l’esercito garibaldino. Tutti gli ufficiali e i soldati di Garibaldi furono costretti a presentarsi di fronte a una commissione speciale, la quale ne escluse un numero enorme. Il risultato finale fu che ben pochi degli ufficiali e dei soldati garibaldini poterono entrare a far parte dell’esercito regolare, e nell’aprile del 1861 furono varati nuovi regolamenti che stabilivano un limite rigoroso al numero degli ammissibili. Nello stesso periodo, i reparti della Guardia nazionale che si erano formati nell’Italia meridionale sotto la dittatura di Garibaldi furono a loro volta smantellati e sostituiti adottando il modello di reclutamento piemontese, molto più elitario.
Tutto considerato, la decisione di estromettere i sostenitori di Garibaldi dai loro incarichi può essere considerata l’errore più grave commesso dal nuovo governo nel Sud dopo l’Unità. Anche se il sospetto delle autorità governative nei confronti dei garibaldini può essere comprensibile, impegnandosi in una così vasta epurazione di coloro che avevano appoggiato Garibaldi esse si privarono dell’apporto loro offerto da un gruppo di energici, istruiti e potenzialmente fedeli impiegati pubblici. Nel far ciò, gettarono via tutta la benevolenza di cui il nuovo regime avrebbe potuto godere, e crearono invece un gruppo di persone disoccupate e insoddisfatte, e in quanto tali più pronte ad assumere una posizione ostile nei confronti del nuovo regime. Così, il ritorno a casa di quei soldati che avevano seguito Garibaldi nella sua campagna contro i Borbone generò problemi per la sicurezza nelle zone rurali. In poche parole, i governanti italiani trovarono nel Sud un consenso politico e sociale già fiacco, e con la loro politica lo resero ancora più esiguo e fragile di prima.
Pochi mesi dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia, i contadini di Bronte, una piccola cittadina posta sulle pendici dell’Etna nella Sicilia orientale, dettero vita a una rivolta. La ragione addotta era il rifiuto da parte del consiglio municipale di dare attuazione alle riforme agrarie e fiscali annunciate dal nuovo governo insediatosi a Palermo. Durante il sommovimento provocato dall’arrivo di Garibaldi sull’isola, un gruppo di radicali capeggiato dall’avvocato Niccolò Lombardo aveva tentato di ottenere degli incarichi politici, ma era stato bloccato dai conservatori della città. Per vendicarsi di questa esclusione, Lombardo si dette a incoraggiare i contadini locali affinché organizzassero una dimostrazione per chiedere la distribuzione della terra ai poveri. I radicali però persero rapidamente il controllo della folla: gli edifici comunali vennero saccheggiati e dati alle fiamme, poi questi attacchi alla proprietà lasciarono il posto allo scatenarsi di una violenza omicida. Circa sedici possidenti vennero trascinati fuori dalle loro case, torturati e brutalmente uccisi, in quella che Denis Mack Smith ha definito un’«orgia di terrore» (Mack Smith 1971, p. 214). Molte persone furono costrette a nascondersi per giorni interi in rifugi sotterranei e in cantine, altri fuggirono per mettersi in salvo, travestiti come quei contadini dei quali temevano la violenza.
Dopo che due tentativi delle milizie locali di porre fine alla violenza erano stati respinti, e che la rivolta si era estesa alle città vicine, i combattimenti vennero interrotti dall’arrivo in città di Nino Bixio, il più fidato e allo stesso tempo il più autoritario dei generali di Garibaldi. La repressione fu brutale quanto lo era stata la rivolta che l’aveva preceduta. «È necessario l’esempio e l’avranno tremendo», scrisse lo stesso Bixio a un funzionario governativo (Bixio 1939, 8 agosto 1860, p. 378): lungi dal sostenere le richieste di riforma agraria avanzate dai contadini, il generale e i dirigenti democratici di Palermo erano allarmati per la minaccia che la rivolta costituiva per la legalità e l’ordine. Bixio ordinò così la celebrazione di processi sommari, seguiti immediatamente dall’esecuzione di cinque dei capi della rivolta, fra i quali Lombardo. Altre centinaia di rivoltosi vennero catturati e spediti in carcere a Catania, dove attesero tre anni prima di essere sottoposti a processo. Bixio scrisse alla moglie che quella era una «missione maledetta dove l’uomo della mia natura non dovrebbe mai essere destinato» (ivi, 17 agosto 1860, p. 387).
Gli eventi di Bronte fanno emergere il terzo problema connesso all’unificazione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Piemonte, vale a dire il diffuso e disgregante impatto della violenza politica e del malcontento che agitava i contadini. Come abbiamo visto, durante l’avanzata di Garibaldi verso Napoli, l’Italia meridionale fu percorsa da invasioni e occupazioni delle terre, reati rurali e rivolte contadine aperte. Le ragioni di questa violenza erano molteplici, ma la più importante era l’estrema povertà della popolazione, un problema causato dalla diseguale distribuzione della terra. Soprattutto nei latifondi cerealicoli della Sicilia e del continente, la terra era concentrata nelle mani di poche potenti famiglie, mentre i poveri rurali o non ne possedevano per niente oppure disponevano di minuscole proprietà, troppo piccole per essere commercialmente redditizie. Nonostante il governo borbonico avesse tentato di migliorare le condizioni dei contadini meridionali mediante una riforma agraria (con la redistribuzione di parte delle vaste tenute nobiliari e la divisione della terra comunale fra i contadini), questi provvedimenti erano in gran parte falliti e finirono per risultare controproducenti. È probabile, infatti, che la riforma agraria aumentasse il problema della fame di terra, in quanto alla fine gran parte degli appezzamenti divenuti disponibili venne acquistata da una piccola nobiltà di nuova formazione o da esponenti della classe media che spesso si rivelarono ancora più inclini allo sfruttamento dei loro predecessori aristocratici. Le disperate condizioni dei contadini meridionali vennero inoltre esacerbate anche dal rapido incremento demografico, che intensificò la pressione sulla terra.
Dal 1815 in poi, il problema della terra fu fonte di divisioni fra le comunità, creò povertà e miseria e coinvolse i contadini e i membri delle élites in una serie di conflitti reciproci, che si sovrapponevano a quelli rivolti contro le amministrazioni locali. L’aspra lotta per la terra dette anche impulso, rendendolo così più complicato, al mutamento di regime del 1860. Come suggerisce l’esempio di Bronte, il conflitto venne intensificato dal generale collasso dell’autorità politica e legale che si verificò durante quei mesi turbolenti. Anche le vane promesse fatte da ogni parte per l’emancipazione dei contadini non contribuirono certo a placare lo stato d’animo popolare.
Così, gli atti di violenza e le rappresaglie che ebbero luogo a Bronte nell’agosto del 1860 furono solo un segnale di quel che sarebbe avvenuto in seguito. Inoltre, come quegli stessi eventi dimostrano, le aggressive rivalità esistenti fra le élites significavano che la rivolta contadina non era l’unica forma di conflitto del periodo. La lotta fra fazioni, infatti, in cui le élites rivali si scontravano per il controllo del governo locale e l’attribuzione delle terre comuni, era secondo il generale Raffaele Cadorna il «grande guaio» della vita politica siciliana (Da Passano 1981, p. 102). E dopo l’Unità, nelle province siciliane la rivalità tra fazioni proruppe in violenza aperta.
La lotta per il controllo della Guardia nazionale nella città di Santa Margherita, ad esempio, raggiunse il culmine nel 1861, quando venne fatto saltare in aria il municipio e furono uccisi almeno tre uomini; mentre una faida di lunga data fra due famiglie fu ritenuta il motivo della rivolta su vasta scala scoppiata nel porto di Castellamare del Golfo nel 1862, durante la quale morì una decina di persone, furono distrutti l’archivio comunale e l’ufficio doganale e saccheggiate e date alle fiamme le abitazioni di alcuni notabili locali. A Racalmuto, nella parte meridionale della Sicilia, la famiglia Ferrauto, che dominava la località, decise di approfittare dello stato di agitazione politica del 1862 e di convincere varie bande criminali ad attaccare la famiglia Matrona, sua rivale. Ma gli eventi le sfuggirono di mano: scoppiò infatti una sommossa nel corso della quale vennero saccheggiati gli archivi municipali, il club dei nobili e le caserme dei carabinieri; le porte del carcere locale vennero aperte, e i detenuti si riversarono nelle campagne, venne assaltata la carrozza postale e ci furono scontri armati in piazza.
A queste complesse ed eterogenee forme di conflitto politico e sociale della realtà siciliana si andò ad aggiungere l’impatto della politica governativa. In particolare, dal 1861 in poi, l’introduzione di nuove imposte e della leva obbligatoria generarono un diffuso malcontento. La Sicilia, tradizionalmente, era stata esentata dal contribuire al servizio militare, e questo era un privilegio a cui la nobiltà e la popolazione in generale erano gelosamente attaccati (un precedente tentativo da parte del regime borbonico di introdurre la leva era stato uno dei fattori che portarono allo scoppio della rivoluzione isolana del 1820). L’amministrazione di Garibaldi aveva cercato di introdurre la coscrizione militare, ma era stata costretta a una parziale ritirata di fronte al malcontento e alla rabbia manifestati dai contadini siciliani verso la prospettiva di dover lasciare le proprie case.
Un destino simile era quello che attendeva la leva istituita dal nuovo Regno d’Italia. I disordini di Castellamare e di Racalmuto a cui si è fatto riferimento furono forse alimentati dalle lotte tra fazioni, ma entrambe le parti in campo facevano affidamento anche sul malcontento popolare per la leva allo scopo di fomentare la violenza. A quell’epoca, molte persone semplicemente ignoravano l’obbligo di arruolarsi: si stimava che all’inizio del 1863 in Sicilia circa 22.000 persone avessero respinto la chiamata alle armi, mettendo in grave crisi l’autorità del governo. Anche se queste cifre diminuirono negli anni immediatamente successivi, in gran parte in conseguenza delle campagne repressive attuate nell’entroterra dell’isola, la presenza di renitenti alla leva nelle campagne gonfiò le schiere di coloro che già erano attivi nelle bande armate – ex volontari dell’esercito garibaldino, persone che si sottraevano alla giustizia ed ex carcerati evasi – e ciò finì per mettere seriamente a rischio la sicurezza in molte province.
In confronto al Meridione continentale, in Sicilia il sostegno ai Borbone non fu forte, ma l’isola aveva i suoi specifici problemi politici. Se alcuni sostenitori di Garibaldi si «unirono» al nuovo regime, molti altri non lo fecero. Gli oppositori al nuovo Regno erano divisi fra un’opposizione legale guidata dall’avvocato Francesco Perroni Paladini (e da Crispi nel Parlamento nazionale) e un gruppo di cospiratori repubblicani che si avvantaggiarono dei ricorrenti problemi che incrinavano la legalità e l’ordine per organizzare una serie di agitazioni destinate a protrarsi per tutti gli anni Sessanta. In particolare, alcuni dei seguaci dell’esule mazziniano Pilo (che era rimasto ucciso in combattimento sopra Palermo nel maggio del 1860) cominciarono a mobilitarsi contro il governo. Le loro attività, che presero slancio nel 1862, mentre era in atto il tentativo di Garibaldi di marciare su Roma, conclusosi con lo scontro sull’Aspromonte, sono ancora coperte da un velo di mistero, ma sappiamo che il loro capo, Giovanni Corrao, fu in prima linea nella lotta contro la leva obbligatoria, e che nel 1863 tentò di organizzare una rivolta nel Palermitano. Corrao venne ucciso da ignoti quello stesso anno, mentre circolavano voci di un complotto fra la polizia, la mafia emergente ed esponenti dell’opposizione parlamentare (i documenti relativi a questo omicidio scomparvero misteriosamente dagli archivi governativi). Ciò nonostante, uno dei suoi compagni, Giuseppe Badia, assunse la guida del movimento repubblicano ed entro il 1865 riuscì a mettere in piedi un’ampia coalizione che si prefiggeva come unico scopo l’abbattimento del regime.
Dapprima Badia riallacciò i contatti con le cosiddette «squadre», quelle bande contadine che nel 1860 avevano aiutato Garibaldi, e così dotò il suo movimento di una milizia armata. Quindi strinse simultaneamente due alleanze, per quanto evidentemente contraddittorie nei loro obiettivi politici: da una parte con le organizzazioni socialiste e operaie, dall’altra con esponenti della nobiltà palermitana e della gerarchia cattolica che puntavano a una restaurazione della monarchia borbonica. Secondo il prefetto di Palermo Filippo Gualterio, fu Badia in persona che nel 1865 creò questa alleanza fra criminali, repubblicani e borbonici, un’«associazione a delinquere», la «cosidetta maffia», che a suo parere rappresentava una grande e crescente minaccia per lo «spirito pubblico» nella regione (cit. in Riall 2004, p. 210).
Gran parte di quello che sappiamo sulle attività di Badia deriva da fonti ufficiali, che assunsero un tono sempre più paranoico, e quindi non appaiono del tutto affidabili. Tuttavia è fuori discussione che, nonostante Badia venisse arrestato nel 1865, le sue manovre cospirative continuarono allo stesso ritmo di prima anche nel 1866. La sua organizzazione svolse un ruolo cruciale in un’importante rivolta scoppiata quell’anno, che rovesciò il municipio di Palermo in un momento in cui il grosso dell’esercito italiano era lontano dalla città perché impegnato nel combattere gli austriaci per la conquista del Veneto. È inoltre chiaro che i palermitani stavano prevalentemente dalla sua parte. La notte del 15 settembre 1866, varie bande armate invasero Palermo provenendo dalle campagne circostanti e furono accolte con grande entusiasmo dalla popolazione. Tutti i principali edifici pubblici vennero presi d’assalto e saccheggiati, le linee telegrafiche con il continente furono tagliate, i funzionari governativi (compresi il prefetto e il sindaco) furono costretti a fuggire per mettersi in salvo e a nascondersi dalla folla, e quelli che rimasero per strada furono attaccati e in alcuni casi uccisi. La prigione nella quale era rinchiuso Badia venne assaltata, a quanto pare nel tentativo di liberare lui e altri detenuti. Dalla città la rivolta si estese rapidamente nei territori della provincia, dove si verificarono alcuni orribili atti di violenza, tutti diretti contro funzionari del governo, e in particolare contro i carabinieri (i soli a essere rimasti fedeli al regime). Di fronte al totale cedimento del potere politico, il 18 settembre venne formato un nuovo governo provvisorio, composto da nobili e da autorità ecclesiastiche, il che sembrò indicare un ritorno al potere della vecchia élite borbonica.
La rivolta durò un’intera settimana, e quando finalmente dal Nord arrivarono i rinforzi militari, dovettero impegnarsi in giorni di sanguinosi combattimenti di strada per restaurare l’autorità governativa. Nelle province il ritorno all’ordine richiese ancor più tempo. All’epoca, il governo attribuì la causa della rivolta all’opera di un unico complotto, le cui origini risalivano addirittura al 1862, che si basava su una nefanda alleanza fra repubblicani, reazionari e preti, che avevano incoraggiato le tendenze anarchiche di una folla violenta. Ma se effettivamente i cospiratori di destra e di sinistra svolsero un ruolo nella rivolta, la verità, come abbiamo visto, era più scomoda.
Il diffuso malcontento popolare fu un fattore altrettanto importante per spiegare il crollo del governo nel 1866. Rivelatrice in tal senso è la circostanza che gli elementi più attivi durante la sommossa non erano certo equiparabili a una folla anarchica, bensì artigiani e bottegai, esponenti di quelle categorie che più avevano sofferto per la grave crisi economica che aveva colpito la città dopo l’Unità e che si prefiggevano un’articolata serie di obiettivi implicanti un cambiamento di regime. Per quanto si facesse, nessuno poteva nascondere il fatto che il governo fosse impopolare, Un politico locale descrisse l’«odio profondo contro questo governo straniero, e quel che è peggio, un disprezzo più profondo dell’odio». Lungi dall’apportare i benefici del buongoverno alla Sicilia, il nuovo regime veniva visto come «un governo di ladri, senza forza e senza energia» (Riall 2004, p. 240).
La rivolta palermitana del 1866 fu forse l’esempio più drammatico dell’incapacità dello Stato italiano di imporre la propria autorità nell’Italia meridionale, ma non fu certo l’unico. Nel continente i funzionari si trovarono di fronte a sfide altrettanto vigorose e persistenti, e se possibile ancora più estese, all’organizzazione del nuovo regime. Come abbiamo visto precedentemente, l’avanzata di Garibaldi verso Napoli nella tarda estate del 1860 fu segnata da episodi di agitazione filo-borbonica guidati da ufficiali dell’esercito e appoggiati dai contadini. Nel corso del 1861, la monarchia borbonica continuò a progettare la restaurazione del suo regime. Nel contesto di questa strategia, e spesso con l’aiuto della Chiesa, i Borbone incoraggiarono la formazione di bande armate capeggiate da ufficiali borbonici o papalini e composte da fuggitivi, renitenti alla leva e contadini senza terra, che misero in atto tattiche di guerriglia, attacchi a sorpresa, incursioni, rapine, rappresaglie e intimidazioni per sfidare e indebolire la già fragile autorità del nuovo governo nelle sue province periferiche.
Durante l’inverno del 1860-61 la rivolta contro il nuovo governo, basata su una potente miscela di reazione politica, malcontento contadino e attività di bande criminali, si estese e si moltiplicò in molte aree rurali del Sud. In Basilicata, importante centro di agitazioni contadine, nel 1861 vennero formate circa quaranta bande armate. La più famosa di esse era capeggiata dal bracciante Carmine Donatelli (detto Crocco), che in aprile riuscì a conquistare e a mantenere per diversi giorni il controllo delle città di Melfi e Venosa. Nel corso dell’estate, a lui si unì un gruppo di volontari spagnoli guidati dall’ufficiale carlista José Borjes, il quale arrivò in Calabria per tentare di organizzare fra i contadini un movimento controrivoluzionario. Insieme, i due sferrarono una grande offensiva contro il governo liberale, invadendo città e paesi e terrorizzando gli abitanti locali.
La violenza si diffuse anche in Campania, in Puglia, in Calabria, in Abruzzo e in Molise, e una persistente attività di guerriglia sui monti causò la quasi totale interruzione delle comunicazioni fra Napoli e le province adriatiche. Gli stessi sobborghi di Napoli erano «infestati» da briganti. Caserta fu per breve tempo invasa da una banda armata. Intanto, proliferavano anche gruppi più piccoli, spesso composti da giovani, che dall’autunno del 1861 modificarono la propria tattica: invece di invadere i territori e compiere rappresaglie, cominciarono a prendere di mira i possidenti locali e i funzionari governativi, uccidendo in modo indiscriminato o derubando chiunque esercitasse un potere e su cui potessero mettere le mani. In questo modo, il cosiddetto «grande brigantaggio» finì per esaurire rapidamente le proprie forze. La controrivoluzione borbonica perse vigore, e molti capi dei briganti, fra i quali lo stesso Borjes, furono catturati e giustiziati. Nonostante il terrore generato dalle loro tattiche, il movimento fu privo di una strategia unitaria. Esistevano reali differenze, infatti, fra i sogni politici di un uomo come Borjes, che combatteva per una restaurazione di stampo borbonico-clericale, e gli obiettivi a più breve termine di Crocco e dei suoi seguaci, che puntavano ai soldi e a ottenere un’amnistia come ricompensa per i loro sforzi. «Non vi sono che miserabili e scellerati a difendere Francesco II», scrisse lo spagnolo ai suoi compagni poco prima di essere giustiziato (cit. in Pedio 1983, p. 284).
I contemporanei, e dopo di loro intere generazioni di storici, si sono divisi quando si è trattato di definire il brigantaggio, fenomeno che coinvolgeva elementi di sinistra come di destra, e la cui composizione andava dai clericali reazionari ai criminali e ai contadini, ognuno dei quali con obiettivi e ambizioni proprie. Per Giuseppe Galasso, «l’insurrezione era, per un verso, indirizzata contro antiche e nuove oppressioni nobiliari e borghesi, ma si dirigeva, per la sua parte, anche contro antiche e nuove tradizioni di malgoverno, contro vecchie e nuove oppressioni fiscali e burocratiche» (Galasso 1983, p. 15). In verità, il brigantaggio aveva profonde e complesse radici nella società rurale del Mezzogiorno continentale, che risalivano fino alla prima età moderna, e il fenomeno aveva già avuto una grande ripresa all’epoca della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Se non altro, i briganti erano un sintomo dei problemi della società rurale meridionale e dell’incapacità delle istituzioni liberali di porvi radici.
Dopo i primi mesi, la guerra dei briganti sembrava diventata invincibile, e appariva come un movimento di protesta dei diseredati più che un atto controrivoluzionario. Ma il problema reale era che, una volta scatenatesi, queste forme di violenza esercitata dalle bande si rivelarono estremamente difficili da controllare e da sconfiggere. Il brigantaggio fu alimentato dagli stenti e dalla disperazione, dal sostegno accordatogli da contadini in miseria che avevano ben poco da perdere nella lotta, e da fuggiaschi che non avevano niente da guadagnare nel consegnarsi alle autorità. Esso fu anche un riflesso delle traumatiche circostanze dell’unificazione italiana: molti di coloro che organizzarono le bande erano ex soldati o uomini provenienti dalla milizia, giovani di umili condizioni che erano stati reclutati nell’esercito e nelle forze di polizia borbonici e vi avevano prestato un meritevole servizio, e che ora consideravano la fine della monarchia una «catastrofe» (Lupo 2002, p. 485). Di fronte alla prospettiva della fine delle loro carriere, dopo il 1860 fu facile per loro scivolare in una vita criminosa e mobilitare le loro energie, e con esse i contadini, contro il nuovo governo, lottando a favore del re e della Chiesa.
Così, dopo l’Unità, le basi sociali del brigantaggio non cessarono di esistere, e ciò significò che le bande armate nelle quali Francesco II aveva riposto le sue speranze restauratrici continuarono la loro attività ancora a lungo dopo che il re partì per mettersi (temporaneamente) al sicuro a Roma, a Palazzo Farnese. Come in Sicilia, inoltre, la crisi provocata nel 1862 dal tentativo di Garibaldi di marciare su Roma provocò un’intensificazione delle attività criminali e una ripresa delle agitazioni contadine. Nel corso di quell’anno, venne riferita la presenza di bande di briganti in zone precedentemente pacifiche, come Bari e Taranto, e ai comandi militari di Napoli giungevano ogni giorno dai 60 ai 100 rapporti su singoli atti di brigantaggio. Per tutto il triennio dal 1863 al 1865, lo Stato continuò a lottare per affermare il proprio monopolio della violenza nei suoi nuovi territori. Dopo di allora, il brigantaggio diminuì, anche se conobbe una ripresa durante la crisi economica del 1868, e le bande di briganti continuarono a operare fino al 1870 nelle zone di confine con lo Stato pontificio. Di fatto, il crimine rurale rimase allo stato endemico in alcune aree del Mezzogiorno per tutto il corso dell’Ottocento; senza dubbio, le sue cause non vennero risolte fino all’emigrazione contadina di massa degli ultimi anni del secolo.
È difficile negare che questa fase dell’unificazione italiana comportasse aspetti propri di una crudele guerra civile. Per combattere il brigantaggio nelle province meridionali fu necessario schierare una parte consistente dell’esercito italiano, e il conflitto provocò un numero di morti analogo a quello registrato nelle diverse guerre risorgimentali. Per il ministro delle Finanze Quintino Sella il brigantaggio non era niente di meno che «vera reazione, vera guerra civile», e come tutte le guerre civili, si rivelò estremamente brutale (Lupo 2002, p. 494). La risposta delle forze governative fu pari in violenza all’azione dei briganti; nel 1861 un generale scrisse a Cavour che «non si perd[esse] tempo a fare prigionieri». Assieme alle esecuzioni sommarie, i militari organizzarono spedizioni punitive contro le comunità sospettate di dare rifugio ai briganti (ivi, p. 470), presero ostaggi tra i familiari dei presunti briganti, incendiarono case e villaggi e, all’occasione, torturarono o uccisero i sospetti.
Questi atti di rappresaglia vennero rafforzati e legalizzati in conseguenza dei fatti dell’Aspromonte nel 1862. In tutto il Mezzogiorno continentale e in Sicilia venne proclamato lo stato d’assedio e alle forze armate furono attribuiti poteri speciali per procedere all’arresto dei sospetti di brigantaggio. Il generale Enrico Cialdini, a cui fu assegnato l’incarico di bloccare la spedizione di Garibaldi, emanò un decreto che stabiliva: «tutti coloro che saranno presi vaganti ed armati nelle campagne e nei villaggi senza che possano giustificare la loro presenza in quei luoghi saranno considerati e trattati come briganti», il che significava che sarebbero stati soggetti alla giurisdizione militare e potevano essere giustiziati sommariamente (Riall 2004, pp. 188-189). Nel 1863, dopo l’istituzione della commissione governativa d’inchiesta sul brigantaggio presieduta dal deputato pugliese Giuseppe Massari, il governo varò la legge Pica, che introduceva una legislazione d’emergenza per affrontare il fenomeno, prevedendo l’istituzione di tribunali militari e il ricorso a esecuzioni sommarie, restrizioni al diritto di riunione e al porto d’armi da fuoco, nonché misure di «domicilio coatto» nelle aree che venivano dichiarate in «stato di brigantaggio». A partire dall’agosto del 1863, in queste zone risultavano comprese tutte le province del Mezzogiorno continentale, il che significava che l’intero Sud era soggetto alla legge marziale. La stessa legislazione venne utilizzata per una serie di spietate campagne militari in Sicilia, e in particolare per quella del 1863 mirata a far applicare le norme sulla leva e per quella del 1865 contro la «maffia» di Palermo.
Molti dei provvedimenti della legge Pica acquisirono un carattere permanente con la nuova legislazione approvata nel 1865 e nel 1866, e furono utilizzati ancora una volta dopo la rivolta di Palermo del 1866 per effettuare arresti di massa e processare i detenuti in regime di legge marziale; inoltre, si fece ampiamente ricorso ai poteri d’emergenza per sciogliere le amministrazioni locali che erano considerate inaffidabili e da sottoporre al controllo di commissioni speciali. La legge Pica e l’uso di misure d’emergenza come la legge marziale e il domicilio coatto determinarono un’enorme espansione del potere esercitato dallo Stato sulla società italiana, un potere che venne mantenuto per molto tempo anche dopo che il fenomeno del brigantaggio si era attenuato. Non vi è dubbio che, come ha scritto Lupo «in quei primi anni Sessanta del XIX secolo, nel Sud il governo mostrò permanentemente un volto illiberale» (Lupo 2002, p. 472). Ancor più grave fu il fatto che queste misure, e lo schieramento dell’esercito per controllare l’agitazione contadina, non furono efficaci come si poteva pensare: nonostante il ricorso alla forza militare, il governo si rivelò più volte incapace di imporre la propria autorità, di sconfiggere i briganti, di applicare le leggi sulla leva e di riscuotere qualsiasi tipo di imposta.
I provvedimenti adottati in questi anni per controllare e governare il Sud risultarono anche estremamente impopolari, tanto da eclissare interamente gli sforzi messi in atto in quegli stessi anni per migliorare l’economia meridionale con investimenti nella costruzione di strade e di ferrovie, così come i continui tentativi di dare istruzione ai poveri e di introdurre la riforma agraria. Si stima che fra le migliaia di persone arrestate fra il 1863 e il 1865 circa i due terzi fossero contadini, e a queste azioni coercitive si aggiunse il fardello della leva e di una pesante esazione fiscale. Tutti questi problemi contribuirono a creare l’impressione che fra i governanti italiani e le classi più povere della società meridionale vi fosse un baratro.
L’azione militare nel Sud provocò anche una fiera polemica fra il governo e l’opposizione, che si svolse sulla stampa, in riunioni pubbliche e nel Parlamento nazionale, e la vicenda fu causa di notevole imbarazzo fra i governanti stranieri, in particolare quelli di Gran Bretagna e Francia, il cui sostegno politico ed economico era per il nuovo Stato italiano un fattore vitale. La legge Pica, inoltre, provocò grandi inquietudini all’interno dello stesso governo italiano; tali preoccupazioni furono particolarmente evidenti nel caso di Bettino Ricasoli, il quale, quando nel 1866 si trovò alla guida del paese, fece del suo meglio per alleggerire la repressione militare a Palermo, e resisté alle richieste dei suoi generali di ricorrere in modo più ampio alla pena di morte contro i capi della rivolta; vi erano comunque molti altri che nutrivano analoghe riserve riguardo alla politica del governo e alla legalità di alcuni suoi provvedimenti. In questo modo, la situazione in cui si trovava il Meridione contribuì alle divisioni che, a partire da metà degli anni Sessanta, emersero all’interno della Destra storica.
Allo stesso tempo, la guerra dei briganti nel Sud e la repressione politica attuata in Sicilia gettarono un’ombra lunga sul processo di unificazione italiana e sul Risorgimento che l’aveva preceduto. Come tutte le guerre di questo periodo, essa fu anche un evento mediatico. Giornalisti, soldati e (talvolta) briganti scrissero e pubblicarono sensazionali resoconti delle loro esperienze, mentre fotografi e artisti percorsero le zone di guerra per riprenderne le immagini, spesso raffiguranti briganti morti o catturati, e mostrarle ai lettori del Settentrione. Con questa loro opera, dettero vita a una triste e vergognosa memoria di quegli eventi, il cui effetto è perdurato in Italia fino ai nostri giorni.
Per molti aspetti sintomatica di quello che Galasso ha definito «l’urto fra quei due mondi così diversi […] che erano il Nord ed il Sud», (Galasso 1983, p. 12), la violenta imposizione del governo liberale nel Sud avvenuta dopo il 1860 rimane l’aspetto più controverso e contestato dell’unificazione nazionale. Ma oltre alle accuse e alle controaccuse che hanno caratterizzato il dibattito fin dall’epoca degli eventi, la reazione dominante che essi evocano è quella della disillusione, o di un senso di frustrazione per il fatto che i meravigliosi mesi della spedizione di Garibaldi dovessero lasciare il posto a un opprimente senso di sconfitta. Da questo punto di vista, il ricorso all’esercito fu una dimostrazione di debolezza, l’ammissione che il governo non era riuscito a creare nel Sud un consenso politico. Come scrisse nell’agosto del 1861 il moderato piemontese Massimo d’Azeglio, nel Mezzogiorno «ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuol saperne. […] so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principî. Bisogna sapere dai napoletani un’altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no» (cit. in Mack Smith 1999, p. 663).
Il Sud entrò a far parte del Regno d’Italia seguendo un percorso molto diverso da quello delle annessioni della Lombardia o degli Stati dell’Italia centrale al Piemonte. Nel Meridione, un esteso processo rivoluzionario portò alla grave crisi delle amministrazioni locali e alla parziale dissoluzione dello stesso governo centrale. La lotta politica che vi si sviluppò fu feroce e disgregante, e il grado di violenza sociale fu assai più elevato che altrove. Inoltre, il Sud non parlava con un’unica voce, la spedizione di Garibaldi fece scoppiare una guerra civile e i settentrionali erano del tutto impreparati ad affrontare la situazione che li aspettava. «Ecco in qual bolgia mi ha mandato», scrisse da Napoli nel 1861 a Cavour il segretario di Stato presso la luogotenenza Carignano, Costantino Nigra: «il clero nemico; i Garibaldini malcontenti, irritati, affamati […]; l’aristocrazia, avversa […]. [Il] popolo […] instabile, ozioso ed ignorante», «pochi carabinieri e poca forza nelle provincie. E un’amministrazione corrottissima da capo a fondo» (cit. ivi, pp. 658-659).
Tutte queste difficoltà indebolirono il processo di unificazione nazionale, e contribuiscono a spiegare per quale motivo l’unione fra il Nord e il Sud si rivelò un’esperienza così dura, violenta e sconcertante. Come suggeriscono i rilievi di Nigra, inoltre, tra i settentrionali molti espressero fin dall’inizio dubbi su quello che incontrarono nel Sud. Emilio Zasio, uno dei Mille, ricordò che nel maggio del 1860, quando arrivò a Marsala, vide «[i]l popolo sbigottito, ignaro, sorpreso dalla novità. A tutti suggerivansi, per entusiasmarli, evviva d’ogni genere, ma non un cenno, una risposta» (Zasio 1868, p. 34). Per Nievo, Marsala significò semplicemente «squallore e paura»; a suo parere, in Sicilia non c’era mai stata una vera rivoluzione, ma solo «qualche fermento nelle Squadre, qualche dimostrazione nelle città, poche rappresaglie e feroci dei regii», e la ragione di ciò era chiara: «I Siciliani son tutti femmine; hanno la passione del tumulto e della comparsa: e i disagi e i pericoli li trovano assai meno pronti delle parate e delle feste» (Nievo 1961, pp. 8, 17, 27). I meridionali erano vili, scrisse il giornalista lombardo Charles Arrivabene: «piace [loro] abbastanza stare a parlare, gridare e gesticolare, con l’accompagnamento di frutta succosa e acqua con ghiaccio; ma non amano molto l’azione decisa» (Arrivabene 1862, 2° vol., p. 70). «[I] Napoletani non hanno sangue nelle vene», confermava nell’agosto del 1860 Salvatore Pes marchese di Villamarina, inviato di Cavour (Moe 1992, p. 60).
Già dal 1861, mentre le difficoltà a cui si trovava di fronte il governo si intensificavano, l’influenza di questi stereotipi negativi si fece sentire con maggior forza. Prima descritti semplicemente come vigliacchi, caotici e inclini a passioni femminee, i meridionali apparivano ora più pericolosi: incivili, barbari e profondamente, perfino in senso razziale, diversi dagli italiani del Nord. I commenti di Luigi Carlo Farini, che guidò l’amministrazione meridionale a partire dall’ottobre del 1860, sono a tale riguardo emblematici: «Ma, amico mio [sta scrivendo a Cavour], che paese sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile. E quali e quanti misfatti!». Oppure, come scrisse un’altra corrispondente di Cavour, Lady Mary Holland, in un memorandum sulla condizione delle province meridionali: «Tutte le città di Napoli e Sicilia sono in uno stato di indecenza, quasi inferiore a quelle delle antiche tribù dell’Africa» (ivi, pp. 64-65).
Molte di queste idee sulla «indecenza» del Meridione derivavano dai concetti illuministici di ozio e corruzione, e in origine, nel Settecento, erano stati applicati indiscriminatamente dagli europei del Nord a tutti gli abitanti della penisola a sud delle Alpi. Dopo l’Unità, però, la frontiera con il Sud si spostò più verso l’Africa, e quegli stessi stereotipi vennero utilizzati solo per biasimare il mondo al di sotto di Napoli. Allo stesso tempo, la differenza del Meridione divenne emblematica dei mali dell’Italia, la causa di tutti i suoi problemi, una malattia che poteva nuocere alla nazione e infettarne l’organismo politico. Come la guerra dei briganti dopo il 1860 mise in pericolo il processo di integrazione nazionale, così il carattere meridionale sembrava minacciare la vita del nuovo paese: «[l]a fusione coi Napoletani mi fa paura», confessava d’Azeglio: «è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Napoli, temeva, era «un’ulcera che ci rode e che ci costa» (ivi, p. 68).
A sua volta, questo tipo di denuncia del Sud contribuiva a giustificare la presenza e l’intervento dell’esercito. Quel che occorreva a Napoli, scrisse nel 1861 un inviato piemontese, erano «truppe sparse ovunque e in grande quantità»; «truppa, truppa, truppa», scrisse dal Sud Pantaleoni: «Questo è un paese che non si tiene che con la forza o con il terrore della forza. Non è mai stato tenuto altrimenti» (ivi, pp. 85, 88-89). I meridionali erano corrotti, disonesti e violenti, non pronti per un governo liberale. Per Enrico Falconcini, nominato nel 1862 prefetto di Girgenti, «le novelle istituzioni già mirabilmente adatte alla civile educazione dell’Italiani delle provincie superiori del regno, per quelle delle inferiori apparivano premature e male adatte» (Falconcini 1863, p. 68). Mentre il generale Giuseppe Govone, convocato nel 1863 dal Parlamento per riferire sulle operazioni militari da lui dirette in Sicilia, disse ai deputati che le dure misure a cui era ricorso erano giustificate e inevitabili, in quanto la situazione nell’isola era da «medioevo»; ai suoi occhi, i siciliani languivano ancora in uno stato di primitiva barbarie ed erano incapaci di apprezzare i benefici della civiltà.
Fu così che il difficile incontro fra il Nord e il Sud negli anni successivi all’Unità generò una percezione della differenza tra le due realtà che assunse gradualmente il carattere di un fatto riconosciuto, fornendo una spiegazione per tutto quello che era andato storto in base a forti stereotipi negativi riguardo al carattere meridionale. Una tale lettura venne confermata dopo gli anni Settanta dell’Ottocento dalla progressiva scoperta del Sud da parte di intellettuali e studiosi sociali, e dalla loro richiesta di introdurre cambiamenti e riforme di vasta portata nel Mezzogiorno.
Nelle sue Lettere meridionali (1875), che è forse il testo fondativo del meridionalismo, Pasquale Villari individuava nella mancanza di mutamento sociale il vero problema del Sud, e in particolare condannava il comportamento della vecchia classe dirigente dei proprietari terrieri, che non aveva fatto altro che difendere i propri interessi, nonché l’incapacità della classe media di incarnare le aspirazioni della nuova nazione. Leopoldo Franchetti partì dalla Toscana per un viaggio nell’entroterra siciliano, riportando un vivido quadro dei complessi legami fra il potere politico e la mafia, e dell’avvento al potere di una categoria di persone che aveva un interesse personale a lasciare il sistema così com’era. Qualche anno dopo, Giustino Fortunato ruppe con le consuete rappresentazioni di un Sud pittoresco e ozioso, descrivendo invece gli svantaggi del clima, del suolo e della topografia, che ne impedivano la crescita economica. Seguendo i loro passi, generazioni di meridionalisti viaggiarono per le campagne siciliane, ricercando, osservando e tentando di risolvere il dilemma di quello che sempre più spesso veniva definito «il Mezzogiorno». Le loro analisi degli ostacoli allo sviluppo economico, le indagini sulle differenze di classe e sulla miseria, le denunce della corruzione politica, della mafia e del crimine organizzato aggiunsero elementi di enorme rilievo alla conoscenza dell’Italia meridionale. Dai loro studi nacque la cosiddetta «questione meridionale», vale a dire il tema dell’arretratezza economica, politica, sociale e culturale del Sud rispetto a un Nord più sviluppato.
Le inchieste e le pubblicazioni dei meridionalisti generarono un eccezionale corpus di opere scientifiche e letterarie, che all’epoca era quasi senza eguali in tutta Europa. Tuttavia, nonostante l’analiticità e la complessità degli studi che produssero, essi avevano tutti in comune l’idea di una società uniforme, dominata da un’unica realtà, immobilizzata dai suoi problemi e dal suo passato. Così, mentre i loro appelli per una riforma furono spesso o ampiamente ignorati, i loro sforzi per individuare una spiegazione andarono ad alimentare la prospettiva dominante che vedeva nel Sud un problema impenetrabile. In tal modo, la storia del Meridione nel periodo contemporaneo divenne una storia della questione meridionale, un racconto fatto di «barbarie», deficiente modernizzazione, corruzione politica e violenza sociale. I tentativi di comprendere i problemi del Sud ne trasformarono la storia in un ricorrente rendiconto di un fallimento, quella che Piero Bevilacqua ha definito «una sorta di non storia: la frustrante vicenda di ciò che essa non aveva potuto essere» (Bevilacqua 1992, p. viii).
È tuttavia opportuno ricordarsi che questi primi e complessi anni non dettero l’impronta a tutto quello che avvenne in seguito. Nonostante le autentiche difficoltà incontrate nel fondare un fattivo consenso nel Sud, l’Italia crebbe, cambiò e sopravvisse al suo travagliato decennio iniziale, e questa sopravvivenza meriterebbe forse maggiore considerazione. Potremmo perfino affermare che, considerato questo avvio così terribile, i governanti italiani riuscirono relativamente bene a contenere almeno alcuni dei problemi ai quali si trovarono di fronte nel Sud. Dopo le tremende crisi dei primi anni Sessanta, la situazione politica in gran parte delle campagne e delle città meridionali ritornò gradualmente alla normalità; il periodo della repressione militare e della legislazione eccezionale lasciò il posto negli anni Settanta a un maggiore pluralismo politico, e negli anni Ottanta a un costante, per quanto parziale, processo di democratizzazione. Nonostante i tassi di alfabetismo e gli investimenti in infrastrutture rimanessero bassi in relazione al Nord (di fatto nei primi quarant’anni unitari il divario in termini di alfabetizzazione fra le due parti della penisola aumentò), le scuole e le ferrovie cominciarono lentamente a estendersi nel Sud, apportandovi cambiamenti e miglioramenti.
Si deve poi ricordare che le statistiche economiche e sociali che considerano il Sud nel suo complesso possono risultare fuorvianti. Le aree industriali intorno a Napoli e quelle cerealicole delle campagne meridionali ebbero molto a soffrire in conseguenza dell’introduzione del liberismo commerciale dopo il 1860, ma alcuni settori economici, e in particolare quelli che producevano uva, olio d’oliva e agrumi, e quello dell’estrazione dello zolfo in Sicilia, ebbero un andamento positivo, almeno nei periodi di espansione economica globale. Se alcune regioni del Sud furono penalizzate economicamente dall’unificazione, altre, come certe zone della Puglia e la Sicilia orientale, entrambe le quali approfittarono dell’unificazione per darsi una nuova identità economica e politica, conobbero un periodo di sviluppo e di trasformazione. Il declino di Palermo fu un’opportunità per Catania, e gli investimenti nel settore ferroviario e nel porto portarono ricchezza in città, mentre le città portuali pugliesi (Bari, Brindisi, Taranto) vissero un simile, anche se talvolta difficile, processo di crescita e di adattamento grazie alla loro «liberazione» da Napoli, all’arrivo delle ferrovie e alla possibilità di commerciare con il Mediterraneo orientale.
In realtà, la mafia – un segno così potente e accettato della corruzione e dell’arretratezza meridionale – acquisì forza e visibilità non tanto nel latifondo (sebbene in quell’area la violenza fosse una caratteristica del controllo sociale), quanto piuttosto nelle nuove zone agricole a destinazione commerciale collegate ai mercati di agrumi della Sicilia occidentale. Ciò non significa che il Sud fosse privo di problemi, ma semmai che l’idea di un Mezzogiorno omogeneo, schiacciato dal peso della sua storia e privo di fermenti innovativi rischia, per riprendere le parole di Adrian Lyttelton, di «nascondere più di quanto riveli» (Lyttelton 1991, p. 15).
Anche il presupposto, implicito nella questione meridionale, di una regione segnata esclusivamente dalle difficoltà, può essere messo in discussione. Il brutale scontro fra il Nord e il Sud dopo il 1860 fu fonte di danni e di inquietudini, ma fu tutt’altro che insolito. Fenomeni analoghi alla violenta conquista dell’Italia meridionale si possono riscontrare nello stesso periodo in America del Nord e in America del Sud, in Russia, in Spagna e perfino in alcune parti della Francia e dell’Irlanda. Un po’ in tutta Europa, e anche nei centri che per primi sperimentarono il cambiamento economico, come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, le vecchie élites possidenti tanto denigrate da Villari nell’Italia del Sud sopravvissero e continuarono a occupare posizioni politiche di rilievo. Fuori dell’Italia meridionale, tutte le regioni cerealicole europee furono colpite duramente dalla lunga depressione economica che si aprì negli anni Settanta dell’Ottocento, e subirono un declino in conseguenza dell’importazione di granaglie a prezzo inferiore dalla Russia e dagli Stati Uniti. La corruzione politica e il crimine organizzato assunsero nel Meridione italiano forme specifiche, ma si trattava di fenomeni che non erano confinati a questa regione.
Tutte queste considerazioni sembrano indicare che dobbiamo rivolgere lo sguardo al di fuori dell’Italia, e forse a un periodo successivo a quello dell’unificazione nazionale, per individuare almeno alcune delle cause dei problemi che hanno afflitto la parte meridionale del paese. Prodotti come i cereali e gli agrumi, ad esempio, sono particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni dei mercati mondiali, e rendono queste aree dell’economia meridionale fragile, in un modo che non era sempre immediatamente ovvio agli occhi degli imprenditori del Nord. Il Sud aveva problemi ambientali enormi e a lungo termine, collegati all’acqua, all’erosione dei suoli e alla sovrappopolazione, che solo adesso gli storici stanno cominciando a prendere in seria considerazione. La posizione della regione, alla periferia politica ed economica dei mercati mondiali e dei luoghi in cui si prendevano le grandi decisioni diplomatiche, sia prima che dopo l’Unità, rappresentò un notevole svantaggio. Senza dubbio la vera crisi dell’agricoltura meridionale arrivò non con l’unificazione, ma con la depressione economica globale dell’ultima parte del secolo. La mafia può avere le sue radici in alcuni aspetti tradizionali della società siciliana, ma la sua versione contemporanea e la sua importanza risalgono agli anni Cinquanta del Novecento, e non al primo decennio postunitario.
Per questa serie di ragioni, piuttosto che concentrarsi sull’arretratezza e sul mancato cambiamento, sarebbe più utile guardare alla storia del Sud come a un processo complesso e aperto. Potremmo anche scegliere di considerare l’impatto dell’unificazione nazionale sul Meridione non tanto come un trionfo o un disastro, quanto piuttosto come un esempio peculiare e affascinante, anche se spesso faticoso, delle molteplici e varie strade che conducono al mondo contemporaneo.
(Traduzione di David Scaffei)
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