Il titulus di Costantino
Tra conciliarismo, umanesimo e iconografia
Mai come nella prima metà del Quattrocento la scissione della Prima e della Seconda Roma, avvenuta dieci secoli prima con Costantino, e di lì del soglio di Pietro dal trono dei Cesari, era diventata un problema così grande per il papa di Roma. In quel frangente storico l’autorità papale romana, screditata all’interno dal malcostume politico della curia, minata dal moltiplicarsi di antipapi e di gerarchie alternative, aveva ormai il suo vero sfidante esterno non più nell’Oriente greco-ortodosso ma nel partito conciliarista dell’Occidente europeo. Un’ampia ala della Chiesa, specialmente tedesca e francese, contraria alla dottrina dell’assoluta potestà papale, attribuiva il potere supremo e la delega alla riforma a un’assemblea ecumenica permanente e itinerante dall’una all’altra sede, che veniva convocata dai capi di Stato laici anche senza l’avallo del pontefice. Esattamente un secolo dopo il giorno d’autunno del 1417 in cui Martino V fu eletto unico pontefice di tutta la Chiesa nel Kaufhaus di Costanza, Lutero avrebbe affisso le sue novantacinque tesi al portale della chiesa del castello di Wittenberg. Ma questo scenario, alla metà del Quattrocento, non era ancora immaginabile. Alla metà del Quattrocento, per un breve ma fervido periodo, la parte più illuminata del papato, favorevole ai greci e consigliata dal loro rappresentante politico-culturale nella curia di Roma, il ‘cardinale orientale’ Bessarione, pensò che quella scissione avvenuta dieci secoli prima potesse ricomporsi, e di poter risolvere con un’unica magistrale mossa sullo scacchiere internazionale i propri problemi esterni e interni.
A fare da ago della bilancia tra il partito conciliarista e la possibilità di una nuova, unificata e rinsaldata autorità papale era in effetti proprio l’antica antagonista confessionale, Bisanzio1. L’attività diplomatica dei bizantini durante il concilio di Costanza e quello di Basilea, e poi in quella sua continuazione effettiva che fu il concilio d’Unione di Ferrara-Firenze del 1437-1439, servì non solo all’elezione di Martino V, ma anche a delineare per lui e per i suoi successori una piattaforma di governo ecclesiastico.
Dopo il 1453 la caduta di Costantinopoli rese vacante molto di più che il fragile trono di un regno microasiatico-balcanico ormai quasi completamente eroso dalla plurisecolare invasione turcomanna. Mise in palio, per gli occidentali, il titolo di imperatore dei romani, che era requisito essenziale per la rivendicazione della titolarità di ogni vero impero ‘romano’ nell’Europa medievale e protomoderna, e che, sebbene insidiato o usurpato dai turchi, apparteneva ancora ai basileis bizantini: un titolo passato per via diretta da Roma a Costantinopoli, trasferito laggiù da quello stesso Costantino sulla cui favoleggiata donazione, e dunque sulla liceità per il papato di costituirsi in dominio temporale, le discussioni, proprio in quel tempo, non mancavano, e si saldavano agli interessi politici dei nascenti Stati di cui si faceva portatore il nuovo pensiero laico umanistico.
Era stato nel 1440, un anno dopo il concludersi della maratona conciliare a Firenze con la ratifica del Decreto d’Unione tra Chiesa cattolica e ortodossa, che Lorenzo Valla aveva composto la sua De falso credita et ementita Constantini donatione («La donazione di Costantino contraffatta e falsamente ritenuta vera»). Come i conciliaristi, Valla imperniava la polemica della sua declamatio sulla corruzione della Chiesa, che, argomentava, aveva abbandonato il suo originario impegno spirituale, contaminandosi con i vizi della politica. In realtà la confutazione dell’atto di donazione rispondeva a precise esigenze tattiche del nuovo scacchiere italiano2. Anche per questo, mai come nella prima metà del Quattrocento la scissione del soglio del primo apostolo dal trono del primo imperatore cristiano era diventata per il papa romano un problema così grande.
Alla fine degli anni Dieci del Quattrocento, dopo il concilio di Costanza, un patto confessionale-matrimoniale fra papa Martino V Colonna e il basileus Manuele II Paleologo sancì l’avvicinamento dell’ultima corte bizantina ad alcune importanti famiglie dell’aristocrazia italiana del XV secolo. Queste diverranno fiancheggiatrici del progetto politico di un ‘salvataggio occidentale di Bisanzio’, che segnerà i due decenni precedenti e successivi alla caduta di Costantinopoli e avrà lo scopo di reintegrare nell’orbita d’influenza papale il lascito ereditario dei Cesari bizantini3.
Ma l’idea di una rifondazione della basileia di Costantino, di un ‘trapianto’ del titulus di Costantino nell’area d’influenza dell’Occidente e di un suo ricongiungimento con il carisma di Pietro andò rafforzandosi e precisandosi ben oltre la morte di Martino V: in primo luogo dopo l’‘unione in effigie’ di Ferrara-Firenze del 1438-1439, sotto il suo successore Eugenio IV, e ancora più dopo l’esito catastrofico della crociata promessa in cambio dal vis-à-vis stesso di Bessarione a quel concilio, il cardinale Giuliano Cesarini: la cosiddetta crociata di Varna, che effettivamente partì nel 1443, ma si concluse l’anno dopo con una delle massime carneficine della storia. Il prezzo politico che l’Occidente pagò per l’unione di Firenze divenne, inaspettatamente, un prezzo umano altissimo: un’intera generazione di capi fu letteralmente spazzata via4, e per i decenni a venire in Occidente non si parlò più di una crociata a Costantinopoli.
Fu negli anni immediatamente successivi che cominciò a essere prospettato lo spostamento dell’obiettivo, allora, da Costantinopoli alla Morea, all’interno di una curia romana in cui spiccavano due cardinali bizantini: Isidoro di Kiev, fra l’altro nato proprio nel Peloponneso, e soprattutto, ancora, Bessarione, che proprio dal basileus Manuele II Paleologo era stato iniziato, giovanissimo, alla diplomazia, e di cui era stato il pupillo5. Il piano di salvataggio occidentale di Bisanzio, che aveva avuto origine all’inizio del Quattrocento a Costanza, sarebbe stato perseguito nei decenni centrali del secolo in tutta la sua complessità, intrecciando coesistenza religiosa e concertazione politica al patto tra la famiglia imperiale greca e le grandi famiglie italiane, che ulteriori strategiche parentele avrebbero progressivamente cointeressato al titolo imperiale di Costantino, detenuto dai Paleologhi.
Nel decennio ancora successivo, dopo la definitiva espugnazione turca di Costantinopoli, nel disegno di riaffermazione dell’autorità papale che culminerà nel pontificato di Enea Silvio Piccolomini – esponente, in gioventù, del partito conciliarista, e presente al concilio di Basilea – rientrò in maniera essenziale una nuova percezione del titulus di Costantino. Il lavorio diplomatico e il progetto strategico del salvataggio occidentale di Bisanzio, nei due decenni seguenti la caduta di Costantinopoli, avevano e avrebbero avuto il preciso scopo di reintegrare nell’orbita d’influenza papale la titolarità ereditaria dei Cesari bizantini, trasferita da Costantino in Oriente e mai estinta. La cattedra della sede di Pietro e lo scettro della cristianità orientale si sarebbero dovuti riunire simbolicamente in una ‘Nuova Bisanzio’, che avrebbe avuto la sua base a Roma e la sua testa di ponte a Mistrà.
La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state colte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo ed Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo. Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Una lunga scia iconografica, che ha la sua espressione più emblematica e nota negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e nella sua Flagellazione, ma che è ben più diffusa e diversificata e si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica6, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei Cesari della Seconda Roma.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’Impero che si era affermata durante il suo revival umanistico.
Sul palcoscenico di Costanza passarono e si incrociarono per la prima volta i più anziani tra i protagonisti di quel piano di salvataggio occidentale di Bisanzio, che prevedeva la fusione del titolo di Costantino con la potestà papale e all’interno dei cui estremi temporali si collocano sia la rinnovata popolarità e significativa diffusione anche pittorica della figura di Costantino, sia una ‘torsione’ ideologica dell’interpretazione occidentale della sua eredità politico-giuridica.
A Costanza l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo era stato invitato personalmente dal diretto promotore del concilio, Sigismondo del Lussemburgo, re d’Ungheria, di Germania e di Boemia e futuro sacro romano imperatore7, con la promessa di indire una grande crociata antiturca se lo Scisma d’Occidente fosse stato composto. Statista illuminato e razionale come pochi altri, Manuele II aveva fin dal suo accesso al trono improntato la politica estera dell’ultima Bisanzio a una tattica difensiva fondata principalmente sulle relazioni diplomatiche. Fu nella sua politica che ebbero nobile e diretta radice l’opzione filoccidentale alla corte dei Paleologhi e quel compromesso strategico dell’ultima corte di Bisanzio con l’Occidente che vedrà il suo progressivo avvicinamento all’aristocrazia italiana del XV secolo.
La piattaforma del concilio di Costanza era, esplicitamente, «sanare lo scisma occidentale per poi chiudere quello orientale»8. Di fatto, sia il papa sia i conciliaristi usavano la questione bizantina l’uno contro l’altro, come strumento di propaganda: l’Unione delle Chiese, come è stato scritto, «era piuttosto la causa apparente che la vera»: il papa desiderava sanare lo Scisma d’Oriente per riportare un successo contro i conciliaristi di Basilea, «i quali a loro volta per la stessa ragione avrebbero voluto attribuirsene il merito; l’imperatore greco se ne serviva sperando di ottenere aiuti contro i turchi che minacciavano la distruzione completa del suo Impero»9.
A Costanza ebbero luogo quelli che Laurent definisce «les préliminaires diplomatiques» del concilio di Ferrara-Firenze. Li conosciamo a fondo grazie al II e al III libro delle Memorie di Siropulo, che fornisce un elenco esaustivo dei suoi protagonisti greci10. La rappresentanza diplomatica ufficiale bizantina era stata scelta accuratamente ed era di altissimo livello11. Da Bisanzio erano giunte inoltre delegazioni ‘spontanee’ o idioritmiche, capeggiate da intellettuali come i due Eudaimonoiannis12 o Giovanni Bladintero e appoggiate dall’oratoria dell’ambiguo Andrea Crisoberge, «un bizantino educato a Costantinopoli e nutrito di sapienza ellenica, passato in un momento di furore ai latini»13. L’apertura di Martino V verso la dinastia paleologa era stata ispirata d’altronde anche dalla mediazione di Nicola Eudaimonoiannis, che si era recato personalmente a Roma per trattare con lui14.
Nel 1417, nel Münster di Costanza, l’elezione di Martino V a unico pontefice non avrebbe avuto luogo senza il decisivo appoggio della delegazione bizantina15, e fu grazie ai bizantini che il concilio di Costanza interruppe lo Scisma d’Occidente. Il debito da pagare, da parte del nuovo papa anzitutto, doveva dunque essere saldato sanando quello d’Oriente. Da qualunque lato si guardasse la situazione di Bisanzio, appariva chiaro che il nodo da sciogliere era quello dei rapporti tra le Chiese. Il problema dello Scisma tra ortodossi e cattolici si trascinava da quattro secoli: un braccio di ferro che aveva indebolito e continuava a indebolire l’Impero. Alcuni predecessori di Manuele II avevano cercato di comporre lo scontro confessionale con il papato: per esempio Michele VIII Paleologo, un secolo e mezzo prima, al concilio di Lione del 1274. Ma quei tentativi erano falliti.
Il papa Colonna espresse la sua gratitudine al basileus bizantino inaugurando una politica di alleanze matrimoniali e interconfessionali tra il soglio di Pietro e il trono di Costantino. Il patto dinastico riguardava i sei principi Paleologhi designati alla successione dell’imperatore Manuele II. L’8 aprile 1418 il pontefice spedì loro una lettera in cui li autorizzava a sposare delle «principesse» cattoliche16. Poco dopo, in estate, il primogenito Giovanni fu richiamato da Mistrà a Costantinopoli17. La figlia adolescente del granduca di Mosca, che il padre gli aveva fatto prendere in moglie quattro anni prima, era improvvisamente e opportunamente morta: di peste, secondo le fonti ufficiali18. Al momento della morte Anna di Mosca aveva solo quindici anni, le nozze non erano state consumate, Giovanni era libero da vincoli e Manuele di scegliergli una seconda sposa: occidentale, appunto secondo i patti stretti col papa di Roma grazie al concilio di Costanza. La scelta del basileus era caduta su Sofia di Monferrato19.
La sposa di Teodoro II, il secondogenito di Manuele, allora despota di Mistrà, era stata individuata, invece, personalmente da Martino V20. Si trattava di Cleopa Malatesta. Anche se giovanissima, il papa la considerava persona degna di fiducia, quasi una sua emissaria21. Nella lettera in cui concedeva ai fratelli Paleologhi di sposare aristocratiche latine aveva indicato una condizione: che ne fosse rispettata la fede di origine. All’epoca si prevedeva l’ascesa di Teodoro II al trono di Costantinopoli dopo quello di Mistrà, in base al principio della progressione e rotazione tra fratelli stabilito dal padre Manuele: alla morte o all’abdicazione di Giovanni VIII, il titolo di basileus sarebbe dovuto passare all’erede immediatamente successivo in linea dinastica, appunto Teodoro. La circostanza in realtà non si sarebbe realizzata, perché lo scettro andò direttamente, e non senza contestazioni, al volitivo Costantino XI, che sarebbe stato l’ultimo imperatore di Bisanzio. Ma questo non era, nel 1420, prevedibile. Era invece di cruciale significato politico che a ereditare la suprema dignità di basilissa di Bisanzio, e dunque a raccogliere l’eredità del titolo di Costantino, venisse destinata un’aristocratica occidentale di confessione solidamente cattolica e personalmente legata al papa di Roma22.
Cleopa era figlia di Carlo Malatesta, anche lui presente a Costanza. Tra le più rilevanti personalità politiche e tra i principali sostenitori del concilio, Carlo in realtà vi aveva appoggiato, insieme a Venezia, non Martino V ma papa Gregorio XII, un Correr. Sarebbe stato suo nipote, Gabriele Condulmer, salito al soglio col nome di Eugenio IV, a capeggiare il concilio di Ferrara-Firenze, che insieme a quello di Basilea avrebbe proseguito quello di Costanza, nella nuova formula di governo per così dire federale della cristianità ecumenica, di cui la cogestione della crociata antiturca fra la curia pontificia, il concilio stesso e i sovrani laici avrebbe dovuto essere il banco di prova.
Al termine della grande e movimentata prima assise di Costanza, i conciliaristi, secondo quanto sancito dal decreto Frequens, stabilirono di riunirsi ogni sette anni. Il primo appuntamento fu a Siena, il secondo, ancora più radicale nel contestare il papa di Roma, a Basilea. La riunione di Basilea fu una delle ultime tappe del grande concilio itinerante che, nell’oscillare fra tendenza decentratrice e vocazione accentratrice, segnò il riassestarsi della bilancia verso la seconda.
L’assise successiva andava tenuta in una città italiana, come aveva già deciso Eugenio IV, facendo in modo che i bizantini rifiutassero di andare di nuovo a Basilea. E il suo rappresentante presso l’assemblea dei conciliaristi, il cardinale Giuliano Cesarini, nel discorso di accoglienza rivolto nel giugno del 1434 agli ambasciatori greci lo aveva ulteriormente precisato23.
Niccolò d’Este, il signore di Ferrara, era amico personale di Eugenio IV24 e parteggiava per lui nella disputa che lo opponeva ai padri conciliari di Basilea. Questi ultimi, come già a Costanza, avevano visto nella prospettata Unione delle Chiese un ottimo strumento per far prevalere le tesi conciliaristiche su quelle monarchico-pontificie, e avevano tentato di imporre la loro autorità ai bizantini inviando a Costantinopoli come loro rappresentanti Giovanni di Ragusa, Henri Menger e Simon Fréron nell’autunno del 143525. Nella contesa tra le due fazioni in cui si era scissa la Chiesa d’Occidente prima della Riforma i bizantini facevano, come si è detto, da ago della bilancia: l’alleanza con i detentori del primo e originario titolo di imperatore dei romani era strategica per entrambe le parti in causa.
Nella bolla Doctoris gentium del 18 settembre 1437, rispondendo al Monitorium del luglio precedente, e cioè al definitivo atto di rottura della maggioranza conciliare contro di lui, il papa denunciò l’infecondità e l’immobilismo dell’assise di Basilea e ne decretò il trasferimento nella città di Ferrara proprio in quanto – sottolineava – «luogo gradito ai greci»26. Ferrara era una delle sedi su cui i bizantini si erano già pronunciati favorevolmente, perché era ben collegata al mare grazie al delta del Po e garantiva tranquillità, sicurezza, abbondanza di alloggi e di viveri, oltre all’appoggio delle navi dei veneziani e dell’oro dei fiorentini. In effetti, come avrebbe notato Enea Silvio Piccolomini, i greci erano «poveri, e molto abili nel mendicare»27.
Quello stesso autunno Niccolò III d’Este inviò a Venezia un documento con le condizioni e i vantaggi di cui gli ospiti bizantini avrebbero goduto presso di lui. Niccolò d’Este e la sua famiglia erano imparentati con i Malatesta. Sia Cleopa sia Sigismondo Pandolfo Malatesta erano cugini primi di Niccolò d’Este, che aveva sposato in seconde nozze, nel 1418, Laura Malatesta, anche lei figlia adottiva di Carlo Malatesta28. Grazie a quel matrimonio il padrone di casa del concilio in cui si sarebbe dovuta concludere la ventennale maratona ecclesiastica cominciata a Costanza si trovava a essere sia pur indirettamente legato alla dinastia imperiale bizantina, e in particolare al basileus allora sul trono, Giovanni VIII, che sarebbe arrivato nella primavera del 1438 nella sua città.
Tutti i principi Paleologhi figli di Manuele II potevano in effetti considerarsi cognati di Cleopa Malatesta. La sua morte precoce e oscura, nel 1433, con il figlio che portava in grembo, forse ordita dal partito antilatino della corte bizantina – con la possibile complicità di fazioni della stessa curia romana – allo scopo di scongiurare la nascita di un erede maschio, aveva impedito che si istituisse quella linea immediata di successione al trono di Bisanzio, e dunque quel diretto legame dinastico tra il papa e i regnanti eredi del titolo di Costantino, che il progetto politico di Manuele II, condiviso da Martino V, prevedeva.
Il ricordo della dèspina italiana di Mistrà, scomparsa da cinque anni, nell’assise di Ferrara rimase ben vivo. Anche perché restava il fatto che l’innesto dell’aristocrazia italiana nella genealogia dei Paleologhi si era compiuto. Cleopa e suo fratello Pandolfo, il gobbo e sfortunato vescovo di Patrasso29, figuravano aeque atque principaliter nell’albero genealogico delle più importanti famiglie italiane. E ciò significava, per quelle famiglie, poter vantare una cointeressenza diretta al titolo imperiale di Bisanzio30.
Già Manuele II, all’inizio della sua azione diplomatica in Europa, era stato raffigurato con i tratti di Costantino e gli emblemi della regalità bizantina propri della teorizzazione di età costantiniana. In occasione della sua visita al re di Francia, allo scoccare del secolo, al basileus erano stati conferiti dagli occidentali gli attributi originari e tipici dell’autorità imperiale romano-bizantina enunciata dalle Laudes Constantini di Eusebio e dai Capitoli parenetici dello Pseudo-Agapeto. Quel primo ‘avvento’ bizantino nell’Occidente quattrocentesco aveva lasciato una traccia iconografica ideologicamente saliente nelle due medaglie in oro dei fratelli Limbourg – raffiguranti l’una Costantino il Grande a cavallo e l’altra il volto di Eraclio sul recto, con sofisticate allegorie sul verso – le cui copie bronzee sono conservate oggi a Parigi; e in quel capolavoro che sono Les très riches heures du Duc de Berry, il manoscritto miniato dagli stessi Limbourg e oggi conservato al Musée Condé di Chantilly.
Qui Manuele compare più volte: come primo imperatore, depositario del titolo dei Cesari, ma anche come vegliardo che guida il Carro del Sole nelle lunette astrologiche dei calendari dei mesi che illustrano i primi dodici fogli del manoscritto. Per esplicita commissione della casa reale di Francia, Manuele Paleologo è perciò raffigurato come un vero e proprio Sole-Re o Re-Sole: gli è attribuita la qualifica ‘solare’ riservata al basileus dalla dottrina politica protobizantina, che negli stessi anni proprio a Manuele II è esplicitamente riaccreditata negli scritti greci del giovanissimo Bessarione31.
È opinione diffusa degli storici dell’arte che le due medaglie acquistate nel 1402 da Jean de Berry, nella loro ripresa ‘bizzarra’ – in realtà bizantina – dell’antico, abbiano preparato la reinvenzione della medaglia onoraria classica attuata da un grande pittore italiano, Pisanello, trent’anni più tardi. In ogni caso gli schizzi in cui, durante il viaggio della delegazione che guidò nel giugno del 1400 a Parigi, Manuele Paleologo era stato ritratto dai fratelli Limbourg debbono considerarsi analoghi, per motivazione e destinazione, a quelli che nell’agosto del 1438 Pisanello avrebbe eseguito per il basileus suo figlio, Giovanni VIII32. Entrambe le raffigurazioni si sarebbero da un lato impresse su una medaglia ufficiale, e con ciò indelebilmente nella memoria storica, dall’altro si sarebbero ramificate e avrebbero fruttificato in squisite committenze pittoriche33.
A Ferrara, nell’agosto del 143834, Pisanello rappresentò con caratteristiche e simboli ancora più ideologicamente e politicamente pregnanti il figlio primogenito di Manuele, il primo degli eredi del titolo di Costantino cui era stata data, dopo il concilio di Costanza, una sposa cattolica, e che si era non senza riluttanza posto alla guida della delegazione bizantina al concilio dove si sarebbe prodotta l’effettiva ancorché effimera riunione delle Chiese. Fu nel trasferimento a Firenze dell’assise di Ferrara che fu presentata al pubblico quella che possiamo considerare la prima vera e propria ridefinizione visiva dell’immagine di Costantino, quel transfert fra il primo imperatore cristiano e i suoi ultimi eredi quattrocenteschi che portò alla sua identificazione iconografica con gli esponenti della dinastia regnante paleologa attraverso i quali si auspicava il ritorno del titolo costantinano in Occidente.
Pisanello era da sempre attento al mondo bizantino, e quello ferrarese dell’agosto del 1438 non era stato, probabilmente, il suo primo incontro con Giovanni VIII35. Che l’incarico di ritrarre Giovanni VIII e almeno un altro membro del suo seguito fosse stato dato al già noto artista dallo stesso basileus o da una tra le figure emergenti del suo seguito, come Bessarione36, sta di fatto che la celebre medaglia coniata da Pisanello tra l’estate del 1438 e l’inverno del 143937 è ben più significativa, nella raffigurazione personale e nell’intero programma iconografico38, dei pur ideologicamente sintomatici e storicamente inestimabili disegni preparatori che se ne conservano all’Art Institute di Chicago e al Cabinet des Dessins del Louvre, provenienti dal codice Vallardi39.
Nella medaglia pisanelliana Giovanni VIII, pur rappresentato nei suoi effettivi panni storici40, appare effigiato secondo la tipologia degli imperatori romani. Sul recto, intorno al profilo, certamente basato sul cartone Inv. 2478 del Louvre41, è incisa una scritta, forse suggerita da Bessarione, che può suonare rivendicativa di una superiorità sul mondo occidentale42. Il colpo d’occhio del recto sembra dunque comunicare, come è stato spesso sottolineato, un’affermazione del diritto all’eredità imperiale in contrapposizione all’imperatore d’Occidente, che Pisanello aveva ritratto nel 1432, non sappiamo se per realizzare una medaglia, che in ogni caso non ci è giunta.
Nel più complesso programma iconografico del verso è inserito un elemento simbolico di segno apparentemente opposto. Contro lo sfondo di un paesaggio roccioso, il basileus a cavallo, equipaggiato per la caccia, con le stesse caratteristiche del cartone MI 1062 del Cabinet des Dessins43, è fermo davanti a una croce il cui supporto, come ha recentemente mostrato Luigi Beschi, è un obelisco, probabile allusione a quello oggi al centro di piazza San Pietro e all’epoca a fianco della basilica, simbolo dunque della cristianità d’Occidente e dell’autorità del papa. L’emblema dell’obelisco, nel linguaggio simbolico e araldico proprio della medaglistica, allude in effetti in modo specifico al potere papale44. La medaglia originale sarebbe stata allora prodotta secondo Beschi non a Firenze ma già a Ferrara45, e il senso della scena raffigurata nel suo verso, già definito «oscuro» dagli studiosi46, andrebbe letto come un segno di favore dell’imperatore nei confronti della Chiesa di Roma.
Possiamo affermare quindi che il ricongiungimento tra la potestà ecclesiale del soglio di Pietro e il titolo imperiale di Costantino sia già attuato, in effigie, nella medaglia di Pisanello, forse ideata da Bessarione, che nel suo recto e verso stringe, letteralmente, le due facce della questione.
Da questa prima icona-tipo si diramerà la scia pittorica i cui esempi più noti sono le già citate raffigurazioni di Piero della Francesca, che identificheranno senz’altro, per converso e a riprova di quel transfert, Costantino il Grande nei tratti di Giovanni VIII Paleologo e/o dell’ultimo eroico Costantino di Bisanzio, suo fratello Costantino XI Paleologo47.
Dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, il progetto di un ‘salvataggio occidentale di Bisanzio’ e con ciò di un recupero del titolo di Costantino trovò, come si è anticipato, il più motivato oltreché spregiudicato degli sponsor nel grande umanista, già segretario dell’imperatore Federico III, che nel 1458 era diventato avventurosamente papa sotto il nome di Pio II. Il nuovo e volitivo pontefice mirava a una posta altissima: superare con una sola mossa i due massimi problemi della politica medievale – a chi andasse tra i sovrani europei l’eredità giuridica del titolo imperiale romano, su quale base si fondasse il potere temporale dei papi – riunendo la sovranità della prima e della Seconda Roma in un’unica entità di diritto, la cui costituzione veniva data per certa.
Secondo gli intenti dichiarati dai documenti pubblici e dagli scritti privati di Enea Silvio, la rifondata basileia avrebbe avuto il suo centro ideale nella sede di Pietro e il suo avamposto strategico nel Peloponneso, funzionale ai disegni politici e dinastici, economici e confessionali dei potentati coinvolti così come agli specifici interessi economici dei banchieri del papa, i veneziani. Per i quali in effetti la caduta di Costantinopoli non fu significativa, anzi poté apparire quasi utile, ma che sarebbero stati danneggiati irreparabilmente dalla perdita dei presìdi in Morea48. A riconquistare la Morea, non più certo Costantinopoli, mirava la crociata dei principi cristiani contro l’islam, il cui progetto fu finalmente esplicitato ai vertici internazionali dal papa e dai suoi consiglieri politici nella conferenza di Mantova del 145949, e che fu poi effettivamente condotta, anche se in tono minore, sotto l’egida di Venezia e con poca fortuna, tra il 1464 e il 1466 da Sigismondo Pandolfo Malatesta, il fratello adottivo e cugino carnale di Cleopa, la sposa occidentale di Teodoro II Paleologo, la defunta dèspina di Morea.
L’obiettivo di Pio II era dislocare l’eredità giuridica dei Cesari, trasferita mille anni prima sull’istmo tra Asia ed Europa ormai saldamente presidiato dal sultano turco, in un àmbito territoriale più vicino, ridotto e controllabile, incastonandola in una struttura statale rinnovata, gestita e garantita dalle potenze occidentali. La Morea avrebbe avuto una funzione di difesa degli interessi mediterranei almeno pari a quella assunta poi da Cipro e infine da Malta. Il suo sovrano sarebbe stato Tommaso Paleologo, il fratello minore di Giovanni VIII e di Costantino XI, l’ultimo degli eredi Paleologhi al titolo di Costantino, che di lì a poco Bessarione e Pio II avrebbero accolto in Italia50.
La formula politica della Nuova Bisanzio, promossa con tanta risolutezza da Enea Silvio Piccolomini e prefigurata dall’intellettualità bizantina di cui era ambasciatore e avanguardia il «precursore» (prodromos) Bessarione, avrebbe dovuto essere molto diversa da quella della Bisanzio medievale. Probabilmente, avrebbe avuto molto più a che fare con quel nuovo modello statale, ispirato sia all’antichità della città-Stato ellenica sia alle novità del Rinascimento occidentale, che gli scritti politici di Gemisto/Pletone e della scuola di Mistrà avevano elaborato in maniera molto meno utopistica di quanto in genere si sia indotti a credere51.
Questi elementi sono precisati nella lettera indirizzata da Bessarione al suo potente alleato francescano Giacomo della Marca il 20 maggio 1459, da Ferrara, appena una settimana prima dell’apertura della conferenza di Mantova. Bessarione vi illustrava con ricchezza di dettagli tecnici sia le grandi risorse, i bassi prezzi e le strutture logistiche della Morea, sia le caratteristiche geografiche e strategiche che ne facevano «una testa di ponte perfetta sia per l’Italia, la Sicilia, Creta e le altre isole, sia per l’Asia, l’Illirico, la Macedonia e le altre zone ancora in mano alle potenze cristiane, cosicché riconquistarla alla sovranità cristiana permetterebbe di infliggere gravissimi danni ai turchi e garantirebbe alle potenze cristiane una base di manovra utilissima ogni qual volta il grande pericolo degli infedeli si facesse imminente»52.
Una nuova «sovranità cristiana» bizantina, ma concorde con «le potenze cristiane» occidentali e sotto l’egida del papa avrebbe dovuto sorgere, quindi, nel Peloponneso. In questo senso, il Decreto di Unione del 1439 al concilio di Ferrara-Firenze era stato un episodio di autentica Realpolitik: un atto di opportunità politica e infedeltà teologica, come rilevato dai prelati contemporanei antiunionisti e anche in seguito da parte laica53, che avrebbe dovuto fornire però una piattaforma religiosa ‘mista’ alla nuova enclave greco-cristiana nel dominio turco, ridotta ma determinante politicamente e giuridicamente, poiché erede del titolo di Costantino.
Ricordiamo le parole pronunciate da Bessarione già l’8 ottobre 1438, nell’orazione inaugurale Pro pace tenuta a Ferrara: «Il bene non consiste solo nell’ottenere vittoria quando si possiede la verità, ma anche nel perdere bene, che è lo stesso che vincere; ed anzi si potrebbe dire che è un bene maggiore, poiché è più vantaggioso [...] essere liberati che liberare»54. Il frutto del concilio, fin dall’inizio così discusso e poco seguito, ed effettivamente poi risultato così inefficace nel tempo, era indubbiamente organico, coerente ed essenziale, invece, al processo allora in fieri. Non va dimenticato che prima Isidoro di Kiev, fino alla morte, e poi dall’aprile 1463 Bessarione continuarono a ricoprire la carica di patriarca ‘ombra’ di Costantinopoli. Che il clero greco negazionista di laggiù avrebbe contestato e di fatto annullato l’Unione delle Chiese era stato certamente previsto, ma la cosa non aveva in realtà rilevanza, se si guarda al vero fine del compromesso attuato nel 1439 da Bessarione con il papato. Se guardiamo l’esito del concilio di Firenze con gli occhi dei politici di allora, quale fosse il diretto fine di quell’‘unione in effigie’ è assolutamente chiaro. Il progetto non era solo, e non tanto, quello di riunire le due Chiese, ma quello di riunire finalmente la sovranità della prima e della Seconda Roma in una sola entità giuridica, recuperando così alla tiara di Pietro lo scettro di Costantino.
Fu in occasione della conferenza di Mantova che Piero della Francesca dipinse ad Arezzo il ciclo di affreschi incentrato proprio sulla figura di Costantino, in cui raffigurò il volto battagliero e visionario del fondatore di Bisanzio campeggiare di profilo al centro di uno schieramento che potremmo definire insieme bizantino e ‘crociato’. Infatti è contrassegnato sia dall’aquila nera su fondo giallo, la bandiera di Bisanzio, sia dall’emblema della croce, apparsa secondo la leggenda all’imperatore. Costantino sta sbaragliando l’avversario e regge con il braccio teso in avanti il minuscolo talismano cruciforme.
Negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo la battaglia di Costantino contro il ‘pagano’ Massenzio è immagine di quella contro gli ‘infedeli’ turchi combattuta pochi anni prima non già da Giovanni VIII ma dal basileus suo fratello, che del fondatore dell’Impero portava il nome: Costantino XI. I turchi sono chiaramente identificati, sul piano iconografico, da più simboli, tra cui quello, tipico, del ‘demoniaco’ drago55, che campeggia sulla bandiera degli avversari di questo primo Costantino attualizzato nell’ultimo56.
Le Storie della Vera Croce si fanno così metafora dell’impegno a far prevalere la fede cristiana sull’usurpazione islamica: i panni bizantini in cui sono raffigurati ad esempio i dignitari di Eraclio nella scena dell’Esaltazione della croce, tutti di probabilmente diretta ascendenza pisanelliana, identificano con certezza nell’ultima dinastia paleologa, con cui le principali famiglie italiane si erano imparentate a partire dalle alleanze matrimoniali ‘miste’ concertate al concilio di Costanza, la vera erede, l’incarnazione quasi del titolo di Costantino.
Dagli emblemi distintivi del primo imperatore di Bisanzio, Costantino, è connotato il teatro simbolico del retroscena dell’altro grande manifesto filobizantino di Piero, la Flagellazione di Urbino. Pressoché contemporanea agli affreschi di Arezzo57 e come questi dipinta in occasione della conferenza di Mantova del 1459 per celebrarne l’intento commemorando a vent’anni di distanza il diretto precedente del concilio di Ferrara-Firenze concluso nel 1439, la tavola, secondo un’opinione scientifica ormai diffusa, fu eseguita a Roma tra il 1458 e il 1459 o subito dopo il rientro da quel viaggio. La Flagellazione scaturisce dall’ambiente romano, dal clima dell’avanguardia culturale che si stringeva intorno al cardinale filobizantino Nicola Cusano, l’umanista che si era trovato a bordo di una delle prime navi della delegazione bizantina al concilio di Ferrara, il filosofo platonico ai cui arcani matematici Piero si rifece nel costruire il dipinto oltre che nello scrivere il suo trattato sulla prospettiva; ed è espressione, in particolare, del dibattito sulle vicende politiche e teologiche legate al tracollo di Costantinopoli, incarnate nel cardinale orientale Bessarione, che vi è raffigurato nei panni giovanili di legato bizantino al concilio di due decenni prima, quali erano stati annotati nei disegni ferraresi di Pisanello58.
La tavola di Urbino è una sorta di manifesto politico della crociata contro l’islam, il cui messaggio è ispirato dunque dall’ampio e autorevole ambiente, con cui Piero era in stretto contatto e per cui aveva e avrebbe lavorato, che in Italia perorava il recupero di quel che restava di Bisanzio e il riassorbimento giuridico dell’eredità dinastica gigantesca, millenaria ed estremamente appetibile dell’Impero dei Cesari, trasferita a Costantinopoli dal suo fondatore e primo imperatore, Costantino.
Si può notare che l’opera, nella sua densissima valenza simbolica, rappresenta entrambe le ‘icone’ di Costantino. L’immagine del basileus bizantino assiso in trono, con cui si apre la sequenza dei personaggi, riprende apertamente, con l’evidenza di una citazione, il profilo di Giovanni VIII fornito da Pisanello nella medaglia coniata tra Ferrara e Firenze. Un profilo perfettamente sovrapponibile a quello che è attribuito, come abbiamo visto, a Costantino stesso nel Ciclo di Arezzo, nell’affresco raffigurante la battaglia di Ponte Milvio59. Ma qui il ritratto ‘a medaglia’ del basileus tardobizantino che assiste alla vessazione della cristianità orientale, simboleggiata nel Cristo flagellato, è attualizzato in un altro ruolo: quello che gli storici dell’arte hanno indicato come ‘di Pilato’, ossia di rappresentante dell’autorità politico-giuridica romana. In effetti, come si è detto, per chi auspicava il ricongiungimento della Seconda Roma con la Prima Roma dei papi il basileus Paleologo rappresentava, oltre e più ancora che l’imperatore d’Oriente, l’ultimo diretto erede e occupante del trono ‘romano’ di Costantino.
Pilato è dunque il rhomaios, impersonato nell’imperatore: appare nel quadro non nell’accezione moderna e vulgata della figura neotestamentaria, ma nella sua percezione, tipicamente quattrocentesca, di garante del carisma giuridico-sacrale del potere romano, presidio alla cristianità orientale di cui Cristo flagellato è simbolo. Come ha scritto Weiss: «John VIII appeared not only as the Eastern Emperor, but also as the direct heir as well as the very occupant of the throne of Constantine and Heraclius»60. Ed è appunto questa qualifica primaria del basileus bizantino, erede politico della Prima Roma, che il progetto di Pio II mirava a recuperare61.
D’altro lato, nella Flagellazione Costantino è presente nella sua raffigurazione più iconica e antica, più inconfondibile e leggibile, costituita dalla colonna e dalla statua che la sormonta al centro del retroscena. Nella colonna alla quale Cristo è legato si legge un preciso riferimento a Costantinopoli in quanto ‘città-reliquiario’ profanata dai turchi: la colonna stessa è stata identificata con quella di Costantino, in origine situata al centro del Foro costruito dallo stesso imperatore e simbolo di Costantinopoli attraverso i secoli62. E nella scultura dorata, pur interpretata variamente dagli storici dell’arte63, Piero riproduce la statua bronzea che, al suo vertice, raffigurava Costantino in veste di Apollo-Helios con un globo nella mano sinistra e una lancia nella destra.
La statua era stata distrutta nel 1105 e sostituita da una croce fino alla conquista turca64. Tuttavia, anche se nel 1453 la colonna di Costantino era ridotta a pochi frammenti, la sua memoria era sempre rimasta non solo nella plurisecolare ‘topografia immaginaria’ di Costantinopoli che riaffiorava nella sua letteratura apocalittica e nelle sue profezie65, ma persino in autentiche mappe geografiche, come in quel ‘diagramma dell’ecumene’ che è la cosiddetta Tabula Peutingeriana, dove la Polis è contrassegnata e identificata appunto dalla colonna di Costantino sormontata dalla sua statua.
Analizzando i riferimenti simbolici del dipinto, possiamo concludere che lo spazio della flagellazione di Cristo è una rappresentazione idealizzata della cristianità in quanto ‘città di Costantino’. Se il titolo di Costantino, la cui icona è doppiamente raffigurata nel retroscena, è la posta in gioco di quel salvataggio occidentale di Bisanzio che il dipinto celebra, l’aura di Costantino aleggia nel quadro ed è stata riconosciuta come tale dalla maggioranza degli storici dell’arte, pur attraverso identificazioni diverse dei modelli cui Piero si dovette rifare.
Quando era stata indetta la conferenza di Mantova, all’opinione pubblica era stato lasciato credere che il piano di salvataggio di Bisanzio non potesse fallire. Alla chiusura del summit, quando Tommaso Paleologo, l’ultimo despota della Morea, venne chiamato a Roma, nessun osservatore esterno avrebbe potuto prevedere che le risoluzioni di Mantova, ispirate dalla volontà politica del papa e pilotate dalla ferrea diplomazia di Bessarione, sarebbero state completamente disattese; che Tommaso non sarebbe stato reinsediato sul trono della Nuova Bisanzio che doveva nascere in Morea.
Il piano di Pio II, esplicitato ai leader europei da lui riuniti nel 1459 a Mantova, sarebbe fallito per una serie solo in parte prevedibile di circostanze negative. La crociata per il recupero del titolo di Costantino, cui avrebbe voluto partecipare personalmente «come un nuovo Goffredo di Buglione»66, fu di fatto boicottata, nei cinque anni successivi, da tutti i suoi principali alleati politici. Ad Ancona, dove arrivò il 19 luglio 1464 per imbarcarsi alla volta della Morea, Enea Silvio Piccolomini, sfinito dalla febbre, attese invano le navi veneziane67 di cui avrebbe voluto prendere il comando, dopo che Federico da Montefeltro si era rifiutato di assumerlo68. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto passò dal sonno alla morte. Ma il progetto militare che aveva ideato era stato comunque anticipato da un’avanguardia direttamente coinvolta nell’eredità dinastica dei Paleologhi e chiamata in causa da Pio II stesso.
Sigismondo Pandolfo Malatesta, l’avventuroso cugino di Cleopa, sullo scacchiere italiano era in notorio conflitto con Pio II. Eppure, dopo essere stato accusato e condannato dal papa per eresia e bruciato in effigie sui gradini di San Pietro, in Campidoglio e in Campo de’ Fiori nella primavera del 1462, aveva ottenuto la riabilitazione a prezzo di gravi perdite territoriali il 13 novembre 1463. Nel febbraio dell’anno seguente aveva negoziato e ottenuto da Venezia, dietro interessamento di Bessarione, la nomina a capitano generale delle forze di terra della spedizione. La straordinaria opportunità di rivendicare i suoi diritti sulla Morea insieme a quelli della cristianità era stata offerta a Sigismondo, secondo la testimonianza della Cronaca di Gaspare Broglio, proprio su proposta ufficiale del papa, che anche in questo aveva ascoltato, una volta di più, il consiglio del ‘cardinale orientale’69.
Se la memoria della morte, nonché della breve vita e dell’imperitura presenza di Cleopa Malatesta nell’albero genealogico della casa imperiale bizantina e dunque nella linea di successione del titolo di Costantino, era rimasta ben chiara durante i lavori del concilio di Ferrara-Firenze, in seguito, negli anni successivi alla caduta di Costantinopoli in mano ai turchi nel 1453, quel perdurante legame dinastico spiega dunque come mai un grande nemico del papa qual era Sigismondo Malatesta continuò a inseguire il progetto della crociata per la liberazione di Mistrà: nel quadro delle grandi famiglie italiane, il condottiero Sigismondo, cugino carnale e fratello adottivo di Cleopa, era il principale e più diretto interessato alla successione del despotato, nella cui capitale era stato nel frattempo formalmente trasferito il trono imperiale bizantino già al momento dell’investitura dell’ultimo basileus, Costantino XI Paleologo: la sua prima incoronazione era avvenuta non a Costantinopoli ma a Mistrà, che quest’atto rituale aveva reso così ‘città imperiale’ a tutti gli effetti70.
Alla metà di marzo del 1464, cinque mesi prima della morte del pontefice, Sigismondo aveva impugnato in S. Marco lo stendardo e il bastone di comando, e a maggio, tornato a Rimini, aveva cominciato gli imbarchi71. Salpò su una galea per l’Albania la notte della simbolica ricorrenza di San Pietro e Paolo. Arrivò a Modone il 13 luglio. Con le sue truppe e con un primo scaglione veneziano riconquistò «el braccio di maina», cioè la penisola del Mani, e arrivò fino a Mistrà. La spedizione mascherata dei cavalieri per «le vie strecte et ardue [...] tenendo la via radente la montagna di Misistra», la concertazione segreta con «la magnificentia del providitore» veneziano Andrea Dandolo di un’impresa tanto azzardata «che magior dubio non se ne poteva havere», la conquista della migliore posizione sotto la rocca, effettuata nel cuore della notte perché il comandante turco fosse colto di sorpresa, sono raccontate dalla stessa penna di Sigismondo nella lettera inviata «dal campo contro la rocca di Misistra» il 16 agosto 1464 al doge di Venezia72.
Sigismondo aveva già piazzato le bombarde ed era pronto a dare il via alla battaglia. Fu il Senato della Serenissima, dove il partito interventista era finito rapidamente in minoranza, a non volere la presa di Mistrà. A Venezia non importava l’aspetto giuridico-dinastico, ma quello economico e commerciale. E a questo scopo usò la spedizione di Sigismondo come strumento di pressione rispetto ai turchi, con cui già da tempo era venuta a patti. In virtù di questi patti la riconquista della Morea, che pure ancora implicava quella del titolo ereditario bizantino conservato nella sua capitale, fu, all’ultimo momento, lasciata cadere73. La sola conquista dell’eredità bizantina che la storia registra, nella crociata di Sigismondo, non fu quella del suo titolo imperiale romano, ma quella del simbolo della sua tradizione filosofica greca: le spoglie di Giorgio Gemisto Pletone, che Sigismondo riuscì a far trasportare in Italia prima del suo ritorno, accompagnate dai discendenti del filosofo, perché fossero deposte nel Tempio Malatestiano di Rimini, dove tuttora riposano, emblema della filiazione bizantina del Rinascimento europeo.
Per tutto il periodo trattato, in cui le corti e le biblioteche europee confidarono nell’esito favorevole di una crociata che salvasse Costantinopoli, ma soprattutto, e tanto più, dopo il fallimento della crociata di Varna, la Morea, e che consentissero che lì si reimpiantasse il titolo di Costantino sotto l’egida del papato e nell’interesse delle potenze occidentali, le espressioni artistiche ci restituiscono una pletora di immagini minute e spesso misconosciute, ma di indubbia eloquenza. Un filone iconografico minore e autonomo, che irriga o lambisce tutta l’arte del tempo, ramificandosi in quadri, affreschi, bassorilievi commissionati da borghesi oltre che da aristocratici e principi, o ancora più spesso insinuandosi sotto forma di miniature nelle pagine dei libri degli intellettuali, scaturisce, come abbiamo accennato, dalla medaglia e/o dagli schizzi ferraresi in cui Pisanello fissò, nei tratti imperiali tardobizantini, l’icona vivente del titulus costantiniano.
L’ossessione degli umanisti del Quattrocento per l’effigie del basileus di Bisanzio e la bizantinomania che li contagiava trovarono una personificazione nell’esotico profilo disegnato a Ferrara. E che raffigurava, certo, Giovanni VIII Paleologo. Ma l’ispirazione che ne trassero gli artisti per tutto il secolo, e fino all’inizio di quello seguente, era legata in modo più generico e ampio alla translatio occidentale del titolo dei rhomaioi. Come abbiamo visto, già nella Battaglia di Costantino e Massenzio di Piero della Francesca l’effigie di Giovanni VIII, deliberatamente citata dalla medaglia e probabilmente anche dagli schizzi di Pisanello, sfuma nell’immagine di suo fratello Costantino XI, l’ultimo basileus di Bisanzio, emblematicamente identificato con il primo e suo omonimo basileus. Allo stesso modo, nel simulacro dal cappello a ogiva e dalla barba a punta che da allora in poi prese ad aggirarsi per l’Europa non possiamo non intravedere il fantasma di Costantino.
La prima delle arti figurative del Quattrocento in cui l’icona catturata da Pisanello si irradia, in una vera e propria esplosione iconografica, è, comprensibilmente, la più colta e libresca: la miniatura74. La maggior parte di queste raffigurazioni fu creata all’interno e ad uso di un ambiente colto e filellenico, e recava in sé una varietà di identificazioni o allusioni simboliche, che tuttavia puntualmente rimandavano a un ‘primato’ regale75. Il fantasma dalla barba a punta erra dal celebre e discusso salterio Sinaitico76 al codice di Tito Livio della Bibliothèque Nationale di Parigi77. Nell’anno della caduta di Costantinopoli, l’imperatore d’Oriente è paradossalmente, ma molto significativamente identificato in Carlo Magno dal miniatore Giorgio d’Alemagna, che apre con la sua effigie il manoscritto della Spagna in rima conservato all’Ariostea di Ferrara78. L’alto cappello bizantino che ritroviamo sia nei disegni di Pisanello, sia indossato da varie comparse del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo, affiora tre anni dopo in un fantasmagorico manoscritto delle Vitae di Plutarco conservato alla Malatestiana di Cesena79, dove tre miniature raffiguranti grandi politici dell’antica Grecia sono vere e proprie repliche dell’effigie pisanelliana, ripresa da Piero della Francesca, dell’imperatore d’Oriente col cappello a ogiva80. Il più accurato, fra i ritratti del basileus nel codice di Cesena ricalcati sul modello per la prima volta attestato dalla medaglia di Pisanello e poi ripreso anzitutto da Piero, è però il quarto ed ultimo, in cui gli esatti lineamenti del basileus sono allusivamente prestati all’eroe greco Teseo81. In un’altra miniatura, conservata in un codice parigino, il profilo è sormontato dallo stesso tipo di cappello, di cui si distinguono i lembi a volute. Qui i tratti del basileus sono prestati, significativamente, a Enea, l’eroe che compì il tragitto simmetrico e inverso a quello di Costantino: che dall’istmo dell’Asia Minore approdò a Roma per fondare un nuovo Impero82.
Le illustrazioni dei codici umanistici riconoscibili come citazioni letterali della medaglia di Pisanello, o dei suoi schizzi, o degli sviluppi di entrambi nella pittura di Piero, sono molte di più. E sono quasi altrettanto frequenti, sebbene non ancora del tutto studiate, le tracce dell’effigie dell’imperatore di Bisanzio anche al di fuori dell’ambito eminentemente intellettuale e libresco della miniatura. Una sua trascrizione letterale e probabilmente diretta compare ad esempio nel medaglione affrescato tra il 1443 e il 1444 da Giovanni Badile nella Cappella di S. Girolamo della chiesa di Santa Maria della Scala a Verona83. Se intorno al 1482 ritroviamo il fantasma dalla barba a punta, divenuta peraltro bionda, e dallo skiadon nella variante azzurra con bordo scuro prevista dall’originaria didascalia di Pisanello84, nel Trionfo della morte di Giacomo di Borlone85, intorno al 1480 si data il Cristo davanti a Pilato di Biagio d’Antonio, proveniente dal Camposanto di Pisa e conservato al Museum of Art di Philadelphia, in cui ritroviamo lo skiadon, il profilo barbuto e l’ampio abito che Piero attribuì al basileus nella Flagellazione86. L’imperatore ‘romano’ di Bisanzio in veste di Pilato riemerge anche in esempi più tardi, come i quattro riquadri della Pala di Kaisheim di Hans Holbein il Vecchio, oggi a Monaco: il Cristo davanti a Pilato, l’Ecce Homo, la Flagellazione e l’Incoronazione di spine. Un terzo dipinto conservato a Vienna, l’Ecce Homo di Urban Görtschacher, del 1508 circa, secondo gli storici dell’arte desunto sempre da Piero, però non dalla Flagellazione ma dal Ciclo di Arezzo, presenta esattamente gli stessi tratti e la stessa accuratezza nel riprodurre il copricapo e l’abito dell’imperatore d’Oriente87.
Una controprova di quanto congetturato finora – dell’equazione, cioè, Giovanni VIII/Costantino, o meglio della frequente sublimazione simbolica dell’effigie del basileus Paleologo o di suo fratello Costantino XI in quella del primo imperatore bizantino – è data dalla predella del Miracolo di san Silvestro attribuita a Pesellino, una tempera su tavola dipinta già negli anni Cinquanta del Quattrocento e conservata negli Stati Uniti, all’Art Museum di Worcester. Qui siede in trono una figura con skiadon quasi identica a quella del Pilato della Flagellazione. L’identificazione del basileus con Costantino è stavolta esplicitata, poiché questi è rappresentato nell’atto di assistere al miracolo del toro riportato in vita da san Silvestro: un episodio, appunto, della biografia leggendaria di Costantino il Grande88.
Sono solo alcuni esempi. Si potrebbe continuare a lungo a inseguire le tracce del fantasma imperiale scatenato dalla medaglia e dagli schizzi di Pisanello e dall’equazione costantiniana esplicitamente trattane da Piero89. Gli stessi caratteri ed emblemi conferiti a Giovanni VIII, poi a suo fratello Costantino XI, e di qui restituiti a Costantino il Grande, rivelano nella pittura del Quattrocento un transfert o cortocircuito temporale, in cui l’identificazione tra gli ultimi sovrani bizantini difensori di Costantinopoli e il suo fondatore corrisponde all’appassionato progetto di riannessione dell’eredità giuridica dei Cesari bizantini all’Occidente e in particolare al papato: progetto che culminò nell’ultima crociata in Morea, ideata da Bessarione, disperatamente promossa da Pio II e perseguita poi dal cugino di Cleopa Malatesta sotto un’egida veneziana tanto contraddittoria e ambigua, come abbiamo visto, nei suoi reali fini, da farla clamorosamente e inopinatamente fallire.
Fu contemporanea a questo fallimento la nuova metamorfosi del titolo di Costantino. La successione dinastica passerà alla Russia, attraverso il matrimonio tra Zoe Paleologina, la figlia primogenita di Tommaso Paleologo, e il Gran Principe Ivan III di Mosca, negoziato dallo stesso Bessarione, per beffa o ironia della sorte, proprio attingendo ai fondi pontifici per la crociata antiturca in Morea90: Sisto IV dovette devolvere all’«orfana di Bisanzio» in partenza per la Russia una cifra di ben seimila ducati91. Tramite Zoe, che assumerà il nome di Sofija, la tradizione imperiale costantiniana, con i suoi riti, emblemi e simboli, si annetterà alla corte di Ivan III Grožnij: di qui comincerà la translatio ad Russiam del titolo di Costantino, da cui prenderà vita un’altra storia, che lo riallontanerà di nuovo dagli interessi e dunque dalla memoria dell’Occidente.
1 Per un inquadramento storico sullo Scisma d’Occidente, il movimento conciliarista e i complessi rapporti tra le Chiese in questo periodo si vedano anzitutto H.G. Beck, K.A. Fink, J. Glazik, E. Iserloh, Tra Medioevo e Rinascimento. Avignone, conciliarismo, tentativi di riforma (XIV-XV sec.), in Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, V,2, Milano 1977, pp. 99-125; E. Delaruelle, R. Labande, P. Ourliac, La Chiesa al tempo del grande scisma d’Occidente e la crisi conciliare (1378-1449), in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche, V. Martin, XIV, Torino 1967, pp. 33-45.
2 Valla appoggiava la linea antipapale del suo signore, Alfonso d’Aragona, re di Napoli, nei confronti di papa Eugenio IV Condulmer, alleato di Renato d’Angiò, aspirante al dominio nell’Italia meridionale. La declamatio di Valla sarà pubblicata solo nel secolo successivo in ambiente protestante. L’edizione di riferimento è quella a cura di W. Setz, Tübingen 1975.
3 L’esistenza di un progetto di ‘salvataggio occidentale di Bisanzio’ di grande portata politico-giuridica oltreché ecclesiastica è ipotizzata per la prima volta in S. Ronchey, Malatesta/Paleologhi: un’alleanza dinastica per rifondare Bisanzio nel quindicesimo secolo, in Byzantinische Zeitschrift, 93 (2000), pp. 521-567, in partic. 532-543.
4 Da Ladislao, il re di Polonia e Ungheria, comandante in capo della crociata, al cardinale Cesarini, suo promotore, il fior fiore della classe dirigente europea fu inghiottita dal naufragio dell’impresa, lasciando un vuoto incolmabile. Anche se non furono veneziani ma solo genovesi di Pera a lasciarsi corrompere per aiutare i turchi nella traversata del Bosforo che li portò in Europa e consentì loro il micidiale attacco a sorpresa all’esercito crociato, un dato è certo: la causa del fallimento fu, una volta di più, la guerra mercantile tra Genova e Venezia. Sulla crociata di Varna si vedano F. Pall, Un moment décisif du Sud-Est européen: la croisade de Varna, in Balcania, 2 (1944), pp. 102-120; D. Caccamo, Eugenio IV e la crociata di Varna, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, 79 (1956), pp. 35-87; K.M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571), II, The Fifteenth Century, Philadelphia 1978, pp. 82-107; sull’intera, delicata problematica delle ‘colpe’ del suo fallimento cfr. in primis O. Halecki, The Crusade of Varna, New York 1943; K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 79-107.
5 Sull’abbassamento, negli studi recenti, della data di nascita di Bessarione, sulla sua vieppiù recentemente appurata discendenza dall’antica stirpe imperiale dei Gran Comneni di Trebisonda (sua madre, la nobilissima Eudocia Comnena, era figlia dell’imperatore Giovanni III), sui precocissimi esordi della sua carriera alla corte dei Paleologhi e sui rapporti del colto e aristocratico enfant prodige con il basileus Manuele II cfr. S. Ronchey, L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Milano 2006, in partic. 23-24, con note e bibliografia aggiornata; e in particolare T. Braccini, Bessarione Comneno? La tradizione indiretta di una misconosciuta opera storica di Giano Lascaris come fonte biografico-genealogica, in Quaderni di Storia, 64 (2006), pp. 61-115.
6 Si veda, più avanti, la nota 83 al paragrafo Il fantasma di Costantino e la translatio ad Russiam.
7 Sulla cruciale figura di Sigismondo del Lussemburgo a Costanza cfr. J. Hollnsteiner, König Sigismund auf dem konstanzer Konzil, nach den Tagebuchaufzeichnungen des Kardinal Fillastre, in Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung, 41 (1926), pp. 185-200; J.K. Hoensch, Kaiser Sigismund, Herrscher an der Schwelle zur Neuzeit: 1368-1437, München 1996.
8 Così K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 39-41.
9 Così M. Lazzaroni, A. Muñoz, Filarete, scultore e architetto del secolo XV, Roma 1908, p. 21. Per il rapporto tra i concili di Costanza e Basilea e quello di Ferrara-Firenze cfr. la sintesi di F. Cardini, Il concilio e la crociata, in Ferrara e il Concilio: 1438-1439, in atti del convegno di studi nel 550° anniversario del Concilio dell’unione delle due Chiese d’Oriente e d’Occidente (Ferrara 23-24 novembre 1989), a cura di P. Castelli, Ferrara 1992, pp. 3-13, in partic. 3.
10 Sugli intellettuali che capeggiavano le delegazioni inviate da Bisanzio al concilio di Costanza la testimonianza di Siropulo si legge in Les “Mémoires” du Grand Ecclésiarque de l’Église de Contantinople Sylvestre Syropoulos sur le concile de Florence (1438-1439), éd. par V. Laurent, in Concilium Florentium Documenta et Scriptores, IX, Roma 1961, II,5, pp. 104 e 106,2-4. In generale sulle missioni bizantine al concilio di Costanza si veda Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches, hrsg. von F.J. Dölger, P. Wirth, V, München-Berlin 1965, nn. 3345, 3354-3355, 3369, 3372, 3374, pp. 100 segg.
11 Fin dall’ottobre del 1414 era arrivato il grande filologo, bibliofilo e rappresentante permanente del basileus bizantino in Italia, Manuele Crisolora, che vi sarebbe morto poco dopo, il 15 aprile 1415; sarebbe stato seppellito nel cimitero dei domenicani a Costanza: cfr. W. Brandmüller, Das Konzil von Konstanz, 1414-1418, I, Paderborn 1991, p. 52. In seguito un ruolo fondamentale ebbe anche Teodoro di Olene: si veda J. Gill, Il concilio di Firenze, Firenze 1967, pp. 34-40. Fra i legati delle Chiese orientali spiccava il dotto metropolita di Kiev, che risiedeva però a Mosca ed era arrivato, per lo stupore dei tedeschi, «con diciotto cavalli e molti preti dalle lunghe barbe nere e dai lunghi capelli neri, che celebravano le loro messe in casa con strani paramenti»; per la testimonianza di Ulrich von Richental su Gregorio Camblak cfr. R. Loenertz, Les dominicains byzantins Théodore et André Chrysobergès et les négociations pour l’union des Églises grècque et latine de 1415 à 1430, in Archivum Fratrum Praedicatorum, 9 (1939), p. 35; anche J. Gill, Il concilio, cit., pp. 29-30. Sicuramente erano presenti fin dall’inizio del concilio anche altri emissari del basileus: ivi, pp. 24-25, con fonti. Si è anche ipotizzata un’eventuale presenza a Costanza di Francesco Filelfo. Anche se qui le fonti tacciono, va ricordato che Filelfo da giovane era stato interprete di Giovanni VIII quando questi, mentre era ancora in vita suo padre Manuele II, aveva visitato Venezia, Milano e Sigismondo in Ungheria: cfr. F. Cardini, Il concilio e la crociata, cit., pp. 5 segg.
12 Ulrich von Richental menziona Nicola e Andronico Eudamoiannis nell’elencare i greci «che vennero a Costanza a proprie spese come liberi cavalieri»: collazione del testo tedesco e sua traduzione francese in R. Loenertz, Les dominicains byzantins, cit., p. 35; cfr. anche J. Gill, Il concilio, cit., pp. 29-30.
13 Andrea, il più giovane dei due famigerati fratelli Crisoberge, finì per divenire «avvocato di Eudamoiannis», come scrive Siropulo: si veda R. Loenertz, Les dominicains byzantins, cit., in partic. pp. 10-11 (fonti manoscritte dei suoi interventi).
14 Cfr. J. Gill, Il concilio, cit., p. 28.
15 Che il ruolo politico dei bizantini nella risoluzione della crisi di Costanza sia stato decisivo è opinione riportata e argomentata da K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 40-41.
16 Per la lettera, datata 8 aprile 1418, in cui Martino V concesse ai sei eredi maschi del basileus Manuele II Paleologo – Giovanni, Teodoro, Andronico, Costantino, Demetrio e Tommaso – l’espressa autorizzazione a sposare aristocratiche latine, a condizione di rispettare la loro fede cattolica, si veda Les “Mémoires” du Grand Ecclésiarque, cit., p. 108; testo latino dell’epistola e altre fonti in O. Raynaldi, Annales Ecclesiastici ab anno MCXCVIII ubi desinit Cardinalius Baronius [...], X, Lucae 1753, col. 1659, ad annum 1418, n. 17; cfr. anche K.M. Setton, The Papacy, cit., p. 40, nota 4.
17 Secondo alcuni storici moderni Giovanni, primogenito di Manuele II, nato nel 1392, sarebbe stato già coimperatore dal 1407 o addirittura dal 1403, e dunque la sua ascesa al trono nel 1421 non sarebbe legata al matrimonio con Sofia: cfr. M. Dabrowska, Łacinniczki nad Bosforem. Małżeństwa bizantyńsko-łacińskie w cesarskiej rodzinie Paleologow (XIII-XIV w) (Le signore latine del Bosforo. Matrimoni bizantino-latini nella famiglia imperiale dei Paleologhi, XIII-XV secolo), Łódź 1996, p. 178, che segue D. Obolensky, Some Notes Concerning a Byzantine Portrait of John VIII Palaiologos, in Eastern Churches Review, 4 (1972), pp. 141-146, in partic. 142. È più probabile che ci si debba invece attenere alla testimonianza delle fonti antiche, seguita sia da F.J. Dölger, Die Krönung Johanns VIII. zum Mitkaiser, in Byzantinische Zeitschrift, 36 (1976), pp. 318-319, sia da J. Gill, Personalities of the Council of Florence, in Id., Personalities of the Council of Florence and Other Essays, Oxford 1964, p. 106.
18 Su Anna Vasiljevna si veda Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, hrsg. von E. Trapp, R. Walther, H.V. Beyer, 12 voll., Wien 1976-1996, n. 21349, con fonti e bibliografia; per la sua morte «di peste» si veda Giorgio Sfrantze, Cronaca, a cura di R. Maisano, Roma 1990, p. 12.
19 Il contributo più recente su Sofia è quello, a tratti ingenuo ma ampio e comunque abbastanza correttamente documentato, di M. Dabrowska, Łacinniczki nad Bosforem, cit., pp. 177-193. Su entrambe le spose occidentali si veda in particolare S. Runciman, The Marriages of the Sons of the Emperor Manuel II, in Rivista di Studi Bizantini e Slavi, 1 (1980), Miscellanea Agostino Pertusi, pp. 273-282, in partic. 276-277, che riprende i temi della relazione inedita tenuta dall’autore al Congresso Bizantino di Ocrida del 1961 (cfr. Actes du XIIe Congrès International d’Etudes Byzantines, II, Beograd 1964, p. 258). I regnanti Paleologhi erano imparentati con i Monferrato già dal 1176, da quando cioè Raniero Monferrato ebbe in sposa Maria, figlia di Manuele I Comneno, il che permise a suo fratello Bonifacio, uno dei leader della quarta crociata, di rivendicare la sovranità su Tessalonica e di dare vita a un regno crociato che sarebbe stato riassorbito nel despotato d’Epiro vent’anni dopo, nel 1224: cfr. C.M. Brand, Byzantium Confronts the West 1180-1204, Cambridge (MA) 1968, p. 19. La parentela con il ramo dei marchesi di Monferrato cui apparteneva Sofia risaliva ad Andronico II Paleologo, che nel 1284 aveva sposato in seconde nozze Iolanda (Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21361), figlia di Guglielmo VII di Monferrato e madre di Teodoro Paleologo (Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21465), che diede vita appunto al ramo cadetto dei Paleologo-Monferrato; cfr. M. Dabrowska, Łacinniczki nad Bosforem, cit., p. 180.
20 Martino V era cugino di Cleopa in quanto Carlo Malatesta, fratello di Cleopa, aveva sposato Vittoria Colonna, figlia di Lorenzo Onofrio Colonna, fratello del papa di Roma; nella recente edizione critica riminese delle Croniche de’ Malatesti, Stefano Parti sostiene anche, a dire il vero, che una Lucia figlia di «Stefano Colonna senatore romano» fosse stata sposa di Carlo Malatesta padre adottivo di Cleopa, ma questa notizia non è confermata altrove. Che Cleopa fosse cugina di Martino V è asserito fra l’altro da S. Runciman, The Marriages, cit., pp. 278-80.
21 Su Cleopa si veda in generale A.Th. Papadopoulos, Versuch einer Genealogie der Palaiologen, 1259-1453, München 1938, fotoristampa Amsterdam 1962, n. 91; Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21385, con bibliografia; cfr. anche J.W. Barker, Manuel Palaeologus 1391-1425: A Study in Late Byzantine Statesmanship, New Brunswick (NJ) 1969, pp. 348 segg. e nota 95; D.A. Zakythinos, Le déspotat grec de Morée, I, Histoire politique, éd. par C. Maltézou, London 1975, pp. 188-189 e 351-352. Sulla sua vita e morte a Mistrà e sul suo ruolo nella vicenda che si tratta qui si vedano S. Ronchey, La “mummia” di Mistrà. Bessarione, Cleopa Malatesta e un abito di damasco veneziano, in Thesaurismata, 31 (2001), pp. 75-89; Id., L’enigma, cit.; A. Falcioni, Cleofe Malatesti moglie di Teodoro II Paleologo, in Id., Le Donne di Casa Malatesti, Rimini 2004, pp. 603-610, che tuttavia erroneamente la considera morta a Pesaro, dopo essere rientrata in patria insieme al fratello Pandolfo, anziché a Mistrà (ivi, p. 606).
22 Non a caso il mottetto composto per le nozze di Cleopa da Guillaume Dufay, il musicista fiammingo che Carlo Malatesta aveva assunto proprio al concilio di Costanza, si intitolava Vasilissa ergo gaude: i suoi committenti, e con loro quanti avevano organizzato le nozze bizantine di Cleopa, la ritenevano destinata a passare dallo status di dèspina di Mistrà a quello di imperatrice (basilissa) di Costantinopoli. Per il mottetto di Dufay e per la sua tradizione manoscritta cfr. D. Fallows, Dufay, London 19872. Le rime latine del mottetto si leggono in L. Sampaoli, Guillaume Dufay. Un musicista alla corte dei Malatesti, Rimini 1985, p. 41.
23 Per le trattative con l’ambasceria che nel 1431 Giovanni VIII aveva inviato al pontefice e per la convenzione siglata nel 1430 dal suo predecessore Martino V, la quale prevedeva che il concilio si sarebbe tenuto «in una città dell’Adriatico», cfr. D. Caccamo, Eugenio IV e la crociata di Varna, cit. Sull’operato di Cesarini cfr. P. Becker, Giuliano Cesarini, Kallmünz 1935. Il discorso di Cesarini può leggersi in E. Cecconi, Studi storici sul Concilio di Firenze, I, Firenze 1869, documento XXVIII.
24 Sui rapporti di Niccolò III con Eugenio IV cfr. A. Frizzi, Memorie per la Storia di Ferrara, IV, Ferrara 1848, fotoristampa Bologna 1969, p. 235, secondo cui il papa non aveva «principe a sé più affezionato e fido dell’Estense».
25 Cfr. K.J. Hefele, H. Leclercq, Histoire des conciles, VII,2, Paris 1916, p. 916; F. Cardini, Il concilio, cit., p. 7.
26 Per il documento inviato a Venezia si veda G. Spedale, 1438: Ferrara sede di concilio, in Ferrara e il Concilio, cit., pp. 15-24, in partic. 16-17. Sulla definizione di Ferrara contenuta nella bolla Doctoris gentium («Locum quidem gratum Graecis, rebus gerendis utilem, idoneum et accomodatum omnibus regibus et mundi principibus et praelatis, tutum et liberum») si veda E. Cecconi, Studi, cit., documento CLVIII.
27 E.S. Piccolomini, I Commentarii, a cura di L. Totaro, I, Milano 1984, pp. 30-31 (I 7).
28 La celebre e sventurata Parisina, «bellissima e vaga e così baldanzosa e lasciva, con due occhi che amorosamente in capo le lampeggiavano», come la descrisse Matteo Bandello. Diventata amante di Ugo, uno dei figli illegittimi che Niccolò aveva avuto da Stella dell’Assassino, la giovane sposa e il giovane bastardo sarebbero stati fatti entrambi decapitare, vicenda cui la letteratura, da Byron a d’Annunzio, si ispirerà in seguito ampiamente: cfr. A. Lazzari, Parisina, Firenze 1949. Il legame tra Niccolò d’Este e i Malatesta sarà rafforzato dal matrimonio di sua figlia Ginevra con Sigismondo Malatesta, e una rete di relazioni personali, culturali, religiose e politiche unirà ben presto l’asse Este-Malatesta a Bessarione. Le nozze di Borso d’Este con Margherita Gonzaga collegheranno gli Este a Ludovico Gonzaga, anch’egli legato ai Malatesta, cointeressato all’eredità dinastica dei Paleologhi e futuro padrone di casa della conferenza di Mantova del 1459, come si vedrà più sotto.
29 Su Pandolfo Malatesta il Gobbo si veda il recente contributo di A. Falcioni, Pandolfo Malatesta arcivescovo di Patrasso (1390-1441), in Rivista di Studi Bizantini e Slavi, 1 (1999), pp. 73-89, con rassegna aggiornata della bibliografia precedente; cfr. anche S. Runciman, Mistra, Byzantine Capital of the Peloponnese, London 1980, p. 70; sul suo insediamento come vescovo di Patrasso, l’arcidiocesi chiave di Martino V, nel 1424, cfr. D.A. Zakythinos, Le déspotat, cit., pp. 180-193 e K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 31-32.
30 Fra i tre già menzionati legami dinastici degli ultimi Paleologhi – con i Malatesta, gli Este e i Gonzaga – si ponevano due parentele intermedie ma influenti: quella con la famiglia Sforza, con cui Cleopa era imparentata per parte di padre e che avrebbe assunto un ruolo cruciale nell’organizzazione della crociata voluta da Pio II, di cui Francesco Sforza, accanto a Ludovico Gonzaga, sarebbe stato il più importante sostenitore; e quella con i Montefeltro, a loro volta imparentati con gli Sforza. Alla famiglia dei Malatesta di Pesaro e Fano apparteneva Battista Sforza, consorte di Federico di Montefeltro, ed era loro parente la dotta Battista Malatesta di Montefeltro, cognata e dama di compagnia di Cleopa nonché interlocutrice privilegiata di Martino V e sua osservatrice a Mistrà. A queste importanti alleanze dinastiche vanno aggiunti i legami forniti dalle altre spose occidentali dei Paleologhi. Da tre generazioni la stirpe porfirogenita era imparentata con i Savoia (Andronico III Paleologo aveva sposato Anna di Savoia, madre di Giovanni V e nonna di Manuele II: cfr. Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21347), già da quattro con i Monferrato (Andronico II Paleologo aveva sposato in seconde nozze Irene, figlia di Guglielmo VII di Monferrato e madre di Teodoro Paleologo, marchese di Monferrato: cfr. Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21361). Lo sfortunato ma comunque mai annullato matrimonio di Giovanni VIII con Sofia aveva rinnovato il legame del ramo principale dei Paleologhi d’Oriente con il ramo cadetto dei Paleologhi di Monferrato, che peraltro avrebbero continuato a imparentarsi con i Gonzaga. Senza contare le parentele con i Tocco e i Colonna e l’influenza di Carlotta Lusignano, nipote di Cleopa Malatesta poiché figlia di sua figlia Elena, in seguito data in moglie dal padre Teodoro II a Giovanni Lusignano di Cipro e tanto maniacalmente legata alla religione ortodossa da costringere il marito a convertirsi, attirando su entrambi l’anatema della Chiesa di Roma: cfr. Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21367. Carlotta, a sua volta sposata giovanissima, in seconde nozze, col principe Luigi di Savoia, avrebbe propagandato disperatamente, tra il 1461 e il 1462, la crociata antiturca: si veda K. Herquet, Charlotta von Lusignan und Caterina von Cornaro, Königinnen von Cypern, Regensburg 1870, pp. 120-139. La sua tomba si trova nelle Grotte Vaticane.
31 «Grande sole» è definito l’imperatore bizantino nei versi che Bessarione compose, giovanissimo, in suo onore: cfr. S. Ronchey, Bessarione poeta e l’ultima corte di Bisanzio, in Bessarione e l’Umanesimo (catal.), a cura di G. Fiaccadori, Napoli 1994, pp. 47-65; Id., Kath’helious makrous. Le poesie funebri sull’ultima corte Paleologa in un autografo Marciano di Bessarione, in XVIIIe Congrès International des Études Byzantines. Resumés des communications, II, Moskva 1991, pp. 957-958.
32 Fra l’altro, come nel caso di alcune delle miniature che, come vedremo, si ritengono desunte dalla medaglia pisanelliana, anche delle immagini di Manuele II dipinte nel codice di Chantilly si può pensare che non derivino dalle medaglie dei Limbourg, ma siano basate su disegni dal vivo: si veda, più avanti, Il fantasma di Costantino e la translatio ad Russiam, con note.
33 Si veda più avanti, ibidem.
34 Il preciso termine cronologico per la stesura del ritratto finale del basileus, che a sua volta funge da terminus ante quem non per la fusione della medaglia, è dato dall’arrivo a Ferrara, il 18 o il 20 agosto 1458, al seguito della delegazione conciliare russa, del ricco proprietario terriero Gudelis, da cui Giovanni VIII acquistò, come testimonia Siropulo, quel «possente cavallo proveniente dalla Russia» la cui identificazione con il cavallo dalle narici spaccate che ricorre, montato dal basileus, tanto nei cartoni pisanelliani del Louvre quanto nella medaglia è certa: cfr. M. Vickers, Some preparatory Drawings for Pisanello’s Medallion of John VIII Palaelogus, in The Art Bulletin, 40 (1978), pp. 417-424; L. Olivato, La principessa di Trebisonda. Per un ritratto di Pisanello, in Ferrara e il Concilio, cit., pp. 193-211, in partic. 203-204 e nota 18; S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 156-157.
35 Sull’interesse di Pisanello per Bisanzio cfr. L. Puppi, La Principessa di Trebisonda, in Id., Verso Gerusalemme. Immagini e temi di urbanistica e di architettura simboliche, Roma-Reggio Calabria 1982, pp. 44-61, in partic. 51-52. Sulla possibilità che quello a Ferrara del 1438 non sia stato il primo incontro di Pisanello con Giovanni VIII cfr. G.F. Hill, Pisanello, London 1905, p. 76 e nota, il quale afferma che nel 1423-1424 Pisanello era sicuramente a Verona e che quindi potrebbe avere visto lì il basileus per la prima volta. In effetti Pier Zagata, Cronica della città di Verona, II, Verona 1747, p. 56, ricorda che il 21 febbraio 1424 Giovanni VIII passò da Verona prima di recarsi a Milano.
36 Com’è ipotizzato da L. Olivato, La principessa, cit., pp. 205-207, e accolto da L. Beschi, Giovanni VIII Paleologo del Pisanello: note tecniche ed esegetiche, in Mouseio Benaki, 4 (2004), pp. 117-132, in partic. 117-118, che fornisce anche una sintesi aggiornata delle discussioni scientifiche e dell’immensa bibliografia in proposito (ivi, p. 128 n. 7). Che Bessarione personalmente, e non in quanto portavoce di Giovanni VIII, sia stato il committente dell’opera e l’ideatore del suo programma iconografico è ipotizzato da V. Juren, À propos de la médaille de Jean VIII Paléologue par Pisanello, in Revue Numismatique, 15 (1973), pp. 219-225, e accettato da L. Puppi, La Principessa, cit. È da accogliere forse come più verosimile l’ipotesi di L. Olivato, La principessa, cit., pp. 206-207, secondo cui il reale committente fu Giovanni VIII, mentre Bessarione si assunse l’incarico «di evidenziare il programma che l’artefice avrebbe dovuto tradurre nel bronzo».
37 Che a Pisanello Giovanni VIII avesse commissionato un vero e proprio ritratto – la cui committenza era forse ispirata al ritratto che l’artista aveva eseguito poco prima, nel 1432, dell’imperatore d’Occidente Sigismondo, come vedremo tra poco – è ipotizzato da L. Olivato, La principessa, cit., pp. 200-206; l’ipotesi è accolta e corroborata da L. Beschi, Giovanni VIII, cit., pp. 117-118. Che il dipinto raffigurante Giovanni VIII sia stato effettivamente eseguito è opinione degli estensori della scheda del catalogo della recente mostra pisanelliana del Louvre e degli studiosi da loro citati: Pisanello. Le peintre aux sept vertus (catal.), Paris 1996, p. 209.
38 L’eccezionalità delle qualità formali della medaglia e la densità dei suoi messaggi ideologici sono state ampiamente studiate: oltre al fondamentale saggio di R. Weiss, Pisanello’s Medallion of the Emperor John VIII Palaeologus, London 1966, e oltre a V. Juren, À propos de la médaille, cit., cfr. Pisanello, a cura di P. Marini, Milano 1996, pp. 366-375; Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses of Byzantine Emperor John VIII Palaeologus, in In the Light of Apollo. Italian Renaissance and Greece, atti del convegno (Atene 22 dicembre 2003-31 marzo 2004), Cinisello Balsamo 2004, pp. 60-70; A. Pedersoli, Giovanni VIII Paleologo: un imperatore e il suo ritratto. Profili e suggestioni, potenza e fortuna di un’immagine, in Engramma (www.engramma.it), giugno 2004; e soprattutto L. Beschi, Giovanni VIII, cit., che presenta anche il più completo elenco degli esemplari oggi esistenti (pp. 120-124 e nota 22).
39 In generale sugli schizzi bizantini eseguiti da Pisanello a Ferrara si veda Pisanello. Le peintre aux sept vertus, cit., nn. 112, 113, 116 e 118, pp. 195-209, con bibliografia completa e aggiornata, all’interno della quale cfr. in particolare M. Vickers, Some preparatory Drawings, cit. Si vedano inoltre le schede di C.C. Bambach in Byzantium. Faith and Power (1261-1557) (catal.), ed. by H.C. Evans, New York-New Haven-London 2004, pp. 527-32.
40 In una veste molto simile a quelle schizzate nei fogli ferraresi e riprodotte nel recto e nel verso della medaglia il basileus è infatti descritto al momento del suo ingresso a Firenze da cronisti fiorentini come Vespasiano da Bisticci: «Lo imperadore aveva indosso una porpora bianca, suvi un mantello di drappo rosso, con cappelletto bianco apuntato dinanzi; di sopra il detto cappelletto aveva un rubino grosso più che un buono uovo di colombo, con altre pietre»; cfr. Bartolomeo del Corazza, Diario fiorentino (1405-1439), a cura di R. Gentile, Anzio 1991, paragrafo 352. Il recto della medaglia rappresenta dunque il profilo di Giovanni VIII con in capo, per usare le parole di Giovio riportate da Vasari, «quel bizzarro cappello alla grecanica che solevano portare gli imperatori».
41 Sul disegno Inv. 2478 si veda Pisanello. Le peintre aux sept vertus, cit., n. 118, pp. 208-209. I dubbi sulla sua autenticità, avanzati da Manteuffel, Restle, Fossi Todorow, appaiono oggi fugati: cfr. ivi, p. 209.
42 Che Bessarione possa avere non solo «dettato» l’iconografia della medaglia a Pisanello, ma anche e soprattutto tracciato di persona la scritta greca che doveva apparire sull’opera è suggerito da L. Olivato, La principessa, cit., p. 210 nota 29. Sulle caratteristiche della scritta greca sul recto, così come di quella, bilingue, che appare sul verso, cfr. ivi, pp. 202-203.
43 Descrizione più dettagliata del verso della medaglia ivi, pp. 195-196.
44 Che la croce non sia, come in passato ritenuto dagli studiosi (in particolare Fasanelli, Juren, Olivato), un semplice calvario incontrato dall’imperatore ai bordi del suo cammino durante un’escursione o una battuta di caccia, ma sia chiaramente sorretta da un obelisco identificabile con quello oggi al centro di piazza San Pietro e nel Quattrocento posto a fianco della basilica, là dove si riteneva fosse avvenuto il martirio dell’apostolo e dov’era meta di pellegrinaggi, è acutamente argomentato da L. Beschi, Giovanni VIII, cit., pp. 125-127.
45 Mentre a Firenze sarebbe stata fusa, in un secondo tempo, solo un’altra versione della medaglia, oggi perduta: quella nota dalla descrizione di Giovio (Paolo Giovio, Lettere volgari, Venezia 1560, fol. 59r, lettera del 1551 a Cosimo de’ Medici); l’informazione è ripresa da Vasari nella seconda edizione delle Vite, ma già dalla fine dell’Ottocento è stata messa in dubbio: cfr. L. Olivato, La principessa, cit., p. 209 nota 19; l’effettiva esistenza della seconda medaglia è stata comunque avallata da altri studiosi e recentemente in Pisanello. Le peintre aux sept vertus, cit., p. 196, oltreché in L. Beschi, Giovanni VIII, cit., p. 127. In questa versione il rovescio era occupato, anziché dall’immagine sopra descritta, dall’emblema che poi sarà di Bessarione: due mani che tengono insieme una croce, simbolo dell’Unione delle Chiese: cfr. L. Olivato, La principessa, cit., p. 221, fig. 1. Nulla impedisce comunque di pensare che anche la prima medaglia sia stata fusa a Firenze, come riportato da Vasari, e come ipotizzato da J.A. Fasanelli, Some Notes on Pisanello and the Council of Florence, in Master Drawings, 3 (1965), pp. 36-47, precedentemente al Decreto d’Unione: quel che conta, e che anche Fasanelli sottolinea, è che non a Firenze ma a Ferrara furono fatti i disegni su cui si basava; diversa l’opinione di Olivato. Una terza versione, sicuramente non originale, del verso della medaglia è descritta e riprodotta in L. Beschi, Giovanni VIII, cit., pp. 122 e 125, fig. 8.
46 Così V. Juren, À propos de la médaille, cit., p. 225.
47 Fra gli altri esempi di diretta (e precoce) filiazione iconografica dagli schizzi e/o dalla medaglia di Pisanello possiamo annoverare anzitutto i rilievi bronzei di Filarete per la porta di San Pietro. Gli storici dell’arte hanno in genere ipotizzato un’osservazione di prima mano del suo soggetto da parte di Filarete: si veda T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation: an Historical Interpretation, in Storia dell’Arte, 27 (1976), pp. 217-233, in partic. 223, con precedente bibliografia alla nota 37; e in particolare M. Lazzaroni, A. Muñoz, Filarete, cit., p. 126. Ma a torto, essendo ben più probabile, come già intuito da R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., pp. 22-23, che tutti quanti raffigurarono più o meno accuratamente il basileus bizantino si siano principalmente basati sulla medaglia (ed eventualmente sugli schizzi) di Pisanello. Se è probabilmente falso il celebre busto di bronzo che si riteneva Filarete avesse eseguito fra il 1439 e il 1444 e che oggi è conservato ai Musei Vaticani, sono sicuramente autentici i quattro pannelli del rilievo della porta centrale di San Pietro in cui lo scultore, su commissione di Eugenio IV, rappresentò la delegazione bizantina in varie fasi del concilio di Firenze e anche in una sessione dei suoi lavori, forse quella finale. In questa scena, che si trova nel terzo pannello, Giovanni VIII compare di profilo, con tratti e in panni molto simili a quelli raffigurati da Pisanello, ma a figura intera, su una sedia pieghevole. Per le altre, successive e quanto mai eterogenee filiazioni iconografiche dell’icona pisanelliana nell’arte del Quattrocento, ma soprattutto in quella della miniatura, si veda, più avanti, il paragrafo Il fantasma di Costantino e la translatio ad Russiam, con note.
48 Sugli interessi di Venezia nel Peloponneso cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 247-257, 276-303, 317-328, con fonti e bibliografia. I danni economici causati ai veneziani dalla completa conquista turca della Morea si evidenzieranno nei due decenni successivi e li indurranno a un interventismo militare non certo paragonabile all’attendismo osservato alla caduta di Costantinopoli: cfr. ivi, pp. 247-257, 276-303, 317-328, con fonti e bibliografia.
49 Sei mesi dopo l’apertura del convegno di Mantova, i virtuosismi diplomatici del papa e di Bessarione, specialmente quelli esercitati sullo scacchiere germanico, diedero luogo a un accordo accettabile, anche se non del tutto conforme alle attese. La bolla Ecclesiam Christi, del 14 gennaio 1460, bandiva una crociata triennale contro i turchi e decretava l’indulgenza plenaria per quanti vi avessero partecipato di persona o finanziariamente. Stando ai funamboleschi computi del discorso finale che Pio II pronunciò nella locale chiesa di S. Giovanni, la spedizione in Morea avrebbe potuto contare su quarantamila combattenti promessi dai tedeschi e seimila promessi dalla Borgogna, ai quali si sarebbero dovuti sommare ventimila cavalieri e ventimila fanti armati dal re di Ungheria, per un totale di oltre ottantamila uomini. La bolla Ecclesiam Christi è in O. Raynaldi, Annales, cit., c. 1693, ad annum 1460, nn. 5-7 e 18-20, 41-42, 44-45; cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., p. 213; L. Mohler, Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist und Staatman, I, Paderborn 1923, fotoristampa Aalen 1967, p. 294. Il discorso finale di Pio II è riportato in Mansi 35, cc. 113-116; si veda anche Enea Silvio Piccolomini, I Commentarii, cit., III, pp. 47, 634-639.
50 Sulla sua designazione a imperatore in pectore della Nuova Bisanzio da parte del papa a Mantova, che indurrà Pio II stesso, tramite Bessarione, a richiamarlo l’anno dopo «in temporaneo esilio» in Italia, si vedano le inequivocabili e solenni parole dell’enciclica di Pio II ai vescovi, ai principi e al popolo cristiano del febbraio 1459: O. Raynaldi, Annales, cit., c. 341, ad annum 1462, documento XXXVII. Nel maggio dello stesso anno, nella lettera di Bessarione a Giacomo della Marca sulla Morea, di cui si dirà poco sotto, Tommaso Paleologo è definito naturalis dominus, «sovrano naturale» di Bisanzio: L. Mohler, Kardinal Bessarion, cit., III, p. 491,35-37; cfr. S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 199-200. Tommaso, l’ultimo dei Paleologhi a essere nato nella Porpora, era l’unico erede vivente del titolo di Costantino ad essere gradito ai potentati occidentali per il filolatinismo che lo aveva sempre opposto all’altro fratello sopravvissuto, il turcofilo Demetrio, con il quale si era conteso il potere in Morea e che aveva alla fine stipulato un accordo col sultano: cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 227-228.
51 Sui progetti di riforma della Morea elaborati da Pletone e dalla sua scuola si vedano anzitutto A. Pertusi, In margine alla questione dell’umanesimo bizantino: il pensiero politico del cardinal Bessarione e i suoi rapporti con il pensiero di Giorgio Gemisto Pletone, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici, 5 (1968), pp. 95-101; S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 24-27. Tra i documenti operativi inviati ai regnanti bizantini si vedano in particolare le due epistole indirizzate da Gemisto a Manuele II Paleologo (1415-1418: S. Lampros, Palaiologeia kai Peloponnesiaka, I-IV, Athenai 1926-1930, III, pp. 309-312, cfr. D.A. Zakythinos, Le déspotat, cit., pp. 175-180) e al despota Teodoro II di Mistrà (1423-1425: PG 160, cc. 841-844, nuova ed. S. Lampros, Palaiologeia, cit., IV, pp. 113-135, cfr. D.A. Zakythinos, ibidem), e quelle indirizzate da Bessarione al despota Costantino Paleologo nel 1444 e al minorita Iacobo Pincens nel 1459, entrambe edite in S. Lampros, Palaiologeia, cit., IV, pp. 32-45 e 255-258.
52 La lettera di Bessarione a Giacomo della Marca è edita in S. Lampros, Palaiologeia, cit., IV, pp. 255-258, e ripubblicata in L. Mohler, Kardinal Bessarion, cit., III, pp. 490-493 (Bessarion Cardinalis Fratri Iacobo de Marchia); può inoltre leggersi parzialmente tradotta in K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 209-210. Su Giacomo della Marca si veda U. Picciafuoco, San Giacomo della Marca (1393-1476): uomo di cultura, apostolo, operatore sociale, taumaturgo del sec. XV, Monteprandone 1976. Il testo originale del brano citato («Item habet situm opportunum ad Italiam, ad Siciliam, ad Cretam et alias insulas, ad Asiam, ad Illyricum, ad Macedoniam ac alias Christianorum partes, ita ut, si in Christianorum manibus sit, per eam magna possint inferri damna Turcis ac magna Christianis utilitas, si Turcarum magnum immineat Christianis periculum») si può leggere in L. Mohler, Kardinal Bessarion, cit., III, pp. 491,23-27.
53 Per un lucido giudizio di parte laica sul Decreto di Unione di Firenze si veda E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, I-III, Torino 19872, III, pp. 2747-2748.
54 La citazione può leggersi in L. D’Ascia, Bessarione al Concilio di Firenze: umanesimo ed ecumenismo, in Bessarione e l’umanesimo, cit., p. 70.
55 Il drago rappresenta il pericolo turco in molte e significative allegorie pittoriche: anzitutto, nella Storia di san Giorgio affrescata da Pisanello sulla parete esterna della Cappella Pellegrini della chiesa di S. Anastasia a Verona più o meno contemporaneamente all’incontro con la delegazione bizantina a Ferrara (sulla sua datazione le posizioni degli studiosi sono varie: la tendenza è a collocarla tra il 1436, anno in cui nella cappella è attestata l’attività di un altro artista, Michele Pellegrini, e il settembre 1439, momento in cui Pisanello fu dichiarato «ribelle» a Verona: il punto sulla questione è in G.A. Dell’Acqua, R. Chiarelli, L’opera completa del Pisanello, Milano 1966), dove nel drago e nel suo piccolo, posto sotto di lui nel ventre della terra, sono forse addirittura da riconoscersi Murad II e il giovane Mehmet, il futuro Conquistatore, che all’epoca del concilio aveva sei anni. Per una lettura dell’affresco di S. Anastasia quale allegoria delle vicende politiche di Bisanzio e le possibilità di identificazione delle figure che vi compaiono cf. S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 110-111, 156-159, 177-179 e note.
56 Che l’affresco di Arezzo attualizzi il passato alla luce degli eventi politici del XV secolo, a rappresentare non solo la lotta dei bizantini, detentori della vera fede di Costantino, contro i turchi, ma anche a propagandare la crociata indetta dal papa di Roma per salvare Bisanzio, è stato intuito per primo da K. Clark, Piero della Francesca, London 1951, pp. 19-20, ed è ormai opinione condivisa da gran parte degli storici dell’arte: cfr. da ultimo Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 65. Se Clark riteneva che non solo questo episodio ma tutto il Ciclo di Arezzo fosse da leggersi in riferimento alla caduta di Costantinopoli e ai tentativi di organizzare una crociata antiturca, altri studiosi, in base all’evidente sovrapposizione dei tratti di Giovanni VIII a quelli di Costantino, si sono spinti a scorgere nella Battaglia di Costantino e Massenzio una precisa memoria della vittoria contro i turchi conseguita sul Danubio nel 1456: si vedano F. Büttner, Das Thema der Konstantinschlacht in Piero della Francesca, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, I-II (1992), pp. 23-40; M. Calvesi, La Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca. I due Giovanni all’ultima crociata, in Art e Dossier, 75 (1993), pp. 38-41. Tuttavia, che il ciclo pittorico si leghi specificamente alla crociata di Mantova è indicato anche dalla sua datazione, fissata ormai quasi universalmente dagli storici dell’arte, sulla base di raffronti stilistici e di altre considerazioni interne, a poco dopo il 1459.
57 Una datazione della Flagellazione intorno al 1459, in occasione dunque della conferenza di Mantova, è stata suggerita agli storici dell’arte anche dalle affinità architettoniche che la legano agli affreschi di Arezzo. Per primo C. Gilbert, Piero della Francesca’s Flagellation: the Figures in the Foreground, in The Art Bulletin, 53 (1971), pp. 41-51, aveva sottolineato sistematicamente le contiguità formali con le strutture che compaiono nell’Incontro di Salomone con la regina di Saba e nel Ritrovamento e prova della vera croce, sostenendo la contiguità cronologica tra la tavola di Urbino e una fase degli affreschi di Arezzo, ma datava entrambe al 1463; è stato invece C. Ginzburg, Indagini su Piero, Torino 19944, pp. 93-94, a postulare l’esecuzione di entrambe le opere tra il 1459 e il 1460. Secondo Ginzburg, la tavola sarebbe stata «cominciata a Roma e terminata ad Arezzo»; la sua esecuzione sarebbe dunque databile tra la primavera del 1459, quando Piero era ancora nella città pontificia, e l’inizio del 1460, alla ripresa degli affreschi di Arezzo dopo la parentesi romana: ivi, p. 93; si veda anche M. Aronberg Lavin, Piero della Francesca: the Flagellation, New York 1972, p. 24 (Chicago 19902, p. 38).
58 Sulla possibilità di un’identificazione con Bessarione del secondo personaggio bizantino abbozzato sul recto del disegno MI 1062 del Louvre e nel recto di quello conservato all’Art Institute di Chicago, giovane, di corporatura snella, con riccioli scuri lunghi sul collo, barba corta a due punte, stivali da viaggio e costume di delegato ecclesiastico orientale al concilio, cfr. S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 79-83.
59 Il primo a identificare il Pilato della Flagellazione con Giovanni VIII era stato Babelon, seguito da Brandi, Marinescu e Weiss: J. Babelon, Jean Paléologue et Ponce Pilate, in Gazette des Beaux Arts, 4 (dicembre 1930), pp. 365-375; C. Brandi, Restauri a Piero della Francesca, in Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro, 17-18 (1954), pp. 87-97 nota 5; C. Marinescu, Deux empereurs byzantins, Manuel II et Jean VIII Paléologue, vus par des artistes parisiens et italiens, in Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France, 19 février 1958, pp. 38-40, in partic. 39; R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., p. 32; cfr. inoltre, da ultimo, Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 66, che accetta non solo l’identificazione, ma, in base ad essa, il collegamento della rappresentazione con il concilio di Mantova, intuito da Kenneth Clark come per il Ciclo di Arezzo così per la Flagellazione. Era stato in effetti per la prima volta quest’ultimo non solo a riconoscere, per via indipendente dagli altri studi, il possibile ritratto di Giovanni VIII nel personaggio sul trono, ma a ipotizzare in base a questo un legame tra il dipinto e l’organizzazione, in Occidente, di una riscossa antiturca: K. Clark, Piero della Francesca, cit., pp. 19-20, dove dunque l’identificazione di Giovanni VIII nella figura di Pilato è il punto d’avvio dell’esegesi del dipinto alla luce della crociata antiturca indetta nel 1459 a Mantova. Ma solo a partire dal saggio di T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation, cit., pp. 219-224, in cui è argomentata a fondo, l’identificazione di Pilato con Giovanni VIII, insieme all’uso da parte di Piero del ritratto di Pisanello come precisa citazione di stretto significato politico, è stata definitivamente acquisita dagli studiosi, divenendo il perno di un’organica lettura storico-politica della Flagellazione.
60 R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., p. 33.
61 Non si può pertanto condividere l’opinione di André Chastel, secondo cui il passaggio dell’immagine imperiale dalle sembianze di Costantino nel Ciclo di Arezzo a quelle di Pilato nella Flagellazione starebbe a testimoniare la crescente disillusione occidentale verso la dinastia dei Paleologhi dopo la caduta di Costantinopoli del 1453. T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation, cit., p. 219 nota 15, confuta con giusti argomenti quest’ipotesi; cfr. ora Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 66.
62 Per la proposta di identificazione con la colonna di Costantino si veda M. Calvesi, Identikit di un enigma, in Art e Dossier, 70 (1992), pp. 22-27, in partic. 23. Sulla statua e la sua fortuna si veda C. Frugoni, L’antichità: dai Mirabilia alla propaganda politica, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, I, Torino 1984, pp. 32-53.
63 Come una figura di vittoria o di trionfo (T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation, cit.), o come la rappresentazione di Ercole o di un imperatore pagano opposto a Cristo, o come raffigurazione del Sole Invitto o Sol Iustitiae: così W. Haftmann, Das italienische Säulenmonument, Leipzig 1939, pp. 96-97, a ragione e seguito dalla maggior parte degli studiosi: cfr. E. Battisti, Piero della Francesca, I, Milano 1971, p. 320; M. Aronberg Lavin, Piero della Francesca’s “Flagellation”: the Triumph of Christian Glory, in The Art Bulletin, 50 (1968), pp. 321-342, in partic. 340; Id., Piero della Francesca, cit., pp. 75-76.
64 Sulla distruzione della colonna e della statua di Costantino si veda C. Pertusi, Piero Della Francesca e le fonti sulla caduta di Costantinopoli, Bologna 1994, pp. 16-17.
65 Un collegamento fra l’iconografia della Flagellazione di Piero e la letteratura profetico-apocalittica dell’ultima Bisanzio è ipotizzato ivi, pp. 12-13. Se ammettiamo comunque che la rappresentazione di Piero sia improntata alle idee dei dotti greci a lui contemporanei, appare tanto più verosimile che la scena della flagellazione di Cristo nel dipinto non esprima solo in generale le tribolazioni della Chiesa cristiana, ma anche e soprattutto quelle di Costantinopoli: cfr. ivi, pp. 29-30.
66 L’idea di partire personalmente per la crociata era stata adombrata da Pio II già a Mantova, nel lungo discorso tenuto in occasione dell’unica sessione plenaria del convegno, il 26 settembre, in cui aveva appunto richiamato le gesta di Goffredo di Buglione e di Boemondo: cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., p. 212.
67 La flotta, con a bordo il doge Cristoforo Moro, era attesa nel giro di quindici giorni, ma Moro temporeggiava strategicamente, secondo una tattica veneziana ben consolidata. Contro il comportamento dell’anziano doge, che si era imbarcato il 30 luglio ma non si decideva a raggiungere Ancona, venne portata una mozione al Senato della Serenissima il 1° agosto 1464: traduzione del testo e referenze complete in K.M. Setton, The Papacy, cit., p. 269 e nota 135. Del resto la sua ostilità alla crociata era nota: una guerra interna si stava consumando tra il partito interventista di Vettore Capello e quello, maggioritario, del doge. Quando il 12 agosto le pur solo dodici chiglie veneziane si profilarono all’orizzonte, non c’erano ormai più abbastanza crociati per riempirle. Sullo sconforto del papa cfr. le ulteriori fonti documentarie addotte in L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, II, Roma 1942, p. 271, note 1 e 2. Alla «vergognosa slealtà» di Venezia L. von Pastor, ivi, pp. 266-270, dedica pagine piene di indignazione e sarcasmo; più sfumata e articolata l’analisi di K.M. Setton, The papacy, cit., pp. 235-270. Va detto che nessuno degli osservatori politici italiani aveva mai pensato che Venezia avrebbe realmente mantenuto il suo impegno. Il dubbio era solo se Cristoforo Moro sarebbe rimasto decisamente al largo o se sarebbe approdato giusto in tempo per constatare il decesso del pontefice e ripiegare le sue vele verso casa, come scrisse Francesco Sforza (cfr. L. von Pastor, Storia dei Papi, cit., p. 270 nota 7) e come difatti avvenne.
68 Secondo la documentazione addotta da Setton, da Ancona il papa a bordo della flotta veneziana avrebbe dovuto discendere l’Adriatico fino a Brindisi e Lecce e di lì sarebbe passato in Morea: cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., p. 268. Invece, secondo quattro dispacci di Ottone del Carretto oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Milano, il piano di Enea Silvio era di passare anzitutto a Ragusa e prendere contatto con i soli due alleati militari di effettiva solidità, Mattia Corvino e Skanderbeg: cfr. L. von Pastor, Storia dei Papi, cit., p. 256 nota 6. Come scrive Pastor, «a Ragusa si contava così sicuramente sulla venuta di Pio II che già nel maggio il consiglio di quella città aveva cominciato a prendere fino nei particolari tutti i provvedimenti per un degno ricevimento e un conveniente alloggio per l’augusto ospite e il suo seguito»: ivi, pp. 256-257, con fonti d’archivio alla nota 1. Quella del papa, in definitiva, sembra essere stata fino all’ultimo tutt’altro che una fantasia febbrile e/o senile, come si continuava e si sarebbe continuato a presentarla. Sull’importanza della crociata per Pio II cfr. l’analisi psicologica con cui Setton conclude la lunga e complessa trattazione del suo pontificato: «When Aeneas Sylvius, the opportunist whom heaven had raised to the papal throne, contrasted his rich estate in the Vatican palace with the poverty of his home in Corsignano, he could not help but think of what he owed the Almighty. His dedication to the crusade appears to have been a forlorn but sincere attempt to pay the debt»: K.M. Setton, ivi, p. 270.
69 Che quella di Sigismondo Malatesta sia stata propriamente una crociata è testimoniato da una fonte autorevole come Domenico Malipiero, il quale, in un passo poco noto degli Annali, rileva esplicitamente e quasi sottolinea la presenza della croce crociata sul suo stendardo: «Et è sta preso che sia messo el segno della † su ’l so stendardo e de’ successori, e che ‘l precieda tutti i Rettori»: D. Malipiero, Annali veneti, in Archivio Storico Italiano, VII,1, Firenze 1843, p. 12. Poco più avanti (ivi, p. 17) è riportato inoltre per intero il discorso con cui Pio II benedì la spedizione considerandola una risposta diretta all’appello per la crociata mosso a Mantova. Lo stesso discorso, con poche varianti, è riportato dall’Anonimo Veronese, Cronaca 1446-1488, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, p. 175. Ulteriori ragguagli in L. von Pastor, Storia dei Papi, cit., II, p. 249. Le parole della Cronaca universale quattrocentesca di Gaspare Broglio sono riportate in L. Tonini, Storia civile e sacra riminense, II-VI, Rimini 1856-1888, fotoristampa Rimini 1971, in partic. V 2, p. 300.
70 È interessante a questo proposito notare che la crociata di Sigismondo annoverò a quanto pare tra le sue file, sotto l’egida veneziana, alcuni superstiti eredi dell’aristocrazia imperiale bizantina; anche in seguito gli eredi della famiglia continuarono a combattere contro il sultano: si veda la notizia di Sfrantze, Cronaca, cit., XLVII 1, p. 192,6-8 (= Georgios Sphrantzes, Memorii 1401-1477, a cura di V. Grecu, Bucuresti 1966, pp. 142,22-23), sulla morte in battaglia nel 1472 del figlio del «famoso Paleologo Thomas Ghides»; cfr. Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, cit., n. 21469; F. Rodriguez, Origine, cronologia e successione degli imperatori Paleologo. Parte II, in Rivista di Araldica e Genealogia 1,6 (novembre-dicembre 1933), Ramo dei Paleologo di Morea, pp. 490-507, in partic. 496.
71 In generale per le fonti locali sulla crociata di Sigismondo si vedano L. Tonini, Storia civile, cit., V,2, pp. 301 segg.; G. Soranzo, Sigismondo Pandolfo Malatesta in Morea e le vicende del suo dominio, in Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per la Provincia di Romagna, 8 (1917-1918), pp. 211-280, in partic. 226-227; A.G. Mompherratos, Sigismoundos Pandolphos Malatestas. Polemos Eneton kai Tourkon en Peloponneso kata ta ete 1463-1466 (Sigismondo Pandolfo Malatesta. La guerra tra veneziani e turchi nel Peloponneso degli anni 1463-1466), Athenai 1914. Sull’intera vicenda militare è fondamentale la testimonianza di Iacopo Barbarigo, provveditore generale della Morea, Dispacci della guerra del Peloponneso (1465-1466), pubblicati in K. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age, Première série, Documents tirés des Archives de Venise (1400-1500), I-IX, Paris 1880-1890, VI, pp. 1-92; altri documenti ivi, pp. 92-94 e 95-101; in Sathas si leggono anche i preziosi carteggi della cancelleria segreta veneziana (1465-1466): ivi, I, pp. 242-258.
72 La lettera è conservata, nella copia mandata al duca di Milano, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi (Carte Sforzesche, cod. 1590, c.350) e pubblicata in G. Soranzo, Sigismondo, cit., pp. 279-280 (Appendice II). Cfr., da parte veneziana, Archivio di Stato di Venezia, Senato Secreti, reg. 22, c. 35 (10 settembre 1465), con l’elogio «dell’attività e della sollecitudine» di Sigismondo.
73 Per un compendio dei fatti e un bilancio sulla crociata di Sigismondo, le sue finalità e modalità, le circostanze e/o le decisioni che ne determinarono il fallimento, cfr. S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 334-337.
74 Sulle occorrenze nelle miniature di profili derivati dalla medaglia di Pisanello o dai suoi schizzi resta fondamentale lo studio di R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., pp. 5-27; si veda ora Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., pp. 3 segg.; A. Pedersoli, Giovanni VIII, cit.; L. Beschi, Giovanni VIII, cit., p. 17 e nota 5. Weiss, seguito da T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation, cit., p. 222, ritiene tuttavia che la maggior parte delle filiazioni dei disegni di Pisanello, nelle miniature come nel resto dell’arte quattrocentesca, non sia intenzionalmente legata a Giovanni VIII: si tratterebbe di utilizzazioni generiche e inconsapevoli di un modello stereotipo di «potente orientale o antico», prive di ogni allusione alla storia contemporanea: «In considering the usage of the imperial portrait in Italian art after c. 1450 one must be careful to distinguish between historical references to the Byzantine Emperor and types of oriental potentates since the artists did use it with a number of different intents», ivi, p. 223. In realtà, in medio stat veritas: non è da avallarsi un riconoscimento letterale, in cui nei ritratti sia da riconoscersi solo e individualmente la figura storica di Giovanni VIII, ma neppure la lettura completamente generica di Weiss e Gouma-Peterson; è da proporsi invece un’interpretazione che condensi le due, in cui si abbia dunque non un generico «potente», ma il basileus bizantino detentore della potestà imperiale romana, connotato come tale dal suo aspetto quale ci è trasmesso dalla medaglia di Pisanello; d’altra parte, si tratta di un sovrano effettivamente «orientale» e «antico», poiché l’immagine del Cesare quattrocentesco si trasla in quella simbolica del più antico imperatore di Bisanzio: appunto, Costantino.
75 In alternativa, il ‘marchio’ bizantino desunto dalla moneta pisanelliana si ritrova conferito a un’auctoritas rappresentativa della tradizione grecoromana, per un millennio conservata, come gli umanisti occidentali ben sapevano, nell’Impero di Bisanzio. In quanto tale, probabilmente, il fantasma dalla barba a punta è Erodoto in due manoscritti della Biblioteca Laurenziana di Firenze, nelle due miniature, attribuite alla bottega di Francesco Roselli, dei codici BML Plut. 67.1 (Erodoto, Historia), fol. 10r, e BML Plut. 32.4 (Vita di Omero attribuita allo stesso storico), fol. 1r: cfr. Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 64; si veda anche Uomini, bestie e paesi nelle miniature laurenziane, a cura di L. Bigliazzi, A. Giannozzi, Firenze 1987, pp. 36-37 e tav. vii. Le sue sembianze sono attribuite a Polibio in un manoscritto Harleiano conservato a Londra: British Library, Harleianus 3293, fol. 2r; cfr. R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., p. 26; Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 67. È certamente tratto dalla medaglia pisanelliana l’Aristotele (non Averroè, come ritenuto da alcuni) che ritroviamo nella miniatura, forse opera di Lorenzo Canozzi, dell’incunabolo miniato tra il 1472 e il 1474 e conservato preso la Biblioteca Civica di Padova BP 1494 (Aristotele, Physica), fol. 2r. È invece con ogni probabilità Giovanni Argiropulo il personaggio raffigurato come Aristotele in BML Plut. 84.1 (Aristotele, Opera), fol. 2r.
76 Sinaiticus gr. 2123, fol. 30v: cfr. A. Chastel, L’Italie et Byzance, Paris 1999, pp. 221 e 223; K. Weitzmann, Illustrated Manuscripts at St. Catherine’s Monastery on Mount Sinai, Collegeville (MN) 1973, p. 25; cfr. anche T. Gouma-Peterson, Piero della Francesca’s Flagellation, cit., fig. 10. Il manoscritto, oggi al Sinai, contenente i Salmi e il Nuovo Testamento, fu prodotto in Occidente, probabilmente a Venezia, nel 1242. Giovanni VIII dovette esserne divenuto a un certo momento proprietario (probabilmente durante il suo soggiorno in Italia per il concilio) e questo spiega, secondo H. Belting, Das illuminierte Buch in der spätbyzantinischen Gesellschaft, Heidelberg 1970, pp. 52-53, l’inserimento del suo ritratto, databile al 1438-1439, forse proprio da parte di Pisanello. La miniatura era stata del resto considerata opera di Pisanello già da M. Restle, Ein Porträt Johannes VIII Palaiologos auf dem Sinai, in Festschrift Luitpold Dussler, München-Berlin 1972, pp. 131-137. Il problema è stato di lì a poi analizzato ampiamente dagli storici dell’arte: si vedano in primis J. Babelon, Jean Paléologue, cit.; B. Degenhart, Pisanello in Mantua, in Pantheon, 31 (1973), pp. 193-210, in partic. 209 nota 42; M. Vickers, Some preparatory Drawings, cit.; nonché, recentemente, Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., pp. 60-70.
77 Il codice Parigino è il ms. Lat. 14360 della Bibliothèque Nationale (Livio, Ab urbe condita, un codice vergato a Padova), fol. 268r: cfr. R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., pp. 26-27; Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 62.
78 Ms. II, 132 della Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (La Spagna in Rima, illuminata nel 1453 da Giorgio d’Alemagna), fol. 1; cf. R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., p. 26; Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 67; si veda anche H.J. Hermann, Zur Geschichte der Miniaturmalerei am Hofe der Este in Ferrara. Stilkritische Studien, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses, 21 (1900), trad. it. La miniatura estense, a cura di F. Toniolo, Modena 1994, p. 143.
79 Sul codice ms. S.XV.2 della Biblioteca Malatestiana di Cesena si veda G. Mariani Canova, Piero e il libro miniato nelle corti padane, in Piero e Urbino, Piero e le Corti rinascimentali (catal.), a cura di P. Dal Poggetto, Venezia 1992, pp. 253-270, in partic. 258-260. Secondo di una silloge di tre manoscritti delle Vitae virorum illustrium di Plutarco destinati da Domenico Novello Malatesta alla biblioteca del monastero di S. Francesco di Cesena, il codice è illuminato da quattro diversi artisti, che operarono intorno al 1456. A eseguire i ritratti che ci interessano è un miniatore il cui punto di riferimento sembra essere proprio la pittura di Piero della Francesca (così ivi, p. 260) e che potrebbe appartenere all’ambiente di Piero Francesco Amedei (ibidem). L’Alcibiade che si trova al fol. 211r mostra un copricapo certamente ricavato da Pisanello, ma non ritrae il basileus secondo gli stilemi della sua medaglia. Sono invece connotate come veri e propri ritratti in abiti greci classici del basileus bizantino (non solo dal copricapo ma dall’acconciatura dei capelli e della barba, dai dettagli dell’abito e dai lineamenti, che riproducono con esattezza il profilo di Pisanello) le miniature che si trovano ai foll. 138r (Lisandro), 165r (Licurgo), 214r (Focione), 189v (Teseo): si vedano Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 64; R. Weiss, Pisanello’s Medallion, cit., pp. 24-25 e tav. XV; Pisanello. Le peintre aux sept vertus, cit., p. 197; J. Babelon, Jean Paléologue, cit., pp. 367-368 e nota 2; Id., Catalogue de l’Exposition de Pisanello, Paris 1932, p. 5051 nota 116; M. Salmi, La pittura di Piero della Francesca, Novara 1979, p. 41, fig. 39.
80 Letterale in Lisandro, con alcune varianti in Focione, dove il copricapo è senza visiera e si trasforma in una sorta di turbante, come quello reinventato per Licurgo, il cui profilo compare rovesciato.
81 Le scanalature del copricapo della medaglia sono riprese in quelle della grande conchiglia che lo sormonta. Qui la cupola dello skiadon imperiale è azzurra e orlata di scuro, proprio come indicato dalle due righe aggiunte alla didascalia di Pisanello nel recto del disegno MI 1062 del Louvre, il che potrebbe addirittura suggerire, in questo caso, una conoscenza diretta del cartone.
82 La miniatura in cui il basileus è raffigurato come Enea nell’atto di attraversare lo Stige si trova nel ms. Par. Lat. 7939A, fol. 128: cfr. D. Cordellier, scheda n. 78, in Pisanello, cit., pp. 368-371 (in partic. 371).
83 Si veda da ultimo Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 62. Sembrerebbe di poco successiva la datazione del già menzionato esempio di utilizzo del profilo della medaglia di Pisanello in un’arte minore come la ceramica: è datato alla metà del XV secolo il piatto in ceramica ferrarese di una collezione privata veneziana (si veda A. Pedersoli, Giovanni VIII, cit.), dove la rappresentazione del profilo del basileus sembra tuttavia mediata dallo stile delle miniature.
84 Nelle due righe finali della scritta di Pisanello al recto del disegno MI 1062 del Louvre, già menzionate poco sopra a proposito del Teseo di Cesena.
85 Il Trionfo della morte è affrescato sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone. L’attribuzione è discussa, ma è stata recentemente ricondotta a Giacomo di Borlone in C. Forte, Jacopo Borlone: il ciclo interno ai Disciplini di Clusone, il Trionfo della Morte, la Danza Macabra, in Il trionfo della morte e le danze macabre, atti del VI Convegno Internazionale (Clusone 19-21 agosto 1994), a cura di C. Forte, Clusone 1997, pp. 393-410.
86 La tavola di Biagio d’Antonio, già attribuita a Filippo Lippi con datazione 1469, si data oggi intorno al 1480: cfr. R. Bartoli, Biagio d’Antonio, Milano 1999, p. 70. Un ritratto dell’imperatore di Bisanzio come Pilato si ritrova anche in due miniature di Jean Fouquet, artista dai forti interessi bizantini, segnalate da Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., pp. 66 e 70 nota 74. La prima miniatura si trova nel suo Libro d’Ore, l’altra, attribuitagli, è stata battuta da Sotheby’s a Londra il 14 luglio 1981; una sua riproduzione è conservata presso la Photography Collection del Warburg Institute a Londra. Un Pilato dalla lunga barba e dall’alto copricapo a tronco di cono compare in uno dei riquadri del Polittico della Crocifissione, conservato a Venezia nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, di Antonio Vivarini (e Francesco de’ Franceschi?), altro pittore che negli anni Quaranta del Quattrocento dedicò la sua attenzione a Bisanzio: cfr. La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, a cura di M. Lucco, II, Milano 1990, p. 72, tav. 91.
87 La Pala di Kaisheim di Holbein il Vecchio, eseguita all’inizio del Cinquecento, è conservata alla Alte Pinakothek di Monaco; la precisione nel raffigurare sia il profilo del basileus, sia l’abito e il copricapo sembrano presupporre una conoscenza precisa, addirittura autottica, o della tavola di Piero o di sue copie; o, eventualmente, ma meno probabilmente, di suoi modelli. Il dipinto di Görtschacher (dove tuttavia il basileus non è rappresentato di profilo, come in Holbein, ma quasi frontalmente) è alla Österreichische Galerie di Vienna. Il primo a citare i dipinti di Holbein il Vecchio e Görtschacher è stato J. Babelon, Jean Paléologue, cit., pp. 365-375, seguito da C. Marinescu, Deux empereurs byzantins, cit., e da A. Chastel, L’Italie et Byzance, cit. È J. Babelon, Jean Paléologue, cit., p. 373, a ritenere che Holbein abbia usato riproduzioni degli affreschi di Arezzo.
88 La tavola fu eseguita prima sia della Flagellazione sia del Ciclo di Arezzo, probabilmente intorno al 1450 e in ogni caso non dopo il 1457, anno di morte del suo autore. Il Miracolo di san Silvestro propone dunque in anticipo il modello iconografico della Flagellazione e potrebbe peraltro additare, in sé o forse in suoi eventuali antecedenti, una fonte per il Pilato di Piero. Su questo pannello di Pesellino si veda da ultimo Th. Koutsogiannis, The Renaissance Metamorphoses, cit., p. 65. Gli altri pannelli con le storie di san Silvestro, attribuiti allo stesso artista, si trovano presso la Galleria Doria a Roma.
89 Ad esempio, all’inizio degli anni Novanta del Quattrocento la memoria degli schizzi di Pisanello, forse filtrata dall’opera di Piero, riaffiora significativamente in un altro affresco, il Ritrovamento e riconquista della croce di Antoniazzo Romano, che fa parte del ciclo dell’abside di Santa Croce in Gerusalemme, databile agli anni 1492-1495: cfr. A. Cavallaro, Antoniazzo Romano e gli antoniazzeschi: una generazione di pittori nella Roma del Quattrocento, Udine 1992, pp. 263-264.
90 I capitali per la «guerra santa contro i turchi», custoditi nelle banche dei Medici e nominalmente affidati alla commissione per la crociata creata nel 1456 da Callisto II (cfr. K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 168-169) e nel 1472 composta dai cardinali commissari d’Estouteville, Calandrini e Capranica, erano peraltro sempre stati controllati da Bessarione. In origine provenivano dalla raccolta delle decime gestita dal circuito francescano, di cui Bessarione era il protettore e il suo interlocutore Giacomo della Marca l’esponente cruciale. Nel decennio successivo i fondi erano molto cresciuti, poiché alla commissione erano state affidate sia la vendita dell’allume scoperto nel 1461 da Giovanni di Castro a Tolfa sia la gestione funzionale delle miniere, con tutto il conseguente giro di appalti, partecipazioni e clientele: l’«allume della crociata», come veniva chiamato il reddito di Tolfa già sotto Pio II (si veda J. Delumeau, L’Alun de Rome, XVe-XIXe siècle, Paris 1962, pp. 15-21 e 23 segg.), che fruttava alla Camera Apostolica tra gli ottanta e i centomila ducati l’anno, era stato del resto già impiegato per il finanziamento dell’ospitalità a Roma prima di Tommaso Paleologo e poi di suo figlio Andrea: si veda K.M. Setton, The Papacy, cit., pp. 272 e nota 5, 275 e nota 14.
91 La definizione di «orpheline de Byzance» è in P. Pierling, Le mariage d’un Tsar au Vatican. Ivan III et Zoé Paléologue, in Revue des Questions Historiques, 42 (1887), pp. 353-396, in partic. 362. L’ordine di pagamento dei seimila ducati per la dote di Zoe, datato 20 giugno 1472, si conserva all’Archivio di Stato di Roma: Archivio Camerale, Liber S. Cruciate Comm. Gen., ann. 1468-1472, 110v.; il pagamento delle cifre in questione il 27 giugno successivo è confermato dall’attestato che si conserva nello stesso Archivio Camerale, Liber depositarii sancte crociate, ann. 1464-1475, 188. Sull’intera vicenda del matrimonio di Zoe/Sofija e la sua orchestrazione, tanto certa quanto ufficiosa, da parte di Bessarione, cfr. S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 362-363, 368-370, 374-379 e note, con bibliografia. Per un’analisi delle idee giuridico-religiose riguardanti la translatio ad Russiam della Chiesa cristiano-ortodossa e dell’impero romano-bizantino, e per la genealogia ‘bizantina’ e ‘romana’ del Gran Principe moscovita, cfr. anzitutto M. Capaldo, L’idea di Roma in area slavo-ortodossa nei secoli IX-XVI, in L’idea di Roma a Mosca. Secoli XV-XVI. Fonti per la storia del pensiero sociale russo, a cura di P. Catalano, V.T. Pasuto, Roma 1993, pp. XXIX-XXXIV.