Illuminismo
Nell’accezione più propria, un determinato periodo storico della vita politica e culturale europea (➔ oltre); in senso lato, si parla poi di I. (o neo-i.) anche a proposito di altre forme e manifestazioni storiche della cultura, nelle quali si ritiene di poter ravvisare taluni di quegli aspetti strutturali che si considerano caratteristici dell’I. storicamente considerato.
L’I. (fr. Âge des lumières, ingl. Enlightenment, ted. Aufklärung) designa nell’uso corrente sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del sec. 17° o la Rivoluzione inglese del 1688 da un lato, e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del sec. 18°. La metafora della «luce» contenuta nel termine (con i sostantivi e aggettivi derivati: lumi, éclairé, enlightened, Aufklärer, ecc.) deriva da una secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza, o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di «luce di natura» fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o «illuminazione», come nel celebre distico di Pope: «La natura e le sue leggi erano immerse nella notte; Dio disse ‘sia Newton’, e tutto fu luce». Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea (cui parteciparono Bayle, William, King, Leibniz, Shaftesbury, Rousseau, Voltaire, Kant), l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.
Le varie immagini dell’I., nate dalle polemiche circa la sua vivente eredità, hanno lungamente condizionato e condizionano tuttora le prospettive storiografiche. Nel sec. 19° furono coinvolti nel dibattito gli idéologues francesi, i critici socialisti della società borghese, i fondatori delle scienze sociali, i teorici dello Stato di diritto, gli storici della Rivoluzione francese. In sede più strettamente filosofica, l’idealismo tedesco, il marxismo, il positivismo, il materialismo e più tardi lo storicismo e la filosofia della scienza hanno conservato saldi legami con l’uno o l’altro aspetto dell’eredità illuministica. Di qui i criteri selettivi parziali, e spesso polemici, che sono all’origine di modelli convenzionali sui quali si specula e si discute. Per es., la critica hegeliana dell’intelletto astratto ha condizionato lungamente la valutazione dell’I. nell’ambito della cultura idealistica e storicistica, dando luogo più tardi a rivalutazioni parziali e tendenziose. I teorici del marxismo, ereditando a loro volta tale schema interpretativo, hanno generalmente travisato i nessi reali che legano la loro opera a quella di Rousseau, dei comunisti utopisti e degli economisti, dei materialisti e dei philosophes. Ancora, il ricordo del dispotismo illuminato e del riformismo ha nutrito le ideologie empirico-moderate, in partic. nei paesi anglosassoni, immobilizzando l’eredità illuministica in formule conservatrici e in agiografie. La discussione storiografica, pur innestandosi su basi così articolate e polemiche, ha contribuito a moltiplicare le ricerche sul sec. 18°, a differenziare prospettive e giudizi, a ricostruire i contesti sociali e politici del movimento delle idee, tendendo a storicizzare sia la cultura dei lumi, sia la consapevolezza del nostro debito nei suoi confron-ti. Anche da questo punto di vista, le tensioniideali profonde dell’età dei lumi vengono a prolun-garsi fino a noi, rendendo illusoria ogni disinte-ressata contemplazione.
L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del sec. 17°. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza, sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera generalmente iniziatore Herbert di Cherbury. Ma le grandi linee della disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi. Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono la formazione di élites di eterodossi, dissenzienti e increduli. La singolare fortuna del socinianismo di origine italo-polacca nella cerchia cui appartennero Newton e Locke; il motivo erasmiano della tolleranza, importato dai Paesi Bassi tramite i profughi calvinisti Bayle, Gilles Le Clercq, Pierre Jurieu e i teologi arminiani; la ripresa di una religiosità umanistica e platonizzante da parte di Cudworth, More e degli altri «latitudinari» di Cambridge; la critica dell’«entusiasmo» fanatico e la penetrazione di motivi scettico-libertini, trovarono un punto di equilibrio nella concezione lockiana del cristianesimo ragionevole, compendiato in una semplice massima: «credere che Cristo è il messia, e vivere una buona vita». All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono senz’altro a Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso antireligioso e politico le sue vedute, infrangendo la tregua con l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. A parte Charles Blount, compilatore di testi deistici d’ispirazione hobbesiana, si posero su questa strada Toland, Collins, Matthew Tindal, William Wollaston, Thomas Woolston, Thomas Morgan e molti altri polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche, materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e religione. Sostenitore di un deismo «cristiano», in realtà sociniano, fu Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento apologetico l’immagine newtoniana dell’Universo-macchina, preceduto e seguito in questo da Richard Bentley, William Whiston, George Cheyne e molti altri fisico-teologi, in Inghilterra e sul continente, e combattuto da Leibniz in una celebre disputa epistolare. Una posizione intermedia fu assunta da Shaftesbury, discepolo di Locke in politica e dei platonici di Cambridge in etica, difensore di un teismo naturalistico. La controversia deistica, che si svolse con molta vivacità fino al 1730 circa, coinvolse posizioni politiche di varia tendenza: inizialmente sovversiva, finì per penetrare nei circoli aristocratici, contagiando e acquisendo al deismo anche politici e letterati conservatori, come Bolingbroke e Pope. Una vivace reazione al deismo da parte anglicana, iniziata da Charles Leslie e da William Warburton, ebbe i suoi più originali protagonisti nei vescovi e apologisti Butler e Berkeley, che seppero trasferire la disputa sul piano etico e filosofico; e un’eco popolare in William Law e nei mistici suoi seguaci, fondatori del metodismo. La controversia deistica era sostanzialmente esaurita, quando Hume ne ricompose i momenti nella brillante summa dei suoi Dialoghi sulla religione naturale (➔), e ricapitolò dal punto di vista della sua psicologia della «credenza» l’analisi antropologica, sociologica, politica della religione, svolta fin dalla metà del sec. 17° da Bayle, Fontenelle, dagli eruditi e dai viaggiatori. Queste furono anche le fonti della critica antireligiosa svolta clandestinamente in Francia, nei primi decenni del secolo, da Nicolas Fréret, Henry Boulainvilliers, César Chesneau Du Marsais, Jean Lévesque de Burigny, Jean Meslier e altri compilatori di manoscritti anonimi, pubblicati dopo il 1760 da Holbach. La critica della collusione tra altare e trono, la polemica contro il gesuitismo e il rigorismo giansenistico, l’esigenza di emancipazione politico-religiosa si uniscono qui a un anticlericalismo più risentito, a una più decisa ripresa di tesi epicuree e spinoziane e a una più massiccia campagna ideologica. La disputa emerse cautamente nei primi scritti di Montesquieu e Voltaire, acquistò impeto verso la metà del secolo in anonime pubblicazioni deistiche o ateistiche, fu repressa, risorse con gli scritti di Diderot ed Helvétius, seguì la sorte dell’Encyclopédie, e finalmente dilagò nelle innumerevoli compilazioni materialistiche ed empie edite da Holbach. Le persecuzioni giansenistiche, gesuitiche, governative radicalizzarono la discussione, fino a farla coincidere con la più vasta battaglia intrapresa dai philosophes sul piano delle libertà politiche e delle riforme economico-sociali. Lo testimonia soprattutto la propaganda anticristiana condotta da Voltaire attorno agli anni Sessanta, in innumerevoli libelli e satire, simmetrica ai suoi interventi in clamorosi casi giudiziari contro blasfemi ed empi, nel nome della tolleranza religiosa. Voltaire tuttavia respinse le radicali conclusioni ateistiche e materialistiche degli enciclopedisti, difendendo il credo deistico che aveva assimilato dagli scrittori inglesi. Rousseau, dopo un periodo di stretta collaborazione con gli enciclopedisti, maturò una personale rivendicazione del teismo, espressa nell’Emilio e nelle Rêveries e profondamente connessa con le sue vedute morali, educative e politiche. La stessa multiforme varietà del deismo franco-inglese non consente di ridurre a una formula la critica illuministica della religione, se non si vogliono escludere ‒ come a volte accade ‒ Rousseau e Hume; e il quadro si fa ancor più folto se vi si fanno rientrare le discussioni sulle credenze dei primitivi, sugli dei pagani, sulle religioni extraeuropee, sui miti e sulle favole antiche, strettamente legate alla mitografia erudita e all’esegesi biblica del tardo Seicento. Dalle meditazioni di Vico sulla nascita del mito alla grande disputa sui riti cinesi, dalle indagini di Newton sulla cronologia biblica ai saggi di Boulanger e di Ch. de Brosses sui culti selvaggi, un ampio dibattito avvia in tutta Europa l’indagine comparata sul- le religioni. Nel medesimo contesto rientra anche l’imponente processo contro il cattolicesimo condotto da Giannone nel Triregno, rielaborazione dell’interpretazione politica della religione d’origine spinoziana, deistica e libertina. In Germania la discussione sulla religione assume forme erudite e meno vivacemente polemiche, nell’esegesi razionalista di Wolff, Reimarus, Sempler, nelle discussioni sullo spinozismo, sul deismo e sulle scritture che coinvolsero Lessing, Hamann, Herder e Jacobi. Gli esiti della controversia sono rappresentati, da una lato, dalla proposta kantiana di una «religione nei limiti della ragione pura», inserita nel contesto della critica della metafisica e della fede pratica scaturente dagl’imperativi morali; e, d’altro lato, dall’interpretazione storicistica della provvidenza come progresso e rivelazione continua, dall’ideale lessinghiano di una perpetua «educazione del genere umano», dalla filosofia della storia di Herder. L’incontro del deismo militante franco-inglese con la cultura teologica luterana, con il pietismo e con la tradizione esegetica germanica ‒ in una situazione politica stagnante ‒ si esaurì in un razionalismo e storicismo contemplativo. Al di là della filosofia romantica della religione, nutrita profondamente di questa cultura, la dimensione politica del deismo sarà recuperata nella critica radicale della sinistra hegeliana, che tornerà a ispirarsi a Bayle, Holbach e Hume.
Non è possibile segnare una netta cesura tra la maturazione del metodo sperimentale nel sec. 17°, il razionalismo e l’empirismo da un lato, la gnoseologia illuministica dall’altro. Controverso è il ruolo del metodo e della fisica di Descartes nello sviluppo delle scienze ‒ matematica, meccanica, astronomia, biologia ‒ nella formazione di una generale concezione meccanicistica della natura e nel razionalismo dei lumi. D’altra parte le acquisizioni del metodo galileiano vennero a convergere, attraverso l’opera degli accademici del Cimento, di Boyle e dei virtuosi della Royal Society, di Pascal, Chr. Huygens e dell’Académie des sciences, nella sintesi newtoniana. Un momento decisivo di trapasso è rappresentato dalla sistemazione definitiva della meccanica nei Principia mathematica e della teoria della luce nell’Opticks di Newton, nella maturazione dell’analisi infinitesimale a opera di Newton, Leibniz, G.-F.-A. de L’Hôpital, dei Bernoulli, di B. Taylor e di altri. Alle soglie del sec. 18° la rivoluzione scientifica era compiuta. La meccanica razionale rappresentava un modello epistemologico per tutte le altre scienze, destinate a estendersi e ramificarsi per circa due secoli senza sostanziali mutamenti nei loro concetti fondamentali. Di qui anche l’egemonia del metodo sperimentale newtoniano sulla riflessione epistemologica, sorretta dal prestigio della nuova ottica e della nuova astronomia gravitazionale. In Inghilterra la fisica di Newton, profondamente radicata nella cultura metafisico-teologica dei maestri di Cambridge, aveva combinato le loro nozioni del tempo e dello spazio assoluti con l’atomismo di origine epicureo-gassendiana, e con la matematica dell’infinito successivamente sviluppata da B. Cavalieri, I. Barrow, J. Wallis. Una versione più nettamente positivistica della sintesi newtoniana, già elaborata dai diretti discepoli J. Keill, Freind, Pemberton, C. MacLaurin, fu svolta nei Paesi Bassi – dove era stata profonda l’influenza cartesiana – e diffusa in tutta Europa attraverso i manuali di P. Musschenbroeck e L.W.J. ‘s Gravesande. In Francia furono più sensibili le resistenze opposte alla nuova sintesi scientifica dalla scolastica cartesiana e dai metafisici malebranchiani. Dopo compromessi di vario genere, tentati in fisica e in metafisica da Fontenelle, Castel, Pluche e altri, la sintesi newtoniana fu divulgata da Voltaire, Buffon, Maupertuis, Madame du Châtelet; suoi singoli aspetti furono rinnovati da Alembert, A.-C. Clairaut, Maupertuis, Eulero, Boscovich. Il cosmopolitismo delle accademie ‒ Berlino, Pietroburgo, Bologna ‒ consentì una rapida circolazione di uomini e idee, stimolando ovunque il ricambio tra l’attività scientifica periferica e quella dei due massimi centri, Parigi e Londra. In generale, la fisica newtoniana nutrì anche la polemica ideologica dei philosophes francesi, mentre in Germania e in Italia fu recepita, rispettivamente, nell’ambito delle discussioni metafisico-gnoseologiche della scuola leibniziana, e della tradizione tecnico-matematica della scuola galileiana. L’altro aspetto capitale della filosofia dei lumi è rappresentato dallo svolgimento e adattamento della gnoseologia di Locke: l’origine empirica delle idee, l’analisi dei processi associativi, la critica delle illusioni linguistiche come fonte di falsi dilemmi metafisici, fornirono una soddisfacente giustificazione del metodo sperimentale, confluendo in Inghilterra e in Europa con gli sviluppi delle scienze esatte. Vi si richiamarono i filosofi italiani, da Genovesi a Verri e Beccaria; Voltaire, Condillac, Helvétius condussero in nome di Locke una serrata critica dello «spirito di sistema» che aveva dominato le costruzioni dei filosofi razionalisti del Seicento. I criteri analitici lockiani furono fatti valere da Condillac nell’analisi del linguaggio, da Helvétius nella critica sociale e politica, soprattutto contro i privilegi dell’educazione aristocratica. Più indirettamente, d’Alembert vi si richiamò nella redistribuzione delle discipline in seno all’orbis scientiarum eredita- to dall’enciclopedismo secentesco. D’altra parte Diderot si rifece, oltre a Locke e alla sintesi new- toniana, al grande progetto baconiano di una connessione articolata tra scienze pure, arti mecca- niche e tecnologia, che trovò la sua pratica realizzazione nell’Encyclopédie. Comune agli enciclopedisti è la concezione non speculativa della filosofia, intesa appunto come riflessione epistemologica sulle varie scienze e sulle loro articolazioni, in vista di un preciso programma economico, politico, civile: nesso di teoria e prassi che riflette una consapevole presa di coscienza da parte del Terzo Stato ‒ di cui gli enciclopedisti furono gli ideologi ‒ del proprio ruolo storico. I medesimi motivi operano, in direzioni diverse, nell’indagine epistemologica di Berkeley e di Hume, entrambi critici del metodo sperimentale e delle pretese oggettivistiche connesse ai «modelli» fisici (come il concetto di corpuscolo materiale, l’infinito matematico e i raggi ottici). Mentre la critica di Berkeley mirava a mettere in crisi i fondamenti teorici della fisica sperimentale in funzione di una restaurazione metafisica dell’antica immagine del cosmo, qualitativa e platonizzante, Hume operò la dissoluzione scettica dei processi logici e dei presupposti metafisici impliciti nel metodo newtoniano, mostrandone l’origine in abiti psicologici indebitamente ipostatizzati. Ai loro punti di vista si è richiamata la filosofia della scienza moderna, dalla critica della meccanica di Mach ‒ momento centrale della crisi relativistica ‒ all’analisi positivistica del linguaggio scientifico. È noto che la caduta dei presupposti metafisici della fisica, operata da Hume, scosse Kant dal «sonno dogmatico» che contrassegna i suoi giovanili lavori gnoseologici, teologici, cosmologici, orientati nel senso di una ricezione eclettica di motivi tardo-cartesiani, leibniziani, newtoniani, correnti nella scolastica post-wolffiana. Il problema originario della filosofia critica si configurò in parte come tentativo di ricostruire i fondamenti logici della fisica newtoniana, non più sulle basi irrecuperabili della metafisica razionalista, ma radicandoli nelle strutture a priori della sensibilità e dell’intelletto, così da sottrarli a ogni relativismo scettico. Tempo e spazio assoluti e le leggi della meccanica acquistavano così ‒ dopo un’elaborazione scientifica secolare ‒ lo status ontologico di «forme» trascendentali, condizionanti l’esperienza. Ma l’instabilità del tentativo kantiano risalta dalla frammentazione interna delle tre Critiche e dalle ricorrenti tentazioni di restaurare una metafisica della natura; inoltre, verso la fine del secolo, gli studi di K.F. Gauss facevano entrare definitivamente in crisi la convinzione che la geometria euclidea fosse quella «naturale», iniziando così una corrosione ben più radicale delle premesse teoriche della meccanica classica. Comunque il profondo nesso che lega ancora la filosofia di Kant alle scienze esatte fu travisato dai suoi critici idealisti, dando luogo a un riflusso speculativo nella filosofia della natura, e sanzionando la dicotomia tra metodo sperimentale e conoscenza storico-politica, ignota all’Illuminismo. D’altra parte le singole scienze si svilupparono automaticamente secondo i criteri prefissati, a opera di grandi matematici e fisici, quali J.L. Lagrange, A.M. Legendre, G. Monge, P.S. Laplace, W. Herschel; la chimica moderna fu fondata da A. Lavoisier e J. Priestley; l’elettrologia da B. Franklin, Ch.A. Coulomb, H. Cavendish, L. Galvani, A. Volta. Le ricerche biologiche, a partire dall’opera dei fondatori della microscopia del sec. 17°, si svilupparono soprattutto riguardo ai problemi della generazione, grazie a L. Spallanzani, Ch. Bonnet, Maupertuis, Buffon; mentre l’anatomia comparata e la tassonomia vegetale e animale ‒ ancora rigidamente fissista nei suoi fondatori, J. Ray e Linneo ‒ facevano intravedere i processi dell’evoluzione naturale, culminando nell’opera di J.B. de Lamarck. Anche le scienze biologiche furono profondamente influenzate dalla riflessione filosofica ‒ da Buffon a Kant ‒ e ne subirono reciprocamente l’influenza.
Se è generalmente presente nelle teorie politiche del sec. 18° l’idea di progresso, associata alle vedute illuministiche sulla storia e sulla società, il criterio d’interpretazione va a sua volta mediato con la considerazione delle forze economico-sociali che di tale schema si giovarono per affermare la propria iniziativa politica. Anche qui, l’emancipazione della borghesia dalle forme della società feudale, la modificazione delle forze e dei rapporti di produzione, la costituzione della grande industria capitalistica, si svilupparono secondo ritmi diversi nei vari paesi europei, stimolando o accompagnando l’evoluzione delle concezioni politiche. Una prima caratteristica, comune ai politici dell’I., consiste nel punto di vista pragmatico, che accantona la trattazione dei problemi politici in chiave di ragion di Stato, e di prudenza o arte di governo ‒ dominante negli scrittori «machiavellici» del Seicento ‒ sostituendovi l’impegno riformistico, la tensione volontaristica a mutare i rapporti sociali. Quindi, una seconda costante si riassume nel quesito di Hume, «se la politica possa ridursi a scienza». Entrambe le esigenze riflettono il nuovo ruolo storico della borghesia e l’incidenza crescente della tecnologia e della scienza nella vita associata. Il peculiare grado di sviluppo economico e politico raggiunto dall’Inghilterra negli anni della rivoluzione «gloriosa» segnò anche un nuovo punto di partenza per l’egemonia della borghesia commerciante. La costituzione del 1689, e la teoria contrattualistica lockiana che la giustificava, furono ben definite da S. Laski come la nascita della concezione dello Stato in quanto «società a responsabilità limitata», fondata sul consenso di un’élite, improntata a corretti rapporti commerciali tra i protagonisti della vita economica, riservante loro il godimento della proprietà e degli altri diritti individuali, la garanzia delle leggi, la tolleranza delle opinioni. Al nuovo ordinamento ‒ sorto politicamente dal compromesso, e negante in teoria il diritto divino del monarca ‒ fece seguito la prassi empirica dell’equilibrio tra i vari poteri dello Stato (monarchia, parlamento, magistratura) e del governo di gabinetto. Assorbendo le tensioni sociali, quest’ordinamento favorì lo sviluppo della rivoluzione industriale ‒ dalla metà del secolo in poi ‒ entro un quadro di sostanziale conservazione sociale. Della stabilità delle istituzioni inglesi e di un moderato conservatorismo liberale furono interpreti Bolingbroke, Hume, i grandi storici scozzesi, e più tardi Burke, critico del giacobinismo e della rivoluzione d’oltre Manica. Anche l’opera dell’economista scozzese A. Smith, nel suo orientamento sociologico, alieno da giudizi di valore, riflette la prassi politica liberale nell’analisi dei processi produttivi capitalistici, dei sottostanti conflitti sociali, della distribuzione della ricchezza, e più in generale nella concezione dello Stato di diritto, rigorosamente limitato nelle sue funzioni economico-sociali. La fissazione dei concetti fondamentali della scienza economica moderna si deve alla peculiare convergenza tra l’analisi scientifica della vita morale condotta dalla scuola scozzese, il liberalismo politico teorizzato da Hume e le teorie fisiocratiche. In Francia il modello costituzionale lockiano operò profondamente nei programmi di riforma dei philosophes e nella volontà di ricondurre la politica ai modelli esplicativi delle scienze. Voltaire dette l’avvio a un vivace movimento d’opinione a favore di un trapianto delle libertà inglesi, che non avrebbe cessato di diffondersi in Europa in tutto il corso del secolo. Nel suo capolavoro Montesquieu mediò questa esigenza (viva soprattutto nella celebre formula della divisione dei poteri, direttamente ispirata a Bolingbroke) con il tentativo di gettare le basi di una scienza dell’uomo storico-sperimentale, e articolò la sua indagine facendo convergere attorno alla formazione delle leggi le componenti religiose, economiche, etico-politiche presenti storicamente nelle varie società. La proposta politica implicita nello Spirito delle leggi (➔) (1748) era quella di un’illuminata razionalizzazione dello Stato, mediante il rinnovo delle antiche forme parlamentari cadute in disuso nell’età assolutistica. Non diversamente orientati furono, in generale, i fisiocratici, teorici del laisser faire in economia, in funzione di un’emancipazione dalle restrizioni e strutture feudali, di una liberalizzazione dell’economia agricola e di un alleggerimento della pressione fiscale sulla proprietà latifondistica. I loro programmi, maturati nell’ambito dell’Encyclopédie, trovarono difficoltà a tradursi in concrete iniziative di governo ‒ a causa della persistente diffidenza e ritrosia da parte del parlamento di Parigi e della monarchia a lasciarsi guidare dai riformatori ‒ finché non prevalsero con Luigi XVI, A.R.J. Turgot e J. Necker. Ma ormai l’evoluzione politica ed economica del Terzo Stato aveva largamente preceduto le capacità di adattamento del sistema, rigido e sclerotico, ponendo in movimento le forze che lo avrebbero travolto. Appaiono dominanti, in questa prospettiva, le proposte riformistiche degli economisti, di Mably, di G.T.F. Raynal, mentre in taluni articoli dell’Encyclopédie e negli scritti di Helvétius e d’Holbach la violenta polemica antireligiosa si accompagnava a prospettive politiche più radicali, in senso laico e democratico. Le idee egualitarie che si affacciano in alcuni scritti di Diderot, in E.G. Morelly, S.N.H. Linguet, e più tardi nel comunismo utopistico di F.N. Babeuf, si richiamano piuttosto alle utopie della rinascenza, alla polemica contro la civiltà-corruzione, al mito del buon selvaggio. Si può considerare intermedia tra il riformismo dei philosophes e l’egualitarismo degli utopisti la teoria democratica di Rousseau, nella quale confluiscono la problematica giusnaturalista e lockiana da un lato, l’assolutismo hobbesiano dall’altro (con il tema della volontà generale). Il prevalente carattere normativo del Contratto sociale, le sue complesse implicanze morali, educative, religiose, segnano il profondo distacco di Rousseau dagli altri politici dell’I., nel senso di una con- cezione etica della vita politica, ben lontana dalla tendenza sociologica o scientifica comunemente affermatasi tra loro. Ben al di là della riforma della Polonia e della Corsica, cui Rousseau dedicò i propri progetti di Costituzione, il suo pensiero politico nutrì la generazione giacobina in tutta Europa. Il suo apporto modificò profondamente i presupposti del giusnaturalismo e della concezione dello Stato di diritto, influendo sia su Kant e sulla tradizione liberale successiva, sia sullo sviluppo delle idee socialiste. Guidato dall’irradiamento cosmopolitico dell’I. franco-inglese, il riformismo e dispotismo illuminato seguì orientamenti differenziati nei vari paesi europei. Le riforme trovarono terreno propizio dove sussisteva un tessuto socioeconomico sviluppato, come nella Toscana leopoldina e nella Lombardia dei Verri e di Beccaria; conservarono carattere autoritario ed ebbero scarsa presa sulle strutture civili nell’Impero austriaco sotto Maria Teresa e Giuseppe II, nella Russia di Caterina II e nella Prussia di Federico II. In questi paesi le idee illuministiche non divennero patrimonio di vaste élite sociali e si limitarono volta a volta a suggerire la riforma dei codici penali, la laicizzazione dello Stato, la razionalizzazione della vita economica, l’ammodernamento dei sistemi educativi. Nel Regno di Napoli la persistente tradizione giurisdizionalista giannoniana favorì la fioritura autonoma di un complesso moto intellettuale, di cui furono protagonisti Galiani, Genovesi, Pagano, Filangieri, che recepirono e rielaborarono originalmente negli studi storici, giuridici, economici, le proposte emerse dal gran dialogo europeo, promuovendo e sopravanzando insieme le riforme civili, rese discontinue e incerte dall’irresoluta azione della monarchia e dall’organica arretratezza del Regno. Già attorno al 1760 la politica coloniale degli Stati europei aveva trovato critici acuti nei philosophes, sensibili al fascino dello stato di natura e del buon selvaggio, in nome della filantropia. La richiesta di abolire la tratta degli schiavi neri nelle colonie americane, l’analisi dello sfruttamento coloniale delle Indie e del corrispettivo arricchimento commerciale delle grandi compagnie si delinearono con maggior precisione negli scritti dei viaggiatori e nell’opera dell’abate Raynal. La formazione ideologica dei philosophes americani si svolse in tale ambiente, riflettendo variamente, oltre al filantropismo e all’anticolo- nialismo, anche le premesse lockiane e baconiane dell’enciclopedismo: Th. Paine teorizzò i fondamenti etici della rivoluzione americana, Th. Jefferson v’introdusse le fondamentali scelte politiche, Franklin ne interpretò i valori popolari, attraverso un’attiva mediazione con i circoli illuministici francesi. Così, firmatari della Dichiarazione d’indipendenza del 1776, essi la giustificarono alla luce dei medesimi principi dell’autogoverno, del consenso, delle garanzie dei diritti individuali, che erano alla base del contrattualismo lockiano e che ‒ in assenza di rigide strutture socio-economiche ‒ conferirono una fisionomia peculiare al liberalismo americano e all’evoluzione storica degli Stati Uniti, propaggine autonoma dal ceppo dell’I. europeo.