immigrazione
Ingresso e insediamento, permanente o temporaneo, in un Paese (regione) di persone provenienti da altri Paesi (regioni). Si parla di emigrazione (➔) dal punto di vista del Paese di origine. Dagli anni 1970 si è intensificato il fenomeno dell’i. proveniente dai Paesi poveri verso quelli industrializzati, nonostante il minor flusso migratorio osservato subito dopo il primo shock petrolifero (1973). In Italia nel 2008 gli stranieri residenti, secondo i dati ISTAT, erano 3.432.651. Benché il lavoro resti la motivazione prevalente dell’i., sono in aumento gli arrivi per ricongiungimento familiare, conformemente agli orientamenti europei e internazionali. Con il passare del tempo si è anche manifestata una tendenza al riequilibrio nella composizione per genere e un incremento del peso percentuale delle classi d’età più giovani (0-18 anni), collegato alla stabilizzazione della presenza straniera. La forza lavoro immigrata nel 2008 è stata impiegata per il 40% nell’industria, per il 55% nel terziario e per il restante nell’agricoltura. I lavoratori immigrati trovano collocazione prevalentemente nel lavoro domestico e di assistenza domiciliare, nell’edilizia, nelle pulizie industriali e nelle altre mansioni di servizio a bassa qualificazione, nei rami metalmeccanico e siderurgico, oltre che in alcune attività del settore primario, anche con rapporti di tipo stagionale. La normativa di riferimento a partire dal 2002 è la l. 189/2002 (nota come legge Bossi-Fini), che ha vincolato il permesso di soggiorno all’esistenza di un contratto di lavoro. Le motivazioni dell’i. possono essere suddivise tra fattori di espulsione dal Paese di origine (push factors), quali la mancanza di prospettive economiche, l’instabilità politica o la violazione dei diritti umani, e fattori di attrazione dal Paese di destinazione, quali la presenza di maggiori opportunità di lavoro e di migliori condizioni di vita. La teoria economica ha sviluppato diversi modelli utili a spiegare la decisione di immigrazione. Il modello di Harris-Todaro mostra che tale decisione è basata sui differenziali attesi di reddito fra aree e non sui differenziali effettivi. Ciò implica che la migrazione verso aree a elevata disoccupazione può essere economicamente razionale se il reddito atteso è maggiore.