Imperi
Il termine 'impero' è usato in due accezioni. In quella più ampia, che è anche la più diffusa, esso designa una formazione in cui un gruppo politico esercita il controllo su altri gruppi politici: "Gli imperi sono costituiti da rapporti di controllo politico imposto da determinati gruppi politici sulla sovranità effettiva di altri gruppi politici" (v. Doyle, 1986, p. 19); oppure, in termini ancora più generali: "L'impero è un meccanismo per riscuotere tributi" (v. Wallerstein, The modern..., 1974, p. 16). La struttura del gruppo dominante in questo caso non è rilevante: possono costituire imperi sia città-Stato e Stati nazionali, sia regni tribali e feudali. Questa accezione ampliata del termine 'impero' presenta però due svantaggi. In primo luogo, si mettono sullo stesso piano fenomeni assai diversi tra loro - il dominio di Attila e l'Impero romano, ad esempio, si trovano a essere inclusi nella stessa categoria; in secondo luogo, si operano esclusioni arbitrarie: si prendono in considerazione i regni degli Unni e degli Zulù, ma non quelli di Tonga o di Léon, sebbene il primo abbia esercitato il controllo su Samoa per quattrocento anni e il secondo abbia riscosso per decenni tributi dagli Stati musulmani di Ṭāif.
Dati questi inconvenienti, nella letteratura scientifica si è cercato costantemente di dare un'accezione più limitata al termine 'impero'. Un eccesso in questo senso va senz'altro considerata la proposta di riferire il termine esclusivamente all'Impero romano e a quelli che gli sono succeduti (v. Barker, 1929¹⁴; v. Koebner, 1961), riflesso di una visione eurocentrica che non tiene conto delle culture extraeuropee. Altre proposte - come quella di precisare il concetto collegandolo a un determinato ceto sociale (v. Kautsky, 1982) o alla forma burocratica dell'amministrazione (v. Eisenstadt, 1963) - pur mettendo in luce aspetti importanti, restano però tutto sommato ancorate a una prospettiva astorica. Più feconda appare l'idea di collegare la nascita degli imperi a determinati stadi dell'evoluzione sociale - idea formulata dapprima nell'ambito della teoria dell'evoluzione multilineare (J. H. Steward) e ripresa in seguito dagli esponenti della teoria della 'civilizzazione epigenetica' (J. Friedman, K. Ekholm, M. J. Rowlands). In questa prospettiva gli imperi sono fenomeni politici che fanno la loro prima comparsa nell'ambito di sistemi pluristatali urbani e mirano a controllare le condizioni sovralocali della produzione locale, condizioni che possono essere di natura sia economica che politica (v. Ekholm e Friedman, 1980; v. Breuer, 1987).
Questa definizione consente di distinguere gli imperi da altre forme di espansione proprie di sistemi sociali più semplici (ad esempio le società tribali o gli Stati segmentari). Anche per quanto riguarda l'epoca contemporanea si può arrivare a una definizione più precisa e circoscritta del concetto di impero se si tiene presente l'affermazione di Immanuel Wallerstein, secondo la quale l'economia-mondo capitalistica è incompatibile con gli imperi veri e propri (v. Wallerstein, The rise..., 1974). Questi ultimi infatti aspirano alla totalità, a un controllo completo del relativo 'sistema globale' comunque questo venga configurato - in termini magico-mitici, in una 'simbolizzazione cosmologica', oppure in termini più astratti come 'ecumene' (v. Voegelin, 1956-1987). Il sistema capitalistico si fonda invece su un legame economico, su un'economia-mondo. I cosiddetti imperi mondiali del XIX secolo - come l'Inghilterra o la Francia - in realtà non sono tali: si tratta piuttosto di Stati nazionali con appendici coloniali che operano nel contesto di un'economia-mondo (v. Wallerstein, The rise..., 1974). Anche se questo approccio dà adito a nuove questioni - ad esempio in merito all'epoca esatta in cui ha avuto inizio questa economia-mondo, o allo status dei cosiddetti imperi coloniali - tuttavia esso consente di dare una definizione perlomeno approssimativa del concetto di impero: gli imperi sono sistemi politici con aspirazioni ecumeniche, che nell'evoluzione storica si collocano tra le società tribali e arcaiche da un lato e la moderna economia-mondo capitalistica dall'altro.
Dal punto di vista della sociologia delle forme di potere, gli imperi rientrano nella categoria del potere patrimoniale definita da Max Weber, che si fonda sull'appropriazione individuale di risorse strategiche e sul loro sfruttamento per la costituzione di un potere personale. Nuclei patrimoniali di questo tipo si costituiscono in un primo tempo all'interno di un gruppo politico senza alterarne la struttura. Nei primi stadi dello Stato territoriale urbano essi coesistono spesso con organi consultivi in seno ai quali vengono prese le decisioni politiche. Tuttavia, quanto più aumentano i dislivelli di potere tra i singoli 'casati', tanto più cresce la possibilità che il signore più potente si sottragga all'obbligo dell'approvazione collegiale delle decisioni per imporre la propria volontà agli organi consultivi. Allorché infine egli riesce a esautorare questi ultimi e a costituire un ordinamento in cui il potere decisionale si identifica in tutto e per tutto con il suo potere personale, il gruppo politico si trasforma in Stato patrimoniale (v. Weber, 1922). Condizioni essenziali perché ciò si verifichi sono: l'esistenza di un apparato coercitivo personale sufficientemente esteso, il conseguimento della sovranità militare e giurisdizionale nonché lo sviluppo di una copertura del fabbisogno di tipo patrimoniale sotto forma di obblighi di servitù e obblighi tributari dei sudditi e/o di sfruttamento del commercio estero, sia mediante l'esazione di dazi e imposte, sia mediante concessioni o monopoli.
Lo Stato patrimoniale si trasforma in impero patrimoniale allorché il dominio viene esteso ad altri Stati. La limitatezza degli strumenti di potere, le difficoltà logistiche e lo scarso sviluppo dei mezzi di comunicazione portano spesso a una graduazione del potere esercitato dal sovrano. Gli Stati nelle immediate vicinanze del centro imperiale vengono inevitabilmente incorporati nell'amministrazione patrimoniale, mentre quelli più periferici hanno buone probabilità di essere assoggettati solo formalmente, conservando la propria struttura amministrativa. Anche nei casi in cui il potere centrale non si accontenta di riscuotere tributi ma affida il controllo amministrativo a propri viceré, governatori o satrapi, è assai probabile che permanga un notevole grado di autonomia locale. Non di rado i funzionari insediati dal potere centrale si appropriano delle loro cariche accelerando in questo modo la tendenza alla decentralizzazione.
È possibile però una variante in cui il potere del signore raggiunge livelli di gran lunga più elevati: è questo il caso dell'impero sultaniale. Mentre nell'impero patrimoniale il centro giunge a un compromesso con le élites locali, nell'impero sultaniale si contrappone frontalmente a esse. Si arriva a espropriazioni e deportazioni su larga scala, alla distruzione delle strutture amministrative locali e alla loro riorganizzazione secondo direttive impartite dal centro. Anche la popolazione delle aree più periferiche viene inserita nel sistema di copertura del fabbisogno patrimoniale. La forma di governo è autocratica, spesso dispotica. Gli apparati coercitivi - in particolare quello militare, ma anche i corpi di polizia e i servizi segreti - vengono notevolmente potenziati; l'amministrazione viene militarizzata. Per migliorare la logistica e quindi le possibilità di controllo politico vengono intrapresi imponenti lavori di infrastrutture (strade, reti di canali, ecc.).
Ciò tuttavia non è sufficiente a modificare radicalmente le condizioni di base proprie di un potere centrale. Anche la variante sultaniale, al pari di quella patrimoniale, obbedisce a una sorta di legge dell'entropia determinata dai limiti di una produzione circoscritta alla dimensione locale e regionale, da uno scarso sviluppo tecnologico e dal carattere rudimentale dei sistemi di comunicazione. Per amministrare i territori conquistati il sovrano deve insediare funzionari reclutati per via patrimoniale o extra-patrimoniale e provvedere nello stesso tempo al loro mantenimento. Ciò avviene di solito mediante l'assegnazione di benefici di varia natura. L'allontanamento dei funzionari dalla sfera domestica del signore comporta già in sé una diminuzione delle possibilità di controllo, e questa tendenza viene ulteriormente rafforzata dal fatto che i funzionari dispongono di proprie fonti di sostentamento. L'apparato' sviluppa un interesse per l'appropriazione stabile, se possibile ereditaria, dei benefici e cerca di limitare il potere discrezionale del sovrano. Si instaura così un processo che porta prima a rendere solo formale, e poi a disgregare il potere di quest'ultimo. L'impero sultaniale si trasforma in impero patrimoniale e in certe circostanze - quando il processo di dissoluzione è particolarmente avanzato - addirittura in un impero segmentario, ossia una confederazione scarsamente coesa di satrapie. Quando queste ultime recidono ogni legame con il centro, si ha quella situazione che gli storici definiscono fase di transizione o fase di frammentazione in Stati, ossia la dissoluzione dell'impero in Stati patrimoniali autonomi.
Nel contesto di questo ciclo patrimoniale va visto anche il mutamento delle forme di legittimazione. Con la dissoluzione delle società arcaiche fondate sulla parentela perde consistenza la visione magico-mitica del mondo, fondata sull'omologia tra mondo terreno e mondo ultraterreno e sull'assunto di un 'continuum ontologico' (v. Eisenstadt, 1987). Nascono nuove forme di teodicea e di speculazione sull'essere, sul divenire e sul significato del cosmo, dalle quali si sviluppano le grandi religioni. Il rapporto tra queste ultime e gli Stati patrimoniali che vedono la luce nello stesso periodo è contraddittorio. Da un lato si riscontra in esse una spiccata tendenza al rifiuto del mondo terreno o perlomeno all'indifferenza nei suoi confronti; dall'altro uno sforzo per elevare la coscienza morale, che trova espressione negli appelli rivolti sia ai singoli individui che ai detentori del potere. Questi sfruttano a proprio vantaggio tale ambiguità; non avendo più il sostegno della visione magico-mitica del mondo si alleano con le nuove religioni, in parte cooptandone gli esponenti nell'apparato statale, in parte cedendo loro in cambio dell'appoggio determinati spazi o istituzioni. La pretesa universalistica del potere si unisce così alle tendenze egualmente universalistiche delle religioni.
Sarebbe errato, tuttavia, considerare le religioni mere ideologie del potere. Perlomeno per quanto riguarda il potere centrale (patrimoniale o sultaniale), occorre mettere in evidenza anche l'azione in senso contrario della religione, la quale sottolinea il vincolamento concreto del potere alla tradizione, in contrasto con la sua pretesa in via di principio universalistica. La nozione di potere tradizionale definita da Max Weber - una volta liberata dall'associazione troppo restrittiva con i concetti di usi, costumi, consuetudini, ecc. e ricollegata invece alle visioni del mondo per certi versi assai complesse delle grandi religioni - esprime assai bene questa duplice funzione di fondamento e di limitazione del potere svolta dalle religioni.
In una tipologia degli imperi occorre infine tener conto della distinzione tra Stati primari e Stati secondari, introdotta nella recente antropologia politica (v. Fried, 1967). Definiremo allora imperi primari quelli sorti attraverso processi endogeni dal centro di un sistema pluristatale urbano, e imperi secondari quelli che si costituiscono dalla periferia interna o esterna di tali sistemi in risposta all'espansione di Stati preesistenti.Tale distinzione coincide in gran parte con quella tra imperi storici burocratici e imperi di conquista proposta da Eisenstadt, ma è terminologicamente più precisa in quanto, ovviamente, anche gli imperi del primo tipo sono frutto di conquiste, mentre quelli del secondo tipo non possono fare a meno di un apparato burocratico.
I sistemi di Stati territoriali urbani, caratterizzati da una forma di potere patrimoniale, dai quali scaturiscono imperi primari sono storicamente piuttosto rari. Nelle due grandi aree culturali del Nuovo Mondo - la regione andina e la Mesoamerica - i sistemi di questo tipo non esistono o se ne hanno solo accenni; la forma usuale di espansione politica è costituita qui dal sistema dei beni di prestigio, che solo presso gli Aztechi mostra già la tendenza a trapassare nel ciclo patrimoniale (v. Breuer, 1990).
Nel Vecchio Mondo, invece, i presupposti per la formazione di imperi primari si sono sviluppati in tre grandi aree, caratterizzate da condizioni ecologiche e geopolitiche assai diverse: in Cina, in India e in Mesopotamia. Sia la Cina che l'India sono costituite da una serie di macroregioni geografiche in cui le risorse importanti per la civilizzazione sono distribuite in modo tanto equilibrato che ognuna di esse è in grado di assicurarsi la sopravvivenza economica. In questo caso pertanto la funzione delle istituzioni centrali è più quella di garantire l'ordine generale e di sincronizzare in certa misura i cicli di crescita regionali che non quella di favorire attivamente i processi economici. In Mesopotamia invece i centri urbani sono costretti a procacciarsi faticosamente importanti materie prime attraverso il commercio con terre lontane. Sebbene l'attività commerciale non sia monopolio esclusivo delle autorità statali, tuttavia il costante intervento di queste ultime è indispensabile sia per organizzare la produzione locale di merci che fungano da beni di scambio, sia per proteggere militarmente le vie commerciali ed eliminare i concorrenti. Questa situazione spiega la preponderanza in Mesopotamia della "economia di stoccaggio" (Oppenheim), nonché la straordinaria importanza ai fini della riproduzione sociale nel suo complesso dell'attività di organizzazione e di mobilitazione svolta dallo Stato. Questa diversità di condizioni è all'origine della differenza significativa dal punto di vista della storia delle religioni tra la visione del mondo teocentrica diffusa in Asia minore e quella cosmocentrica tipica dell'Asia sudorientale.
A prescindere da queste diversità, lo sviluppo sociale nella fase preimperiale presenta notevoli affinità: la concentrazione della popolazione in insediamenti fortificati; la parziale commercializzazione e stratificazione sociale; l'accumulazione privata di risorse strategiche, in particolare di mezzi bellici e amministrativi; la tendenza alla oligarchizzazione della costituzione politica e alla militarizzazione. Le lotte per la terra, la forza lavoro e il controllo delle vie commerciali che si scatenano tra le città-Stato minano l'antica aristocrazia di ceto. Le strutture basate sui clan e sui lignaggi si disgregano aprendo la strada all'ascesa di imprenditori politici e militari che provengono spesso dai ranghi inferiori della gerarchia sociale. Sargon I degli Accadi è un membro del seguito del re di Kish; Candragupta, il fondatore della dinastia Maurya, è un usurpatore di umili origini; Liu Bang, fondatore della dinastia Han, proviene addirittura dal ceto contadino. Il fondamento del potere di questi sovrani non è più, come nei regni arcaici, il rapporto genealogico con gli dei, ma la capacità di crearsi un seguito, di equipaggiarlo e di mantenerlo. Di Sargon si dice che "5.400 soldati consumavano quotidianamente il loro pasto sotto i suoi occhi".
Lo Stato creato da Sargon è un impero, il primo della storia. Dapprima signore di Akkadū e di Kish, Sargon conquista una dopo l'altra le città più importanti dei Sumeri insediandovi come governatori uomini del proprio seguito. Nel corso di numerose campagne militari egli estende la sua influenza ben oltre la Mesopotamia, assicurando alle città-Stato sumeriche l'accesso a importanti materie prime. È innegabile in Sargon un'aspirazione ecumenica: egli afferma che Enlil gli ha dato le terre "dal Mare superiore al Mare inferiore" e si definisce "signore del paese"; ancora oltre si spinge il nipote Naram Sin, che si proclama "signore delle quattro parti del mondo". È legittimo parlare in questo caso di un impero patrimoniale, in quanto le tribù e gli Stati assoggettati che si trovano alla periferia perlopiù sono obbligati solo al versamento di tributi e al giuramento di fedeltà, ma conservano i precedenti sovrani.
Un impero patrimoniale è anche il regno dei Maurya (320-185 a.C.), sorto dall'espansione del regno di Magadha, che nella sua fase culminante sotto il re Aśoka abbraccia la quasi totalità del subcontinente indiano. Per certi aspetti sarebbe legittimo parlare in proposito di un impero secondario, in quanto la circolazione della moneta si afferma in modo discontinuo solo dopo la conquista della valle dell'Indo da parte degli Achemenidi, e sono altresì innegabili le influenze persiane sulla scrittura e sull'ideologia dell'impero. D'altro canto la nascita di Stati territoriali urbani nell'India settentrionale ha evidenti radici autoctone, sicché l'influenza persiana va considerata più come un'accelerazione che come una diffusione culturale. Tale accelerazione spiega alcune differenze rispetto alle fasi iniziali della costituzione dell'impero in Mesopotamia. A quanto pare i Maurya mantenevano un apparato militare più esteso, i cui membri venivano retribuiti in denaro. Essi inoltre possedevano un sistema fiscale maggiormente differenziato e un esteso apparato burocratico che controllava i mercati e i porti, i commercianti e le corporazioni, al fine di assicurare al fisco la sua quota. Sebbene le testimonianze relative all'epoca di Aśoka parlino di deportazioni su larga scala e di massicci trasferimenti di popolazione, sembra si tratti di atti eccezionali che lo stesso Aśoka deplorava pubblicamente. Al di fuori del suo centro, l'impero resta una struttura scarsamente integrata, le cui aree periferiche sono governate da dinastie o da notabili locali.
Nel caso della Cina si ha invece un passaggio diretto da uno Stato di tipo sultaniale a un impero con le stesse caratteristiche. Il punto di partenza della formazione dell'impero in questo caso è lo Stato di Qin situato alla periferia occidentale dell'area urbanizzata, piuttosto povero e arretrato e costantemente esposto agli attacchi delle popolazioni della steppa. Verso la metà del IV secolo a.C., tuttavia, una serie di riforme getta le basi per la costituzione di uno Stato patrimoniale particolarmente efficiente. Le estese bonifiche, i progetti di colonizzazione e alcune modifiche nella distribuzione della terra favoriscono le famiglie dei piccoli contadini autonomi e le pongono in rapporto diretto con il sovrano, il quale acquisisce così una nuova base di imposizione fiscale e un potenziale di reclutamento per le imprese militari. Tra gli altri fattori che rafforzano ulteriormente la sua posizione vanno menzionati: la creazione di corpi paramilitari composti di cinque-sei famiglie, responsabili collegialmente della condotta di vita dei propri membri; la suddivisione del territorio statale in distretti amministrativi governati da funzionari destituibili; l'introduzione di una gerarchia meritocratica articolata in diciotto gradi; l'unificazione dei pesi e delle misure e, non da ultimo, l'istituzione di un nuovo diritto, che subordina l'antico diritto consuetudinario della nobiltà (li) all'ordinamento arbitrario fondato sulla discrezionalità del sovrano (fa), contribuendo così all'affermazione del sultanismo anche in questo campo.Shi Huangdi, che tra il 230 e il 221 a.C. annette gli altri Stati ancora esistenti e fonda l'Impero dei Qin, trasferisce questa struttura nella compagine imperiale. Assieme al suo primo ministro, seguace della dottrina assolutistica del legismo, sostituisce all'antica suddivisione amministrativa quella, propria dei Qin, in governatorati e distretti amministrati da funzionari nominati dal centro e destituibili in ogni momento. Il potere dell'aristocrazia viene spezzato in quanto migliaia di famiglie nobiliari vengono espropriate dei loro beni e confinate alla periferia dell'impero. Tutte le armi non necessarie all'esercito di Qin vengono requisite e fuse, sicché la monarchia detiene ora il monopolio della forza. Shi Huangdi unifica i pesi e le misure, la lingua e la scrittura, introduce un sistema penale particolarmente severo e imposte elevate, e costringe altresì la popolazione ai lavori forzati per realizzare gigantesche opere idrauliche e difensive che, come la Grande Muraglia, costano innumerevoli vite umane. Un grande rogo di libri corona nel 213 un dispotismo il cui principale obiettivo è la creazione di un'ecumene (tianxia) unita sul piano sia spirituale che politico, che comprende tutte le terre "sotto la volta celeste".
L'inesorabilità con cui il fondatore dell'Impero elimina il potere dell'aristocrazia ha contribuito in modo determinante a far sì che in Cina lo Stato imperiale mettesse radici più profonde che in qualsiasi altra parte del mondo. Il fondamento del potere muta nuovamente sotto la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.): nasce una nuova nobiltà terriera che possiede oltre il 50-60% della terra ed è in grado di sfruttare la propria influenza per arginare il sultanismo. Resta tuttavia un numero sufficientemente elevato di contadini liberi che versano imposte allo Stato assicurandogli così una propria base fiscale indipendentemente dall'aristocrazia terriera. Tale base si amplia ulteriormente sotto i Song (960-1127/1279), quando la rivoluzione urbana e commerciale del Medioevo offre allo Stato nuove fonti di ricchezza attraverso la tassazione del commercio. Queste basi economiche, eccezionalmente forti rispetto a quelle di tutti gli altri imperi, hanno consentito allo Stato imperiale di conservare costantemente il controllo dei mezzi militari e amministrativi nonché di sviluppare, per esercitare tale controllo, quello strumento straordinario che nel XVIII secolo susciterà l'ammirazione degli illuministi europei: la burocrazia con il suo sistema degli esami di Stato.Tutto ciò non ha potuto impedire processi centrifughi, ma una fase prolungata di disgregazione dell'unità dell'Impero si è avuta solo nel periodo compreso tra la dinastia degli Han posteriori e quella dei Sui, ossia tra il 190 circa e il 589 d.C., mentre fasi successive di decentralizzazione sono circoscritte a pochi decenni. Lo Stato imperiale in Cina rimane sempre sufficientemente forte da contrastare la forza centrifuga più potente, l'aristocrazia terriera, non da ultimo incorporandone una parte nell'apparato burocratico e controllandola attraverso il sistema degli esami di Stato. Il fatto che questa parte della nobiltà incorporata nell'apparato statale nel XIX secolo traesse solo un terzo del proprio reddito dalla proprietà terriera e circa la metà dalle prebende derivanti dalla carica spiega non solo la forza di attrazione che lo Stato esercitava sulla piccola nobiltà, ma anche perché dai Sung in poi non vi furono più conflitti degni di rilievo tra questi due pilastri della società cinese.
In India invece lo Stato imperiale non è riuscito a legarsi stabilmente con gli interessi dei ceti superiori, né ad assicurarsi una base fiscale sufficientemente ampia. Nei quattordici secoli intercorsi tra la morte di Aśoka e la costituzione del sultanato di Delhi si è avuto solo un altro impero panindiano, quello dei Gupta (320-500 d.C.). La struttura patrimoniale di tale impero trova espressione nella dottrina del rajamandala, ossia dell'articolazione della sfera del potere in un centro e in una serie di Stati tributari. Il territorio centrale dell'impero, situato come all'epoca dei Maurya nella piana del Gange, è sotto il controllo diretto dell'amministrazione centrale, mentre nelle province periferiche vige la prassi di reinsediare i principi sconfitti che sono tenuti in cambio a versare tributi e a recarsi periodicamente a corte. Da questo gruppo hanno origine i cosiddetti raja sāmanta, che nei loro principati hanno poteri pressoché illimitati e inoltre, nel tardo periodo Gupta e sotto il re Harṣa (606-648), ricoprono alte cariche nell'amministrazione centrale. Ben presto anche i funzionari regi reclamano titoli e diritti eguali a quelli dei sāmanta. Allorché, a partire dal VII-VIII secolo, per alleggerire la pressione sulle casse dello Stato i sovrani si risolvono a retribuire i propri funzionari (compresa una parte dell'esercito) assegnando loro le entrate fiscali di determinati villaggi, si ha la cosiddetta samantizzazione dell'amministrazione che, se favorisce la formazione di Stati regionali, non contribuisce certo alla stabilità dell'impero. Diversamente che in Cina, quindi, in India l'impero è rimasto un fenomeno d'eccezione.
In Mesopotamia all'impero patrimoniale degli Accadi segue quello sultaniale della III dinastia di Ur (2100-2000 circa). Analogamente a quanto avviene in Cina, è principalmente la crescente pressione esterna a favorire il processo di centralizzazione. L'antica tripartizione del potere fra Tempio, Palazzo e libere città-Stato lascia il posto al predominio del Palazzo. A seguito delle guerre e di un generale impoverimento il ceto dei contadini liberi viene a dipendere direttamente dallo Stato. L'antica nobiltà di ceto, già in declino nel periodo accadico, scompare definitivamente e viene sostituita da una nuova classe di burocrati che vivono delle rendite delle terre assegnate loro dal sovrano. Le fonti tramandano l'immagine di uno Stato fortemente centralizzato in cui tutti i processi - dalla produzione primaria al commercio con l'esterno, al sistema dei trasporti e delle comunicazioni - sono regolati sin nei minimi particolari. Manca per contro ogni accenno alla proprietà privata di terre coltivate, sicché per questa fase potrebbe risultare appropriato il modello del sistema di redistribuzione totale teorizzato da Karl Polanyi.
Il fatto che le città-Stato della Mesopotamia conservino nondimeno un notevole grado di autonomia è attestato dalla rapidità con cui, già dopo quattro generazioni, esse rifiutano la fedeltà all'impero. Dopo la fine della III dinastia di Ur la tendenza si inverte. L'influenza del settore statale viene limitata, il settore privato si estende e pone stretti limiti alle autorità politiche. A prescindere dalla comparsa episodica di quelli che Larsen definisce "one man empires" sotto Shamshi-Adad I e Hammurabi (XVIII secolo a.C.), sino all'ascesa degli Assiri domina un modello decentralizzato, che ostacola la formazione di un impero non meno del sistema degli Stati regionali indiani sotto Harṣa.
Con gli Assiri ha inizio tuttavia una nuova serie di imperi. L'orientamento economico prettamente commerciale della città di Assur subisce nel XIV secolo a.C. una radicale trasformazione in senso agricolo. Forte di questa nuova base economica e di una crescente popolazione contadina, la città inizia nel XIII secolo una politica di conquista che le assicura temporaneamente il controllo della Siria settentrionale e persino di alcune città del Mediterraneo. Allorché in seguito, nell'VIII secolo, Tiglatpileser III integra il contingente annuale di soldati contadini con un esercito permanente di soldati di professione, equipaggiato e mantenuto a spese del Palazzo, l'espansione territoriale arriva ad abbracciare nel giro di pochi decenni tutta la Mesopotamia, la Siria, la Palestina e per un certo periodo anche l'Egitto. A ragione quindi le iscrizioni dell'epoca affermano che il sovrano assiro non ha eguali, poiché è il 'signore di tutti'.
Dal punto di vista tipologico l'Impero assiro è più vicino alla forma sultaniale che a quella patrimoniale. Se è vero che spesso l'amministrazione resta nelle mani delle autorità locali e molte regioni sono legate agli Assiri solo da un vincolo di fedeltà dei signori (Egitto, Fenicia, Palestina) o da una unione personale (Babilonia), tuttavia rispetto al regno accadico l'amministrazione è caratterizzata da una maggiore capillarità e da una forte militarizzazione. La tecnica del saccheggio lascia il posto a una politica di confisca sistematica delle risorse straniere; in particolare, le terre dei principi sconfitti vengono incorporate nel dominio patrimoniale, e dal patrimonio fondiario che si viene così a creare i funzionari ricevono i loro feudi di servizio. Anche una parte della forza lavoro viene confiscata; le iscrizioni parlano di numerose deportazioni in massa, che secondo stime recenti riguardarono 4,5 milioni di individui. Anche se si tratta di una cifra approssimata per eccesso, è indubbio che le metropoli assire dovettero il rapido aumento della loro popolazione a questa tecnica di potere. Se si considerano gli imponenti progetti di infrastrutture realizzati dai sovrani nel territorio centrale del regno, sembra giustificato il paragone con l'impero sultaniale della III dinastia di Ur, sebbene in questo caso il margine per le attività private nel complesso fosse probabilmente assai maggiore. Mutatis mutandis ciò vale anche per il breve regno neobabilonese (609-539 a.C.) che succedette all'Impero assiro.
Gli imperi primari trasformano il proprio ambiente sia interno che esterno. Essi creano rapporti di dipendenza di natura sia politica che economica, ma aprono anche nuove possibilità di accumulazione, ad esempio attraverso il commercio e/o il saccheggio. La sovrapposizione di cicli regionali e globali dà luogo a formazioni ibride, che possono costituire il punto di partenza per la nascita di imperi secondari - ad esempio quando le élites di gruppi periferici o esterni spodestano militarmente le antiche élites del centro.
Poiché la gamma delle varianti in questo caso è assai più ricca che non nel caso degli imperi primari, ci limiteremo a delineare i tipi principali illustrandoli con esempi storici. Può essere utile in proposito far riferimento alla sequenza definita dalla teoria della civilizzazione epigenetica, in cui ai sistemi tribali seguono gli 'Stati clanici' o segmentari e infine gli Stati territoriali urbani. I sistemi tribali, ossia le società che fondano la propria unità politica sulla discendenza, di norma non hanno le risorse e le forme di organizzazione necessarie a contrastare con successo la costituzione di un impero, e tanto meno a conquistarlo; lo stesso vale per gli Stati segmentari, che spesso sono poco più grandi dei sistemi tribali. È possibile tuttavia che un'interrelazione di fattori geografici e di influssi storici dia luogo a sistemi tribali e Stati segmentari modificati che sfuggono a questi limiti. Nelle popolazioni stanziali tali trasformazioni si verificano così di rado (l'Egitto del Nuovo Regno) che possiamo escludere questo caso dalla nostra considerazione. Esse sono assai frequenti invece nelle popolazioni nomadi, dalle quali ha avuto origine, anche storicamente, la maggior parte degli imperi secondari.
Per quanto riguarda gli imperi dei nomadi occorre tener presente che esistono due forme di nomadismo, caratterizzate da diverse strutture sociali e politiche: il nomadismo interno e il nomadismo esterno (v. Lattimore, 1962, p. 487; v. Rowton, 1973, p. 249). La prima forma, storicamente più antica, si ritrova nelle zone di confine della Mesopotamia e della Siria, dove agricoltura e pastorizia coesistono in stretta simbiosi e dominano forme sociali che presentano elementi sia di nomadismo che di stanzialità, dando luogo a quelli che Rowton definisce "regni dimorfi". Tra queste forme miste nomadi-sedentarie e gli Stati urbani territoriali, ossia gli imperi primari, sussiste un rapporto di equilibrio precario, in cui ognuna di tali forme cerca di espandersi a scapito dell'altra. Di solito le città-Stato o gli imperi hanno il sopravvento, tuttavia in fasi particolarmente prolungate di lotte interurbane le società dimorfe hanno la possibilità di alterare l'equilibrio a proprio favore. 'Oscillazioni dimorfe' di questo tipo sembra si siano verificate a seguito del crollo degli imperi degli Accadi, della III dinastia Ur e di Hammurabi, nelle fasi della cosiddetta dominazione straniera (Gutei, Amoriti, Cassiti). Solo i Persiani però, la cui struttura dimorfa è attestata da Erodoto, riescono a formare un impero autonomo che si differenzia dalla tradizione assira e babilonese per una tecnica di potere più tollerante nonché per un simbolismo universalistico più astratto, derivato dallo zoroastrismo.
Gli imperi arabi sono nati da una mescolanza delle due forme di nomadismo. Il punto di partenza in questo caso non è il deserto dei nomadi che si spostano su cammelli, bensì le città fondate sull'economia delle oasi e sul commercio carovaniero (Mecca, Medina); anche in seguito la cultura islamica sarà prevalentemente una cultura urbana. Città e campagna tuttavia non sono nettamente separate, ma unite da strutture tribali dimorfe. Sono proprio queste strutture tribali, a loro volta sviluppate e trasformate dall'islamismo, a gettare un ponte verso i nomadi 'esterni' - i beduini del deserto - i quali si lasciano facilmente convincere a partecipare ad azioni di conquista di breve durata e di sicuro successo. Il legame creato tra i due gruppi da una fede con aspirazioni universalistiche, che prevede una ricompensa religiosa per guerrieri ed eroi, ha manifestato una straordinaria forza propulsiva. Già verso il 660, appena trent'anni dopo l'Egira, il dominio arabo si estende dalla Tunisia al Khorasan, dando luogo così al più vasto tra gli imperi dell'antico Oriente.
Sia la forza che la debolezza di questo impero possono essere ricondotte in buona parte alla originaria struttura tribale. Questa consente una rapida mobilitazione e concentrazione di forze nei punti di minor resistenza. La conquista araba non è frutto di un piano strategico globale, né delle decisioni di un califfo o di un condottiero, ma avviene in modo discontinuo, come reazione flessibile alle situazioni locali. Il rovescio della medaglia però comincia a palesarsi sin dai primi successi. L'egualitarismo diffuso soprattutto tra le tribù del deserto, la scarsa autorità degli sceicchi che non dispongono di apparati coercitivi personali, la tendenza a risolvere i conflitti attraverso faide o divisioni portano tra il 656 e il 661 a una guerra civile che avrebbe facilmente potuto segnare la fine del dominio arabo.
Ciò però non si è verificato. Conscio del pericolo che minaccia la sua posizione di dominio, il ceto privilegiato arabo si risolve ad accettare il passaggio a un nuovo sistema di governo autocratico, che comporta nello stesso tempo una dissoluzione delle strutture tribali. La carica di califfo diventa ereditaria e viene così sottratta alle rivalità fra tribù; il califfo acquista sempre più i caratteri di un'autorità eminentemente politica, mentre l'autorità religiosa passa di fatto a una classe di dotti e mistici indipendenti. Nasce una nuova élite alla quale trovano accesso anche specialisti non arabi e a volte addirittura non musulmani. L'amministrazione viene affidata a un apparato patrimoniale che si ricollega alle tradizioni dell'antico Oriente. A partire dal IX secolo si aggiunge come nuovo elemento una categoria di schiavi che svolge la funzione di guardia del corpo personale del califfo e si appropria gradualmente di importanti prerogative. La struttura del potere oscilla tra le tendenze sultaniali e una decentralizzazione basata sul sistema beneficiario, ulteriormente rafforzata dall'introduzione dell'appalto delle imposte.
Gli imperi formati dalle popolazioni dell'Asia centrale invece - l'Impero dei Mongoli nel XIII-XIV secolo, quello dei Turchi selgiuchidi e ottomani (a partire dall'XI secolo) e quello dei Manciù (dal 1644) - hanno origine da un nomadismo esclusivamente esterno. Nell'Asia centrale il nomadismo della steppa si sviluppa in condizioni geografiche che ostacolano la segmentazione e la dispersione delle tribù; questo fatto, oltre alla crescente pressione esercitata dai Cinesi ai confini settentrionali, determina già nel III secolo a.C. processi di aggregazione sociopolitici, nel corso dei quali si costituiscono forme ibride fra tribù e Stato. Nell'ambito delle tribù articolate in clan e lignaggi emerge un'aristocrazia militare distinta per nascita e rango; alcuni capi (khān) che possono contare su un esteso seguito personale riescono talvolta a sconfiggere i rivali e a esercitare un potere di tipo quasi statale su più tribù e intere confederazioni di tribù (v. Crone, 1980, p. 20). Uno di questi gran khān, Genghiz, nel XIII secolo riesce a unificare l'intera area della steppa sotto il suo comando e sfrutta il potenziale militare così ottenuto per una politica di conquista in grande stile. Verso la fine del XIII secolo nasce così il più grande impero mondiale della storia, che comprende circa quattro quinti del continente euroasiatico.
Non esiste una formula generale applicabile alla dinamica di sviluppo di questo tipo di imperi. Senza dubbio una politica di mero saccheggio e repressione non giova alla stabilità del regime: in Cina la dinastia Yuan dura solo fino al 1368. Ciò tuttavia vale soltanto nei casi in cui le popolazioni sconfitte hanno un notevole grado di coesione sociopolitica. In Russia ad esempio, dove ciò non si verifica, i khān dell'Orda d'Oro conservano il potere sino al XVI secolo. L'accordo raggiunto dai Manciù con le popolazioni sconfitte - o perlomeno con i ceti superiori di queste ultime - subito dopo la conquista della Cina ha senza dubbio contribuito alla durata e alla stabilità del regime. Nella Transossiana il medesimo processo determina nel XIV secolo un assorbimento dei conquistatori mongoli da parte della popolazione turca anch'essa nomade. La conversione all'Islam ha favorito nel Vicino Oriente l'espansione degli Ottomani, ma non è stata di alcuna utilità alla dinastia mongola degli Ilkhān in Persia.
Occorre menzionare infine due fenomeni derivati che, per quanto non rientrino nella categoria 'imperi dei nomadi', tuttavia sono impensabili senza di essi. Il primo riguarda la formazione di gruppi 'parasociali', costituiti da frammenti di tribù, mercenari e banditi che si raccolgono attorno a condottieri, avventurieri o fanatici religiosi, costantemente alla ricerca di opportunità di procacciarsi da vivere senza lavorare. Uno di questi "capi parasociali" (Rowton), Timur, conquistò alla fine del XIV secolo un grande regno che aveva come centro il Khorasan, ma ebbe vita breve. Assai più a lungo durarono l'Impero dei Moghūl fondato da Baber in India (1526-1857/1858) e quello dei Safawidi in Iran (1500-1722). Tutti questi imperi sono caratterizzati da una forte tendenza al 'sultanismo', che però nel corso del tempo lascia il posto all'usuale decentramento basato sul sistema beneficiario. Lo stesso vale per il secondo fenomeno, ossia la continuazione di prassi autocratiche anche dopo la fine del dominio straniero da parte di una dinastia autoctona: è questo il caso della Cina dei Ming e della Russia zarista.
Gli Stati territoriali urbani costituiscono il punto di partenza degli imperi primari. Il loro sviluppo spontaneo è legato alle particolari condizioni ecologiche delle grandi pianure alluvionali. Al di fuori di queste zone nascono solo imperi secondari, che sfruttano le opportunità offerte al commercio da un sistema globale. L'instabilità e la natura rischiosa dei rapporti commerciali rendono opportuno proteggere con mezzi politici e militari le vie di comunicazione. Questa situazione spiega la nascita in Asia Minore, nel II secolo, di alcuni 'imperi' di breve durata, ad esempio quello degli Ittiti o dei Mitanni, i quali però rispondono più che altro all'esigenza di tutelare la propria area di influenza e non hanno alcuna pretesa ecumenica.
Più significativi storicamente sono stati i tentativi di costituire imperi nelle zone di confine marittime dell'Asia Minore, dove le città-Stato sono il risultato di un lungo processo di sviluppo caratterizzato da improvvisi balzi in avanti e da crolli catastrofici. La costituzione di imperi in quest'area è ostacolata da tre fattori. In primo luogo le risorse locali non sono sufficienti per un processo di concentrazione economica e politica esclusivamente endogeno; in secondo luogo il potere all'interno delle singole città-Stato è assai più disperso che non negli imperi primari; in terzo luogo il gran numero di centri concorrenti ostacola una unione politica. Per secoli quindi la forma dominante di integrazione politica non è l'impero, ma la lega di varie città (simmachia), in cui i membri dell'associazione, pur conservando sostanzialmente la propria sovranità, si impegnano ad assistersi reciprocamente e a condurre insieme le guerre.
All'interno di queste leghe si delinea però la tendenza a una concentrazione del potere. Mentre nella lega etrusca e in quella peloponnesiaca tale tendenza porta solo alla formazione di una simmachia egemonica in cui le singole città (Tarquinia, Sparta) esercitano un ruolo guida senza peraltro inficiare in modo significativo l'autonomia dei membri dell'alleanza, nell'area di influenza di Cartagine e di Atene tale tendenza acquista una chiara connotazione imperiale. I membri della lega cartaginese hanno l'obbligo di versare imposte dirette alla metropoli e di fornire contingenti militari, e non possono condurre una politica estera autonoma; i membri della lega delio-attica sono tenuti a corrispondere tributi ad Atene, a ospitarne guarnigioni e devono subire numerose ingerenze nel proprio sistema giuridico e monetario e nella costituzione politica. Né Cartagine né Atene tuttavia hanno avuto il tempo di portare avanti questa tendenza. Esse non svilupparono né un'amministrazione imperiale né un'ideologia ecumenica, cosicché la formazione dell'impero è rimasta per così dire a metà strada.
Imperi nel senso pieno del termine sono invece quelli ellenistici, nati dalle conquiste di Alessandro Magno, che però possono essere considerati solo con molte riserve un prodotto della città-Stato greca. Alessandro conduce la sua guerra contro i Persiani come stratega della lega di Corinto, che formalmente è una simmachia egemonica. Ma la potenza guida di tale lega, la Macedonia, non è una città-Stato bensì uno Stato territoriale, fondato sull'associazione tra un'aristocrazia disseminata nel territorio e un ceto contadino soggetto a signori feudali. Negli imperi fondati dall'élite militare macedone inoltre si sono ben presto riaffermate tradizioni tipiche dell'Asia Minore, sicché per quanto riguarda l'organizzazione del potere l'influenza delle città-Stato è doppiamente mediata (è ovvio che sul piano culturale la situazione risulta del tutto diversa).
Il vero prodotto della città-Stato mediterranea è l'Impero romano. Spinta dal desiderio dei contadini proprietari terrieri (assidui) di acquisire altra terra, nonché dal desiderio non meno importante di laus e gloria dell'aristocrazia, Roma diviene dapprima la potenza egemone dell'Italia, che impone limiti alla politica difensiva e offensiva degli alleati ma non intacca la loro autonomia amministrativa e non esige tributi. Nella lotta contro Cartagine, che già Polibio interpretava come lotta per il dominio mondiale, Roma conquista gran parte del Mediterraneo e pone così le basi per un trasferimento nella metropoli di imposte, tributi e schiavi che non ha precedenti nella storia. L'incapacità della sua oligarchia di creare una organizzazione che superi le vecchie forme organizzative della città-Stato determina la crisi del I secolo, che si risolve solo con la costituzione dell'Impero romano. Viene creato un apparato burocratico - peraltro abbastanza modesto se paragonato a quello cinese -, l'élite urbana si apre ai ceti dominanti della provincia e anche il diritto civile conosce un ampliamento adeguato a un impero mondiale. Questa trasformazione in uno Stato ecumenico si riflette nel passaggio dalla formula Imperium populi romani, usata ancora da Cicerone e da Cesare, a quella di Imperium romanum propria dell'epoca di Augusto; due secoli dopo, nella Constitutio antoniniana, si parlerà di Orbis romanus.
Dal punto di vista della sociologia delle forme di potere, l'Impero romano costituisce una forma a sé stante solo nel periodo iniziale. Con il consolidamento dello Stato sotto l'impero di Augusto esso si avvicina sempre più al tipo dell'impero patrimoniale, per assumere poi nel periodo della monarchia assoluta (dominatus) caratteri sultaniali. Poiché l'ampliamento dell'apparato burocratico e soprattutto il rafforzamento dell'esercito non sono accompagnati da un aumento corrispondente delle risorse finanziarie dello Stato, a partire dal IV secolo l'Impero mostra chiari sintomi di disgregazione, che preludono al crollo avvenuto poco dopo. In Occidente questo processo sfocia in una decadenza sociopolitica globale, che non ha corrispettivi nella storia degli imperi. In Oriente invece l'Impero, forte di un'estesa proprietà terriera statale, di un sistema liturgico di copertura del fabbisogno e non da ultimo della potenza economica di Costantinopoli quale metropoli del Mediterraneo orientale, riesce a sopravvivere per quasi un millennio (Impero bizantino), sinché anche qui lo Stato non soccombe alla tendenza alla feudalizzazione.
Con questa espressione un po' complicata si designa un fenomeno che non rientra in nessuna delle categorie esaminate in precedenza, ossia quello della ricostituzione di imperi disgregati a partire dalla periferia. Protagonisti di questo processo sono gruppi di militari che non risiedono (esclusivamente) nelle città-Stato, né conducono una esistenza nomade; si tratta piuttosto di proprietari terrieri dislocati nel territorio che hanno determinati diritti di signoria. Sebbene questa condizione possa essere definita senz'altro 'feudale', sarebbe tuttavia una contradictio in adjecto parlare di un impero feudale. In qualunque forma si presenti, il feudalesimo costituisce sempre un fenomeno centrifugo e quindi l'opposto di ciò che perseguono gli imperi. Gli imperi di secondo ordine sono il prodotto storico di una struttura feudale, ma il loro obiettivo è proprio quello di spezzarla - anche se tale obiettivo, data la solidità di detta struttura, può essere conseguito solo in modo indiretto e non senza compromessi di vario genere (gerarchia feudale). Un ruolo decisivo hanno a riguardo i nuclei residui della compagine statale e della legittimazione ecumenica dell'impero disgregato.
La formazione di imperi di questo tipo è un fenomeno estremamente raro, che si verifica solo quando: a) un impero ha già abdicato a gran parte dei propri diritti di signoria e costituisce un'unità puramente nominale; b) le altre due forme dell'impero secondario sono escluse o minimizzate. Nell'ambito di una struttura feudale, che si fonda sull'autoequipaggiamento e sulla costituzione di un seguito armato, il potenziale militare è assai più debole che non nell'ambito delle città-Stato e dei gruppi nomadi, in quanto gli eserciti sono difficili da mobilitare e in caso di sconfitta si sciolgono rapidamente; a ciò si aggiungono le ben note lotte per il prestigio dei signori feudali e la massiccia resistenza opposta a qualsiasi tentativo di statalizzazione dell'apparato militare. La feudalizzazione, ossia la concessione di terre in cambio di prestazioni militari, la decadenza dello Stato imperiale e il perdurare nello stesso tempo di determinati nuclei istituzionali e di legittimazione, lo scarso grado di urbanizzazione e una presenza limitata di nomadi costituiscono le condizioni essenziali per la formazione degli imperi di secondo ordine.
Un insieme di condizioni di questo tipo si è avuto, sia pure in forma germinale, nelle tre aree degli imperi primari - nel modo più evidente forse in Iran, dove dopo il crollo del regno dei Seleucidi si stabilisce una popolazione di origini nomadi, i Parti, il cui Stato dopo una fase iniziale sultaniale subisce una rapida decentralizzazione, anzi una vera e propria feudalizzazione, ossia un'appropriazione dei diritti di signoria da parte di un'aristocrazia di sangue. Un membro di questa aristocrazia regionale riesce nel III secolo d.C. a invertire la tendenza e a unire i magnati nella lotta contro l'Impero romano, che in quell'epoca (crisi del II secolo) mostra chiari segni di indebolimento. Sorge così il regno dei Sasanidi, che per la sua durata di oltre quattro secoli va considerato uno degli imperi più stabili. Le sue possibilità di espansione tuttavia sono notevolmente limitate dal fatto che durante tutto questo periodo esso è costretto a combattere su due fronti: contro Roma, ossia Bisanzio, a occidente e contro popolazioni nomadi sempre diverse (Unni, Turchi) a oriente. La struttura originaria di tipo feudale continua a sussistere sino al VI secolo, quando Cosroe I con una serie di riforme riesce ad ampliare la struttura burocratico-patrimoniale e a imporre un sistema fiscale statale. Per controbilanciare i grandi vassalli viene creata una piccola nobiltà terriera. Sotto Cosroe II (590-628) si ha un'espansione militare cui fa seguito l'ampliamento del regno degli Achemenidi con Dario il Grande, la cui aspirazione ecumenica si manifesta nel titolo di 'signore e sovrano di tutta la Terra'. Le guerre incessanti con Bisanzio indeboliscono il regno a tal punto che nel 637 esso crolla sotto l'assalto degli Arabi.
In Occidente le condizioni per la formazione di imperi di secondo ordine furono più favorevoli. Separato dai nomadi del deserto dal Mediterraneo, protetto da quelli dell'Asia centrale dalla steppa russa, dove i popoli che si spingono verso ovest perdono la propria coesione sociopolitica, l'Occidente subisce dopo il crollo dell'Impero romano una profonda trasformazione nel corso della quale la città-Stato cessa di essere il fulcro dell'ordinamento politico e la classe dei guerrieri si dissemina sul territorio. Nello stesso tempo con la Chiesa si conserva un importante elemento costitutivo dell'impero: la Chiesa di Stato carolingia e ottoniana diventerà il fondamento di un impero di secondo ordine. La Chiesa favorisce la formazione di nuovi centri statali nelle zone di confine germanizzate dell'antico impero. Essa mette a disposizione un personale esperto nell'amministrazione burocratica, tollera che il signore disponga dei beni e delle cariche ecclesiastiche, e non da ultimo fornisce un proprio contingente militare che nell'epoca ottoniana arriverà a costituire i due terzi dell'esercito imperiale. La Chiesa inoltre indirizza l'espansione dei nuovi imperi verso l'Italia, l'antico centro dell'Impero romano: quanto più essa sviluppa un proprio apparato accentuando l'autorità del papa sui vescovi, tanto più importante diventa il controllo sul centro del potere curiale a Roma. Un ulteriore impulso in questa direzione è dato dal fatto che l'Italia, tra tutte le regioni dell'Impero occidentale, è quella che si riprende più rapidamente dalla decadenza economica e già nell'XI secolo ha una cultura urbana in pieno sviluppo, il cui controllo sul piano fiscale diviene uno dei principali obiettivi dei sovrani d'oltralpe. Il tentativo dei Franchi di ricostituire l'Impero romano non va oltre Carlomagno. Più stabile si rivela invece il Sacro Romano Impero della nazione germanica, che all'epoca della sua massima espansione sotto Enrico IV e Federico II si estende dal Mare del Nord alla Sicilia e dal Rodano all'Oder. La precaria coesistenza di diritto di successione ereditaria, elezione al trono a opera dei principi e investitura divina con pretese ecumeniche sancita dalla Chiesa vacilla quando il tentativo di trasformare l'esercizio dell'autorità imperiale da indiretto a diretto attraverso una massiccia statalizzazione delle chiese scatena l'opposizione dei papi riformisti. La lotta tra papato e impero, che inizia nel 1075 e si protrae sino all'epoca di Federico II, ha come risultato una diminuzione sostanziale del controllo esercitato dai re tedeschi sulle chiese autonome (Concordato di Worms) nonché una perdita di potere e di autorità che non riesce a essere compensata dall'estensione dei territori dell'Impero, dall'incremento dei beni della corona e dalla istituzione dei ministeriali.
L'alta aristocrazia per contro riesce a ottenere il diritto all'ereditarietà dei feudi e a costituire in questo modo nuclei di potere patrimoniale che dopo il declino degli Hohenstaufen diventano i centri di cristallizzazione di Stati territoriali autonomi. A prescindere da queste nuove formazioni vi sono stati ancora diversi tentativi di ricostituzione dell'Impero; tuttavia anche il più promettente di tali tentativi, quello intrapreso nel XVI secolo da Carlo V d'Asburgo - il quale può contare sulle risorse della Spagna e dei territori d'oltremare - fallisce per l'opposizione dei principi tedeschi, della Chiesa e della Francia. Dopo questo "fallimento dell'impero" (Wallerstein) lo sviluppo successivo dell'Europa verrà determinato da un sistema di più potenze.
Con il concetto di pseudomorfosi Oswald Spengler indica quelle situazioni in cui una nuova cultura è costretta a svilupparsi assumendo le forme di una cultura precedente non ancora superata, dando luogo a tensioni e a formazioni ibride peculiari. Questo concetto può essere applicato anche ai moderni imperi coloniali. Diversamente da quanto accade per gli imperi veri e propri, il loro punto di partenza non è uno Stato con pretese imperiali, ma una economia-mondo in espansione che poggia su imprese private, anche se perlopiù autorizzate dallo Stato. La gamma di queste imprese è assai ampia, e va dal modello della società commerciale genovese (caratterizzata da investitori-imprenditori e da una partecipazione pubblica) alle compañas della conquista spagnola (autorizzate dalla corona ma autoequipaggiate), sino alle chartered companies britanniche (che organizzano insediamenti di coloni e di piantatori); tale gamma comprende inoltre sia il capitalismo avventuriero basato sul saccheggio nel senso di Max Weber, sia la moderna impresa razionale.
L'attività oltre confine degli imprenditori privati viene frenata dalle tendenze protezionistiche con cui gli Stati più importanti d'Europa reagiscono alla stagnazione dell'economia mondiale tra il 1650 e il 1730. Le colonie vengono trasformate in territori della corona e inserite nel sistema mercantilistico della madrepatria, che mira a regolamentare la circolazione delle merci e della moneta; nello stesso tempo gli Stati cercano di ridurre le conseguenze negative della contrazione economica assicurandosi il dominio su ampi territori periferici o contendendosi tali territori (v. Wallerstein, 1980, p. 158). La nascente economia-mondo, basata su rapporti economici globali, si trova così compressa in un contesto che mira a una segmentazione politica di tali rapporti, differenziandosi in tal modo già solo per questo motivo dagli imperi veri e propri, orientati verso un potere ecumenico.
Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza di questa differenza. Se è vero che la Gran Bretagna ha il dominio dei mari e che anche i Francesi perseguono ambizioni ecumeniche - soprattutto con Bonaparte, che sogna una restaurazione dell'Impero romano d'Occidente - tuttavia nessuno Stato europeo è sufficientemente forte rispetto al sistema costituito dall'insieme degli altri Stati da essere in condizione di incorporare tale sistema in una singola unità. La stessa Inghilterra, pur nel suo ruolo di potenza leader, intraprende in modo esitante e quasi controvoglia la strada che porta alla costituzione di un sistema di potere territoriale. Solo nel 1784 la Compagnia delle Indie Orientali viene posta sotto il controllo della corona, e in seguito continua a sussistere sino al 1858 come secondo pilastro di un sistema amministrativo dualistico. Per quasi tutto il XIX secolo l'Inghilterra è la potenza che si oppone più strenuamente a una ulteriore spartizione territoriale del mondo. Ma per quanto abbia avuto la possibilità di impedirlo, permette e talvolta addirittura favorisce l'istituzione di altri dominî coloniali europei, sinché alla vigilia della prima guerra mondiale quasi l'85% della superficie terrestre è diviso tra le potenze (v. Fieldhouse, 1965, pp. 96 e 138).
Se si eccettua l'Inghilterra, che tuttavia sarebbe stata abbastanza forte sul piano economico da rinunciare a un imperialismo politico, per nessuno di questi imperi coloniali si può affermare che grazie a essi la madrepatria fosse in condizione di controllare le condizioni sovralocali della produzione locale. Senza dubbio in ogni paese alcuni gruppi traggono vantaggio dalle nuove acquisizioni territoriali, e non si può negare che il petrolio e il caucciù siano materie prime di grande valore; tuttavia la possibilità di sfruttare economicamente le colonie si ebbe solo molto tempo dopo la loro conquista, e non può quindi essere considerata a posteriori una causa dell'espansione coloniale. A differenza degli imperi veri e propri, quelli coloniali non sono nati dal desiderio "di controllare direttamente una rete più ampia già esistente" (v. Ekholm e Friedman, 1980), bensì dai seguenti motivi: dall'interesse degli agricoltori bianchi già insediati nelle colonie ad avere più terra; dal desiderio dei missionari e dei commercianti di ampliare il proprio raggio d'azione; dal crollo dei governi locali, che costringe gli europei ad assumerne volenti o nolenti le funzioni; infine, e soprattutto, dalla politica dell'equilibrio perseguita dalle diplomazie europee, che fa delle colonie o della loro rivendicazione una sorta di fiches nel poker europeo che ha per posta il potere - un poker che alla fine avrà dei vincitori e dei vinti. Ma anche i possedimenti coloniali dei vincitori sono costituiti per la maggior parte da territori privi di valore dal punto di vista dell'economia-mondo. Il fatto che la Francia possegga il deserto del Sahara, la Germania il Kalahari e l'Italia il deserto libico appare un risultato notevole solo sulle carte geografiche (v. Fieldhouse, 1965, pp. 141, 166, 178, 213 ss.). Non sorprende pertanto che dopo il 1945 il processo di decolonizzazione sia avvenuto in modo relativamente agevole se paragonato alla dissoluzione degli imperi veri e propri. La maggior parte degli Stati coloniali probabilmente dovette rendersi conto alla fine che gli 'imperi' erano un affare in perdita.
(V. anche Città-Stato; Colonizzazione e decolonizzazione;Economia-mondo; Governo, forme di; Imperialismo; Nomadismo).
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