Impresa e società
L'impresa è un insieme di azioni svolte da diverse persone ma predeterminate da un piano e dirette e coordinate da una volontà unitaria (cfr. Sombart, cit. in Scifo, 1979, p. 216). In senso più specificamente economico, l'impresa è il complesso delle attività e dei contratti che rendono possibile la trasformazione di beni materiali e immateriali in prodotti disponibili per il consumo. Mentre in un'economia pianificata l'impresa è fortemente vincolata dalle decisioni di un centro controllato dal potere politico, in una economia di mercato, pur limitata dall'intervento dello Stato, l'impresa stabilisce antonomamente i suoi obiettivi. In tale quadro, che è quello al quale fa riferimento questo articolo, la vita dell'impresa è costantemente caratterizzata dal rischio che deriva dalla conoscenza dei costi di produzione, ma non dei prezzi di vendita (v. Silva, 1987, pp. 11-12). L'impresa può essere individuata in ogni tempo, luogo, campo dell'attività economica, tuttavia essa ha acquisito la sua particolare rilevanza a partire dall'ultimo ventennio del secolo scorso, dapprima in Europa e negli Stati Uniti, in seguito in quasi ogni area del pianeta, per il ruolo che ha assunto soprattutto all'interno del settore industriale. Negli ultimi cento anni l'industria è stata il ramo che più ha contribuito alla crescita dell'economia mondiale. Al suo interno l'evoluzione della tecnologia e quella dei mercati hanno fatto sì che assumessero un peso decisivo comparti quali la metallurgia, la meccanica, la chimica, a loro volta dominati da grandi imprese, tanto che si può stabilire un'equazione fra queste e la ricchezza di una nazione. Già qualche decennio dopo l'apparizione dell'impresa moderna il prefisso 'multi' deve essere sovente adoperato per definirla. La nuova protagonista della scena economica è: multiunitaria, possedendo una pluralità di uffici, stabilimenti, depositi, centri di distribuzione, laboratori di ricerca; multifunzionale, unificando al proprio interno produzione e distribuzione; multiprodotto, in quanto, partendo da una produzione di base, si espande in settori correlati; multinazionale, perché un solo mercato nazionale è inadeguato a contenere le sue risorse e capacità produttive. Dimensioni e complessità ne rendono necessario il governo da parte di una estesa gerarchia manageriale, cioè di dirigenti salariati (distinti quindi dalla proprietà) che possiedono uno specifico 'saper fare' tecnico e ai quali viene delegato il potere di coordinamento e controllo su un segmento significativo dell'attività aziendale.
L'impresa con le caratteristiche ora delineate emerge e si consolida nei paesi industriali più avanzati nel quarantennio che precede il primo conflitto mondiale. Molto rari sono, prima della rivoluzione industriale, i casi di dimensioni analoghe a quelle di una moderna large corporation. I giganti del capitalismo preindustriale - le manifatture statali, le grandi banche, le compagnie d'oltremare -, per quanto a volte potentissimi, tuttavia, dato il numero delle unità operative e delle operazioni svolte, incomparabilmente minori rispetto agli standard attuali, non avevano bisogno dell'opera di coordinamento e controllo di un'ampia coorte di managers. Sappiamo ad esempio che alla fine del Quattrocento la banca Medici operava con appena 7 filiali e 57 dipendenti, di cui soltanto 12 potevano essere considerati managers; attualmente una banca americana media si avvale di circa 200 filiali, 5.000 impiegati, 300 dirigenti salariati, ed effettuando un milione di transazioni al giorno ne compie in una settimana più che non la casa fiorentina in un secolo (v. Chandler, 1984, p. 473-474). Il fondamento della differenza sta naturalmente nella cesura rappresentata dalla rivoluzione industriale, e tuttavia neanche l'uso di nuove fonti d'energia come il combustibile fossile, l'applicazione del vapore ai processi produttivi, l'introduzione di nuove macchine, il sorgere del sistema di fabbrica - vale a dire le innovazioni introdotte dal cambiamento che ha inizio in Inghilterra alla fine del Settecento - sono all'origine della grande impresa con i connotati odierni.
Per gli osservatori contemporanei la borghesia della prima rivoluzione industriale "ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche [...] ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate" (v. Marx ed Engels, 1848; tr. it., p. 295). Va però ricordato che, a fronte dei più di ventimila dipendenti che 401 imprese nei paesi a economia di mercato potevano vantare all'inizio degli anni settanta di questo secolo (v. Chandler, 1984, pp. 478-479), il cotonificio manchesteriano rappresentativo impiegava fra i 100 e i 200 lavoratori nel terzo decennio dell'Ottocento (v. Hannah, 1976, p. 9) e, mentre nello stesso periodo in Inghilterra la fabbrica siderurgica solo raramente raggiungeva le 10.000 tonnellate annue (v. Pollard, 1965, pp. 75-84), la dimensione minima efficiente per lo stabilimento a ciclo integrale giapponese dei nostri giorni è di 6 milioni (v. McCraw e O'Brien, 1986, p. 86). Di fatto in tutti i settori i primi impianti erano dotati di una limitata capacità di produzione e d'altra parte il costo e l'incertezza del sistema dei trasporti, non consentendo un ampliamento del mercato raggiungibile dalla singola azienda, bene si accordavano con le piccole dimensioni (v. Bairoch, 1963; tr. it., pp. 117-119).
L'aumento della produzione e l'aumento degli scambi che senza dubbio si registrano nei primi decenni dell'Ottocento non provocano alcun fenomeno di concentrazione dell'attività economica, cosicché una ditta si occupa di una singola funzione e di un singolo prodotto senza tuttavia che si verifichi una trasformazione interna (v. Chandler, 1977, cap. 1). "Fra le tante interpretazioni in contrasto fra loro sicuramente non ci può essere una teoria manageriale della rivoluzione industriale" scrive Sidney Pollard (v., 1965, p. 271) a conclusione del suo importante volume sulla genesi del management moderno, dove più volte sottolinea il fatto che le funzioni di supervisione, coordinamento e controllo che lo contraddistinguono, dato il livello delle forze produttive, erano essenzialmente nelle mani dei proprietari. Questa realtà trova espressione teorica negli scritti degli economisti neoclassici, per i quali l'impresa svolge semplicemente la funzione produttiva sulla base di segnali che le provengono dal sistema dei prezzi (v. Silva, 1987, pp. 30-31). Lo stesso Alfred Marshall, fra essi forse il più attento all'esame dei fatti economici, introduce il concetto di "impresa rappresentativa", attore passivo non in grado di incidere sull'ambiente economico (v. Lazonick, 1991; tr. it., pp. 208-209). Scrivendo nell'Inghilterra del periodo tra il 1870 e i primi anni venti del Novecento, Marshall ha soprattutto presente un paese che non ha ancora superato completamente la fase della prima rivoluzione industriale.
L'indispensabile prerequisito, per compiere quel salto nelle dimensioni dell'unità aziendale che provoca un sostanziale mutamento nei processi decisionali e nella struttura interna, è dato, dopo la metà del secolo scorso, dalla radicale trasformazione del sistema di comunicazioni e trasporti che si ha con l'avvento del telegrafo e della ferrovia. L'impresa raggiunge così un mercato molto vasto, fa affidamento su un rapporto sicuro e costante sia con i fornitori che con i clienti, organizza su cadenze certe e regolari il proprio sistema interno. Ferrovie e telegrafo inoltre, per le esigenze del tutto nuove sul piano finanziario e gestionale che la loro attività comporta, rappresentano il terreno più adatto per la nascita di un nuovo tipo di impresa in cui la proprietà e il controllo personali non sono più possibili. È nelle ferrovie che si presenta per la prima volta la necessità di una precisa formalizzazione organizzativa per definire con esattezza i rapporti di autorità, responsabilità e comunicazione all'interno delle funzioni aziendali (movimento, manutenzione, contabilità e finanza) e fra di esse: si introduce così la distinzione tra responsabilità gerarchiche (line) e di 'stato maggiore' (staff), e un inedito strumento di gestione, l'organigramma (v. Chandler, 1977, parte II).
Determinante per l'origine della grande impresa è però la larga varietà di processi produttivi - meccanici, elettrici, chimici - che negli anni successivi al 1870, mentre si completano le nuove reti di comunicazioni e trasporti, vengono inventati e perfezionati negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale, così da poter essere resi completamente disponibili per l'industria. Pensiamo alla distillazione del petrolio, ma anche a quella delle bevande alcoliche, all'estrazione dello zucchero, e a quella degli oli vegetali; alla lavorazione di massa dei prodotti del tabacco e del grano; all'invenzione della linea automatica per l'inscatolamento e di altre macchine per la confezione, che tanta importanza hanno avuto per l'industria alimentare e dei prodotti chimici di largo consumo; alla diffusione del modo di fabbricare e assemblare parti intercambiabili, dalla produzione di armi a quella di macchine agricole, di macchine per cucire, di macchine per scrivere e di altri strumenti per l'ufficio, sino a quella di automobili; al convertitore Thomas, brevettato nel 1879, decisivo passo avanti in quel settore basilare per l'industrializzazione moderna che è il settore dell'acciaio; alla possibilità, per l'apparato produttivo, di servirsi di una fonte di energia più flessibile, l'elettricità, la cui interazione con la chimica e la metallurgia consente di ottenere su vasta scala prodotti di larga utilizzazione come il cloro, il carburo di calcio, l'alluminio. Questo nodale complesso di innovazioni, correntemente definito 'seconda rivoluzione industriale' (v. Sirugo, 1978), avvia una fase che si distingue dalla fase precedente per la maggiore quantità di energia applicata ai procedimenti produttivi e per un tipo di produzione a più alto volume e a più alta velocità. Esso crea all'interno dell'industria un significativo dualismo. I settori che non ne vengono toccati, come il settore tessile, i settori dell'abbigliamento, del cuoio, del legno, ecc., restano tecnologicamente semplici e ad alta intensità di lavoro; l'ampliamento degli stabilimenti, in questi settori, comporta solo un'aggiunta di macchine e di lavoratori e non si traduce in una rilevante diminuzione dei costi unitari; così i grandi impianti non ottengono importanti vantaggi di costo rispetto ai piccoli. Nei settori tipici della seconda rivoluzione industriale, invece, l'espansione implica drastici cambiamenti nella fabbrica: un maggior consumo di combustibile fossile, il miglioramento dei macchinari, una formula organizzativa volta a inserire adeguatamente i diversi processi richiesti per produrre un prodotto finito all'interno di un singolo stabilimento. In questi settori è così possibile ottenere una riduzione dei costi unitari al crescere del volume prodotto (economie di scala) molto maggiore che nei settori ad alta intensità di lavoro, e un vantaggio molto più grande da parte degli stabilimenti di maggiori dimensioni. È anche vero però che, quando la produzione di stabilimento cade sotto la giusta dimensione di scala, i costi unitari crescono molto più rapidamente nelle industrie ad alta intensità di capitale che nelle altre.
I vantaggi di costo degli stabilimenti più grandi quindi possono essere mantenuti solo se si realizza un flusso continuo di materiali attraverso l'impianto. Per ottenere un simile risultato non basta concentrare l'attenzione sulla fabbrica, è necessaria una costante coordinazione fra fornitori, produttori, consumatori: una condizione che non si realizza se non viene progettata una vasta organizzazione. Si può affermare che, se per l'imprenditore della prima industrializzazione il successo derivava dalla capacità di trovare la giusta combinazione fra qualche esperto tecnico e qualche abile venditore, l'atto critico dell'imprenditorialità della seconda rivoluzione industriale è la creazione di una estesa gerarchia manageriale. Sotto questo profilo, se è Joseph Schumpeter lo studioso che più efficacemente coglie, con la sua teoria dell'imprenditore-innovatore (v. Schumpeter, 1912), la grande frattura rappresentata dalla seconda rivoluzione industriale, sono le pagine di Max Weber sul potere burocratico a farci comprendere più a fondo le sfide organizzative a cui le nuove condizioni della tecnologia sottopongono l'impresa (v. Bonazzi, 1989). Per rendere effettive le economie di scala l'impresa non può arretrare di fronte alla prospettiva dell'integrazione verticale, sia per garantirsi dai rischi che provengono dai fornitori, sia per superare le difficoltà poste dai distributori indipendenti, quando i prodotti richiedono servizi specializzati o quando le quantità di un singolo prodotto sfornate dallo stabilimento eccedono le possibilità dei distributori di offrire costi competitivi. Tanto la fase produttiva che quelle relative al rifornimento e alla distribuzione richiedono il lavoro di supervisione di managers, così come è indispensabile la creazione di un ufficio centrale per coordinare l'intero complesso.
Importante è osservare come il più diretto contatto dell'impresa con il mercato, derivante dall'investimento nella rete distributiva, costituisca un forte stimolo al miglioramento dei prodotti e alla ricerca di prodotti nuovi. Si crea una saldatura fra marketing, ricerca e sviluppo e produzione, così che, attraverso la diversificazione produttiva, allo sfruttamento delle economie di scala segue quello delle 'economie di diversificazione'. Condizioni tecnologico-organizzative per cui un limitato numero di stabilimenti può soddisfare la domanda nazionale e in alcuni casi addirittura mondiale di una merce non possono non portare a una struttura concentrata dei settori industriali, nei quali la competizione si svolge non tanto sul terreno dei prezzi, quanto piuttosto sul piano funzionale e strategico, cioè del continuo affinamento delle funzioni aziendali e della ricerca di nuovi prodotti e mercati. Allo stesso modo la necessità di conseguire a pieno l'abbassamento dei costi consentito dalle potenzialità tecnologiche è all'origine dell'espansione dell'impresa oltre i confini nazionali, che inizia quasi sempre con la creazione all'estero di una rete di marketing alla quale segue l'investimento nella produzione: una decisione complessa che dipende dalle specificità tecnologiche, dalle dimensioni del mercato attuali e prevedibili, dai costi di trasporto, di rifornimento e di distribuzione, dal regime doganale.
Secondo il quadro di riferimento generale sin qui delineato, le condizioni poste dal cambiamento tecnologico si presentano come un insieme di vincoli e di opportunità. Alla tecnologia sono legate le dimensioni dell'impresa, essendo possibile l'esistenza della grande azienda esclusivamente in quei settori nei quali si registra una rilevante caduta dei costi unitari all'incremento della produzione (economie di scala) o all'ampliamento della sua gamma utilizzando un unico impianto (economie di diversificazione). Ma le possibilità della tecnologia possono essere colte solo investendo in una vasta organizzazione, un passaggio difficile perché inevitabilmente pone in discussione consolidati rapporti di potere: in definitiva la possibilità per i proprietari di un pieno controllo dell'azienda. Di fatto nei tre paesi più avanzati, quelli che sia nel 1870 sia nel 1913 coprono i due terzi della produzione industriale del pianeta - Stati Uniti, Inghilterra, Germania -, le opportunità della seconda rivoluzione industriale non vengono afferrate nello stesso modo.
Negli Stati Uniti la grande impresa si afferma in tutti i settori consentiti dallo sviluppo tecnologico, sia nell'industria pesante che nella produzione di beni di consumo. Già alla vigilia della prima guerra mondiale la large corporation americana, che nel mezzo secolo successivo sarà un modello da imitare per gli altri paesi, è retta da un ufficio centrale e da dipartimenti funzionali, ha integrato produzione e distribuzione e mostra una forte tendenza a divenire multinazionale. I proprietari sono coadiuvati nell'attività imprenditoriale da managers che spesso non solo prendono le decisioni strategiche ma scelgono anche i propri successori al vertice dell'azienda. Nel consiglio d'amministrazione c'è una divisione fra outside e inside directors. I primi, che rappresentano la proprietà (fra di essi vi sono anche i banchieri che hanno finanziato espansioni o fusioni), sono in maggioranza, ma, non avendo né il tempo, né le informazioni, né le capacità necessarie, si vedono costretti a dipendere, per ciò che concerne la gestione e le politiche aziendali, dagli inside directors, managers salariati, presenti nell'azienda a tempo pieno, nei confronti dei quali i proprietari hanno tutt'al più un potere di veto. Si intravvede chiaramente quel 'capitalismo manageriale' che Adolf Berle e Gardener Means descrivono all'inizio degli anni trenta nel loro noto volume The modern corporation and private property, dove affermano che quasi la metà delle duecento maggiori imprese americane sono controllate da dirigenti non proprietari. In Inghilterra, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, operano aziende - come la Dunlop nella gomma, la Courtaulds nelle fibre sintetiche, la Pilkington nel vetro - che, integrando la produzione con una adeguata rete di marketing, sono in grado di ben figurare nella competizione a livello mondiale. Fra le aziende inglesi, però, prevalgono di gran lunga le imprese produttrici di beni di largo consumo, che, fra le più moderne, sono quelle tecnologicamente meno sofisticate e che richiedono minori investimenti specifici per la fase distributiva. In questi casi - ed è la maggiore differenza rispetto agli Stati Uniti - l'impresa può essere ancora gestita dalla famiglia proprietaria con l'aiuto di una limitata gerarchia manageriale. Un quadro notevolmente diverso presenta la Germania, dove la grande azienda, già prima del 1914, mostra caratteri simili alla large corporation americana. In Germania i proprietari continuano più a lungo che negli Stati Uniti ad avere voce in capitolo nella direzione dell'azienda, senza però rinunciare a compiere gli investimenti necessari all'espansione e a rendere operante una estesa e attentamente progettata gerarchia manageriale, sino al punto di condividere le funzioni del top management con i dirigenti. Come in Inghilterra, anche in Germania la grande impresa non si afferma in tutti i settori: mentre è quasi assente nella produzione di beni di largo consumo, essa prevale nella metallurgia, nella chimica, nella meccanica pesante, dove si richiedono grandi capitali iniziali e si hanno problemi di cash flow maggiori che nell'industria leggera. È questo il principale motivo della diversa posizione che in Germania, rispetto agli altri due casi nazionali, la banca - la cosiddetta 'banca universale' - assume nella proprietà delle grandi aziende. In qualità di azionista la banca, che non manca di dotarsi di un agguerrito staff di specialisti dei settori nei quali investe, esercita, nella gestione delle imprese, un ruolo più rilevante in Germania che non nei paesi anglosassoni. Tuttavia, dopo l'inizio del secolo, nelle più importanti aziende metallurgiche, meccaniche e chimiche lo sviluppo viene autofinanziato in misura crescente, mentre la sempre maggiore complessità dei problemi gestionali relativi alla produzione, al marketing, allo sviluppo dei prodotti porta a un declino dell'influenza del banchiere.Per comprendere le differenze settoriali e il diverso rapporto tra proprietà e management nei paesi ora considerati, le variabili che appaiono di particolare rilievo, interagenti fra loro e con l'azione imprenditoriale, sono le caratteristiche dei mercati, la regolamentazione della competizione economica da parte dei pubblici poteri, gli atteggiamenti sociali nei confronti della grande impresa e le risorse culturali a sua disposizione.
Le aziende inglesi sembravano godere del vantaggio di un ampio mercato sia sul piano interno sia su quello internazionale. Nel 1870 l'Inghilterra ha il reddito pro capite più alto fra i tre paesi e il più alto tasso d'urbanizzazione, e si può affermare che i dieci milioni di persone che vivono nel 'quadrilatero d'oro' compreso fra Londra, Cardiff, Glasgow, Edimburgo costituiscano la prima 'società dei consumi', mentre va ricordato che dal 1870 alla prima guerra mondiale le esportazioni britanniche ammontano a quasi il 30% del reddito nazionale. Tuttavia, a un più attento esame, emerge il fatto che, per le imprese inglesi, la domanda sia interna sia internazionale è poco adatta a stimolare gli imprenditori a cogliere le occasioni offerte dalla seconda rivoluzione industriale. Il mercato interno, ad esempio, presenta caratteri di minore dinamicità rispetto a quelli degli Stati Uniti e della Germania: in Inghilterra, infatti, la popolazione, che conta 31 milioni di individui nel 1870, sale a 46 nel 1913, mentre negli altri due paesi nello stesso periodo si registra una crescita da 39 a 97 milioni per gli Stati Uniti e da 39 a 67 milioni per la Germania. Similmente si può rilevare che il reddito pro capite inglese è di 972 dollari nel 1870 e di 1.492 nel 1913, mentre gli Stati Uniti passano dai 764 del 1870 ai 1.813 del 1913 e la Germania dai 535 ai 1.073 (tutti i redditi essendo calcolati a valori costanti 1970). L'Inghilterra può senza dubbio vantare una struttura socioeconomica più avanzata rispetto a Stati Uniti e Germania: già nel 1870 il paese ha completato la trasformazione in senso urbano-industriale; il 43% della forza lavoro opera nel settore secondario, il 15% in agricoltura, secondo un modello occupazionale raggiunto dagli Stati Uniti solo successivamente alla seconda guerra mondiale. Quando viene fondato l'Impero tedesco, nel 1871, in Inghilterra 6 città hanno più di 240.000 abitanti, compresa Londra che sfiora i 4 milioni, mentre nel Reich solo 5 centri hanno una popolazione superiore alle 100.000 unità, con Amburgo a quota 240.000 e Berlino a quota 826.000. Nello stesso anno negli Stati Uniti 14 città contano più di 100.000 abitanti e 7 superano i 250.000, ma nel paese d'oltreoceano soltanto dopo il 1960 più di metà della popolazione vive in centri con almeno 5.000 abitanti. Benessere, modernizzazione, crescita urbana, ottenuti in Inghilterra poco dopo la metà del secolo scorso, finiscono tuttavia per essere elementi di rigidità e di scarso impulso, per l'imprenditore, a ricercare le forme di organizzazione rese necessarie dall'irrompere della seconda rivoluzione industriale. La diffusione della popolazione sul territorio spinge la corporation americana a realizzare la propria rete di marketing, mentre in Inghilterra un apparato distributivo capillare e ben consolidato limita l'esigenza di integrazione. Allo stesso modo per le città inglesi non ci sono pesanti necessità di ampliamenti e ristrutturazioni, mentre i centri urbani tedeschi in tumultuosa espansione, affamati di strutture metalliche e di impianti elettrici, sono fra i migliori clienti delle industrie più moderne. Anche il fatto che il sistema dei trasporti sia in ottime condizioni già prima della possibilità di utilizzare le ferrovie si risolve per l'Inghilterra in un'altra forma di 'svantaggio del pioniere'.
È indubbio che anche in Inghilterra le ferrovie siano il primo big business, ma altrettanto certo è che esse non hanno un impatto sulla struttura economica in generale e sull'impresa pari a quello prodotto negli Stati Uniti e in Germania. In America le ferrovie, oltre a creare un mercato interno unitario (prima della strada ferrata un convoglio di merci fra Philadelphia e Chicago doveva essere caricato e scaricato nove volte), provocano la nascita del management adeguato alla grande impresa e la centralizzazione a Wall Street del mercato dei capitali, mentre sono un terreno di prova della regulation e delle moderne relazioni industriali. Per la Germania l'importanza del nuovo mezzo di trasporto è identica a quella che esso riveste per gli Stati Uniti, e in più è con le ferrovie che in Germania sorgono le nuove istituzioni finanziarie - le 'banche universali' che si impegnano nel finanziamento a lungo termine delle imprese. Solo quando negli anni ottanta la rete nazionale è completata e il governo dimostra di voler perseguire fermamente una politica di nazionalizzazione del settore, le banche rivolgono la loro attenzione alle aziende industriali. Anche in questo caso sono le cifre a offrire con chiarezza i termini della comparazione. In Inghilterra ci sono 15.500 miglia di strada ferrata nel 1880, in Germania 21.000; trent'anni più tardi alle 20.000 miglia oltre Manica il Reich può contrapporne 38.000. Sono i numeri americani, però, ad essere soverchianti: 30.000 miglia nel 1880, 240.000 miglia nel 1910. Nel 1880 si costruiscono in America 10.000 miglia di strada ferrata, ovvero quasi i 2/3 di quanto si era realizzato in Inghilterra nel mezzo secolo precedente. Del resto vanno finalmente ricordate le dimensioni territoriali dei tre paesi: con 120.000 miglia quadrate la Gran Bretagna (includendo l'Irlanda) ha un'estensione inferiore a quella di tre soli Stati americani - New York, Pennsylvania, Ohio -, mentre le 267.000 miglia quadrate dell'Impero tedesco non equivalgono alla superficie del Texas, lo Stato più grande degli Stati Uniti, la cui superficie complessiva misura più di 3 milioni di miglia quadrate.
L'estensione e la consistenza del mercato interno fanno sì che le esportazioni non abbiano un'elevata incidenza percentuale sul reddito nazionale americano - mediamente non più del 5% annuo fra 1870 e 1913. All'estero gli Stati Uniti inviano cotone, grano, tabacco, carne, ma anche merci nuove come petrolio raffinato, cibi in scatola, prodotti di meccanica leggera. Per l'Inghilterra il peso del commercio estero è molto maggiore: nel mezzo secolo che precede la grande guerra raggiunge una quota compresa fra il 27 e il 30% del reddito nazionale. Tuttavia i prodotti esportati sono in prevalenza quelli tipici della prima rivoluzione industriale: tessili, ferro, carbone. Anche per la Germania i mercati esteri rivestono una considerevole importanza, ma a differenza delle esportazioni inglesi quelle tedesche si concentrano sulle produzioni chimiche e meccaniche della seconda rivoluzione industriale. Il 'West' per la Germania è rappresentato dai paesi dell'Europa meridionale e orientale, dove dopo il 1870, per quanto popolazione urbana e reddito pro capite non siano certo elevati, alcune aree cominciano a industrializzarsi e quindi a richiedere i prodotti necessari alle fabbriche tessili e metalmeccaniche e alla costruzione delle reti ferroviarie, telegrafiche, elettriche. Nel 1913 la Germania è il più importante esportatore nel campo della chimica, della elettromeccanica, della meccanica industriale (rispettivamente con il 28,5, il 30, il 29% dell'esportazione mondiale). Sia dall'interno sia dall'estero giungono quindi agli imprenditori tedeschi stimoli per gli investimenti e l'innovazione e la spinta verso le grandi dimensioni.
È possibile parlare di un vero e proprio 'paradosso americano' quando si affronta il tema della regolamentazione della concorrenza fra imprese. L'intenzione prevalente delle forze politiche e della magistratura negli Stati Uniti era quella di limitare la crescita della large corporation: di fatto l'azione antitrust provoca il risultato contrario. Sin dal suo apparire l'inevitabile potenza economica e politica della grande impresa si pone in rotta di collisione con alcuni valori fondamentali del paese, quali la fede nella libera competizione e l'esigenza che nella gara per la ricchezza e il potere tutti partano da pari opportunità. Scendono in campo però anche interessi molto concreti. Il più forte gruppo di pressione nella battaglia antitrust è costituito ovviamente dai piccoli imprenditori, tra i quali i più agguerriti non sono gli industriali, ma i commercianti, figure di primo piano nelle tante cittadine che costituiscono il tessuto connettivo dell'America della progressive era, per i quali sia lo sviluppo delle aziende di grande distribuzione sia l'avanzata verso il marketing dell'impresa industriale rappresentano una minaccia molto seria. È indubitabile il successo ottenuto da queste lobbies: nel 1911 per la prima volta i tribunali sciolgono tre imprese del calibro della Standard Oil, della American Tobacco e della Du Pont.
Dopo essere stato al centro del dibattito politico della decade precedente, il tema del controllo e della regolamentazione del big business è l'argomento centrale delle elezioni presidenziali del 1912. Due anni dopo Woodrow Wilson, vincitore di quelle elezioni, fa approvare dal Congresso il Clayton antitrust act e istituisce la Federal Trade Commission: due strumenti indispensabili per rafforzare la legislazione precedente contro gli accordi interaziendali. Tuttavia la proibizione di stipulare alleanze per il controllo del mercato è la causa del ripiegamento interno, alla ricerca dell'efficienza, compiuto dall'impresa integrata che non può essere contrastata in quei settori dove solo le grandi dimensioni sono compatibili con l'aumento della produttività e la riduzione dei prezzi. Diventa così inevitabile accettare la distinzione di Theodore Roosevelt fra good trust, dalla cui azione traggono benefici i consumatori, e bad trust, pura e semplice collusione contro il pubblico interesse.
Molto diversa a proposito di regulation è la vicenda inglese. Gli accordi per il controllo della competizione si dimostrano pienamente efficaci: non possono essere sanzionati dalla legge - la Gran Bretagna è pur sempre la patria di Adam Smith! - ma non vengono impediti. Prevale in definitiva il 'vivi e lascia vivere', poiché le condizioni ambientali in precedenza descritte fanno sì che la grande impresa non sia elemento di eccessivo disturbo né per il commercio tradizionale né per il piccolo industriale, al quale anzi gli accordi consentono di sopravvivere accanto a produttori più efficienti. Viene pertanto a mancare l'indispensabile costituency per una politica antitrust.
All'opposto che negli Stati Uniti, in Germania manca qualsiasi pressione sul big business da parte del potere politico o dei tribunali, tanto che nell'ultimo ventennio del secolo scorso i cartelli per regolare l'andamento del mercato sono in continuo aumento: da 4 nel 1875 divengono 106 nel 1890, 205 nel 1896, 385 nel 1905. Del resto nel 1897 la Corte Suprema tedesca dichiara che questi accordi possono essere protetti dalla legge in quanto di interesse pubblico. Le intese per frenare la competizione sia in Inghilterra che in Germania si dimostrano un ostacolo non secondario al processo di razionalizzazione e crescita dell'impresa.
La grande azienda è un'organizzazione burocratica all'interno della quale il dominio personal-familiare deve cedere il passo a una struttura retta da criteri universalistici. In questo senso l'ambiente socioculturale degli Stati Uniti fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del nuovo secolo appare particolarmente favorevole. Si assiste al passaggio da gruppi di piccole dimensioni, di carattere locale o regionale, autoregolantisi in modo informale, a organizzazioni complesse, di dimensioni nazionali con una struttura formalmente definita. L'affermarsi di una autorità fondata sulla precisa attribuzione di responsabilità e poteri decisionali stabiliti in base a criteri oggettivi è caratteristica comune nell'evoluzione di istituzioni diverse, spesso in conflitto l'una con l'altra, quali l'azienda, il sindacato, il partito politico, il gruppo di pressione, l'associazione professionale.Il quarantennio 1880-1920 può essere visto come il tentativo riuscito compiuto dalla classe media urbana di stabilire un nuovo ordine basato sull'efficienza, la continuità, i controlli sistematici, così che l'intera società americana subisce un riorientamento in questa direzione tale da non poter essere sovvertito nemmeno da un drastico cambiamento politico.
Anche in Germania il clima culturale è favorevole all'accettazione delle grandi dimensioni aziendali. La lunga tradizione di efficienza burocratica al servizio dello Stato rende più facile agli imprenditori tedeschi la convivenza con il management. In Inghilterra dalla metà dell'Ottocento una profonda rivolta contro la società industriale e le sue regole sembra pervadere sia le élites intellettuali sia vasti strati di opinione pubblica; in quest'ambito la famiglia proprietaria, favorita dalle condizioni del mercato e da quelle politico-legali, in precedenza menzionate, si rivela del tutto restia a condividere il controllo dell'impresa. I gentlemen della terza generazione di industriali sono incapaci di compiere quella promozione del management che le condizioni tecnologiche rendono improcrastinabile.Scrive David Landes in un celebre passo del suo The unbound Prometheus "Era il turno della terza generazione, dei figli dell'abbondanza, annoiati dal tedio del commercio e pieni delle aspirazioni bucoliche del gentiluomo di campagna [...]. Molti di loro si ritirarono e accelerarono la trasformazione delle loro imprese in società per azioni. Altri continuarono, occupandosi dell'impresa negli intervalli tra i lunghi week-ends che si concedevano, lavoravano per gioco e giocavano per mestiere. Alcuni di essi furono abbastanza avveduti da affidare la gestione a dei professionisti. [Tuttavia] le società anonime non erano significativamente migliori [...] considerazioni di famiglia determinavano la scelta del personale manageriale" (v. Landes, 1969; tr. it., p. 440). In effetti in Inghilterra, fino al secondo dopoguerra, persino i dirigenti più anziani e di maggior livello, se estranei alla proprietà, raramente venivano ammessi nel consiglio di amministrazione.
In Germania dall'inizio del secolo è frequente il caso di dirigenti non proprietari (soprattutto se possono vantare il titolo accademico di ingegnere) inseriti nei comitati esecutivi dei consigli di amministrazione in posizioni di assoluto rilievo. Del resto anche se consideriamo la risposta delle istituzioni universitarie alle nuove esigenze dell'impresa, c'è un netto contrasto fra Stati Uniti e Germania da una parte e Inghilterra dall'altra. La Germania vanta le facoltà scientifiche migliori del mondo accanto a diverse Technische Hochschulen, il cui obiettivo specifico è la formazione di ingegneri per l'industria, e Handelshochschulen, dove vengono insegnati i temi della gestione aziendale sotto il profilo economico-finanziario e giuridico.
Anche negli Stati Uniti le università sanno adattarsi rapidamente alle necessità dell'industria. Se prima del 1880 i colleges si concentrano nella preparazione dei tecnici indispensabili alle costruzioni ferroviarie, dall'ultimo ventennio del secolo scuole come il Massachusetts Institute of Technology, la Purdue University, la Cornell University danno vita a corsi per ingegneri meccanici, elettrici e chimici. Cruciale è soprattutto il ruolo del MIT per gli stretti legami con imprese quali la Du Pont, la Standard Oil, la General Electric e la General Motors. E, come in Germania, ai centri d'alta formazione tecnica si aggiunge l'attività delle business schools, dove sistematicamente si studiano le strategie e le pratiche gestionali della grande impresa integrata. Niente di tutto questo può vantare l'Inghilterra, dove nel 1910 frequentano la facoltà di ingegneria 1.129 studenti, mentre in Germania, per la stessa specializzazione universitaria, gli iscritti al primo anno sono 16.568.
Il penultimo decennio dell'Ottocento è un tornante di particolare significato nella storia economica dei tre paesi, che consente di verificarne puntualmente la reattività alle sfide della seconda rivoluzione industriale. In questo periodo la sproporzione fra offerta e domanda causata dall'applicazione ai processi produttivi delle nuove tecnologie provoca sia in Europa sia negli Stati Uniti una generale caduta dei prezzi, a cui si reagisce inizialmente nello stesso modo: l'accordo fra imprese per il controllo del mercato. Ma negli Stati Uniti ben presto le intese si rivelano uno strumento inefficace: non godono di alcuna tutela legale - saranno anzi proibite -, e inoltre le condizioni ambientali spingono gli imprenditori a sfruttare nel modo più completo le opportunità tecnologiche. In breve alla stagione degli accordi segue quella delle fusioni. Classico è il caso dello Standard Oil Trust di John D. Rockefeller, che nasce nel 1882 dalla Standard Oil Alliance, una federazione di 40 aziende. L'obiettivo del Trust non è il monopolio, perché l'Alliance controllava il 90% del mercato del kerosene negli Stati Uniti; si tratta piuttosto di ottenere con la fusione la premessa legale per una profonda ristrutturazione sul piano tecnico-organizzativo: chiudere raffinerie, aprirne di nuove, coordinare il flusso dei prodotti dai pozzi petroliferi ai consumatori, realizzare una rigorosa centralizzazione amministrativa. Mentre nel 1886 la sede centrale di New York ospita una gerarchia manageriale che per consistenza numerica non ha eguali al mondo e che controlla e coordina le attività di un'impresa che agisce su scala globale, le raffinerie vengono ridotte da 54 a 22, e un quarto della produzione mondiale di kerosene è concentrato in tre stabilimenti, da ciascuno dei quali escono 6.000 barili al giorno (contro i 2.000 che si potevano ottenere in precedenza). Il risultato a cui si perviene è la caduta del costo per gallone del kerosene da 2,54 centesimi di dollaro del 1879 a 1,5 del 1885, e la corrispondente ascesa dei profitti da 0,530 centesimi a un dollaro.
Il modello di fusione attuato da Rockefeller non è sempre recepito senza conflitti da quanti realizzano le numerose fusioni che si hanno negli Stati Uniti fra gli anni ottanta dell'Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo. In alcuni casi è la bancarotta che costringe al consolidamento organizzativo, in altri, per le resistenze di coloro che controllavano le vecchie imprese, esso avviene in modo graduale, in altri ancora l'intervento di banchieri o di agenti di borsa inserisce nell'operazione elementi speculativi. Tuttavia la direzione di fondo del merger movement negli Stati Uniti non lascia adito a dubbi: nei settori dove la tecnologia lo consente si assiste alla nascita di nuove entità aziendali che hanno subito un mutamento in termini produttivi e organizzativi tale da renderle diverse dalla somma delle imprese costituenti e in grado di presentarsi sui mercati a costi unitari minori. In Inghilterra elementi quali la scarsa dinamicità del mercato, l'assenza di una legislazione antitrust, una cultura imprenditoriale che vede nell'azienda un 'dominio' da non condividere con estranei fanno sì che gli accordi tra imprese non evolvano verso forme di gestione più efficienti. Anche in Inghilterra si rileva un'ondata di fusioni negli stessi anni in cui ciò avviene negli Stati Uniti. Il numero delle aziende e la quantità di capitali interessati sono però minori: nel 1899 al culmine del merger movement nei due paesi, si fondono in America 979 imprese per un valore di 400 milioni di sterline, 255 in Inghilterra per un totale di 22 milioni. La più sostanziale differenza è data tuttavia dall'esito organizzativo della fusione. In Inghilterra essa si risolve in una federazione di imprese che possono anche trovare forme di cooperazione (ad esempio negli acquisti o nella ricerca), ma il cui obiettivo dichiarato è avere assicurata una propria quota di mercato e mantenere una assoluta indipendenza gestionale. Tranne rare eccezioni, le fusioni inglesi non hanno alcun bisogno dei grattacieli che negli Stati Uniti devono contenere il management delle imprese riorganizzate dalle fusioni: è sufficiente un piccolo ufficio dove i capi delle società federate possano incontrarsi un paio di volte l'anno per stabilire i prezzi, suddividere le rispettive quantità di produzione, verificare il rispetto degli accordi.
In Germania il pieno riconoscimento legale degli accordi limita notevolmente l'importanza delle fusioni. In realtà in un paese a economia di mercato, quale certamente è la Germania di inizio secolo, il cosiddetto 'capitalismo organizzato' dei 'sindacati di vendita' e delle Interessengemeinschaften difficilmente riesce a mantenere un assetto stabile, e gli imprenditori più avveduti lo considerano esplicitamente un ostacolo al pieno dispiegamento delle potenzialità del sistema economico al quale è più consono un esteso processo di fusioni aziendali. La famiglia proprietaria tedesca, però, per quanto lontana dai pregiudizi che affliggono quella inglese, non è così avanzata da rinunciare alle proprie prerogative di comando in presenza di un quadro politico-legale che lo consenta. Le ragioni della tradizione prevalgono in questo caso su quelle dell'economia, tanto che il capitalismo tedesco non riesce a eguagliare completamente quello americano per ciò che concerne le dimensioni e l'efficienza tecnico-organizzativa delle imprese.
Sia che avvenga grazie alla mobilitazione di risorse interne, sia che si realizzi mediante fusioni, la crescita delle aziende nei settori della seconda rivoluzione industriale esige un triplice investimento: in impianti al minimo di scala efficiente, in una adeguata struttura di distribuzione, in un'ampia gerarchia manageriale. Le imprese che sanno compiere tempestivamente questo passo acquisiscono il vantaggio del pioniere, che consente una permanenza sulla scena economica e una posizione settoriale dominante di lunga durata, rendendo problematico il recupero dei ritardatari.
La vicenda dell'industria inglese dopo il 1880 è in larga parte una storia di occasioni mancate o di ritardi da colmare. Emblematico è il caso della produzione di coloranti sintetici. Nel 1870 l'Inghilterra sembrava possedere tutti i requisiti per sviluppare su larga scala questa industria e prevalere nella competizione internazionale. È inglese William Perkin, che nel 1856 inventa il primo colorante artificiale, il paese è ricco di carbone, la materia prima di base, la sua enorme industria tessile è il miglior mercato e non vi sono strozzature per ciò che riguarda l'offerta di capitali o di capacità tecniche. Eppure sono le grandi aziende tedesche, che tuttora primeggiano nella chimica mondiale, ad assumere il ruolo di pionieri nell'ultimo decennio dell'Ottocento, rinnovando completamente gli impianti e investendo in una capillare rete di marketing. Per l'industria inglese gli effetti possono essere definiti 'devastanti'. Nel 1913 i Tedeschi producono 140.000 tonnellate di coloranti (le prime tre aziende, la Bayer, la BASF, la Hoechst, incidono per il 72%) su un totale mondiale di 160.000, i Britannici raggiungono una quota di appena 4.400 tonnellate.
A sconfitte molto simili vanno incontro nella metallurgia, nella elettromeccanica, nella meccanica pesante, nelle produzioni di grande massa della meccanica leggera. Le condizioni eccezionali del primo conflitto mondiale consentono all'Inghilterra di riagganciare nella chimica organica i rivali tedeschi e americani, grazie a una serie di riuscite fusioni che negli anni venti portano alla costituzione della Imperial Chemical Industries (ICI). Negli altri settori, invece, la mancata affermazione di aziende di ampie dimensioni fa sì che il paese non recuperi più una forte posizione competitiva sulla scena internazionale. Il fallimento della grande impresa coincide con il depotenziamento economico della prima nazione industriale.
Uno sviluppo dell'impresa integrata: l'impresa multidivisionale.La grande impresa moderna è un prodotto del quarantennio precedente la prima guerra mondiale, sia per ciò che concerne il 'saper fare' tecnico-gestionale, sia per quanto riguarda il disegno organizzativo e la definizione dei canali di autorità. Negli anni fra le due guerre negli Stati Uniti si ha un importante sviluppo organizzativo che va nella direzione di un ulteriore incremento della pervasività del management: l'impresa multidivisionale. La spinta all'emergere del nuovo tipo di struttura aziendale è data da fattori sia esterni che interni all'impresa. Se nella seconda metà degli anni venti il reddito nazionale e la domanda aggregata cominciano a stabilizzarsi, per poi diminuire fortemente nel decennio successivo, allo stesso tempo le grandi aziende sembrano possedere un surplus di risorse interne derivante da investimenti in funzioni diverse da quella produttiva. In particolare, in alcuni settori come l'elettrico e il chimico, la crescita della 'ricerca e sviluppo' dà la possibilità di proporre nuovi prodotti partendo dalle tecnologie originarie. Ha inizio un processo di diversificazione che non può essere adeguatamente contenuto nei vecchi canali organizzativi. Ne vengono soprattutto disorientati i membri del centro decisionale, che, dovendo seguire un numero troppo elevato di linee di prodotto, non hanno più la possibilità di dedicare adeguata attenzione alle scelte di fondo. Vi sono quindi alcuni pionieri, quali la Du Pont e la General Motors, che comprendono come il problema da risolvere sia da un lato enucleare e specializzare una funzione strategica, dall'altro concedere la necessaria autonomia ai dirigenti che più direttamente affrontano il mercato. Si costituiscono pertanto divisioni autonome, definite per prodotto o per aree geografiche, al cui interno sono presenti tutte le funzioni nelle quali già si strutturava l'azienda: in questo modo la divisione ha le risorse per operare come una vera e propria impresa. Tuttavia resta decisivo il ruolo del centro dirigente che non si occupa più della gestione aziendale quotidiana, ma concentra la propria attività nella supervisione, nel coordinamento, nella valutazione, nell'allocazione delle risorse per l'intero complesso. Per esercitare questa funzione strategica, il centro dirigente viene a sua volta dotato di un poderoso staff che rappresenta tutti i dipartimenti aziendali: esso è così in grado di comprendere approfonditamente quanto avviene nelle divisioni, evitando quindi fratture fra coloro che prendono le decisioni per l'intero gruppo e il management operativo. Va ricordato del resto che le divisioni nascono ampliando una comune base tecnologica; dalla nitrocellulosa la Du Pont si espande al cuoio artificiale, alle vernici, alle fibre sintetiche, alle materie plastiche, mentre, partendo dalla produzione di automobili, la General Motors fabbrica locomotive diesel, trattori, aeroplani: è su questo fondamento comune che l'impresa multidivisionale trova coesione e flessibilità. Il centro dirigente può padroneggiare il processo di diversificazione ed è anche in grado di trasferire risorse tecniche e manageriali da una divisione all'altra. Il legame fra il nucleo dirigente e le divisioni fa sì che l'impresa multidivisionale non si presenti come un elemento di discontinuità rispetto all'azienda integrata che prende corpo negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma come una sua evoluzione. Il vincolo di fondo, rappresentato dalla tecnologia nel caso dell'azienda integrata - potendo essa affermarsi solo nei settori tipici della seconda rivoluzione industriale -, nel caso dell'impresa multidivisionale sembra essere rappresentato dalla vicinanza alla sua core technology dei settori che invade, in modo da consentire un controllo sul processo di crescita. Il modello multidivisionale, comportando una ulteriore diffusione del potere decisorio in azienda (si può affermare che se i componenti del centro 'regnano', i luogotenenti delle divisioni 'governano'), non viene accolto senza resistenze. La sua validità si impone tuttavia attraverso criteri incontrovertibili, che sono gli stessi che avevano decretato il successo dell'azienda integrata: la quota di mercato controllata, la caduta dei costi unitari. La struttura multidivisionale è adottata da pochi pionieri negli Stati Uniti fra le due guerre, si afferma però rapidamente fra le imprese americane dopo il 1945 e diviene il modello organizzativo da imitare anche per le aziende degli altri paesi che affrontano gli Stati Uniti nella competizione internazionale. Non sembra quindi giustificato il pessimismo con il quale un gigante del pensiero economico come Schumpeter giudica il capitalismo industriale basato sulla grande impresa, all'inizio degli anni quaranta. Schumpeter lo considera afflitto da irrimediabile decadenza per la scomparsa all'interno della sua istituzione più importante della scintilla imprenditoriale (v. Schumpeter, 1942). In realtà l'avvento dell'impresa multidivisionale testimonia la capacità del capitalismo americano di diffondere l'imprenditorialità nella grande organizzazione aziendale. Allo stesso modo è poco utile a inquadrare il fenomeno dell'impresa multidivisionale, risultato di una continua crescita, l'impostazione di Oliver Williamson, un autore che pure ha offerto apporti di notevole validità per comprendere la natura della grande impresa integrata. Secondo Williamson le vaste dimensioni sono l'esito del tentativo di limitare i costi di transazione causati da razionalità limitata da parte di chi dirige l'impresa e dal comportamento opportunistico di coloro dai quali essa acquisisce beni e servizi (v. Williamson, 1981). Questa visione non sembra in grado di cogliere le potenzialità di sviluppo dell'impresa originate dall'accumulo di risorse interne, tecniche e manageriali (v. Chandler, 1991). Più significativi in tale direzione sono i contributi di Edith Penrose, secondo cui lo sviluppo dell'impresa trova un limite solo nella scarsità di managers capaci di guidarlo (v. Penrose, 1959), e di Richard Nelson e Sidney Winter, per i quali le possibilità di crescita dell'impresa sono inscritte nelle sue routines organizzative ovvero nelle strategie, nelle strutture, nelle capacità impiantistiche, tecniche, manageriali (v. Nelson e Winter, 1982).
È negli anni sessanta che in America l'apparizione di una nuova forma d'impresa, la conglomerata, provoca il distacco dal paradigma affermatosi all'inizio del secolo con la large corporation integrata, contrassegnato dallo stretto rapporto fra nucleo imprenditoriale e management operativo. La conglomerata è l'esito di una strategia di diversificazione che, a differenza di quanto accade per l'impresa multidivisionale, supera i confini dei settori correlati al nucleo originario verso i quali è possibile trasferire dall'organizzazione già esistente risorse tecniche e manageriali.
All'origine della nuova impresa sembra essere decisiva la più accentuata competizione da parte di aziende straniere che la large corporation americana deve affrontare dopo il 1960. La pressione competitiva aveva caratterizzato il quadro economico sino al 1914, ma si era attenuata per le conseguenze di due grandi guerre e della crisi dei primi anni trenta; terminata la fase di ricostruzione successiva al secondo conflitto mondiale, si ripresenta vigorosa da parte delle imprese europee e giapponesi. La diversificazione verso attività per nulla collegabili a quelle originarie appare una risposta efficace alla caduta del tasso di profitto che la concorrenza provoca. Fra il 1963 e il 1972 si registra negli Stati Uniti una ondata di fusioni paragonabile a quella di fine secolo. Una metà delle fusioni riguarda aziende che appartengono a settori non correlati. L'impresa conglomerata non può possedere la coesione della multidivisionale. Il vertice del gruppo vuole mantenere le proprie prerogative decisionali, ma non ha né le competenze per valutare approfonditamente gli aspetti gestionali delle aziende controllate, né, se la diversificazione si è estesa eccessivamente, la possibilità materiale di farlo, nonostante le enormi potenzialità dell'informatica. Va qui per inciso menzionato il grave errore delle business schools americane, il cui insegnamento esalta la figura del general manager capace di operare in tutti i settori. In realtà, nelle condizioni della conglomerata, il nucleo imprenditoriale non può che compiere le proprie valutazioni sulla base di rapporti finanziari, senza poter giudicare adeguatamente le necessità del management alla guida delle aziende. Non a caso il quartier generale di una società conglomerata è di dimensioni minori in confronto a quello di una multidivisionale. Gli staffs di supporto si concentrano sulla finanza, le acquisizioni, il controllo, mentre restano escluse la produzione, la 'ricerca e sviluppo', il marketing.Il distacco fra vertice imprenditoriale e management operativo è accentuato dai cambiamenti nella composizione della proprietà. Fino all'inizio degli anni cinquanta, negli Stati Uniti, la proprietà della grande impresa, per quanto più diffusa che negli altri paesi, era pur sempre nelle mani di una quota ristretta della popolazione - il 4,2% - ed era sostanzialmente detenuta da ricchi individui o ricche famiglie, da banche e da compagnie d'assicurazione, che non si ponevano in contrasto con l'ottica del management di crescita di lungo periodo. L'apparire in posizione determinante nella proprietà dell'impresa dei fondi pensionistici e dei fondi comuni accentua la preminenza dell'elemento finanziario: questi capitali sono gestiti da managers la cui performance è misurata dal paragone fra il rendimento degli investimenti da essi effettuati e gli indici borsistici Standard & Poor.
L'irruzione sulla scena di questi nuovi investitori, ormai imitati anche dalle più consolidate istituzioni finanziarie, ha fatto sì che negli anni più recenti si sia formato in America un vero e proprio mercato per il controllo delle aziende; in tal modo grandi società vengono comprate, vendute, smembrate. Si può affermare che negli ultimi anni si è speso più denaro per comprare e vendere aziende che per gestirle. Non è concepibile che in questo contesto il management si impegni in iniziative di lungo respiro, i cui risultati possano essere verificati in un arco temporale superiore al decennio, come avveniva nelle fasi precedenti. La conseguenza per l'economia americana viene delineandosi con sufficiente precisione: grandi aziende come la Singer e la International Harvester sono state danneggiate in modo irreparabile, settori strategici quale quello delle macchine utensili vengono abbandonati alla concorrenza straniera. Il paragone con l'Inghilterra vittoriana aleggia minaccioso. Eppure sia la conglomerata sia la nuova offerta finanziaria e i nuovi proprietari non necessariamente vanno considerati come un fattore negativo. Possono anzi rivitalizzare la grande organizzazione burocratica aziendale dovunque essa abbia conosciuto momenti di stagnazione. Condizione indispensabile per il successo di questo intervento è però la capacità di ricollegarsi alla forma di impresa sorta all'inizio del secolo e sviluppatasi nel periodo fra le due guerre, che aveva saputo ampliare la base del management e che non vedeva alcuna frattura fra questo e il nucleo imprenditoriale.
I paesi che tentano la strada dell'industrializzazione nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, come il Giappone e l'Italia, a causa del livello tecnologico raggiunto dalle nazioni più avanzate, devono necessariamente procedere attraverso un mixage di 'prima' e 'seconda' rivoluzione industriale, che rende inevitabile l'intreccio fra impresa e Stato. L'immediato impatto con settori ad alta intensità di capitale, la carente accumulazione, la scarsezza di risorse socioculturali indispensabili alla modernizzazione economica fanno sì che per questi paesi l'influenza dei pubblici poteri debba andare ben oltre l'attività di regolamentazione della concorrenza. Lo Stato interviene a sostegno della grande azienda mediante protezionismo, sovvenzioni, commesse, salvataggi, fino a giungere all'impegno diretto come imprenditore. In questo contesto si ha un significativo mutamento nella strategia dell'impresa.
Mentre nell'esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Germania, e in particolare nel 'paradigmatico' caso americano, le ragioni della crescita sono squisitamente economiche (l'obiettivo è la diminuzione dei costi unitari), per la grande impresa delle nazioni 'ritardatarie' si possono portare diversi esempi di 'crescita strategica', cioè attuata per assecondare obiettivi politici o da questi originata, o anche perseguita per raggiungere posizioni di maggior forza dalle quali meglio negoziare con lo Stato.
In Giappone, conclusa la rivoluzione Meiji nel 1869, il governo centrale promuove attivamente il processo di industrializzazione, assumendosi il compito di fondare e gestire aziende minerarie, cotonifici, cementifici, vetrerie e cantieri, a causa delle limitate capacità imprenditoriali presenti nel paese. L'interventismo dello Stato si manifesta con particolare vigore negli anni fra le due guerre in un clima di bellicoso nazionalismo, sia con la domanda di produzioni per le forze armate, sia attraverso l'emanazione di una fitta serie di norme per il controllo dell'attività industriale e la creazione di nuove istituzioni, la più importante delle quali è il Ministero del commercio e dell'industria, fondato nel 1925, che nel secondo dopoguerra si trasforma nel Ministero dell'industria e del commercio internazionale (generalmente noto con la sigla MITI). Si deve rilevare che in questo periodo l'azione dello Stato incontra seri limiti, in quanto l'eccessiva regolamentazione diminuisce il grado di efficienza delle maggiori imprese. È tuttavia necessario porre in risalto il notevole patrimonio di esperienze acquisite sul terreno dell'intervento economico da parte della burocrazia statale e il fatto che la 'marcia forzata' imposta dai militari all'industria consente il definitivo consolidamento di settori quali la siderurgia, la meccanica pesante, la chimica. Dopo il 1945 una attenta analisi degli errori commessi provoca l'abbandono delle velleità pianificatrici da parte dello Stato, che opera attraverso guidelines e criteri molto più selettivi che nel passato. Una prova di questo nuovo atteggiamento della burocrazia è il caso di positiva interazione fra il MITI e le imprese che è all'origine della impressionante crescita del settore siderurgico. Nel dopoguerra l'obiettivo primario del MITI è ottenere valuta straniera per finanziare la ricostruzione di un paese in quel momento del tutto dipendente dall'estero. In tale prospettiva l'acciaio è considerato un prodotto strategico, perché in grado di fornire un valore aggiunto maggiore di quello offerto dalle esportazioni tradizionali, costituite soprattutto dalle lavorazioni tessili. L'acciaio, del resto, è altrettanto decisivo all'interno, sia per la ricostruzione sia per lo sviluppo previsto per gli anni successivi. Il MITI attua quindi una politica conseguente: il protezionismo più rigoroso, il sostegno dei prezzi, che libera le aziende dagli effetti delle fluttuazioni economiche pericolosissime per la siderurgia, le sovvenzioni per gli investimenti distribuite a pochissimi produttori, la coordinazione di questi ottenuta non mediante direttive formalmente vincolanti, ma attraverso 'raccomandazioni'. All'interno di questo quadro di riferimento le maggiori aziende si impegnano a loro volta nella costruzione di impianti che realizzino la più radicale razionalità produttiva (stabilimenti da più di dieci milioni di tonnellate l'anno) non solo senza curarsi dei costi nel breve periodo, ma dimostrando anche una capacità di disinvestire, in una lotta senza quartiere contro l'obsolescenza, che non ha eguali nelle altre economie di mercato. I risultati non lasciano adito a interpretazioni ambigue. Nel 1943 il Giappone produceva 8,5 milioni di tonnellate di acciaio, gli Stati Uniti 89. Alla metà degli anni ottanta i due paesi sono alla pari con 115 milioni di tonnellate annue, ma gli Stati Uniti importano il 20% del loro fabbisogno interno, mentre il Giappone, grazie a dimensioni delle unità produttive che consentono i costi minori a livello mondiale, esporta più di 22 milioni di tonnellate. Il successo della siderurgia giapponese mostra come si possa ottenere una sorta di quadratura del cerchio: coniugare il coordinamento e la cooperazione fra imprese - proibiti negli Stati Uniti - con l'efficienza. Ciò è possibile in un clima di compattezza nazionale che non ha eguali negli altri paesi ed è la dimostrazione di come non necessariamente una determinata forma di impresa - in questo caso molto simile al cartello - debba essere legata a un inevitabile esito economico: per comprendere il rapporto fra tipo di impresa ed esito economico è necessario considerare in tutte le sue implicazioni il contesto storico e ambientale.
Le scelte del governo - la vendita ai privati delle miniere e delle fabbriche statali dopo il 1880 -, oltre alla impossibilità di sfruttare adeguatamente le economie di scala per la ristrettezza del mercato interno, sono la causa di una peculiare forma d'impresa giapponese, lo zaibatsu, gruppo di società che operano nei più diversi settori ma, in particolare dopo il 1945, senza le reciproche dipendenze e la subordinazione a un centro decisorio che caratterizzano le multidivisionali e le conglomerate americane. All'interno del gruppo, tuttavia, ideate in incontri informali ma sistematici fra i leaders delle maggiori imprese, si pongono in atto, in alcuni significativi tornanti, intense fasi di cooperazione. Un esempio è, alla fine degli anni cinquanta, la creazione di numerosi complessi petrolchimici da parte di aziende che da sole non avrebbero avuto le risorse per avviare un così imponente investimento, mentre invece sono state in grado di affrontare un rischio 'frazionato'. La diversificazione, se può essere rivelatrice della fragilità economica di un paese agli inizi del processo di industrializzazione, attuata alla maniera dello zaibatsu giapponese, in modo cioè da evitare i gravi costi di coordinamento della grande impresa americana, si tramuta in un potente fattore di vantaggio nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, in cui, come rilevato in precedenza, le condizioni della competizione internazionale spingono alla desettorializzazione. È riconducibile al clima di compattezza nazionale anche il fatto che nel paese asiatico l'integrazione fra le diverse componenti sociali dell'azienda risulti molto più forte che nei paesi occidentali. Questi, per risolvere i problemi posti all'impresa dalla necessità di mantenere un processo produttivo fluido in presenza di alti costi fissi, ricorrono a una netta divisione del lavoro in senso sia orizzontale che verticale (ovvero fra chi pensa e chi esegue). Nelle fabbriche giapponesi, almeno nei settori centrali dell'apparato industriale, vige il cosiddetto sistema ringi che prevede il consenso dei lavoratori alle decisioni prese dal management. Inoltre agli operai delle grandi imprese, quanto meno sino a tempi recenti, viene garantita la stabilità dell'impiego indipendentemente dalle fluttuazioni economiche (v. Lazonick, 1991; tr. it., pp. 59-68).
In Italia dal 1933 lo Stato è padrone di una gigantesca conglomerata, l'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che quando viene dichiarata ente permanente nel 1937 controlla una consistente porzione dell'economia nazionale: l'80% della cantieristica, il 45% della siderurgia, il 39% dell'elettromeccanica, il 23% della meccanica, il 16% dell'industria elettrica. La nascita dell'IRI, causata dall'esigenza di far acquisire allo Stato le partecipazioni industriali delle tre maggiori banche, in gravissima difficoltà per la crisi dei primi anni trenta, è un episodio tutt'altro che isolato e improvviso della storia economica italiana. Esso è anzi il punto di arrivo di una cinquantennale politica di salvataggi da parte dello Stato, iniziata nel 1887 a vantaggio di una grande azienda siderurgica, la Terni, proseguita nel 1911 a favore dei più importanti produttori d'acciaio e, nei primi anni venti, delle società legate alla Banca Italiana di Sconto e al Banco di Roma.
Di considerevole interesse per comprendere la specificità della grande impresa italiana nel panorama internazionale è l'atteggiamento degli industriali siderurgici all'inizio del secolo. I due gruppi che si fronteggiano, il cosiddetto 'trust', guidato dai costruttori navali Attilio Odero, genovese, e Giuseppe Orlando, livornese, e la Piombino del finanziere romano Max Bondi, si lanciano in una dissennata corsa all'espansione degli impianti e dei debiti. Questi crescono per la Piombino, fra il 1906 e il 1911, da 1,2 a 44,9 milioni, mentre la somma del capitale e delle riserve passa dai 13,5 ai 20,7 milioni. Nel 1911 i debiti delle società del trust toccano i 212,1 milioni a fronte di un capitale, per altro sovrastimato per le partecipazioni incrociate, di 132,4. Sembra evidente la certezza di poter usufruire di una 'rete protettiva' da parte dello Stato, che in effetti si concretizza nel salvataggio del 1911, orchestrato dalla Banca d'Italia. Lo Stato si fa garante dell'esistenza di aziende di un settore a cui si ritiene l'economia italiana non possa rinunciare. Vengono così finanziate da danaro pubblico intraprese iniziate da privati: né congiunture avverse, né errori di direzione concedono loro la 'libertà' di fallire.
L'azione dell'imprenditore che persegue la crescita e l'espansione in settori diversi per ragioni 'strategico-politiche', con serie conseguenze (più o meno differite) per i risultati economici, produce quello che appare il più originale contributo italiano a una teoria e a una storia delle forme della grande impresa. Da significativi esempi di aziende polisettoriali emerge con chiarezza il continuo riferimento alle politiche dello Stato nelle scelte imprenditoriali. L'Ansaldo, l'azienda meccanica fondata a Genova nel 1853 con il patrocinio di Cavour, negli anni della prima guerra mondiale, sotto la guida dei fratelli Perrone, invade tutti i comparti della meccanica ed estendendosi anche alla siderurgia e all'attività mineraria ha per obiettivo la formazione di un colosso industriale integrato verticalmente. I Perrone, con i dirigenti e i tecnici che ne sostengono l'opera, mostrano di considerare l'Ansaldo una appendice dello Stato, in quanto impresa privata che opera per fini pubblici: la difesa e l'indipendenza economica del paese. Poiché l'azienda incarnava un duraturo interesse nazionale, essi ritenevano del tutto lecito elaborare piani a lungo raggio che le politiche pubbliche avevano il dovere di salvaguardare dalle fluttuazioni del mercato.La Terni, sorta nel 1884 con il preciso scopo di fabbricare le corazze delle navi della Regia Marina, negli anni venti, condotta da Arturo Bocciardo, un manager che aveva ricoperto un ruolo di primo piano nell'organizzazione della produzione bellica, trova una più conveniente collocazione settoriale divenendo la più importante azienda produttrice di energia elettrica nell'Italia centrale ed espandendo le sue attività anche in campo elettrochimico. Tuttavia, seppur in perdita, è mantenuta in vita anche la sezione siderurgica, utilizzata come strumento di pressione nei confronti del potere politico. La Terni continuava a sostenere il fardello delle produzioni belliche anche in tempi molto difficili, lo Stato doveva però concedere condizioni vantaggiose per lo sviluppo dei nuovi rami, stabilendo una favorevole regolamentazione per l'uso delle acque pubbliche e assegnando all'azienda una adeguata posizione nei cartelli chimici.
La Montecatini di Guido Donegani, vero e proprio 'costruttore di imperi', uno degli imprenditori di maggior rilievo nell'Italia di questo secolo, è, dopo il 1920, in seguito all'assorbimento delle due più importanti società produttrici di concimi, la principale azienda mineraria e chimica del paese. La sua egemonia si rafforza nella seconda metà degli anni venti grazie alla possibilità di sfruttare sul piano industriale le scoperte dell'ingegnere novarese Giacomo Fauser, che consentono la fabbricazione di fertilizzanti azotati con procedimento elettrolitico ('acqua, aria, elettricità') senza dover ricorrere all'importazione di carbone. La Montecatini deve però impegnarsi in onerosi investimenti per la costruzione di centrali idroelettriche, che possono essere sostenuti solo ottenendo il pieno controllo del mercato interno. Si ha così ancora una volta un do ut des con il governo, che permette di fatto alla Montecatini una posizione monopolistica nel settore dei concimi (centrale per l'economia italiana, dato il persistente peso dell'agricoltura) con un elevato protezionismo e arbitrando a favore dell'impresa il conflitto con il suo maggiore avversario, la Federconsorzi. Alla Montecatini nel corso degli anni trenta viene però rivolto l' 'invito' a compiere numerosi salvataggi di società chimiche e minerarie, con conseguenze che nel nuovo clima del periodo successivo al secondo conflitto mondiale si riveleranno irreparabili.
Sarebbe del tutto unilaterale sostenere che in Italia esista solo la grande impresa sostenuta dallo Stato. Sin dal decollo industriale del primo quindicennio del secolo si possono segnalare aziende, quali la FIAT e la Pirelli, che debbono in misura rilevante la propria affermazione alla capacità di compiere tempestivamente il triplice investimento, richiesto dalle condizioni della seconda rivoluzione industriale, in produzione, distribuzione, management. Anch'esse, tuttavia, per un lungo periodo considerano le politiche pubbliche con un'attenzione pari a quella riservata alle indicazioni del mercato.
Negli ultimi anni hanno suscitato un certo interesse fra i cultori di storia economica - e non solo fra essi - le tesi di due studiosi americani, Charles Sabel e Jonathan Zeitlin, presentatisi sulla scena del dibattito relativo alla grande impresa con un'ottica simile a quella del bambino della favola di Andersen, I vestiti nuovi dell'imperatore. Essi affermano infatti che solo una spessa sedimentazione ideologica, che molto deve alla distribuzione del potere e della ricchezza all'interno della società, rende ciechi alle alternative al paradigma tecnologico delle produzioni di massa, che fa diventare inevitabile la grande dimensione. In realtà l'esperienza di numerosi distretti industriali (viene ripresa la definizione di Alfred Marshall) dimostra come possano operare con successo piccole imprese capaci di sfruttare nuove tecnologie senza espandersi. Tre elementi concorrono a spiegare questo modello di imprese 'diverse': l'orientamento verso un mercato mutevole e sofisticato, un assetto istituzionale che facilita la redistribuzione innovativa delle risorse - basato sulle municipalità, sul capitalismo paternalistico o assistenziale, sulla confederazione di aziende familiari - e infine un ethos che riesce a conciliare individualismo e concorrenza con il senso della comunità e della cooperazione. Solo ambienti politici, istituzionali, economici sfavorevoli (ad esempio i governi nazionali succubi delle tendenze culturali dominanti, che favoriscono il passaggio alla produzione di massa) e non fattori di intrinseca debolezza possono determinare il declino della forma di impresa 'distrettuale'. All'impostazione di Sabel e Zeitlin è stato generalmente riconosciuto il merito di aver offerto un suggestivo ripensamento del passato, utile a ricostruire le continuità indispensabili a comprendere gli eccellenti risultati odierni di alcuni distretti industriali fondati su reticoli di imprese di limitate dimensioni; essa non ha mancato tuttavia di sollevare qualche perplessità. Critiche severe sono state formulate da un autorevole storiografo dell'industria, David Landes, che ricorda come non sempre 'piccolo' sia anche 'bello' e sottolinea la puntuale e invariabile sconfitta della piccola impresa nei confronti della grande ogni volta che la competizione avviene su un ampio mercato. Questo esito immodificabile non è provocato, secondo Landes, dall'azione di forze politiche, sociali o intellettuali, ma è dovuto semplicemente alla possibilità per la grande azienda di offrire merci a costi minori a una maggioranza di consumatori poveri con bisogni superiori alle loro risorse. A tali osservazioni, che sembrano solidamente fondate, credo se ne debba aggiungere un'altra alla luce delle argomentazioni proposte sinora. Un punto debole della costruzione dei due autori americani è dato dal fatto che, quando si passa alla dimostrazione empirica, gli esempi sono tratti dall'industria tessile, dell'abbigliamento, delle calzature, dalla meccanica di precisione, dalla metallurgia speciale. Sono tutti settori non raggiunti dalla seconda rivoluzione industriale e nei quali, pertanto, la piccola impresa non è drammaticamente svantaggiata rispetto alla grande, per ciò che concerne i costi unitari, e riesce a mantenere una vivace competitività. Una significativa prova di questa affermazione è data dai fallimenti che nel corso del merger movement di inizio secolo, negli Stati Uniti, registrano quanti, operando in industrie ad alta intensità di lavoro, ricercano le grandi dimensioni attraverso le fusioni. Nessuno ha ancora dimostrato che nei core sectors della seconda rivoluzione industriale - la siderurgia a ciclo integrale, la chimica organica, la meccanica di grande serie - il 'piccolo', forse più 'umano', fosse anche possibile. Ciò non toglie che le piccole e medie imprese abbiano rappresentato una componente essenziale del tessuto economico dei paesi di appartenenza, in quanto capaci di occupare significative nicchie di mercato, di rispondere a particolari esigenze del cliente, di lanciarsi in attività pionieristiche. È tuttavia già operante una 'terza rivoluzione industriale' prodotta da un nuovo cruciale complesso di innovazioni: la microelettronica, l'informatica, le telecomunicazioni. Mentre è difficile precisare quali organizzazioni possano emergere, appare molto probabile che il tipo di frattura che l'impresa dovrà affrontare avrà la stessa qualità dei cambiamenti provocati un secolo fa dalle tecnologie della produzione di massa. L'evoluzione tecnologica richiede quindi risposte profondamente diverse da quelle cui siamo abituati da cento anni a questa parte (v. Belussi, 1992). (V. anche Capitalismo; Dirigenti; Formazioni economico-sociali; Imprenditori; Impresa pubblica; Imprese multinazionali; Industria; Industrializzazione; Partecipazione agli utili; Rivoluzione industriale; Sviluppo economico).
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