Imprenditori
L'imprenditore è il capo dell'impresa, titolare esclusivo del diritto di svolgere l'attività economica per la produzione di beni e servizi per il mercato. L'imprenditore innova i metodi, i processi, i prodotti, creando opportunità di crescita economica e di sviluppo dei consumi. Egli coordina e controlla i fattori della produzione (lavoro salariato, capitale, tecnologia), che non sono necessariamente di sua proprietà esclusiva o anche solo prevalente, e si assume i rischi economici e giuridici inerenti all'esercizio di tali funzioni.
Nel sistema giuridico italiano lo status dell'imprenditore è disciplinato da norme di carattere generale, comuni a ogni tipo di impresa, e da norme speciali, dettate per singole categorie di imprese (privata o pubblica, piccola o grande, agricola o commerciale, individuale o societaria). L'articolo 2082 del Codice civile definisce imprenditore "chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi". Il richiamo all'organizzazione (che è contenuto anche nell'art. 2555, sul concetto di azienda, e nell'art. 1655, sul contratto di appalto) sottolinea il ruolo dell'imprenditore nel coordinamento dei fattori della produzione (capitale e lavoro) e i compiti e le responsabilità che egli assume in quanto capo dell'impresa. Infatti l'imprenditore, dirigendo l'impresa, esercita un suo potere gerarchico sui collaboratori subordinati (art. 2086) e ha anche l'obbligo di tutelare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, adottando tutte le misure atte a proteggerne l'integrità fisica e la personalità morale (in conformità agli artt. 35-37 della Costituzione, all'art. 2087 del Codice civile e alla legge n. 300 del 20 maggio 1970 o Statuto dei lavoratori).
La definizione della produzione e dello scambio di beni e servizi come fini dell'attività imprenditoriale esclude sia il mero godimento dei frutti del capitale, sia la produzione e lo scambio per l'autoconsumo. Il riferimento alla professionalità connota il carattere abituale dell'esercizio, ma non è sufficiente a definire il ruolo imprenditoriale; infatti l'attività del professionista è considerata imprenditoriale solo se essa va oltre il normale svolgimento della professione, come ad esempio nel caso del medico che organizza una casa di cura. Le norme sul fallimento e le altre procedure in caso di insolvenza (art. 2221 del Codice civile e legge fallimentare) regolamentano le modalità del rischio imprenditoriale. Le norme, infine, sulla pubblicità a tutela dei collaboratori e dei partners economici esprimono la responsabilità sociale dell'imprenditore.
Nei manuali di teoria economica è definito imprenditore colui che combina i fattori produttivi al fine di perseguire il massimo profitto. Date certe condizioni tecniche, solitamente riassunte in una funzione di produzione, l'imprenditore cerca la soluzione produttiva ottimale, o comunque soddisfacente, servendosi del calcolo matematico. Opera, in altri termini, nella sfera dei mezzi secondo il principio della razionalità economica, che si esprime nella identificazione dei mezzi più idonei a conseguire un fine dato, o nella massimizzazione dell'obiettivo ottenibile date certe risorse. Nella realtà concreta il calcolo matematico e la logica deduttiva non sono strumenti sufficienti a definire il ruolo imprenditoriale, dal momento che questo implica una notevole dose di creatività, fantasia e intuito per inventare nuove funzioni di produzione.
Sia l'approccio giuridico che l'approccio economico dominante deducono, riduttivamente, la definizione dell'imprenditore da quella dell'impresa: l'approccio giuridico, definendo l'imprenditore meramente come titolare di un diritto di esercizio dell'impresa, con le prerogative e i rischi a esso connessi; l'approccio economico, definendo l'imprenditore come soggetto razionale per eccellenza che calcola la combinazione ottimale o soddisfacente dei fattori produttivi. Dobbiamo quindi rivolgerci ad altre discipline, come la sociologia economica, la storia economica, la psicologia sociale, l'antropologia, e a un grande esponente 'solitario' del pensiero economico, Joseph Schumpeter, per ottenere analisi più problematiche, complesse e realistiche del ruolo imprenditoriale e della sua evoluzione nel tempo.
Dall'esame di questa letteratura multidisciplinare si rileva, innanzitutto, che il concetto di imprenditore non ha un significato univoco, anche se è prevalentemente definibile in termini di rischio e di innovazione; inoltre esso risulta affine, connesso e sovrapposto a concetti di natura diversa come quelli di capitalista (colui che si assume il rischio investendo nel mercato dei capitali), di proprietario (colui che acquisisce diritti di disporre dei fattori della produzione), di datore di lavoro (colui che acquista lavoro salariato), di dirigente o manager (colui che coordina il processo produttivo), di consigliere delegato (colui che definisce e attua le strategie di impresa in conformità alle linee generali decise dall'assemblea dei soci), di borghese (colui che, in senso marxista, domina il processo produttivo e, in senso non marxista, è caratterizzato da una cultura e da un costume di vita specifici).
Originariamente, nel XVI secolo, il termine francese entrepreneur designava il capitano di ventura che reclutava mercenari e si poneva al servizio del miglior offerente. Solo a partire dal XVIII secolo il termine cominciò a essere applicato all'attività economica, connotando sia l'appaltatore di opere pubbliche, militari e civili, sia il proprietario terriero direttamente impegnato nella produzione agricola mediante l'adozione delle moderne tecniche di coltivazione, sia il capitalista industriale.
I primi studiosi che esaminarono la funzione imprenditoriale, come Cantillon (v., 1755) e Turgot (v., 1769-1770), posero l'accento sull'elemento della disponibilità ad accettare il rischio e l'incertezza intrinseci nell'attività economica e sul possesso di capitale di rischio. Successivamente la teoria economica mostrò, nel complesso, scarsa attenzione per il concetto di imprenditore, a cominciare da Adam Smith (v., 1776) che non distinse la figura dell'imprenditore da quella del capitalista. Vi furono tuttavia rilevanti eccezioni, come Jean Baptiste Say (v., 1803), che spostò l'accento dall'assunzione del rischio economico alla funzione di organizzazione e di coordinamento del processo produttivo, definendo come elemento distintivo dell'imprenditore la capacità di porsi al centro di molteplici rapporti, tra capitalisti, tecnici, mercanti e consumatori; John Stuart Mill (v., 1848), a sua volta, separò la funzione imprenditoriale, considerata come una risorsa remunerata dal profitto, da quella del capitalista, remunerata dall'interesse.Ma fu solo con Schumpeter (v., 1912, 1926⁴, 1927, 1942) che si ebbe una esauriente concettualizzazione dell'imprenditorialità. Egli pose infatti al centro del suo sistema teorico il concetto di imprenditore, dando origine in tal modo a un filone di studi interdisciplinari che si è sviluppato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e si è avvalso in particolare del contributo di storici e sociologi.
La funzione imprenditoriale rappresenta per Schumpeter la variabile chiave dello sviluppo economico. Tale funzione si definisce come attività di innovazione: l'imprenditore introduce nuove combinazioni di fattori della produzione (capitale e lavoro) che, in presenza di adeguati strumenti creditizi, interrompono la staticità del flusso circolare e la tendenza all'equilibrio del sistema economico. La funzione innovativa svolta dall'imprenditore, mutando i metodi di offerta dei prodotti, combinando in modo nuovo le risorse esistenti e allestendo nuove funzioni produttive, costituisce il vero fattore dinamico dell'economia. Il carattere straordinario, qualitativamente diverso, profondamente perturbatore dell'ordine esistente, dell'imprenditore innovatore è ribadito da Schumpeter con molteplici qualificazioni successive che sviluppano l'analisi delle sue caratteristiche sociologiche e psicologiche, degli ostacoli sociali all'innovazione, del tipo di condotta e delle motivazioni che lo caratterizzano.
La definizione schumpeteriana di imprenditore è di tipo funzionale; imprenditorialità e funzione di innovazione infatti coincidono. L'innovazione non presuppone il requisito della proprietà; la coincidenza della figura del capitalista e dell'imprenditore in gran parte degli economisti del Settecento e dell'Ottocento è, infatti, per Schumpeter, dovuta semplicemente al minor grado di differenziazione della vita economica da essi osservata. Tale funzione non è, d'altro canto, ricollegabile al rischio economico, poiché è il capitalista che sopporta il rischio di eventuali perdite di denaro. Infine, il ruolo imprenditoriale secondo Schumpeter non richiede necessariamente l'appartenenza formale all'organizzazione aziendale, poiché innovatore può essere anche chi con l'azienda ha rapporti di collaborazione parziali e temporanei; mentre, d'altro canto, il ruolo del manager è confinato nella sfera dell'ordinaria amministrazione. Conseguentemente Schumpeter rifiuta la definizione marshalliana dell'imprenditorialità come management nel suo significato più ampio, perché essa rischia di disperdere il carattere essenziale dell'innovazione nel lavoro di routine.
La definizione funzionale dell'imprenditore come innovatore presta il fianco alla critica (puntualmente formulata fin dalla prima edizione della Teoria dello sviluppo economico) di esagerare il carattere eccezionale di una funzione che appare potenzialmente molto diffusa nell'economia di mercato. Per fronteggiare tale critica Schumpeter pose l'accento sulla specificità sociologica del ruolo imprenditoriale. Non è infatti sufficiente affermare che l'introduzione di nuove combinazioni produttive costituisce una funzione economica del tutto particolare; va anche mostrato che l'imprenditorialità è connotata da un tipo speciale di attività e da specifiche doti personali, che per Schumpeter sono sinteticamente riconducibili al concetto di leadership.
Per vincere le molteplici resistenze, psicologiche e sociali, all'innovazione, l'imprenditore deve infatti essere un leader, per certi versi simile ai leaders politici, militari o religiosi del passato, ma anche assai diverso da essi perché profondamente diverso è il contesto in cui deve operare. L'imprenditore è leader in una civiltà razionalistica e antieroica, in cui la borsa è un misero succedaneo del Santo Graal e la sua azione non presenta aspetti affascinanti e non suscita entusiasmi collettivi. Le caratteristiche più generali della leadership, come la capacità di pensare il nuovo e di prevedere ciò che si verificherà, la concentrazione su un obiettivo essenziale, la forza di volontà, sono presenti anche nell'imprenditore, ma questi le estrinseca in un'attività che sembra ispirata al mero interesse individuale e della quale solo pochi sanno apprezzare gli esiti, a differenza di quanto avviene per la vittoria di un generale sul campo di battaglia o per il discorso trascinante di un capo politico.
Per questi motivi l'agire imprenditoriale non si inserisce nella tradizionale motivazione dell'homo oeconomicus descritto dall'economia politica classica, ma appare piuttosto come un intreccio di motivazioni razionali e irrazionali.
La condotta dell'imprenditore risponde a tre grandi gruppi di motivazioni: anzitutto vi sono l'aspirazione a fondare un regno privato e una dinastia, la ricerca di prestigio sociale attraverso il successo industriale e commerciale per persone che non hanno altre vie per ottenerlo, il desiderio di potere e di indipendenza. Vi sono poi la volontà di conquista, l'impulso alla lotta, la voglia di mostrare la propria superiorità e di ottenere il successo (il che assimila l'attività imprenditoriale sia allo sport moderno, sia ai tornei dei signori feudali). E vi sono infine la gioia di creare, di realizzare i propri disegni, o, più semplicemente, di esprimere la propria energia e il proprio intuito.
L'imprenditore si avvale del clima razionalistico del capitalismo e delle sue manifestazioni, come lo sviluppo dell'economia monetaria, i progressi della scienza moderna e l'affermarsi della libertà individuale, e ispira in parte il proprio agire a motivi razionalistici, ma non costituisce la personalità modale della cultura capitalistica. L'atto tipico dell'imprenditore è infatti fondamentalmente un atto creativo, e il suo agire deviante rispetto ad alcuni degli stessi valori tipici della cultura borghese risponde a una razionalità diversa da quella del calcolo del proprio utile, a una razionalità intesa come capacità di pensare e creare il nuovo.
E tuttavia imprenditorialità e capitalismo appaiono strettamente connessi. Attività imprenditoriali si sono manifestate anche in altre epoche storiche, ma l'imprenditore si afferma pienamente, come figura centrale, solo nel capitalismo. Più esattamente, l'imprenditorialità rappresenta la particolare forma storica che assume la leadership nel capitalismo. La canalizzazione delle energie innovative nell'attività economica contribuisce a spiegare la grande accelerazione del processo di sviluppo economico, che possiamo considerare in certo modo l'equivalente delle grandi religioni e dei grandi imperi politico-militari del passato.
Nella sua teoria sociologica sulle classi sociali e nella sua analisi della crisi del capitalismo Schumpeter (v., 1927 e 1942) offre un'interpretazione dell'ascesa e del declino della borghesia che è strettamente connessa all'evoluzione dell'imprenditorialità. Nella società capitalistica la borghesia è la classe dirigente, perché le famiglie borghesi svolgono un fondamentale ruolo di innovazione e di leadership nell'attività economica e perché esse acquistano, consolidano e trasferiscono ricchezza, potere e prestigio da una generazione all'altra. Tale predominio è tuttavia progressivamente minato dal declino della funzione imprenditoriale causato dalla routinizzazione dell'innovazione nella grande impresa, dall'indebolirsi di istituzioni-chiave come la proprietà privata, il contratto e la famiglia borghese, dalla scomparsa degli strati sociali protettivi, e dalla critica degli intellettuali; fattori che incidono sul sistema capitalistico fino a provocarne una crisi complessiva.
La concezione schumpeteriana è stata criticata per aver generalizzato un caso particolare di imprenditorialità, quello dell'imprenditore individuale (v. Pagani, 1964) e per non aver risolto in modo soddisfacente la questione del rapporto tra ruolo imprenditoriale e appartenenza di classe (v. Martinelli, 1990). Inoltre Schumpeter sottovaluta gravemente il ruolo delle piccole imprese che continuano ad avere una parte importante nei principali progressi della tecnologia, operando in condizioni di oligopolio differenziato ( v. Scherer, 1980; v. Sylos Labini, 1984). Infine, le sue errate previsioni sulla crisi del capitalismo sono dovute, come in Marx, a una sottovalutazione della capacità di trasformazione e di autocorrezione del capitalismo stesso, che peraltro Schumpeter aveva in parte colto, analizzandone i processi di distruzione creativa.
Nonostante questi limiti, tuttavia, Schumpeter resta il principale studioso dell'imprenditorialità. Egli ha posto molte delle questioni che sono state successivamente al centro dell'analisi storica e sociologica, quali i problemi delle motivazioni dell'agire imprenditoriale, del rapporto tra imprenditorialità e sviluppo economico, degli atteggiamenti sociali favorevoli o contrari allo sviluppo dell'imprenditorialità, del rapporto tra funzione imprenditoriale e classe borghese, del rapporto tra imprenditore e dirigente nell'impresa.
Prima di esaminare tali questioni è tuttavia necessario definire sinteticamente le principali concezioni della figura dell'imprenditore alternative a quella schumpeteriana. Vi sono, innanzitutto, altre concezioni funzionali che definiscono l'imprenditore in base al ruolo svolto, ma concentrano l'attenzione non già sul ruolo innovatore, bensì su quello decisorio o di soggetto che assume il rischio di impresa. Sono proprio le difficoltà derivanti dall'intersezione, nell'opera di Schumpeter, dei due piani dell'analisi della teoria economica e di quella storico-sociologica che inducono, da un lato, a riprendere e approfondire la concezione dell'attività imprenditoriale come assunzione di rischio, e, dall'altro, a formulare nuove concezioni.
La prima ha il suo maggiore esponente in Knight (v., 1921), il quale ricollega strettamente la funzione imprenditoriale all'esistenza di un mercato concorrenziale, in grado di garantire il rischio di intrapresa. Le seconde sono prevalentemente il frutto degli studi del Center for Entrepreneurial History di Harvard che danno luogo alle due concezioni alternative di Redlich (v., 1957) e di Cole (v., 1959), l'una tesa a sottolineare il carattere di decisore dell'imprenditore e l'altra a proporre una definizione plurifunzionale della imprenditorialità vista come attività economica consapevole, soggetta al rischio, fatta di decisioni integrate da parte di un individuo o di un gruppo di individui e finalizzata al profitto (la definizione di Redlich ricorda quella di Dobb, che pone l'accento sul carattere di decisione politica dell'attività imprenditoriale con implicazioni macroeconomiche e macrosociali; v. Dobb, 1955).
Accanto alle concezioni funzionali, che sono prevalenti, ve ne sono essenzialmente altri tre tipi: quelle che pongono l'accento sull'imprenditore come percettore di un particolare tipo di reddito, il profitto; quelle che concepiscono l'attività imprenditoriale come tipico esempio di agire razionale, caratterizzato da uno specifico tipo di mentalità; quelle che definiscono l'imprenditore come titolare responsabile e guida di un'impresa. La concezione dell'imprenditore come percettore di un particolare tipo di reddito è condivisa sia da Marx (v., 1867-1894), che identifica l'imprenditore con il capitalista, cioè colui che si appropria del plusvalore allo scopo di valorizzare continuamente il capitale, fino a essere 'capitale personificato' e non già mero 'funzionario del capitale', sia da quegli economisti come Mill che, per contro, pongono l'imprenditorialità come quarto fattore della produzione accanto alla terra, al lavoro e al capitale e distinguono quindi la specifica remunerazione dell'imprenditorialità (il profitto) dalla remunerazione del capitale (l'interesse).
Il maggiore esponente della concezione dell'agire imprenditoriale come espressione di una tipica mentalità razionale è Max Weber (v., 1920-1921 e 1922). Per Weber l'imprenditore capitalistico si distingue nettamente dai suoi antecedenti storici delle economie tradizionali perché persegue sistematicamente il profitto, calcola razionalmente costi e benefici, generalizza il principio della fiducia attraverso il credito e subordina il consumo alle esigenze dell'accumulazione. L'agire dell'imprenditore è un tipico esempio di razionalità rispetto allo scopo (Zweckrationalität), che instaura una relazione sistematica tra fini preferiti e mezzi idonei a conseguirli. L'analisi di Weber, pur sottolineando la correlazione tra ethos religioso e comportamento economico, non è un esempio di determinismo culturale. L'etica protestante fu infatti solo uno dei fattori che contribuirono all'affermarsi del razionalismo nella civiltà occidentale, accanto allo sviluppo della scienza sperimentale, dell'autorità razionale-legale derivante dal diritto romano e dello Stato moderno. Weber inoltre non trascura l'importanza delle condizioni socioeconomiche, come lo sviluppo delle città con classi medie coese e norme commerciali universalistiche. Infine, Weber è consapevole, come Marx, della funzione di legittimazione dei valori etico-religiosi nei rapporti di classe. Contrariamente a Marx, egli non riteneva, tuttavia, che i valori fossero determinati dai rapporti sociali, ma avrebbe probabilmente accettato la tesi secondo cui i gruppi sociali innovatori, come gli imprenditori, selezionano quelle concezioni della realtà che sembrano meglio corrispondere alle loro esigenze. Weber mostra come il processo di espansione della razionalità strumentale, che è caratteristico della moderna attività imprenditoriale, abbia contribuito alla formazione di nuove istituzioni 'moderne' in tutte le sfere della vita sociale, sia privata che pubblica.
Le definizioni della terza categoria, che considerano l'imprenditore come titolare responsabile e guida strategica dell'impresa, sono, da un lato, le più vicine alle definizioni giuridiche e, dall'altro, quelle più spesso utilizzate nelle ricerche empiriche, perché rappresentano un criterio efficace per una concreta individuazione degli imprenditori. Queste definizioni sostituiscono l'approccio funzionale con quello posizionale; si presume che chi ricopre la posizione di titolare e rappresentante giuridico dell'impresa eserciti anche il ruolo imprenditoriale e detenga il potere decisionale effettivo. Questa corrispondenza va tuttavia accertata empiricamente e in tal senso l'approccio posizionale va integrato con quello funzionale. Particolarmente interessante a questo riguardo è la posizione di Chandler, che considera imprenditore solo chi esercita le funzioni strategiche nella vita dell'impresa, e cioè le funzioni legate alle attività di pianificazione, coordinamento e controllo, escludendo le decisioni di routine che sono invece caratteristiche del ruolo del dirigente (v. Chandler, 1962).
Riassumendo questa disamina delle diverse interpretazioni del ruolo dell'imprenditore possiamo affermare che questa figura si manifesta pienamente nell'economia capitalistica di mercato orientata al profitto e che i suoi tratti distintivi fondamentali sono la capacità di innovare, il calcolo razionale di costi e benefici, la propensione al rischio, la capacità di prendere le decisioni strategiche nella vita dell'impresa e la remunerazione in termini di profitto. Esaminiamo adesso le principali questioni della ricerca sulla imprenditorialità sviluppate nelle analisi degli storici e degli studiosi di scienze sociali.
Una parte rilevante della ricerca storica e sociologica sulla imprenditorialità ha ruotato intorno alle questioni fondamentali della genesi e del funzionamento dell'economia capitalistica di mercato e della formazione e dello sviluppo della borghesia come classe sociale. Da un lato, infatti, l'attività imprenditoriale trova nell'economia di mercato le condizioni più idonee al suo sviluppo, e l'ingresso del soggetto imprenditore nella borghesia segna il successo della sua attività e la sua capacità di tramandare il suo status ai discendenti; dall'altro, non solo l'economia di mercato ha bisogno a sua volta dell'innovazione imprenditoriale e dell'impresa innovativa e competitiva, ma anche la borghesia in quanto classe ha bisogno dei nuovi imprenditori per ringiovanirsi e rinnovarsi. Economicamente e sociologicamente, direttamente e indirettamente, ruolo imprenditoriale, classe borghese ed economia capitalistica di mercato sono dunque fenomeni strettamente connessi.
Questa constatazione consente di dirimere la questione circa le origini sociali degli imprenditori, che le ricerche sociologiche più recenti, diversamente da quanto sostenuto da Schumpeter, tendono a connotare in modo definito, sottolineando l'importanza della ereditarietà del ruolo e della posizione di classe della famiglia. Il problema delle origini sociali degli imprenditori tende quindi a sovrapporsi e a confondersi con quello della formazione della borghesia e della genesi del capitalismo. Rinviando ad altri articoli per una ricostruzione storica di tali processi (v. Borghesia; v. Capitalismo), esamineremo qui le principali interpretazioni delle origini sociali degli imprenditori che sono state formulate dalle scienze sociali, e in particolare dalla sociologia economica.
I principali approcci empirici allo studio della formazione dell'imprenditorialità possono essere classificati sulla base dei diversi paradigmi disciplinari e delle due sottostanti dimensioni analitiche: 'attore-sistema' (o 'micro-macro') e 'strutturale-culturale'. Metaforicamente si può osservare che per l'emergere dell'imprenditorialità è necessario che il 'seme' potenzialmente appropriato trovi il 'terreno' adatto. Alcuni studiosi concentrano l'attenzione sul seme, analizzando i tratti tipici della personalità degli imprenditori o le loro caratteristiche sociali. Altri pongono l'accento sulla natura del terreno, o del contesto, che è esaminato sia nei suoi aspetti strutturali (tipi di mercato, fattori della produzione, rapporti etnici e di classe, processi di mobilità sociale, forme di intervento statale), sia nei suoi aspetti culturali (etica degli affari, valori e atteggiamenti sociali più o meno favorevoli all'attività economica, culture e stili di leadership imprenditoriale). Altri ancora scelgono l'analisi del rapporto tra l'attore e la situazione di opportunità e rischio in cui opera.
Da questa vasta letteratura multidisciplinare sulla formazione dell'imprenditorialità si ricavano contributi utili per analizzare due gruppi di questioni principali: a) quali sono le caratteristiche psicologiche e sociologiche degli imprenditori, ovvero quali tratti specifici della personalità li distinguono dagli altri individui e quali gruppi e ruoli sociali tendono a produrli in misura maggiore di altri; b) quali sono i fattori strutturali e culturali di contesto che favoriscono l'emergere dell'imprenditorialità e come si comportano effettivamente gli imprenditori in una situazione data, ovvero come traggono vantaggio dalle opportunità esistenti.
Come è stato ricordato in precedenza, Schumpeter sostiene che la funzione imprenditoriale richiede capacità di leadership, intuizione, risolutezza, caratteristiche, queste, che connotano un tipo specifico di personalità e di condotta, diverso dall'agire razionale dell'homo oeconomicus. Indagini empiriche circa le caratteristiche distintive degli imprenditori hanno dato vita ai cosiddetti trait models (v. Chell, 1985), che appaiono tuttavia poco convincenti perché considerano l'attività economica come una mera funzione della personalità e l'imprenditorialità come una forza indipendente e spontanea, che opera senza nessuna intellegibile relazione con l'ambiente circostante.
Altrettanto discutibili risultano i modelli psicodinamici, come quello di Kets de Vries (v., 1977), che ricollegano la personalità imprenditoriale a un'esperienza psicologica dolorosa vissuta durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza. Tale esperienza può certo favorire lo sviluppo di personalità autonome e tenaci, ma non può essere tuttavia considerata una sorta di prerequisito per l'imprenditorialità, in virtù delle numerose prove contrarie che si possono ricavare dallo studio delle biografie degli uomini d'affari.L'approccio psicosociologico di McClelland (v., 1961) è assai più noto. Esso appare più attento all'interazione con i fattori socioculturali. McClelland pone l'accento sul bisogno di realizzazione (need for achievement) che caratterizza la personalità dell'imprenditore, bisogno che si forma nel corso della socializzazione primaria tramite l'interiorizzazione di atteggiamenti e simboli culturali diffusi nella cultura di appartenenza. Utilizzando un vasto materiale empirico concernente 22 paesi, McClelland sostiene che i bambini dei paesi occidentali industrializzati interiorizzano atteggiamenti e simboli che favoriscono un più elevato bisogno di realizzazione. Coloro che manifestano questo bisogno in forma più intensa diventano imprenditori. Per contro, nei paesi sottosviluppati tale bisogno sarebbe meno diffuso e si esprimerebbe in campi diversi dall'industria e dal commercio. Questa teoria ha suscitato serie critiche metodologiche che concernono in particolare l'adeguatezza degli indicatori della variabile chiave (v. MacDonald, 1965). Scegliendo altri indicatori (ad esempio i test di fantasia degli allievi della scuola primaria) si è giunti addirittura a risultati opposti, che vedrebbero una maggiore propensione all'autorealizzazione nei paesi sottosviluppati. In realtà, come rileva Gerschenkron, la distribuzione normale di attitudini personali e di pratiche educative è sufficiente a produrre un numero adeguato di imprenditori potenziali in ogni società; la questione cruciale riguarda quindi non le propensioni psicologiche ma i fattori istituzionali che consentono l'esplicarsi dell'agire imprenditoriale.
Simile all'approccio di McClelland, ma più elaborato teoricamente, è il modello di Hagen (v., 1962), che combina un'interpretazione psicanalitica della personalità dell'imprenditore con un'analisi della sua condizione di membro di un gruppo deviante. Per Hagen gli imprenditori spesso provengono da gruppi sociali che hanno sofferto una perdita di prestigio (immigrati, colonizzati, non integrati in genere), i quali ritengono che i loro valori e le loro mete non siano stimate dagli altri gruppi della società in cui vivono e dei quali, peraltro, essi apprezzano il giudizio. Gli esiti di tali situazioni possono essere assai diversi: possono alimentare sentimenti di rabbia, ansia e rinuncia; o, al contrario, in presenza di altre condizioni agevolanti, come una debole figura paterna e una figura materna incoraggiante, possono favorire la creatività e la fiducia in se stessi e quindi l'emergere di atteggiamenti imprenditoriali.
La teoria di Hagen presenta pregi e difetti speculari rispetto a quella di McClelland: è meglio argomentata, ma si basa su un materiale empirico di verifica limitato a pochi casi storici. Essa tuttavia funge da trait d'union tra l'approccio psicosociologico e gli approcci sociologici, poiché considera macrovariabili dell'ambiente sociale, come la perdita di status e la marginalità sociale, solo in quanto influiscono sul processo di socializzazione.
Le interpretazioni sociologiche dell'imprenditore come deviante e appartenente a gruppi sociali marginali hanno una tradizione consolidata. Esse offrono una risposta sia alla questione delle caratteristiche sociali dei potenziali imprenditori, sia a quella della natura del contesto, collegando l'analisi delle specificità del gruppo marginale alle variabili macrosociologiche. Anche l'imprenditore schumpeteriano è in una certa misura un deviante, che sviluppa atteggiamenti non razionali in un ambiente razionale. Il maggiore esponente dell'approccio della marginalità è tuttavia Werner Sombart (v., 1916-1927²). Proprio perché oggetto di discriminazioni giuridiche, politiche o culturali che limitano la loro possibilità di affermazione sociale in campi diversi da quello economico, stranieri, eretici, minoranze sociali, etniche e religiose, come gli Ebrei o i Cinesi, tendono a dare una percentuale di imprenditori statisticamente superiore alla norma. Dell'imprenditore capitalistico Sombart, analogamente a Schumpeter, sottolinea lo spirito creativo, la volontà di dominio, la capacità di innovazione. Ma, diversamente da Schumpeter, che tende a identificare l'imprenditore con il leader della moderna società industriale, Sombart ne sottolinea la funzione di rottura degli schemi tradizionali dell'agire economico. Gli imprenditori, pur provenendo da ogni ceto sociale, tendono a essere più numerosi in quei gruppi la cui appartenenza a una data società non è pienamente accettata e che quindi riescono a sottrarsi più facilmente al controllo sociale dei valori e delle norme dominanti nella cultura economica tradizionale. Per questi gruppi oppressi o discriminati, il successo economico costituisce l'unico canale tollerato di mobilità sociale e l'attività economica è favorita da una solidarietà di gruppo particolarmente spiccata.
La tesi di Sombart è ripresa da Hoselitz (v., 1960) che, rifacendosi al concetto di marginalità sociale di Robert Park, sostiene che gli imprenditori sono soggetti devianti in quanto agiscono in un ambiente ostile, dove prevalgono atteggiamenti contrari all'innovazione, ma, essendo esclusi dal potere politico e in virtù della loro estraneità rispetto al sistema di valori dominante, sono sottoposti a minori sanzioni per il loro comportamento deviante.
Un'altra versione interessante della tesi della marginalità sociale è quella di Young (v., 1971) che, richiamandosi a Durkheim e a Lévi Strauss, pone l'accento sul grado di solidarietà organica che caratterizza le interazioni all'interno del gruppo e sostiene che ciò che è rilevante non è l'essere deviante rispetto ai valori della società, ma possedere risorse istituzionali in quanto membri di un gruppo coeso e solidale, da utilizzare come vantaggio competitivo al fine di compensare la mancanza di riconoscimento sociale o l'impossibilità di accedere ad ambienti sociali importanti.
Gli studi più recenti sull'imprenditorialità etnica (v. Ward e Jenkins, 1984; v. Waldinger e altri, 1985) e sulle donne imprenditrici (v. Goffee e Scase, 1985) adottano un approccio similare. Fattori macrosociali, come il pregiudizio razziale e sessuale, attraverso processi di esclusione sociale tendono a produrre degli outsiders, i quali, a loro volta, formano dei gruppi che alimentano potenziali imprenditori. Un tipico esempio è la ricerca antropologica di Godsell (v., 1991) sui Sudafricani di origine indiana, che si sono rivelati particolarmente abili nell'aggirare i massicci vincoli legali e politici dell'apartheid grazie alla loro elevata integrazione nelle rispettive comunità etniche. Un'illustrazione sociologica di tale approccio è lo studio di Portes e Zhou sulle minoranze etniche immigrate negli Stati Uniti che sono riuscite a integrarsi nell'economia americana senza aver completamente assimilato il 'giusto' tipo di valori, senza aver acquisito capacità scolastiche negoziabili e senza aver usufruito di consistenti programmi di assistenza statale. La solidarietà e la fiducia reciproca che si instaurano tra i membri della comunità etnica non derivano tanto da valori condivisi quanto dalla posizione della minoranza etnica nella società, e diventano fonti fondamentali di 'capitale sociale' (v. J. S. Coleman, 1988) per queste minoranze. Cinesi, Coreani o Cubani non mostrano particolari doti di solidarietà o di onestà economica nei loro paesi d'origine, ma accentuano tali caratteristiche in quanto membri di una minoranza socialmente identificabile nei paesi ospiti.
L'approccio della marginalità sociale è stato criticato su due diversi fronti. Da un lato, sul terreno dell'analisi culturale, da coloro che sostengono l'importanza dei valori della cultura egemone in una data società e considerano l'approvazione sociale un prerequisito della formazione dell'imprenditorialità. Dall'altro, sul terreno dell'analisi strutturale, da coloro che sostengono che i nuovi imprenditori provengono più dalle classi dominanti che dai gruppi marginali di una data società, in virtù del loro più agevole accesso alle risorse economiche, politiche e sociali. Queste critiche introducono i due approcci classici di analisi del contesto dell'imprenditorialità, quello che enfatizza gli aspetti culturali, di cui discuteremo la tesi della legittimazione sociale dell'attività imprenditoriale, lo studio delle ideologie imprenditoriali e i contributi neoweberiani, e quello che enfatizza gli aspetti strutturali, di cui esamineremo la versione dell'analisi delle classi e la critica alla concezione dell'imprenditorialità dominante nella teoria economica. Entrambi questi approcci hanno le loro radici nelle grandi interpretazioni della genesi del capitalismo, dal processo di accumulazione originaria di Marx al rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo di Weber; dall'affermazione del ceto mercantile emancipatosi dall'ordine feudale di Pirenne al ruolo dei ceti marginali e della cultura razionalistica di Sombart.
La tesi dell'imprenditore come soggetto deviante è stata confutata da alcuni storici del Center for Entrepreneurial History di Harvard, quali Landes e Sawyer, che attribuiscono importanza cruciale agli atteggiamenti sociali favorevoli all'innovazione. Comparando il caso americano e il caso francese, questi autori imputano il diverso grado di sviluppo industriale dei due paesi al fatto che mentre in Francia, nonostante la Rivoluzione del 1789, l'eredità feudale ha lasciato un forte residuo di atteggiamenti sociali sfavorevoli all'attività imprenditoriale, negli Stati Uniti l'assenza di un passato feudale ha consentito la formazione di un contesto socioculturale particolarmente idoneo allo sviluppo dell'imprenditorialità e ricettivo all'innovazione (v. Landes, 1951; v. Sawyer, 1952). La tesi 'culturale' di Landes e Sawyer si riconnette idealmente alla concezione weberiana; essa tende a individuare nell'imprenditore l'agente fondamentale dello sviluppo economico e assume anzi come prerequisito essenziale dello sviluppo la formazione di una imprenditorialità capitalistica. Questa concezione sostiene giustamente l'importanza dell'approvazione sociale e del sostegno della cultura dominante per l'innovazione imprenditoriale ma è criticabile per il ruolo assolutamente preminente assegnato all'imprenditorialità nello sviluppo economico e per il peso determinante attribuito agli atteggiamenti sociali sulla base dell'assunto che in ogni società esista un sistema di valori omogeneamente diffuso. Tale critica è stata formulata in particolare da Gerschenkron (v., 1962), il quale, rilevando casi storici, come quelli dei 'fermiers généraux' nella Francia del XVIII secolo e dei servi emancipati della Russia del XIX secolo, che mostrano come si siano affermate attività imprenditoriali anche in presenza di atteggiamenti sociali sfavorevoli, confuta la tesi di Landes e Sawyer e considera gli imprenditori solo come uno dei fattori istituzionali dello sviluppo cui i paesi arretrati possono fare ricorso, accanto alle banche d'investimento o allo Stato. Secondo questa impostazione pertanto la comparazione dei processi di industrializzazione verificatisi nelle varie fasi storiche potrà meglio compiersi rinunciando a un unico schema esplicativo, e individuando invece gli specifici agenti di innovazione per ogni situazione storica data.
Circa il dibattito sul ruolo degli atteggiamenti sociali favorevoli o meno alla formazione dell'imprenditorialità, possiamo rilevare che la situazione più adatta all'emergere di iniziative imprenditoriali è un generale clima culturale che abbia istituzionalizzato i valori razionalistici e competitivi del mercato capitalistico e il suo efficace sistema di incentivi e di premi per il successo economico. In diversi casi storici, soprattutto nella fase di avvio dell'imprenditorialità, appare fondamentale anche il ruolo svolto da una subcultura di ceto, deviante o marginale, che offra un adeguato sostegno motivazionale allo sviluppo degli atteggiamenti tipici della leadership imprenditoriale schumpeteriana, e che favorisca l'innovazione imprenditoriale mediante una solidarietà di ceto.
Nella prospettiva di tipo culturale si muovono anche gli studiosi della 'ideologia' imprenditoriale, come Bendix (v., 1956) e Sutton, Harris, Kaysen e Tobin (v., 1956), i quali sottolineano l'importanza dei valori nella motivazione dell'imprenditore e nell'esercizio della sua attività. Si tratta in primo luogo dei valori già identificati da Weber e Sombart (la razionalità, l'individualismo, l'autorealizzazione, il lavoro indefesso, il considerarsi unico responsabile del proprio destino), ma anche delle concezioni dei rapporti di autorità e di disciplina con collaboratori e dipendenti.In Italia l'ideologia imprenditoriale è stata analizzata nel quadro degli studi sullo sviluppo economico nazionale e con riferimento alla tesi della originaria debolezza della borghesia industriale nella formazione del blocco sociale dominante (v. Provasi, 1976; v. Martinelli, 1990). Altri autori hanno mostrato come la legittimazione accordata all'agire imprenditoriale risulti più scarsa che altrove e hanno ricostruito i principali cambiamenti culturali secondo prospettive diverse: nel senso di un tramonto dell'ideologia individualistica e di un'evoluzione verso una concezione più collegiale dell'attività imprenditoriale; nel senso di una trasformazione delle concezioni autoritarie e paternalistiche dei rapporti di lavoro in una concezione moderna delle relazioni industriali come sistema istituzionalizzato di contrattazione tra associazioni di rappresentanza sindacale; nel senso di una progressiva accettazione del ruolo statale nel governo dell'economia (v. Baglioni, 1974).
Un altro filone dell'approccio culturale allo studio dell'imprenditorialità si ispira direttamente a Weber. In esso si collocano le ricerche di Martin (v., 1990) sul ruolo delle sette protestanti nello stimolare l'attività imprenditoriale tra i poveri delle grandi città latino-americane, di Redding (v., 1990) sul rapporto tra l'etica confuciana delle relazioni familiari e l'attività economica dei Cinesi d'oltremare, di Landa (v., 1991) sul ruolo della cultura dei meticci nell'economia sudafricana, di P. e B. Berger e di Kellner (v., 1973) sul ruolo della razionalità strumentale come particolare stile cognitivo che favorisce l'attività economica del mercato. Questo tipo di studi è stato criticato sia perché trascura il nesso tra variabili culturali e variabili strutturali (come la solidarietà di classe e di ceto, le relazioni di potere, le norme legali, le politiche statali), sia perché sostiene spesso tesi contraddittorie (talvolta è la conformità dei valori di una subcultura etnica ai valori della cultura egemone che spiega il successo imprenditoriale, talaltra è il contrasto tra questi diversi sistemi culturali), sia perché sottovaluta l'eterogeneità culturale all'interno delle diverse minoranze etniche.
La tesi della marginalità sociale nella formazione dell'imprenditorialità è stata criticata anche dai modelli interpretativi che focalizzano l'attenzione sulle variabili strutturali. Le prove empiriche della tesi della marginalità sociale e, più di recente, della solidarietà etnica vengono infatti ricercate o nella storia dei paesi europei prima della rivoluzione industriale (in cui la cultura egemone non era particolarmente favorevole all'attività economica e la funzione commerciale e finanziaria veniva quindi più facilmente lasciata ai membri di gruppi marginali), oppure nell'esperienza di quelle società contemporanee, come gli Stati Uniti e i paesi del Sudest asiatico, caratterizzate da ingenti flussi di immigrazione e da elevati saggi di crescita.
Ma nel processo di industrializzazione dei paesi oggi sviluppati, sia di prima industrializzazione (come la Gran Bretagna, la Francia, i Paesi Bassi), che di seconda (come la Germania, l'Italia e il Giappone), la maggior parte dei nuovi imprenditori industriali proviene da ceti già privilegiati come i mercanti, i proprietari terrieri, i ricchi artigiani, che possiedono le risorse sia materiali che intellettuali per il successo economico. Modelli strutturali diversi del processo di industrializzazione, come l'interpretazione marxiana del processo di accumulazione originaria, la tesi di Dobb (v., 1946) circa il ruolo 'rivoluzionario' dei piccoli proprietari e degli artigiani indipendenti, l'analisi di Pirenne (v., 1914) relativa alla funzione dei mercanti nella formazione della borghesia urbana, la concezione di Brentano (v., 1916) della borghesia acquisitiva come classe protocapitalistica, sono tutti esempi del ruolo svolto nella formazione dell'imprenditorialità capitalistica da ceti sociali che già detenevano, nella società premoderna, posizioni consolidate e non marginali. E il processo di riproduzione della classe imprenditoriale si consolida con la diffusione e l'intensificazione dello sviluppo economico e con la crescita del prestigio sociale e del potere politico della borghesia in tutti i paesi industrializzati, come mostrano le ricerche comparate sulla mobilità sociale, a cominciare dalla classica analisi di Lipset e Bendix (v., 1959), e gli studi più recenti del processo di modernizzazione, da Bendix (v., 1956) a Barrington Moore (v., 1966), a Wallerstein (v., 1979).
Come gli approcci sociologici che pongono l'accento su variabili sistemiche di contesto (rapporti sociali di produzione, conflitti politici e sociali, politiche statali), anche l'approccio dell'economia dello sviluppo attribuisce grande importanza ai fattori ambientali. Il profitto imprenditoriale è infatti concepito come il risultato di un insieme di condizioni di mercato, che si possono riassumere nella mobilità dei fattori della produzione, nella loro disponibilità in quantità e forme adeguate e nell'esistenza di incentivi appropriati. A differenza degli approcci sociologici, tuttavia, la teoria economica contemporanea trascura il ruolo dell'imprenditorialità come fattore istituzionale di sviluppo e tende generalmente a concepire la condotta dei soggetti economici come mera risposta alle condizioni del mercato.
Nella storia dell'analisi economica esistono tuttavia eccezioni significative, da Schumpeter, già ampiamente citato, a von Mises, a Hayek, e ad altri studiosi contemporanei. Richiamandosi alla lezione di Schumpeter, all'approccio interpretativo di von Mises all'analisi economica, e al tardo lavoro di Hayek sugli ordini spontanei come critica della teoria dell'equilibrio economico, Kirzner (v., 1973 e 1989) ha recentemente ridato vigore all'analisi dell'imprenditorialità anche all'interno della teoria economica, definendo la concorrenza imprenditoriale come una procedura volta a scoprire opportunità di profitto e superando l'assunto dell'attore economico razionale come entità isolata, a favore di una concezione interattiva del mercato. Spingendosi ancora più avanti, Lavoie (v., 1991) si propone di integrare la teoria economica dell'attore come soggetto che razionalmente persegue il proprio utile con una teoria del linguaggio e della cultura. I soggetti economici non sono individui isolati che interagiscono nel mercato, ma elementi interdipendenti di un processo di dinamica culturale.
Una critica ben più radicale dei modelli macrostrutturali nello studio dell'imprenditorialità è stata formulata dai sostenitori dell'approccio situazionale, che lamentano in particolare la mancanza di una teoria dell'attore, delle sue motivazioni, dei suoi valori e processi cognitivi e dei suoi interessi percepiti. L'approccio situazionale, anziché esaminare a livello macro le condizioni del contesto e i requisiti del ruolo imprenditoriale, focalizza l'attenzione su ciò che un individuo realmente fa nella sua attività di imprenditore. Secondo i principali proponenti di questo approccio (v. Glade, 1967; v. Barth, 1963), un imprenditore è innanzitutto un individuo che sa riconoscere nuove opportunità e trarre vantaggio da una situazione favorevole. Analogamente, Greenfield e Strickon (v., 1981) analizzano 'darwinianamente' il comportamento innovatore come il risultato di un processo di selezione, apprendimento e imitazione, da parte dei membri del gruppo, di quei modi di agire che consentano un migliore adattamento alle opportunità offerte dall'ambiente. Non esiste quindi un modello imprenditoriale unico, ma una pluralità di tipi che sono il risultato di diverse forme di interazione tra individuo e ambiente, di diverse situazioni contingenti e di diverse relazioni con i gruppi con cui l'individuo interagisce e a cui l'individuo appartiene (v. Gibb e Ritchie, 1982).
Alla fine di questa disamina critica delle principali teorie dell'imprenditorialità, appare chiaro che gli studi più interessanti sono quelli che si collocano ai confini tra diversi approcci disciplinari, come nel caso degli economisti che, rifiutando modelli semplificati dell'azione razionale, riconoscono l'influenza dei processi cognitivi e dei modelli culturali, o dei sociologi che, rifiutando invece le concezioni 'ipersocializzate' dell'agire, prendono in considerazione le strategie degli attori individuali e collettivi. I contributi più interessanti sono, in altri termini, quelli che riescono a costruire modelli interpretativi complessi, selezionando di volta in volta la combinazione più appropriata di variabili atta a spiegare questioni teoriche generali e realtà empiriche specifiche. Un esempio recente di questo tipo di approccio integrato è il saggio di Aldrich e Waldinger (v., 1990) sull'imprenditorialità etnica che considera una pluralità di variabili - dalla struttura dei mercati all'accesso alla proprietà, dalle politiche statali alle caratteristiche del gruppo etnico - che favoriscono la mobilitazione di risorse produttive.
La maggior parte delle ricerche sull'imprenditorialità ha riguardato la sua formazione. Minore attenzione è stata rivolta allo studio degli imprenditori come classe, ovvero allo studio della borghesia, alla analisi delle sue articolazioni interne, dei suoi processi di riproduzione nei diversi paesi e del suo agire politico come attore collettivo. Come si è già rilevato, anche se vanno tenuti analiticamente distinti, i concetti di imprenditorialità e di borghesia sono strettamente connessi. È infatti la borghesia che assicura il sistema di valori e di regole di comportamento più idoneo all'esercizio della funzione imprenditoriale. Ed è all'interno delle famiglie borghesi che la ricchezza, il potere, il prestigio accumulati dagli imprenditori durante la loro vita vengono trasmessi alle generazioni successive.Il ruolo dell'imprenditore e la condizione della borghesia si sono modificati nel tempo in tutti i paesi sviluppati. Queste trasformazioni hanno stimolato l'interesse degli studiosi rispetto a tre questioni fondamentali: a) la classe dirigente economica nella struttura delle classi e dei ceti, e in particolare i suoi meccanismi di coesione e di riproduzione sociale e le differenziazioni tra grandi e piccoli imprenditori; b) la rappresentanza politica degli interessi imprenditoriali nei confronti del governo e dei sindacati; c) il rapporto tra imprenditori e dirigenti e la separazione delle funzioni di proprietà e di controllo (v. Dirigenti).
Nonostante le sue differenziazioni interne tra imprenditori e managers, tra grandi e piccole imprese, tra aziende private e aziende pubbliche, la classe dirigente economica ha mostrato una notevole coesione e continuità e una notevole capacità di riprodursi conservando potere, prestigio e ricchezza in tutte le società industriali avanzate, che pure sono caratterizzate da gradi e forme diverse di mobilità sociale. In tutte queste realtà gli imprenditori e gli alti dirigenti che sono a capo delle maggiori imprese costituiscono il nucleo fondamentale della classe dirigente economica.
Così, in Gran Bretagna questa classe ha conservato la sua base economica e il suo status sociale, riproducendosi da una generazione all'altra mediante la scuola privata e la trasmissione della ricchezza ereditaria, e proteggendo se stessa attraverso rapporti sociali esclusivi, un basso profilo pubblico, un'attenta orchestrazione politica delle istituzioni precapitalistiche della monarchia e dell'aristocrazia, e una scelta spregiudicata degli alleati e delle strategie politiche (dal liberalismo al nazionalismo, al keynesismo, al neoconservatorismo thatcheriano) di volta in volta più idonei a favorire i suoi interessi (v. Stanworth e Giddens, 1974; v. Goldthorpe e altri, 1980; v. Coates, 1989).
Anche in Francia, né le trasformazioni economiche, né i cambiamenti nei partiti di governo sembrano aver intaccato il controllo dell'élite economica sulle politiche statali in virtù della interpenetrazione delle carriere ai vertici delle grandi imprese e della pubblica amministrazione, nonché dei molteplici legami, personali, scolastici, finanziari, politici, tra i diversi segmenti della classe dirigente. Il capitalismo familiare conserva in Francia una notevole importanza, ma la proprietà del capitale non è più un requisito necessario per accedere al sistema dirigenziale dei principali gruppi industriali e finanziari che prendono le decisioni strategiche e controllano il lavoro di una moltitudine di tecnici, managers ed esperti (v. Birnbaum e altri, 1978; v. Cohen e Bauer, 1985; v. Bauer, 1987).
La perpetuazione nel tempo dell'élite economica tedesca e giapponese è risultata più controversa a causa delle grandi fratture politico-istituzionali e ideologiche nella storia dei due paesi. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, tuttavia, il rapido sviluppo economico e la stabilità politica hanno creato anche in questi paesi le condizioni per una grande solidità e continuità della borghesia. A seguito dei grandi processi di trasformazione e di ristrutturazione dell'economia tedesca e giapponese, le rispettive classi dirigenti economiche sono divenute socialmente omogenee, economicamente integrate nel mercato internazionale e politicamente e culturalmente integrate nel sistema democratico parlamentare (v. Hartmann, 1959; v. Stahl, 1973; v. Spohn e Bodemann, 1989). Una specificità del Giappone è che in questo paese più che altrove la riproduzione della classe dirigente si verifica principalmente attraverso il sistema scolastico. Anche se molti dei nuovi membri dell'élite economica sono figli di imprenditori, di professionisti, di alti dirigenti delle grandi imprese e della pubblica amministrazione, la loro posizione sociale deve essere legittimata da credenziali accademiche (v. Mannari, 1974; v. Morioka, 1989).
Negli Stati Uniti, dove più intensi sono i processi di mobilità sociale, si è calcolato che solo il 30% circa dei membri dell'élite economica proviene dalla classe superiore. Anche la coesione interna dell'élite economica nordamericana appare minore che altrove, a seguito di una pluralità di fratture e di divisioni (industriali e finanziarie, regionali, nazionali e multinazionali, di settore e di dimensione), nonostante l'esistenza di un sistema di valori comuni (appresi nel corso della formazione universitaria) e di una fitta rete di relazioni sociali e istituzionali (v. Domhoff, 1983; v. Useem, 1984; v. Mintz e Schwartz, 1985).
Le ricerche storiche e sociologiche sulla classe dirigente economica italiana, pur non numerose, sono in fase di crescita. In anni recenti sono state pubblicate alcune approfondite monografie storiche sulle principali imprese italiane, dalla FIAT all'Alfa Romeo, dalla Edison alla Rinascente, all'ENI (v. Castronovo, 1971; v. Bigazzi, 1988; v. Toninelli, 1990; v. Amatori, 1989; v. Sapelli e Carnevali, 1992), che hanno applicato modelli interpretativi di storia dell'impresa e di teoria dell'organizzazione al caso italiano.Contemporaneamente, alcune ricerche sociologiche e politologiche hanno analizzato i processi di reclutamento, di riproduzione sociale e di rappresentanza politica della borghesia italiana. Questi diversi studi mostrano sia la relativa debolezza della borghesia come classe dirigente economica e la sua scarsa capacità di egemonia culturale, connessa alla forza delle due principali culture politiche nazionali, la cattolica e la marxista, sia la peculiarità del rapporto tra impresa e Stato, con la rilevante crescita del settore delle partecipazioni statali (v. Amoroso e Olsen, 1978; v. Cassese, 1978), sia l'importanza della variabile territoriale nell'influenzare i tempi e le sequenze dello sviluppo economico e le caratteristiche dei sistemi imprenditoriali locali (v. Pizzorno e Cafiero, 1962; v. Bonazzi e altri, 1972; v. Catanzaro, 1979). L'attività imprenditoriale ha costituito, nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, uno dei principali canali di mobilità sociale della borghesia italiana; in Italia, infatti, la percentuale di nuovi imprenditori provenienti dai ceti medi, dirigenziali e impiegatizi è maggiore che altrove: la mobilità sociale è più elevata nei cosiddetti sistemi imprenditoriali locali e la provenienza geografica degli imprenditori è stata ed è tuttora in prevalenza settentrionale, con la significativa eccezione delle imprese pubbliche, dove è consistente la presenza di dirigenti di origini centro-meridionali (v. Martinelli e altri, 1981).
Anche se la classe imprenditoriale mostra un notevole grado di omogeneità e di coesione in tutti i paesi industriali avanzati, vi è una componente, quella dei piccoli imprenditori, che conserva dovunque un notevole grado di specificità, tale da indurre alcuni studiosi a considerarli un ceto separato dall'élite economica. I processi di trasformazione del capitalismo familiare in capitalismo manageriale e la crescita dimensionale delle imprese, pur presenti in tutti i paesi industriali avanzati, non sono fenomeni irreversibili e generalizzati. Gli studi 'classici' sull'imprenditore, da Marx a Weber, da Schumpeter a Chandler, tendono a concepire la piccola impresa come un'istituzione tipica delle prime fasi del processo di industrializzazione, che verrà progressivamente eliminata o fortemente ridimensionata a seguito dei fenomeni di concentrazione e di razionalizzazione industriale. In realtà, la piccola impresa è viva e vitale in tutti i paesi sviluppati.
La sociologia anglosassone contemporanea offre i tentativi più interessanti di interpretazione di tale persistenza, che si possono classificare essenzialmente in tre gruppi. Il primo tipo di interpretazione, di matrice neomarxista, considera l'impresa minore come un residuo delle prime fasi di sviluppo del capitalismo che sopravvive in una posizione subordinata e marginale rispetto al capitale monopolistico, operando in settori a basso profitto e ad alto rischio (v. Carchedi, 1977; v. O'Connor, 1973; v. Wright, 1978).
Una seconda interpretazione sostiene anch'essa la subordinazione della piccola impresa alla grande, ma con modalità profondamente diverse (v. Bechhofer ed Elliot, 1976). Secondo questa teoria, i piccoli imprenditori formano un ceto sociale in certa misura autonomo e separato rispetto alle due grandi classi della borghesia e della classe operaia. Essi vivono in una condizione precaria, soggetta alle fluttuazioni del ciclo economico e vedono la loro posizione minacciata sia dai gruppi sociali che stanno sopra di loro, sia da quelli che stanno sotto. Nonostante abbiano status sociale e interessi specifici, i piccoli imprenditori svolgono una rilevante funzione di legittimazione sociale dei ceti e delle istituzioni dominanti, in quanto sono depositari dei valori e degli atteggiamenti tradizionali sui quali è stato costruito l'ordine sociale capitalistico: forte individualismo e senso di indipendenza, valore etico del lavoro, spirito concorrenziale, convinzione che la diseguaglianza sia il risultato di una diversa distribuzione di talenti e di capacità di applicazione. Se il difetto principale del primo approccio è quello di considerare la tendenza all'oligopolio una tendenza ineluttabile del capitalismo, il difetto di questo secondo approccio è invece di trascurare il ruolo, non solo ideologico, che i piccoli imprenditori svolgono nel mantenimento di un'economia di mercato.
La terza interpretazione, che è derivata dagli studi dell'economia dei servizi e della società 'postindustriale' (v. Gershuny, 1978), è quella che più riconosce la funzione autonoma e la persistente vitalità della imprenditorialità minore. La si può considerare una variante recente della nota teoria delle aree economiche interstiziali (v. Penrose, 1959), secondo cui le opportunità di sviluppo di un'economia moderna crescono in misura maggiore e a un tasso più rapido di quelli sostenibili dalle grandi imprese, cosicché le piccole imprese possono cogliere le opportunità, sia in termini di innovazione di prodotto che di sfruttamento di segmenti di mercato in aree interstiziali, che alle imprese maggiori non conviene o non è possibile cogliere. Essa però integra e in parte modifica questa teoria sottolineando la particolare adattabilità della piccola impresa alle tendenze socioeconomiche in atto. Dal lato dell'offerta, infatti, la crescita dimensionale delle aziende e la concentrazione di potere al loro vertice inducono molti managers insoddisfatti a dar vita a una propria impresa, mentre lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche favorisce forme di organizzazione del lavoro decentrate in una sorta di revival della cottage industry (v. Martin e Norman, 1970). Dal lato della domanda, la crescente sensibilità dei consumatori per i problemi ecologici e, possiamo aggiungere, lo sviluppo dei bisogni 'post-materiali' creano nicchie di mercato per imprenditori che offrono nuovi prodotti, e favoriscono lo sviluppo di nuove e vecchie attività artigianali e la conservazione dei negozi e delle botteghe di quartiere. Infine, lo sviluppo dell'economia informale nelle sue diverse manifestazioni, stimolate dal crescente carico fiscale e dall'aumento delle norme e dei controlli statali, contribuisce anch'esso a rigenerare l'imprenditorialità minore nelle società terziarie.
Il caso italiano si differenzia in modo significativo dagli altri paesi industriali avanzati per una maggiore diffusione della piccola impresa. Le principali ragioni che spiegano l'importanza della piccola impresa nell'economia italiana sono: il carattere recente dello sviluppo industriale in vaste aree della penisola (v. Paci, 1980; v. Bagnasco, 1988); lo sviluppo di sistemi locali di imprese capaci di coniugare i vantaggi della flessibilità delle piccole dimensioni con quelli derivanti dalla creazione di servizi integrati (finanziari, di sostegno delle esportazioni, di ricerca e sviluppo) per le imprese di un particolare settore e di una determinata zona geografica; la strategia del decentramento produttivo adottata da alcune grandi imprese nel corso degli anni settanta come strategia capace di ridurre i vincoli sindacali e di recuperare flessibilità organizzativa.
Un altro tratto distintivo della situazione italiana è la diffusione del controllo e della gestione familiari non solo nella piccola impresa, dove è normale, ma anche nella grande. Anche nei casi in cui le grandi imprese italiane sono gestite da gerarchie manageriali composte da dirigenti stipendiati e professionalizzati, infatti, la loro posizione resta spesso subordinata a quella degli imprenditori proprietari. Questa persistenza del legame tra famiglia e impresa è a nostro avviso riconducibile a una pluralità di fattori. In primo luogo, la famiglia costituisce la principale base motivazionale per l'investimento e il lavoro. Questa funzione motivazionale dell'impresa familiare è tanto più importante in tutte le situazioni in cui non si manifestano fattori culturali particolarmente favorevoli al lavoro e all'imprenditorialità, come l'etica protestante dei puritani nella fase iniziale del capitalismo, secondo la celebre tesi weberiana, o l'ethos nazionale del popolo giapponese nell'attuale fase storica, o quel misto di darwinismo sociale e di percezione di rilevanti opportunità di mobilità sociale che ha caratterizzato e tuttora caratterizza la società nordamericana. In secondo luogo, l'intensità del legame tra impresa e famiglia risulta maggiore in particolari contesti sociali e culturali e in specifici stadi di sviluppo dell'impresa. Così, ad esempio, quanto più l'attività imprenditoriale si esplica in una società turbolenta e conflittuale e in un ambiente culturale critico nei confronti del ruolo imprenditoriale, come nella società italiana degli anni settanta, tanto più forte è il ricorso al microcosmo della famiglia e della parentela per ottenere solidarietà, lealtà e legittimazione del proprio operato (v. Bratina e Martinelli, 1979). E, per fare un altro esempio, nella fase iniziale di avvio dell'attività imprenditoriale il ricorso alla famiglia allargata consente spesso di controllare meglio il rischio imprenditoriale, di reperire forza lavoro di maggiore affidabilità e docilità, e, in generale, di ottenere collaborazione, credito e flessibilità nell'organizzazione dell'attività di impresa.Esistono tuttavia problemi e difficoltà imputabili alla gestione e al controllo familiari. Un primo tipo di problemi è rappresentato dalla tendenza alla sottocapitalizzazione dell'impresa derivante dal timore di perderne il controllo finanziario e dalla riluttanza o dall'incapacità di gestire relazioni complesse tra un numero più elevato di azionisti con rilevanti pacchetti azionari. La sottocapitalizzazione può deteriorare il potenziale competitivo dell'azienda e comporta sovente anche una scarsa trasparenza delle operazioni finanziarie volte a mantenere il controllo della famiglia attraverso patti di sindacato, partecipazioni incrociate e altri meccanismi di ingegneria finanziaria, con il risultato di scoraggiare la diffusione del risparmio azionario. Un secondo tipo di problemi riguarda il 'nepotismo aziendale' che si manifesta nella tendenza a favorire sistematicamente, al di là delle capacità e dei meriti effettivi, i membri della famiglia nelle promozioni e nell'attribuzione dei ruoli direttivi fondamentali, oppure in un paternalismo autoritario nei confronti dei familiari dipendenti dell'impresa, a scapito delle aspettative di carriera e di equo trattamento non solo dei collaboratori estranei al clan familiare, ma anche di quei membri della famiglia professionalmente competenti che vorrebbero vedere riconosciuti i propri meriti secondo regole del gioco obiettive.
Gli imprenditori, sia in quanto individui sia in quanto collettività, non sono solo attori economici, ma anche soggetti politici. Lo studio dell'azione politica collettiva degli imprenditori è molto meno sviluppato di quello dell'azione dei sindacati, ma ha avuto una recente fioritura con le ricerche sulle associazioni di rappresentanza imprenditoriale (v. Schmitter e Streeck, 1981; v. Lehmbruch, 1984; v. Offe e Wiesenthal, 1985; v. Grant, 1987; v. W. Coleman, 1988; v. Martinelli, 1991). L'agire degli imprenditori è sempre politicamente rilevante nelle poliarchie contemporanee, indipendentemente dalla presenza di associazioni di categoria. Il potere di investire, la capacità di innovare e le decisioni strategiche attinenti alla vita dell'impresa hanno conseguenze rilevanti non solo per i lavoratori, gli azionisti e i consumatori, ma anche per il benessere e la sicurezza collettivi. Sicurezza e benessere, a loro volta, costituiscono i fondamenti del consenso politico dei governi. Come rileva Lindblom (v., 1977), in qualsiasi sistema basato sull'impresa privata gli imprenditori diventano una specie di pubblici funzionari ed esercitano quelle che, in una visione più ampia del ruolo, si configurano come funzioni pubbliche.
Questa posizione di forza delle imprese nei sistemi di mercato esercita un'influenza determinante sul funzionamento dei regimi democratici (v. Dahl, 1989). Nella formulazione e nell'attuazione di importanti politiche pubbliche, quali la politica monetaria, fiscale, del lavoro, industriale, del commercio estero, della ricerca scientifica, i governanti pongono infatti particolare attenzione alle decisioni degli imprenditori e alle loro possibili reazioni a fronte di questa o quella scelta pubblica, poiché in una economia di mercato uno 'sciopero del capitale' appare ancora più temibile di uno sciopero del lavoro. Ma anche l'agire imprenditoriale risulta a sua volta condizionato dal complesso di norme, sanzioni, incentivi e decisioni politiche emanate dall'autorità statale per regolare il mercato. L'attività imprenditoriale diventa politica in senso stretto quando si propone intenzionalmente di influire su decisioni collettive vincolanti, siano esse assunte nella sfera politica dalle autorità di governo o nella sfera delle relazioni industriali nell'ambito del processo di negoziazione tra rappresentanze sindacali e imprenditoriali. Gli imprenditori possono infatti esercitare il potere essenzialmente in quattro modi diversi, due di tipo individuale e due di tipo collettivo, due nel mercato e due nella sfera politica: nel mercato, mediante decisioni di gestione economica e finanziaria assunte a livello della singola impresa per accrescerne la competitività, e mediante accordi di 'cartello' o strategie collaborative di varia natura tra più imprese, per l'acquisizione di materie prime essenziali, per la determinazione dei prezzi, per l'allocazione di quote di mercato; nella sfera politica, le imprese possono agire individualmente attraverso un'azione di lobbying rivolta a partiti, parlamentari, settori dell'amministrazione pubblica centrale e locale, singoli burocrati, e collettivamente mediante le proprie associazioni di rappresentanza. La strategia adottata varia a seconda del contesto economico e politico in cui le imprese agiscono. Così, in una società come quella italiana caratterizzata fino a tempi recenti da pressione pluralistica, frammentazione partitica e governo spartitorio, si è verificata una situazione in cui, a fronte di una pluralità di organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che esprimono domande più o meno aggregate, ma comunque poco elaborate, limitate e settoriali, ha agito un sistema politico-istituzionale (parlamento, governo, pubblica amministrazione) molto permeabile alle pressioni esterne. I diversi gruppi di pressione, in competizione gli uni con gli altri per la distribuzione di risorse e benefici, hanno ottenuto questi risultati generalmente in proporzione al loro potere contrattuale e di influenza, grazie anche a rapporti di collusione distributiva con politici corrotti, in violazione della legge e a detrimento degli interessi economici e politici dell'intera collettività.
Se esaminiamo le diverse modalità di azione degli imprenditori nel perseguire i loro interessi, possiamo concludere che essi preferiscono generalmente operare nel mercato e adottare strategie individuali. Ciò non avviene solo nelle transazioni riguardanti beni e servizi, dove ciascun imprenditore tende ad agire individualmente secondo una logica di massimizzazione dei vantaggi comparati o a controllare oligopolisticamente il mercato. Anche nei settori in cui vi è un rilevante intervento statale oppure nell'acquisizione e nella gestione del fattore lavoro (dove giocano fattori di natura prevalentemente politica) gli imprenditori fanno ricorso all'azione politica, e in particolare all'azione politica collettiva, solo come seconda scelta, allorché l'agire individuale o collettivo sul mercato non dà risultati soddisfacenti, come mostrano sia studi di settore, per esempio quello chimico (v. Martinelli, 1991), sia studi sulle strategie imprenditoriali in vari paesi (v. Chiesi e Martinelli, 1987). Tale minore fabbisogno di azione collettiva rispetto ai lavoratori salariati è riconducibile al maggior controllo che gli imprenditori esercitano individualmente sulle decisioni di investimento. Per questi motivi la rappresentanza collettiva è generalmente considerata dagli imprenditori una seconda scelta rispetto all'agire individuale sul mercato. E per gli stessi motivi essi possono tollerare una maggiore frammentazione dei loro sistemi di rappresentanza rispetto ai lavoratori, i quali, dovendo fare più affidamento su forme di azione collettiva, mostrano una maggiore propensione per forme di centralizzazione e di integrazione organizzativa.
La tesi della rilevanza politica delle organizzazioni di rappresentanza per la difesa degli interessi imprenditoriali, sia pure come seconda scelta rispetto al libero gioco del mercato, è suffragata dall'esperienza storica, che mostra uno sviluppo diffuso e robusto dell'associazionismo imprenditoriale nella maggior parte dei paesi capitalistici. Dall'analisi storica comparata emergono fondamentalmente tre ragioni per le quali gli imprenditori possono essere costretti a politicizzare i loro interessi e a formare proprie associazioni.
In primo luogo, essendo la concorrenza una caratteristica fondamentale del modo di produrre in un sistema capitalistico, i proprietari di capitale, nel perseguire i loro interessi individuali, non realizzano la spontanea integrazione del sistema ma, al contrario, generano contraddizioni e crisi che indeboliscono il potere degli imprenditori. Perfino nelle situazioni storiche nelle quali essi hanno goduto di grandi vantaggi nei confronti dei lavoratori o di altri gruppi sociali vi sono stati numerosi tentativi di coordinare tra loro, per mezzo di una rete di associazioni, gli interessi individuali e quelli settoriali, al fine di preservare l'integrità e la riproducibilità del sistema nel suo insieme. I temi caratterizzanti questo stadio di attività associativa sono stati i tentativi di evitare una concorrenza di mercato basata sulla riduzione incontrollata dei prezzi e gli sforzi fatti per limitare o per prevenire del tutto l'accesso di concorrenti stranieri ai mercati nazionali e per creare un fronte comune da opporre ai fornitori di materie prime e di altre risorse.
Una seconda ragione che induce i proprietari di capitali a organizzarsi è data dalla sfida arrecata dalla rappresentanza politica dei lavoratori al loro potere di investimento e alle prerogative manageriali. Questa è considerata la causa principale della nascita delle associazioni imprenditoriali, secondo quello che si può definire il modello 'ortodosso' di analisi dell'associazionismo imprenditoriale. Tuttavia non è certo l'unica causa e a volte neppure la principale. Come hanno dimostrato sia le ricerche di taglio storico che quelle relative alle modalità di regolazione, infatti, le ragioni che possono spingere gli imprenditori a costituire e rafforzare le loro organizzazioni non sono riducibili unicamente alla difesa dalle 'sfide' del movimento sindacale. Non solo esistono delle forme di azione associativa e di coalizione degli imprenditori diverse dalle associazioni imprenditoriali, ma è anche possibile sostenere e dimostrare che sono proprio le strategie degli imprenditori a determinare le caratteristiche assunte dall'azione collettiva dei lavoratori invertendo così il nesso causale che sta alla base dell'approccio 'ortodosso'.
In terzo luogo, con la crescita dell'intervento sistematico dello Stato nel sistema economico, l'importanza del mercato come meccanismo di distribuzione delle risorse è diminuita, mentre è aumentata l'importanza della politica. La democrazia politica, che si basa sul principio 'un uomo un voto', ha l'intrinseca tendenza a produrre politiche finalizzate alla ridistribuzione economica. Direttamente o indirettamente tali politiche possono violare la 'sovranità' dei proprietari privati del capitale riguardo agli investimenti. Le associazioni di interessi degli imprenditori svolgono in questo senso una duplice funzione. Da un lato, hanno sempre considerato come uno dei loro principali impegni la lotta contro gli attacchi politici alla libertà di investire e il contenimento delle tendenze ridistributive conseguenti alla democrazia politica. Dall'altro, le associazioni di interessi collettivi possono valutare meglio degli imprenditori individuali quale sia il minimo di ridistribuzione mediato politicamente in grado di mantenere la legittimità del sistema sociale nel suo complesso.
In generale, quindi, quanto più i processi strettamente economici vengono mediati, facilitati e regolati attraverso istituzioni politiche democratiche, tanto più gli imprenditori nel loro complesso, o in alcuni settori, vengono indotti a impegnarsi nel gioco politico e sono costretti a sviluppare una capacità di azione collettiva, cioè ad agire come agiscono i lavoratori quando si organizzano in sindacati. Il problema è che lo sviluppo di una capacità di azione collettiva da parte degli imprenditori non è più facile che nel caso dei lavoratori, come sostengono Offe e Wiesenthal (v., 1985), ma al contrario è più difficile.
Tale difficoltà deriva da tre fattori. In primo luogo, dipende dal fatto che le associazioni degli imprenditori debbono organizzare attori che sono in competizione tra loro e che quindi, rispetto ai lavoratori, hanno meno incentivi a cooperare in forme di azione collettiva. Inoltre, le associazioni degli imprenditori debbono organizzare una gamma di interessi che è più complessa di quella normalmente organizzata dai sindacati dei lavoratori. Infatti, i membri delle associazioni imprenditoriali non sono semplicemente compratori di forza lavoro, ma anche acquirenti di altri fattori della produzione e venditori di prodotti; di conseguenza, i loro interessi collettivi si manifestano non soltanto nel rapporto con i lavoratori, ma anche in quello con i clienti, con i fornitori di materie prime, risorse finanziarie e altri fattori produttivi. In altri termini, le associazioni imprenditoriali debbono rappresentare gli interessi degli imprenditori, sia in quanto datori di lavoro, sia in quanto agenti della produzione, e ciò genera una distinzione tra interessi di classe (che si formano sul mercato del lavoro) e interessi produttivi (che si formano sul mercato dei prodotti). Infine, la subcultura specifica del ceto imprenditoriale afferma la competitività come valore non solo legittimo, ma intrinsecamente connesso al ruolo istituzionale dell'imprenditore, mentre tra i lavoratori un atteggiamento competitivo è spesso percepito negativamente come violazione del valore positivo della solidarietà di classe o di gruppo professionale.
(V. anche Borghesia; Capitalismo; Credito; Dirigenti; Industria; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Sviluppo economico; Tecnica e tecnologia).
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