Impresa
di Robin Marris
Impresa
sommario: 1. Introduzione. 2. Imprese e imprenditori prima del sec. XX. 3. Il periodo di transizione e il XVIII secolo. 4. L'organizzazione dell'azienda nella società preindustriale. 5. La prima rivoluzione industriale e il nuovo imprenditore. 6. Lo sviluppo delle società per azioni. 7. Lo sviluppo dell'economia societaria. 8. Impresa e teoria economica. 9. Impresa e sviluppo economico. □ Bibliografia.
1. Introduzione
I termini ‛impresa' e ‛imprenditore' hanno acquistato, sia nelle lingue romanze sia in quelle anglosassoni, significati specifici connessi con l'attività economica nel commercio e nell'industria. Un'impresa e un azienda o un'analoga organizzazione produttiva autonoma. Dire impresa equivale a dire attività economica. Il fatto che la parola, nel suo significato più generale, si riferisca a qualunque forma d'iniziativa rischiosa o avventurosa, sta a indicare che per noi, spesso, l'essenza dell'organizzazione economica capitalistica risiede nella funzione, propria del capitalista, di assumersi dei rischi.
L'‛imprenditore' è quindi una persona, o un gruppo di persone ristretto e omogeneo, che assomma le funzioni di fornire il capitale, di assumersi i rischi e di organizzare il commercio (in realtà, come vedremo in seguito, anche agli inizi queste funzioni, di fatto, erano spesso distinte). Il termine ‛imprenditore' è largamente usato in economia, in storia economica e in sociologia, ma ha una storia confusa e complicata nelle varie lingue. Si tratta di una parola francese, ma i dizionari francesi le assegnano un significato più ristretto. È largamente usato in inglese, ma in molti dizionari inglesi non compare. La traduzione inglese consueta è undertaker, ma in Inghilterra questo termine viene oggi usato solo per gli impresari di pompe funebri. A quanto sembra, in inglese il termine entrepreneur ha acquistato il suo attuale significato perché R. Cantillon, il banchiere bilingue dei primi del sec. XVIII, considerato da alcuni come il primo teorico dell'economia, scrisse il suo celebre Essay on the theory of money and credit dapprima in inglese (indicando sicuramente la classe dei mercanti con undertakers), e poi in francese. Il testo inglese non venne però mai pubblicato, e andò infine perduto in un incendio che distrusse la casa londinese dell'autore (1730), provocato da un servo per occultare l'assassinio del suo padrone. Benché nelle ritraduzioni in inglese dell'opera di Cantillon sia stato usato undertaker, nelle scienze sociali è stato adottato quasi universalmente il termine francese, anche se il suo uso presenta qualche problema nella stessa Francia.
2. Imprese e imprenditori prima del sec. XX
L'impresa novecentesca ha origini storiche remote. Da migliaia di anni, com'è noto, uno dei caratteri tipici della società umana è stato il commercio di prodotti semplici e di manufatti preindustriali come il vino e i tessuti. I viaggi commerciali oltremare richiedevano capitali di rischio e venivano spesso ‛intrapresi' da mercanti paleocapitalisti, i quali non viaggiavano necessariamente di persona. Ma nella civiltà greca e romana si trovano poche tracce degli elementi iniziali di un capitalismo industriale che, come vedremo più avanti, apparvero invece nel Medioevo. Nel I secolo d.C., nell'Italia centrale e settentrionale, si sviluppò una notevole industria tessile, che richiedeva una considerevole specializzazione del lavoro e un grado abbastanza elevato di organizzazione complessiva; più tardi, in tutta la Gallia settentrionale, dalla Somme alla Mosella, si formò una cospicua industria di tessuti, i cui prodotti, di qualità sempre migliore, venivano largamente esportati a Roma. Un siffatto livello di specializzazione e di scambi commerciali potrebbe far pensare a una forma primitiva di capitalismo: si potrebbe cioè supporre che, per sviluppare una tale produzione, trovare i mercati e finanziare il commercio, fosse necessaria un' ‛impresa'. Ma, diversamente dalle pietre tombali e da altri monumenti che parlano della storia del commercio delle lane nel Medioevo (dei ‛lanaiuoli' in Toscana, o degli yeomen farmers e dei mercanti dei Cotswolds inglesi), i monumenti sepolcrali romani non raffigurano dei mercanti, ma degli operai. Lo sviluppo economico del mondo antico non fu sostanzialmente il risultato di un'attività imprenditoriale, ma fu piuttosto la somma delle conseguenze di numerosi piccoli allargamenti dell'attività umana. Ci sono però delle eccezioni. Gli artigiani che eseguivano il processo di rifinitura dei tessuti di lana avevano bisogno di un investimento di capitale per le attrezzature, ed erano generalmente considerati persone facoltose. Presso Treviri è tuttora visibile un costoso monumento di una famiglia di mercanti, i Secundini; ma è significativo che i bassorilievi di questa tomba raffigurino il lavoro del mercante (si vedono balle di stoffa trasportate su una chiatta lungo il fiume e poi sui monti a dorso di mulo), invece di raffigurare la sua richezza o le sue capacità commerciali.
Il rifiorire della civiltà dopo i secoli bui fu connesso allo sviluppo e alla crescita delle città. L'impresa medievale fu strettamente legata con l'urbanesimo di quei tempi. I materiali grezzi venivano portati dalla campagna in città, dove erano sottoposti a lavorazione nelle ‛manifatture' (dal latino medievale manufactura). È chiaro che oggi per ‛manufatto' s'intende generalmente un oggetto prodotto in una fabbrica con macchine e lavoro; ma all'origine il termine indicava evidentemente ‛qualcosa di fatto a mano'. Nelle città e nei borghi medievali il processo di manifattura si svolgeva dentro le case private, nei cortili, nelle strade, nelle piazze e in piccole officine.
Eccezionalmente s'incontrano gruppi più numerosi di operai raccolti nello stesso ambiente per iniziativa di imprenditori paleocapitalisti. Un esempio leggendario ci viene da Newbury (Inghilterra), dove si racconta che 1.000 tessitori fossero impiegati da una sola persona nella sua ‛casa'. In generale, si assiste alla formazione su vasta scala di laboratori sempre più specializzati, strettamente contigui alle abitazioni. Chi visiti oggi l'antica città di Fez, in Marocco, può osservare come questo tipo di vita vi continui quasi senza mutamenti.
Come al tempo dei Romani, dunque, l'industria venne sviluppata dagli artigiani. Ma, a differenza dei loro predecessori dell'età classica, questi lavoratori non rimasero indipendenti. Il ruolo del mercante organizzatore e finanziatore divenne via via più importante, poiché era sempre più necessario con la crescita dell'organizzazione economica; e i mercanti, che originariamente s'interessavano al finanziamento e all'organizzazione del trasporto dei materiali grezzi e dei prodotti finiti, cominciarono ora a organizzare la produzione. A questo fine essi si servirono del sistema del lavoro a domicilio, che rappresentò la forma tutto sommato prevalente di organizzazione produttiva in Europa fino alla fine del sec. XVIII. Il mercante impiegava il suo capitale per acquistare materiali grezzi, ne organizzava quindi il trasporto verso la città e li distribuiva ad artigiani specializzati i quali, agendo teoricamente alla stregua di produttori indipendenti, svolgevano un solo processo produttivo; in seguito il mercante avrebbe affidato il prodotto parzialmente lavorato ad altri artigiani, i quali avrebbero eseguito il processo successivo (per esempio la tessitura), e quindi ai responsabili del processo di rifinitura; alla fine, egli avrebbe commercializzato il prodotto finito o, eventualmente, lo avrebbe esportato oltremare. E evidente che in questo sistema il mercante svolgeva una parte di quelle funzioni specifiche che la scienza sociale moderna ha attribuito all'‛imprenditore' vero e proprio: forniva capitale e organizzazione, si assumeva i rischi e ‛anticipava' il mercato. Egli però non s'interessava in modo sostanziale allo sviluppo dei problemi tecnologici; si limitava a sfruttare la tecnologia scoperta dagli artigiani.
Il mercante medievale infatti sfruttava sempre di più l'artigiano, nel senso marxiano del termine. L'apparente libertà dell'artigiano nascondeva, in misura sempre maggiore, la sua dipendenza economica, la quale sarebbe stata poi causa del suo scontento sociale. Benché, come abbiamo già notato, non si sviluppasse il moderno sistema di fabbrica, il mercante era in misura sempre crescente proprietario dei ‛mezzi di produzione', come gli attrezzi, le fucine, i telai o le officine. Questo processo fu favorito da un fenomeno che ha avuto notevole importanza come elemento distintivo dell'impresa medievale rispetto a quella moderna, cioè le gilde medievali. Si trattava sostanzialmente di organismi regolatori dei salari, dei prezzi e della qualità della produzione. Spesso esse regolavano l'orario minimo e massimo di lavoro. Molto si è scritto a proposito del sistema delle gilde: esse possono essere interpretate, per esempio, come espressioni di una filosofia religiosa dell'ordine sociale, ovvero dell'esigenza pratica di ordine nelle città ad alta densità di popolazione (a Prato, per esempio, gli operai che lavavano nei canali cittadini le stoffe finite dovevano far uso di un rastrello per evitare che i ciuffi di lana ostruissero le chiuse, e dovevano interrompere il lavoro in determinati periodi dell'anno, quando tutta l'acqua era necessaria per la produzione del vino). Dal punto di vista economico, però, bisogna ammettere che le gilde si prestano di più a essere interpretate, secondo le categorie marxiane. Esse stabilizzavano i salari e fissavano i prezzi. Erano rigidamente classiste: nelle Fiandre e in Inghilterra, per esempio, i tessitori e tutti gli altri lavoratori manuali non potevano essere legalmente membri delle gilde della lana; e in molte gilde inglesi si approvarono norme secondo cui un tessitore arricchito, il quale avesse voluto far parte della gilda, doveva cessare ogni attività manuale. Analoghe erano le gilde dei ‛lanaiuoli' italiani. Anche gli ‛umiliati', che originariamente erano una confraternita a carattere laico-religioso composta da fabbricanti di tessuti, si specializzarono progressivamente nelle funzioni più spiccatamente commerciali, lasciando ad artigiani salariati il lavoro manuale.
Il ruolo delle gilde può essere analizzato utilmente anche dal punto di vista delle tecniche dell'organizzazione. Nei principali centri medievali della produzione di tessuti, come Ypres, Bruxelles o Prato, un numero relativamente esiguo di membri delle gilde impiegava, in forma diretta o indiretta, migliaia di artigiani e di manovali. La dispersione presentava però alcuni svantaggi ben precisi, il più evidente dei quali era la difficoltà di controllare la qualità e la regolarità della produzione. Il capitalista moderno sorveglia la qualità e il ritmo della produzione attraverso dei supervisori che egli stesso assume in una fabbrica che è interamente di sua proprietà. Il mercante medievale non poteva controllare personalmente il lavoro compiuto su ciascun pezzo di materiale uscito in un dato momento dai processi produttivi, ed era inoltre profondamente condizionato dalla fama nazionale e internazionale dei prodotti della sua città, che erano noti nel mondo non col nome del mercante, ma con quello della città stessa. (Questa distinzione tra i metodi per identificare un prodotto - in base alla sua origine geografica o in base al nome della società produttrice - è forse una delle più rilevanti differenze esistenti tra il commercio del sec. XX e quello precedente). Perciò, nel sistema delle gilde, il mercante faceva ricorso alla regolamentazione collettiva. Così la gilda stessa, con i mercanti legati ad essa abbastanza strettamente e con i suoi lavoranti a domicilio, ai quali imponeva una regolamentazione assai precisa, può essere considerata l'equivalente della moderna impresa su larga scala. A differenza però della moderna società o, più concretamente, a differenza del capitalista del sec. XIX, l'impresa medievale non era in grado di produrre innovazioni e, di fatto, non ne introdusse: non poteva creare mercati, nè sviluppare consapevolmente prodotti nuovi o ampliarsi in modo cosciente; se per caso si verificava un aumento della prosperità di un gruppo di mercanti di una gilda, ciò era il risultato di un'autonoma crescita della domanda del prodotto e/o dei miglioramenti ‛naturali' della tecnologia degli artigiani. In questo senso la gilda aveva un atteggiamento passivo. Il fatto che, alla fine del Medioevo, s'insistesse decisamente sulla rigida regolamentazione delle sue funzioni, ha indotto molti storici dell'economia a vedere nella gilda uno strumento di restrizione, una causa di ritardo per ulteriori progressi economici.
Di pochi imprenditori del sec. XIV si può dire quindi che abbiano praticato attività su larga scala secondo criteri moderni. Le singole iniziative erano piccole non solo dal punto di vista del giro di affari, ma anche in relazione alla scala del sistema economico del tempo. Nondimeno, alcuni nomi celebri restano significativi. La Casa dei Fugger fu fondata ad Augusta nel 1380 e rimase attiva nel campo degli affari per quattro generazioni, fino al 1607. Al momento del suo massimo sviluppo, essa gestiva una banca internazionale di vaste dimensioni, commerciava internazionalmente in quasi tutti i tipi di merce e gestiva una catena di botteghe e di uffici contabili sparsi in tutte le città europee. Francesco Datini, ‛il mercante di Prato', all'età di 15 anni lasciò la Toscana per Avignone, dove, in trent'anni, impiantò un fiorente commercio collegato con la corte papale. Tornato a Prato, divenne lanaiuolo. Più tardi si spostò a Firenze, dove si dedicò al commercio di ogni tipo di articoli. L'importante archivio delle sue carte, che sono state conservate e costituiscono ancora oggi oggetto di studio, mostra che egli fondò qualcosa come centinaia di società sussidiarie operanti su quasi tutta l'area mediterranea. Alla sua morte lasciò alla sua città una cospicua fortuna. (V. Wilson, 1963; v. Heaton, 1936; v. Origo, 1957).
3. Il periodo di transizione e il XVIII secolo
Dopo il 1500 si verificò in Europa un parziale declino delle città, specialmente in Italia. Le grandi famiglie di commercianti decaddero, e l'impresa conobbe una forte diffusione, svincolandosi in certa misura dalla vita della città. Per ragioni ben note il potere politico e commerciale di Venezia decadde e così quello della Lega anseatica. Anversa, che si era sviluppata commercialmente durante la seconda metà del sec. XV, raggiunse il culmine del suo splendore nella prima metà del XVI, e aprì nel 1531 la sua seconda borsa. Verso la fine del secolo, a causa di rovesci politici, la sua grande fortuna era completamente declinata. (Fino a buona parte del sec. XVIII ‛impresa' e fortuna commerciale procedettero di pari passo con la politica e la violenza. Mercanti e banchieri acquistavano e perdevano fortune in concomitanza con le guerre e con le vicende finanziarie dei principi e dei re. Le vie commerciali erano sempre minacciate dalla violenza, e la probità in materia finanziaria era una merce estremamente rara. Nessuno credeva nel principio della ‛libera concorrenza'; chi scopriva un settore commerciale favorevole si preoccupava anzitutto d'impedirne l'accesso ai concorrenti).
Durante questo periodo di transizione (1500-1750), molti processi produttivi già operanti si spostarono nelle campagne: questo fenomeno fu particolarmente sensibile nel caso dell'industria tessile in Inghilterra, che finì per stabilirsi nella zona sud-occidentale del paese. Più in generale, i tre secoli successivi al 1500 rappresentarono in realtà in Inghilterra un periodo di continuo progresso per ogni specie d'impresa: in agricoltura, nella manifattura e nel commercio. Emerse allora una classe di intraprendenti yeomen farmers, i quali prendevano in affitto la terra delle classi superiori, di solito in estensioni fino a 70 ettari (arabili) o 250 ettari (a pascolo), e trattavano l'agricoltura alla stregua di una qualsiasi attività economica. Essi introdussero miglioramenti tecnici e, trascorso il periodo di tempo necessario, riuscirono a dare al paese un piccolo surplus di frumento. Si sviluppò una crescente varietà di manifatture in molti settori: da quello tessile a quello dei metalli, del vetro, della carta, della stampa, della birra e delle bevande alcoliche. All'inizio la maggior parte di questi prodotti erano destinati alla classe media e medio-inferiore, ma, dopo il 1700, le manifatture inglesi fecero sensibili progressi nella produzione di articoli di lusso.
Questo periodo è anche caratterizzato dalla drammatica ascesa e caduta delle imprese olandesi, le quali, come è noto, si fondavano principalmente sul commercio marittimo, imperniato sul grande emporio di Amsterdam. In Francia invece lo sviluppo dell'impresa venne ritardato dalle pesanti tassazioni, dalle restrizioni governative e dalla scarsa considerazione di cui era circondato il ruolo sociale dell'imprenditore. Inoltre in Francia non ebbe luogo uno sviluppo dell'impresa agricola quale si era avuto in Inghilterra.
Nel sec. XVIII, sia in Gran Bretagna che in Francia, cominciò a svilupparsi l'economia politica come scienza. A Cantillon seguirono i fisiocratici (in Francia sotto la guida di Quesnay, che era anche il medico personale di Madame de Pompadour), e quindi A. Smith (la sua celebre Ricchezza delle nazioni apparve nel 1776), a sua volta seguito da presso, sia cronologicamente che teoricamente, da J. B. Say. Le idee di Cantillon, che costituirono il germe del sistema fisiocratico, rispecchiavano a un tempo la struttura economica dell'epoca e, indirettamente, indicavano quanto la classe imprenditoriale inglese e continentale fosse lontana dalla posizione che avrebbe raggiunto alla fine del secolo successivo. Nonostante i continui progressi politici ed economici compiuti da questa classe in Inghilterra nel corso di tutto il periodo di transizione, a essa Cantillon attribuiva un ruolo relativamente passivo nel funzionamento del sistema economico. Egli divideva la società in tre classi economiche: i proprietari terrieri (landlords), i lavoratori (labourers) e gli imprenditori (entrepreneurs; v. sopra). La descrizione che egli dà del ruolo imprenditoriale non è granché diversa dalla descrizione del funzionamento di un'economia competitiva ‛ideale' quale possiamo trovarla in un testo di oggi. L'imprenditore portava i beni al mercato, gestiva i depositi, determinava piccoli mutamenti nella domanda e vendeva i suoi prodotti al miglior prezzo che riusciva a ottenere. Cantillon in particolare afferma che l'imprenditore deve comprare a prezzi fissi e vendere a prezzi ‛incerti': in tal modo egli si addossa un rischio e, se è fortunato, realizza un profitto. Possiamo precisare ancora la descrizione di Cantillon dicendo che essa somiglia alla descrizione del lavoro del piccolo bottegaio del sec. XX, con l'importante eccezione che il negoziante moderno generalmente compra a prezzo fisso e vende a un altro prezzo fisso basato su un ‛incremento' predeterminato.
A differenza degli economisti del sec. XIX (con la parziale eccezione di Malthus), Cantillon si occupò dei rapporti economici generali tra vasti settori dell'economia, e delineò un interessante modello del processo di circolazione dei beni e della moneta all'interno delle tre classi economiche da lui individuate. I lavoratori guadagnavano un salario sufficiente alla mera sussistenza; i proprietari terrieri ne ricavavano un surplus che in parte spendevano in manifatture comprate dagli imprenditori, i quali a loro volta rimettevano in circolazione una parte di questo denaro nella forma di salari agli operai occupati nel processo di fabbricazione. In questo modello egli riconosceva una preminente funzione dinamica alla spesa dei proprietari terrieri, che, a suo avviso, determinava il livello generale dell'impiego e il tasso di sviluppo dell'economia. Gli imprenditori non potevano fare molto di più che vendere quel che i proprietari terrieri decidevano di acquistare. Quindi, nonostante Cantillon fosse egli stesso finanziere di grande fortuna, nella sua nozione d'impresa c'era ben poco del vero capitalismo.
L'idea di Cantillon di un sistema di circolazione di denaro e di beni venne elaborata con molti maggiori dettagli, e in un modello ancor più decisamente dinamico, da Quesnay, nel suo celebre Tableau économique, che, al pari dell'opera di Cantillon, rimase a lungo nell'oblio e fu riscoperto alla fine del sec. XIX. Senza addurre giustificazioni teoriche al modello stesso, Quesnay seguì Cantillon nell'osservare che la fonte di ogni reddito e ricchezza si trova nell'agricoltura. In effetti egli gettò le basi del concetto di reddito nazionale (che, nell'economia moderna, corrisponde al valore annuo netto di tutte le attività produttive dell'economia di un paese); ma ne escluse completamente il valore di tutto il lavoro compiuto nel commercio e nell'industria, sebbene le cifre da lui incluse nella sua tabella indichino che egli avvertiva appieno che questo settore aveva già raggiunto una notevole importanza economica.
Insomma, malgrado la sostanziale espansione economica dell'Europa nel periodo di transizione, alla fine di esso l'impresa era ancora fondamentalmente di tipo medievale (v. Wilson, 1963; v. Heaton, 1936; v. Origo, 1957).
4. L'organizzazione dell'azienda nella società preindustriale
Quando un anglosassone parla di ‛impresa privata', egli può far riferimento a un'istituzione che, per forma e dimensioni, va dalla bancarella di Amburgo alla General Motors Corporation. Il solo carattere essenziale consiste nel fatto che l'istituzione deve svolgere un'attività per realizzare profitti, estranea alla proprietà e al controllo pubblici. Il carattere della moderna società capitalistica sarà descritto più avanti. Fino alla fine del sec. XVIII, e praticamente anche per buona parte del XIX, la forma di organizzazione nota in Inghilterra come company, negli Stati Uniti come corporation, in Francia come société anonyme, in Italia come ‛società' e in Germania come Gesellschaft, pur non essendo priva di precedenti, svolse in realtà un ruolo soltanto secondario nello sviluppo generale del commercio. L'unità fondamentale dell'organizzazione imprenditoriale era l'azienda costituita da una sola persona oppure dai membri di una società. Non è vero che la ‛responsabilità limitata' sia un invenzione del sec. XIX, come alcune storie inglesi sembrano indirettamente affermare. La società in accomandita (in inglese: limited partnership; in francese: société en commandite) era largamente diffusa, in questa o quella forma, nel Medioevo, anche se è vero che essa non fu generalmente permessa dalla common law inglese. In una società in accomandita, i soci ‛attivi' dirigono e fanno funzionare l'azienda, mentre quelli ‛passivi' o ‛dormienti' si limitano a fornire il capitale e a condividere i profitti. Ma, mentre i soci attivi detengono la piena responsabilità personale di tutti i debiti dell'azienda, la responsabilità dei soci passivi è limitata ai loro investimenti. In Inghilterra, benché un socio avesse la possibilità di ‛dormire', egli non poteva sottrarsi alle responsabilità dei debiti contratti dai suoi colleghi attivi. Le accomandite erano originariamente formate per periodi limitati; questi limiti continuarono a sussistere anche se troviamo molti esempi di attività permanenti che rappresentano ripetuti rinnovi del contrat de commande originario. Le imprese toscane del Medioevo, invece, non adottarono la responsabilità limitata. Erano ‛compagnie' commerciali in cui ciascun membro attivo lavorava, forniva il capitale e si assumeva la responsabilità di tutti i debiti. Questa caratteristica è presente anche in Francia, nella forma delle sociétés générales (la cui intestazione conteneva spesso l'espressione et Compagnie, abbreviata in et Cie). Si vedrà che la più rilevante distinzione tra l'imprenditore preindustriale e l'organizzazione dell'azienda moderna va ricercata nel fatto che, qualunque fosse la forma di associazione adottata, chi lavorava nella compagnia, cioè chi prendeva decisioni imprenditoriali, doveva assumersi una responsabilità personale per tutti i suoi debiti e per ogni altra azione pubblica, quali per esempio le violazioni della legge penale. In una moderna società per azioni su larga scala, è teoricamente possibile che il presidente o il consigliere delegato siano completamente immuni da debiti, da quasi tutti i rischi di capitale e perfino da alcune forme di responsabilità penale. (Negli Stati Uniti, invece, sono state intraprese con successo azioni penali nei confronti dei livelli medi della dirigenza, ma non di quelli più alti, per violazioni delle leggi antimonopolio). Quando in Francia, agli inizi del sec. XIX, venne codificato il diritto commerciale, si stabili che ogni commanditaire che si fosse impegnato in atti che potessero essere interpretati come un'interferenza nella gestione della compagnia, si addossava automaticamente tutte le responsabilità della commandite.
L'impresa preindustriale sapeva dunque come separare le funzioni di fornire il capitale e di assumersi i rischi (in una accomandita, in realtà, il rischio è in qualche misura condiviso dai due tipi di soci); ma, a differenza della moderna legislazione sulle società (che si occupa principalmente della protezione degli azionisti), si richiedeva anche che la comunità fosse protetta dall'insolvenza, dalla frode o da altre conseguenze della sua attività. A ciò si giunse insistendo sul fatto che, nella divisione delle funzioni, quanti svolgevano una funzione detenevano la responsabilità sociale corrispondente. L'effetto di ciò fu naturalmente in qualche misura restrittivo, come già era accaduto per la regolamentazione espletata dalle gilde, e come era accaduto per l'ingiunzione cattolica contro gli alti tassi d'interesse e i prezzi liberi. La tecnologia e l'impresa moderna richiedevano un quadro meno restrittivo, ma non è privo d'interesse notare che alcune delle critiche che nella seconda metà del sec. XX si è cominciato a muovere alla moderna economia societaria si basano sull'accusa d'irresponsabilità sociale (v. Wilson, 1963; v. Heaton, 1936; v. Origo, 1957).
5. La prima rivoluzione industriale e il nuovo imprenditore
Le linee generali della storia della rivoluzione industriale in Inghilterra, e successivamente negli Stati Uniti e in Europa occidentale, sono troppo note perché sia necessario insistervi. Attraverso il cumularsi di una serie di mutamenti distribuiti nel corso di un secolo, venne costituendosi, per poi svilupparsi senza sosta, l'economia moderna, basata sulla macchina, sul vapore, sulla metallurgia, sull'uso del carbone, sull'accumulazione progressiva di conoscenze tecnologiche e, naturalmente, sul sistema di produzione industriale e sul trasporto per ferrovia. Ad essa, e al progresso medico, sono dovuti la diminuzione della mortalità, l'incremento demografico e, in Inghilterra e nell'America del Nord, i notevoli aumenti della produttività agricola. L'intero processo richiedeva l'accumulazione di capitali, una nuova impresa e nuovi imprenditori. Nell'opinione tradizionale, i nuovi imprenditori si occupavano sia della produzione che del commercio, sia delle invenzioni e delle innovazioni tecniche che della finanza. Nei casi in cui realmente erano interessati alla finanza, essi tendevano a reinvestire la maggior parte dei loro profitti allo scopo di espandere le loro attività, cioè di espandere la loro capacità produttiva. Secondo l'opinione, ancor oggi largamente accettata, di storici della società come R. H. Tawney, e di sociologi come M. Weber, in questa loro attività i nuovi imprenditori erano potentemente sostenuti dall'‛etica protestante'. È stato osservato che la condanna dell'usura pronunciata dalla Chiesa cattolica, e la più generale posizione sociale e filosofica del cristianesimo medievale impedirono lo sviluppo dell'etica individualistica che doveva caratterizzare il capitalismo del sec. XIX in Inghilterra, negli Stati Uniti e nelle regioni luterane della Germania. Weber osservò che l'‛impresa' protestante venne rafforzata dalla dottrina calvinistica della predestinazione, secondo la quale ci sono certi uomini, gli eletti, predestinati al regno dei cieli, e altri predestinati a una sorte inferiore. Parrebbe quindi che le azioni terrene non siano capaci d'influire sulla sorte individuale, e che il singolo non abbia alcun incentivo a obbedire a un codice morale. Ma, secondo Weber, il risultato della morale puritana fu in pratica molto diverso. Di tanto in tanto Dio offriva a qualcuno segni della grazia, gli dava cioè motivo di credere di poter essere uno degli eletti; tali segni venivano naturalmente ricercati, e uno particolarmente importante era il successo negli affari. Con un passaggio psicologico naturale, il puritano ricercava allora attivamente il successo negli affari nella speranza di trovare una conferma della grazia, malgrado l'evidente conflitto logico tra questo suo atteggiamento e la dottrina della predestinazione nella sua versione più pura. Il fenomeno si può spiegare anche pensando che il singolo uomo d'affari calvinista tendesse a supporre, fino a prova contraria, di essere tra gli eletti. Il successo negli affari era una conferma della grazia; perciò, se Dio offriva a uno degli eletti un'occasione di buoni investimenti, questi era tenuto a coglierla e anzi, lasciandosela sfuggire, avrebbe corso il rischio di perdere la grazia. Naturalmente questo non significa che tutti i nuovi imprenditori del sec. XIX fossero calvinisti, ma solo che in tutte le forme di protestantesimo (salvo forse la Chiesa anglicana) era presente una forte dose di calvinismo; ed è certamente vero che una parte cospicua dello sviluppo economico globale dell'Ottocento e del primo Novecento è dovuta in misura notevolissima a protestanti. Il nesso tra protestanti e sviluppo economico può talvolta essere spiegato chiamando in causa la loro antica condizione di minoranza (si pensi agli ugonotti francesi), e la tendenza generale propria delle minoranze di profughi a prosperare negli affari; fino a epoca recente, però, questa spiegazione non si è dimostrata applicabile alle minoranze cattoliche, per esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra. Lo studio della composizione religiosa della classe degli uomini d'affari americani nella prima metà del sec. XX pareva anzi confermare l'ipotesi di Weber (in realtà trovava conferma la tendenza alla concentrazione delle imprese nelle mani dei ‛WASP', ossia White, Anglo-Saxon, Protestants: ‛bianchi, anglosassoni, protestanti'). Alcuni studi sociologici successivi hanno messo in luce che la seconda e la terza generazione degli emigrati cattolici negli Stati Uniti mostrano nei confronti dell'impresa un'inclinazione nè maggiore nè minore di quella di qualunque altro gruppo. Una conferma di ciò potrebbe essere la storia della famiglia Kennedy, benché non sia forse privo di significato il fatto che, mentre J. Kennedy (il padre del presidente J. F. Kennedy) era il classico uomo d'affari di ceppo cattolico irlandese, che si era fatto da sé, nessuno dei suoi figli ha mostrato alcun interesse per gli affari, e tutti quanti hanno invece intrapreso la carriera politica.
Nell'opinione generalmente accettata, il ‛nuovo' imprenditore della prima rivoluzione industriale si distingueva dal ‛vecchio' imprenditore essenzialmente per la sua propensione all'industrialismo (era chiamato ‛industriale') e alla tecnologia, per il suo interesse sia all'accumulazione che all'utilizzazione del capitale e, più in generale, per il ruolo fondamentale svolto nel mutamento tecnico ed economico. L'importanza di tale ruolo è stata sottolineata specialmente negli scritti di J. Schumpeter (v., 1939 e 1942), che ha notato come, via via che cresceva di dimensioni, l'impresa capitalistica fosse particolarmente propensa alle innovazioni. Ma in anni più recenti l'opinione tradizionale è stata in certa misura messa in dubbio da autori che ravvisano una distinzione meno netta tra il ‛vecchio' e il ‛nuovo' tipo di imprenditore. Il più eminente tra questi è Ch. Wilson, secondo il quale c'è stata una continuità molto maggiore di quanto si sia pensato in precedenza. ‟Si sono tratte molte - forse troppe - conseguenze dal fatto che molti dei nuovi industriali (in Inghilterra) provenivano dai ranghi degli yeomen farmers. Ma i tessitori che divennero industriali erano anch'essi parte integrante del vecchio ordine. Agli industriali il capitale venne fornito dai mercanti della generazione precedente, specialmente nel Lancashire (la culla della moderna produzione del cotone su base industriale). Il mercante di sego del Baltico divenne egli stesso il più grande fabbricante di quelle candele (nightlights) che illuminarono milioni di case nel primo periodo vittoriano [...]. In tutti i casi c e una continuità ininterrotta" (v. Wilson 1969). Wilson osserva anche che si è eccessivamente insistito sul ruolo dei nuovi imprenditori nei confronti del problema tecnologico: ‟[essi] si basavano sulla capacità di cogliere le occasioni commerciali non meno che sulla capacità di applicare e sviluppare nuove invenzioni (tecnologiche)" (ibid.). Cita l'esempio del fabbricante di pettinati Foster, di Queensbury (Yorkshire), il quale cominciò producendo nuovi articoli di abbigliamento femminile di mohair e di alpaca - i quali trovarono mercati in tutto il mondo per le loro qualità intrinseche - ma sviluppò poi la sua azienda servendosi di strumenti simili a quelli della moderna pubblicità. Verso il 1850, per esempio, per promuovere attivamente la vendita dei suoi articoli facendo leva sul richiamo snobistico, ottenne l'appoggio di una bella nobildonna parigina, la contessa di Bective, la quale, dice Wilson, ‟deve entrare nella storia dello sviluppo industriale allo stesso titolo della ‛giannetta'" (ibid.).
Abbiamo notato che una delle eredità del Medioevo, presenti nel periodo di transizione, era la diffusa tendenza da parte del governo a controllare le imprese attraverso interferenze e restrizioni. Durante la grande epoca del liberismo economico, che si estende dal 1800 al 1914, queste tendenze restrittive furono oggetto di una deplorazione quasi universale. Prevalse la dottrina del laissez-faire, il cui padre, com'è noto, fu il grande economista scozzese A. Smith. Le sue idee non hanno solo dominato completamente l'economia politica della prima metà del sec. XIX, ma hanno senza dubbio continuato a esercitare un fortissimo influsso anche sul pensiero economico successivo: la cosiddetta ‛scuola di Chicago' degli anni cinquanta-sessanta, legata al nome di Friedman, fornisce un buon esempio della vitalità di questa tendenza anche nel XX secolo. Le teorie economiche di Smith non erano rigorose: quanto a rigore (per ciò che concerne, per esempio, la teoria del valore) egli fu completamente eclissato dal suo successore D. Ricardo; quanto al suo maggiore intuito teorico, va notato che le teorie macroeconomiche (cioè le teorie che si riferiscono al funzionamento dell'economia nel suo insieme), sviluppatesi durante e dopo la grande depressione degli anni trenta, avevano più aspetti in comune con le idee di Cantillon, Quesnay e Malthus (la cui opera principale, elaborata tra il 1790 e il 1830, contiene, a parte la celebre teoria della popolazione, una significativa, anche se primitiva, teoria della caduta dei prezzi). Ma A. Smith fu soprattutto il filosofo della libera iniziativa. Egli forni la conciliazione logica tra la convinzione medievale per cui l'impresa diventa desiderabile solo se adeguatamente regolata nell'interesse pubblico e il dogma centrale del capitalismo liberale, secondo cui l'interferenza dello Stato può essere giustificata solo in casi eccezionali e tende generalmente a essere più nociva che vantaggiosa. Come conciliare il necessario individualismo ed egoismo del mercante con il bene pubblico? Smith rispondeva che ogni individuo cerca il proprio interesse personale, quindi il meccanismo concorrenziale avrebbe dovuto condurre lui e gli altri a massimizzare la ricchezza totale della società come guidati da una mano invisibile (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776, libro IV, cap. II). In termini moderni, questo ‛massimizzare' s'interpreta come produzione dei beni più necessari nella maniera economicamente più efficiente. In realtà Smith non sosteneva affatto che gli imprenditori, in quanto classe, meritassero libertà o privilegi particolari, o che le attività economiche dovessero esser condotte in una giungla hobbesiana. Secondo Smith, i benefici effetti di un regime di generale egoismo apparirebbero solo se la concorrenza fosse leale e gli affari fossero condotti onestamente. Lasciati a se stessi, egli pensava, gli uomini d'affari cercherebbero di strozzare la concorrenza e di creare monopoli, sovvertendo in tal modo l'opera della ‛mano invisibile' e sfruttando il resto della società. (In realtà Smith non aveva personalmente grande simpatia per la classe imprenditoriale; era meglio disposto verso i proprietari terrieri). Ma i governi del sec. XVIII propendevano in genere a incoraggiare i monopoli più che a reprimerli; e nello stesso senso agivano, naturalmente, i dazi sulle importazioni e le altre restrizioni al commercio internazionale. I governi dovevano quindi abolire le restrizioni e le imposte tradizionali, e perseguire in generale politiche dirette a incoraggiare la concorrenza. Ma, malgrado lo scetticismo di Smith circa la ‛naturalità' del comportamento competitivo, l'evoluzione legislativa inglese e scozzese nella prima metà del sec. XIX tendeva a reprimere duramente le azioni collettive svolte dai lavoratori per migliorare i salari, ma faceva ben poco per penalizzare i tentativi di fissare i prezzi. Soltanto oltre cento anni dopo e quasi esclusivamente negli Stati Uniti trovò espressione pratica, in leggi codificate, la necessità di un esplicito apparato legale diretto contro i monopoli e le pratiche commerciali restrittive. Nel Regno Unito, la common law (diritto non codificato, storicamente sviluppato dai tribunali) aveva elaborato la dottrina secondo cui ogni pratica di affari intesa ad ampliare gli interessi dell'individuo era giustificata a condizione di non essere effettivamente fraudolenta o scopertamente dolosa: in altre parole gli atti di ‛restrizione degli scambi' erano legalmente giustificati purché non intrapresi all'unico scopo di danneggiare altri, ossia purché fosse possibile mostrare che erano motivati sostanzialmente dal desiderio di profitto. Questa tradizione inglese venne rovesciata solo negli anni cinquanta, quando una serie di regolamenti fornì le disposizioni per limitare i monopoli, impedire vari tipi di pratiche restrittive e, alla fine, porre fuori legge la prassi dei prezzi imposti. (Anche allora però si concesse che le prassi commerciali restrittive potessero a volte servire l'interesse pubblico e potessero quindi essere permesse in seguito ad accertamenti da parte di una corte speciale, nota come Restrictive Practices Court). La storia di questa tematica sul continente europeo è stata sostanzialmente simile a quella inglese. Le leggi della Comunità Europea contengono alcune disposizioni antimonopolistiche, ma fino a oggi non si sono avuti molti esempi di loro applicazione.
Smith vedeva dunque nell'impresa concorrenziale una delle principali fonti, reali o potenziali, della ricchezza delle nazioni. Come mezzo secolo più tardi Marx (la cui analisi del capitalismo - a differenza della valutazione morale che egli ne dava - era completamente in accordo con quella dell'economia classica), Smith insisté fortemente sull'accumulazione del capitale che naturalmente era strettamente legata col progresso dell'impresa, e sottolineò i grandi vantaggi del sistema di produzione industriale. Senonché, scrivendo prima del vero e proprio inizio della rivoluzione industriale, egli pose l'accento sui vantaggi della divisione del lavoro (ossia della specializzazione) entro l'ambito della fabbrica molto più che sui vantaggi dell'uso delle macchine (naturalmente, nel 1776, ancora poco note). Così, la sua famosa descrizione del processo di produzione dello spillo - di fatto una primitiva linea di montaggio umana - differisce dalla descrizione di un'officina medievale solo in quanto ogni singolo operaio vi svolge un'unica mansione limitata, collaborando strettamente con altri operai che, nello stesso locale, svolgono altre mansioni relative allo stesso prodotto. Nell'industria medievale e, a volte, come abbiamo visto, in quella del periodo di transizione, la specializzazione si attuò mediante la suddivisione delle attività, e le mansioni specializzate, definite in modo meno rigoroso, venivano espletate in luoghi di lavoro diversi. Ora, Marx vide nella divisione del lavoro e nel largo uso di macchine di proprietà non del lavoratore ma del capitalista le cause dell'‛alienazione' del lavoratore dal suo lavoro. Così, dal punto di vista marxiano, impresa e alienazione procedono di pari passo. Il valore della posizione di Smith sta invece nel fatto che egli aggiunge alle funzioni dell'imprenditore la capacità organizzativa e la capacità di sfruttare i vantaggi del sistema di produzione industriale e della divisione del lavoro. Infatti, a differenza dalla specializzazione medievale, il sistema descritto da Smith - con o senza macchine - è il fondamento dell'industria moderna, e richiede sia organizzazione sia autorità.
Ciò non vuol dire (con buona pace di Ch. Wilson: v. sopra) che l'imprenditore dovesse necessariamente essere in grado di gestire una fabbrica: non gli si chiedeva di saper esercitare un'autorità organizzativa su vaste schiere di subordinati, benché questo avvenisse spesso nell'industria del cotone. Egli doveva essere però capace almeno di scegliere altri uomini che gestissero le fabbriche. Così nell'Inghilterra d'oggi un ‛direttore di fabbrica' spesso non è considerato appartenente alla gerarchia più elevata dei dirigenti, e può benissimo non essere membro del consiglio di amministrazione della società proprietaria della fabbrica che egli dirige. Ma, quanto più piccola è l'impresa, tanto più è probabile che l'imprenditore sia realmente costretto a impegnare gran parte del tempo nella sua fabbrica.
Per riassumere, la ‛nuova' impresa del sec. XIX, quale è caratterizzata particolarmente dal suo sviluppo in Gran Bretagna, non rappresentò un fenomeno completamente nuovo, ma lo sviluppo e l'espansione dell'impresa medievale e del periodo di transizione. Alla funzione originaria di fornire capitali, assumersi rischi e scoprire mercati, si aggiunsero i ruoli di direzione della produzione, di gestione delle innovazioni, di previsione e perfino di creazione di mercati e di sfruttamento del sistema di produzione industriale.
6. Lo sviluppo delle società per azioni
È noto a tutti che l'impresa moderna generalmente non è più strutturata in società di persone, ma in varie forme di società per azioni a responsabilità limitata. Il carattere essenziale di una società per azioni consiste nel fatto che la proprietà è divisa in quote (azioni), e che la proprietà di una quota non conferisce direttamente la proprietà di una parte delle attività della società (le quali appartengono alla società, che è essa stessa una persona giuridica), ma conferisce un insieme di diritti. In particolare, il diritto fondamentale è il diritto di partecipazione e di voto, in proporzione alle azioni possedute, nelle assemblee generali della società; ciò comporta quindi il diritto a partecipare alle votazioni per l'elezione dei consiglieri delegati o amministratori della società. C'è anche il diritto implicito a un'‛equa' partecipazione a qualunque distribuzione di profitti o capitale, ma solitamente sono i consiglieri delegati che hanno il diritto esclusivo di decidere l'entità della distribuzione e la maggior parte degli altri problemi finanziari. Gli amministratori delegati hanno anche il controllo esclusivo della gestione della società e solitamente non sono tenuti a essere essi stessi azionisti importanti; non sono responsabili dei debiti della società, mentre la responsabilità degli azionisti è limitata al valore dei loro investimenti. Non ci sono quindi nè una nè più ‛persone' che siano responsabili dei debiti della società. Un altro carattere essenziale del sistema è che gli azionisti possono di solito ‛trasferire' i propri diritti ad altre persone da essi nominate, cioè possono convertire le loro azioni in contanti, creando così un mercato azionario. Il significato della negoziabilità delle azioni è stato solitamente visto sotto il profilo dell'organizzazione dei mercati di capitali, ma un altro aspetto importante della questione è dato dal modo in cui la negoziabilità favorisce il realizzarsi di una più generale separazione della proprietà dalla gestione, come vedremo meglio nel capitolo seguente. Si è spesso osservato che nel sec. XX sono pochi gli azionisti di grandi società che si prendono il fastidio di partecipare all'assemblea generale annuale; gli azionisti fanno cioè scarso uso del diritto di eleggere gli amministratori, salvo i casi in cui un piccolo gruppo di azionisti possegga la maggioranza delle azioni e voglia per qualche ragione mutare o comunque influenzare l'amministrazione: in generale sono gli amministratori in carica a suggerire i nomi dei nuovi amministratori, per esempio per sostituire quelli uscenti. La ragione dell'apatia della massa degli azionisti risiede certamente nel fatto che la partecipazione alle assemblee costa tempo e denaro, che spesso si posseggono azioni di parecchie società, e infine nel fatto che se si è insoddisfatti della gestione di una società si ha sempre la possibilità di vendere le proprie azioni.
Come si è ricordato, né la responsabilità limitatta, né la società per azioni erano una novità assoluta agli inizi del sec. XIX. Ma in Europa prima della metà del secolo, e negli Stati Uniti prima del 1837 (negli Stati Uniti l'evoluzione legislativa ebbe un andamento diverso nei diversi Stati), la costituzione di una società a responsabilità limitata restò prerogativa dello Stato; i casi singoli venivano trattati in base alle situazioni particolari e la fondazione di ciascuna società richiedeva uno statuto apposito. In cambio della concessione del privilegio di costituire delle società, lo Stato esigeva il diritto di controllare e proteggere l'interesse pubblico generale. Ma, nel corso del secolo, in tutta Europa e in America si fece sentire in modo sempre più pressante l'esigenza di un sistema più libero, cioè di leggi che concedessero il privilegio della costituzione di società a responsabilità limitata a chiunque, alla sola condizione che si soddisfacessero certi specifici requisiti legali dalle caratteristiche standardizzate. In alcuni paesi, e specialmente nel Regno Unito, queste misure furono duramente avversate da quanti ritenevano che le società per azioni, intese come forma di organizzazione commerciale e industriale, sarebbero state necessariamente o inefficienti o monopolistiche, o l'una o l'altra cosa insieme. Uno studio degli articoli dell'‟Economist" nel 1855 mostra che il suo direttore di allora riteneva che le società per azioni sarebbero in massima parte fallite o che, in caso contrario, avrebbero basato il loro successo sul monopolio. Sostanzialmente quest'avversione si fondava sull'idea che le organizzazioni di vaste dimensioni fossero sempre inefficienti, ovvero, se non inefficienti, indesiderabili. Al contrario, tutto il peso dell'argomento a favore dei cambiamenti si fondava sulle potenzialità dell'organizzazione su vasta scala e della specializzazione funzionale, che permettono una distribuzione dei rischi (alcuni direbbero che in una società a responsabilità limitata una parte del rischio viene trasferita dai proprietari ai creditori), una gestione separata dalla proprietà e dall'assunzione di rischio, e una maggiore flessibilità del capitale.
Come risultato di queste pressioni per una maggiore libertà, un'apposita legislazione venne elaborata in Inghilterra nel 1862, in Francia nel 1867, in Spagna nel 1868, in Germania nel 1870 e in Italia nel 1882 (degli Stati Uniti si è già parlato). Nel 1867, in Francia, esistevano meno di un centinaio di sociétés anonymes; alla fine del secolo ce n'erano circa 10.000. In Inghilterra, la cifra corrispondente verso la fine del secolo era sensibilmente maggiore; in Germania era invece alquanto minore, ma pur sempre notevole.
A proposito di questi sviluppi, bisogna fare due importanti considerazioni. In primo luogo, il fatto che le azioni fossero divenute negoziabili non significa affatto che il grosso di esse, verso la fine del sec. XIX, fosse in mano a un gran numero di persone. Vi furono molte società di piccole dimensioni, e le loro azioni restarono nelle mani di poche persone; molte compagnie non sopravvissero a lungo. In secondo luogo non fu nel sec. XIX che le grandi società acquisirono il controllo della produzione industriale: ciò accadde nel secolo successivo. Per esempio, leggi approvate nel 1892 in Inghilterra e in Germania prevedevano l'esistenza di società a responsabilità limitata ‛private', che godevano del diritto generale di costituzione e di quello di negoziabilità delle azioni, però senza molti degli altri requisiti di società più grandi o ‛pubbliche'. Le compagnie private infatti, pur non essendo tenute a presentare rendiconti finanziari, non potevano avere più di cinquanta azionisti e non potevano offrire le loro azioni in vendita al pubblico in generale. In altre parole, le azioni delle compagnie private non potevano essere negoziate in borsa. Si vedrà che la società privata, o il suo equivalente in base alle leggi e agli usi di altri paesi, restò la forma prevalente di organizzazione industriale fino a dopo l'inizio del sec. XX. Benché la borsa di Londra avesse conosciuto un notevole sviluppo durante il sec. XIX (alcuni dei suoi stabili risalgono a prima del 1800), i titoli più attivamente negoziati all'inizio del Novecento, come nella borsa di Milano verso la metà del secolo, erano in maggioranza obbligazioni, azioni ferroviarie o di servizi pubblici, titoli governativi nazionali ed esteri, ecc. Qualunque fosse la forma assunta, i titoli relativi alla proprietà delle attività della maggior parte dell'industria - in Inghilterra nel 1900 e a Milano nel 1960 - non assunsero la forma di azioni ordinarie altrettanto largamente commerciate quanto quelle delle compagnie pubbliche quotate in borsa. Corollario di ciò era il fatto che il processo di concentrazione industriale non era ancora iniziato: nel 1900 in Gran Bretagna le cento maggiori imprese industriali controllavano, probabilmente, meno del dieci per cento del prodotto dell'industria.
7. Lo sviluppo dell'economia societaria
Il nostro secolo ha completato la rivoluzione nell'organizzazione economica che si sviluppò dopo la rivoluzione industriale. I sociologi hanno descritto questa rivoluzione dell'organizzazione come un'esplosione nell'impiego della burocrazia, dove ‛burocrazia' è un termine generale, indicante amministrazioni di grandi dimensioni costituite per il conseguimento di fini razionali: esso non si limita affatto, quindi, all'amministrazione statale, ma include anche le grandi aziende capitalistiche. E certamente vero che le organizzazioni burocratiche, intese in questo senso, si sono moltiplicate ed estese in tutti i settori di attività. In campo economico, ciò ha provocato una sostanziale reinterpretazione del concetto d'impresa. Molte iniziative imprenditoriali più o meno ‛tradizionali', sia sotto forma di società a partecipazione che di società private individuali, sopravvivono; anzi, entro il complesso delle organizzazioni aziendali, costituiscono la grande maggioranza. Esse sono però responsabili di una quantità sproporzionatamente esigua del prodotto totale; e molte di esse sono costrette ad accettare passivamente un contesto economico creato dalle aziende maggiori. Sono come gli undertakers di Cantillon: la parte dei proprietari terrieri in questo caso viene svolta dalle società per azioni. Resta peraltro il fatto che l'attività del piccolo commerciante, dell'oste, dell'albergatore (ormai quasi soverchiato da gigantesche catene internazionali), del proprietario di boutique, del bottegaio di Ponte Vecchio a Firenze ‛dà colore' e fornisce un indefinibile elemento di ‛qualità' (sia buona che cattiva) alla vita economica dell'Occidente. Inoltre, in Francia, Italia e Spagna, una quantità di importantissime imprese di grandi dimensioni restano effettivamente ‛aziende familiari'. Quest'ultimo fenomeno merita un'ulteriore analisi. Esso rispecchia in parte il fatto che, in questi paesi, la prima fase della rivoluzione industriale non venne portata a compimento entro il sec. XIX, sicché la seconda fase (lo sviluppo dell'economia societaria) ne fu ritardata. Lo stesso andamento ebbe l'effettivo processo di industrializzazione: nel 1950 in Francia e in Italia era occupata nell'agricoltura una quantità di popolazione, in proporzione, molto maggiore che in Inghilterra o negli Stati Uniti. Il successivo sviluppo economico della Francia e dell'Italia può essere in parte spiegato in base a questo fatto. Ma l'altro aspetto dell'‛azienda familiare', in paesi in cui la Riforma protestante non aveva mai trovato spazio, è costituito dalla capacità di certe famiglie, come gli Agnelli, gli Olivetti, i Citroën, di usare la forma ‛familiare' per imprese di grandi dimensioni (è accertato che molte di queste famiglie non erano, alle origini, cattoliche). Questo risultato si spiega con la pratica dell'‛esogamia', un'usanza molto meno diffusa tra i protestanti: le donne della famiglia sono incoraggiate a, sposare dei giovani adatti a occupare posizioni elevate nell'azienda, e la famiglia stessa si estende via via fino a che i cugini e i parenti acquisiti sono abbastanza numerosi da formare un gruppo amministrativo adeguato, cementato da legami di sangue, di proprietà e di parentela. Evidentemente si avrà un certo danno, nel caso che qualche giovane si riveli inadeguato e occorra trovargli una sinecura. Ma in molti casi il sistema si è mostrato notevolmente efficace. Al contrario, le grandi imprese quacchere inglesi non praticarono l'esogamia; pur rimanendo private, le posizioni aziendali nel consiglio di amministrazione erano quasi esclusivamente riservate ai discendenti diretti in linea maschile. Per un certo periodo questo sistema funzionò: le ditte spesso riuscirono ad attirare dirigenti capaci, sottoposti al consiglio di amministrazione, i quali, all'età di circa 40 anni potevano passare ad altra azienda senza danno, in quanto si sapeva che, non essendo della famiglia, non avrebbero potuto fare altri passi avanti. Ma negli anni cinquanta e sessanta tutte queste ditte persero la loro identità specifica; l'ultima a subire questo processo fu la Cadbury che, sotto la guida dell'amministratore delegato A. Cadbury, allora relativamente giovane, trovatasi di fronte a una crescente pressione da parte della ditta americana Mars International, si fuse con la Schweppes, la ditta produttrice dell'acqua tonica.
A parte queste imprese ‛familiari', la tipica società industriale moderna in Inghilterra e negli Stati Uniti, e in misura sempre maggiore nel continente europeo, è di grandi dimensioni; le sue azioni sono largamente disperse e ha amministratori delegati le cui partecipazioni azionarie, sebbene spesso notevoli dal punto di vista della ricchezza personale, rappresentano solo una minima frazione del numero totale dei voti. Naturalmente in molte grandi società si trovano discendenti del fondatore o altri gruppi familiari che detengono ingenti pacchetti, sufficienti a permetter loro, volendo, di esercitare notevoli influenze, ma non il controllo assoluto. Negli Stati Uniti, verso la metà del nostro secolo, benché i titoli posseduti dagli amministratori delegati delle società maggiori ammontassero spesso a 5 milioni di dollari, il totale medio delle partecipazioni di tutti gli amministratori di una certa società rappresentava poco più dell'uno per cento dei voti. E evidente che il sistema societario comporta un nuovo concetto d'‛impresa'. È capitalistico, nel senso che sono le società (e indirettamente i loro azionisti) e non la collettività che posseggono i mezzi di produzione. Per ragioni che esamineremo più avanti, non necessariamente le società sono economicamente inefficienti o insolitamente avverse al rischio; in altre parole, esse possono svolgere il vecchio ruolo imprenditoriale in modo più o meno efficace, aggiungendovi i numerosi vantaggi connessi alle loro dimensioni. Ma è difficile credere che, se il linguaggio si fosse sviluppato in un'epoca in cui esisteva già un sistema societario completamente sviluppato, tale sistema sarebbe stato chiamato ‛imprenditoriale' (enterprising). Nondimeno, il sistema societario è il mezzo con cui, nel capitalismo moderno, vengono esercitate le funzioni dell'‛imprenditore': anche l'imprenditore quindi, con tutte le eccezioni e precisazioni menzionate sopra, si è burocratizzato.
A proposito di questo sistema occorre fare un certo numero di precisazioni.
Gli amministratori delegati sono incaricati dell'amministrazione della società. Possiamo quindi immaginarceli come un comitato di persone disinteressate che, dietro modesto compenso, si riuniscono circa una volta al mese per prendere grosse decisioni (per esempio in materia finanziaria), e hanno quindi bisogno di assumere ‛dirigenti' o managers a full time che si occupino della conduzione quotidiana dell'azienda. Ma, a eccezione della Germania, il diritto commerciale della maggior parte dei paesi non proibisce affatto che un dirigente a full time sia al contempo amministratore delegato; questa anzi è diventata una prassi universale che ha condotto alla distinzione tra i ‛dirigenti' e gli altri amministratori, alla quale abbiamo fatto cenno sopra. Gli amministratori non dirigenti vengono sempre più spesso indicati come amministratori a part time, e solitamente rappresentano gli interessi di grossi azionisti, di banche o altre istituzioni che hanno prestato denaro, oppure di ditte consociate o di clienti. Di fatto quando ha raggiunto una certa posizione nella sua società, un dirigente si aspetta di essere promosso ad amministratore, come segno d'influenza e di successo, anche se, in molti casi, le decisioni di vasta portata vengono prese da comitati di dirigenti senza neppure giungere agli amministratori. Il carattere peculiare di tutta questa situazione è che gli amministratori delegati costituiscono così un comitato che è il datore di lavoro di se stesso, e un comitato che, tra l'altro, deve fissare il compenso di molti dei suoi stessi membri. In molti paesi, benché le società siano solitamente tenute a render pubblici i compensi percepiti dai loro dirigenti in qualità di amministratori (che sono di solito piuttosto modesti, senza peraltro essere disprezzabili), gli emolumenti - assai maggiori - che essi percepiscono in qualità di dirigenti possono restare segreti (non però negli Stati Uniti). Amministratori e dirigenti possono comunque possedere e commerciare azioni della ditta, e non sono generalmente impediti dal trarre vantaggio, nei loro affari, dalle informazioni ottenute all'interno, purché il loro comportamento non sorpassi i limiti dell'illecito. Gli amministratori della Pennsylvania Central Railroad, che dichiarò bancarotta nel 1969, sono stati accusati di aver tenuto celata la posizione finanziaria dell'azienda mentre vendevano le loro stesse partecipazioni azionarie; ciò provocò uno scandalo, ma essi non furono condannati.
Effetto di questo stato di cose è il fenomeno della separazione della proprietà dalla gestione. La massa degli azionisti ha scarso controllo operativo o ‛diretto' sulla società; acquistando le azioni della compagnia, essi hanno deliberatamente delegato la gestione della loro attività. Sotto questo profilo, la posizione dell'azionista è quella del vecchio commanditaire, o socio ‛dormiente'; la posizione dei dirigenti è invece significativamente diversa da quella di un vecchio commandité: infatti non solo, come abbiamo già sottolineato, la loro responsabilità è limitata, ma il loro impegno personale, per quanto cointeressato, è necessariamente di tipo più professionale e meno imprenditoriale. Oppure potremmo dire che la società non è che un espediente per realizzare - sulla scala però della burocrazia moderna - la divisione delle funzioni esistente nell'antica accomandita. Altri (v. Marris, 1964, p. 1) hanno osservato che la tradizionale funzione imprenditoriale non è divisibile, e in particolare che l'assunzione di rischi da parte d'individui responsabili delle decisioni rischiose crea uno stile decisionale diverso da quello proprio delle società moderne, nelle quali il dirigente prende la decisione e l'azionista o creditore corre il rischio. Nella società, il grado di rischio, visto dal punto di vista soggettivo dell'azionista, è certo cresciuto: un risultato che vien forse bilanciato dalla sicurezza addizionale derivante dalle grandi dimensioni (v. sotto). Uno degli effetti principali della separazione della proprietà dalla gestione è là riduzione dell'importanza personale dell'azionista. Ciò che conta sono le azioni della ditta, in quanto sono largamente commerciate e il loro prezzo può essere assunto come indice pubblico dello status e della profittabilità dell'organizzazione, mentre gli azionisti sono individui anonimi, che, come abbiamo già notato, raramente si fanno sentire e la cui identità in quanto gruppo cambia ogni ora in cui la borsa è aperta. La società può quindi esser considerata come composta da quattro elementi: a) le azioni; b) i dirigenti; c) le attività materiali; d) le attività umane, quelle degli impiegati non-dirigenti. Il valore di mercato delle azioni dipende dall'interazione degli altri tre elementi, e in particolare dalla supposta capacità futura dei dirigenti nel realizzare profitti (con i quali pagare i dividendi) dallo sfruttamento delle attività materiali e umane. Ciò dipende in parte dalle qualità e dalle capacità globali dei dirigenti, e in parte dalle circostanze storiche che hanno determinato la forma delle loro attività e la loro esperienza commerciale. Per quanto capaci, i dirigenti non potranno realizzare profitti se la loro esperienza è strettamente limitata a una singola industria (che magari si trova in cattive acque) o se le attività materiali e la forza lavoro risentono di analoghe limitazioni. Così Berle e Means, i due americani che nel 1932 descrissero ampiamente per primi questi fenomeni, affermavano: ‟Due forme di proprietà compaiono una sopra l'altra, collegate ma non identiche. In basso c'è la proprietà in se stessa [...], che ancora richiede i servizi di esseri umani, dirigenti e operatori. A essa è collegato un insieme di contrassegni, liquidi in una certa misura, che passano di mano in mano, che richiedono poca o nessuna attenzione umana, che raggiungono un valore effettivo di scambio che solo in parte dipende dalla proprietà sottostante [...].Un dirigente di valore non aumenterebbe il valore delle proprietà se queste dovessero essere vendute; aumenterà invece il valore dei contrassegni che rappresentano questa proprietà. Una gestione scadente avrà il risultato opposto" (v. Berle e Means, 1932, p. 282).
Rispetto al 1932, verso la metà del secolo il processo si era ulteriormente sviluppato. Nella fase iniziale del diritto societario, gli strumenti legali di fondazione, o ‛statuto' della compagnia (in Inghilterra articles of association, negli Stati Uniti charter, in Francia constitution), esigevano una dichiarazione piuttosto precisa della natura dell'azienda da impiantare, ed era possibile dichiarare ultra vires tutte le attività non rientranti nella definizione. Tutte queste restrizioni sono, da allora, venute meno e, com'è noto, a volte una società formata originariamente per fabbricare acciaio si è potuta trovare poi impegnata nella gestione di attività alberghiere. Questa ‛diversificazione' pone i dirigenti in condizione di distribuire i rischi sottraendosi agli effetti di un declino del mercato. In generale, la diversificazione è, o dovrebbe essere, basata su qualche elemento di qualificazione specialistica, cioè su qualche forma di know-how: perlomeno un'organizzazione non dovrebbe tentare di espandere troppo rapidamente l'ambito delle sue attività. Così gli Schweppes, in Inghilterra, cominciarono come semplici fabbricanti di acqua di soda a uso dei bevitori di whisky. In seguito essi elaborarono la formula di un'acqua ‛tonica' di larga diffusione (acqua gassata con chinino) a uso dei bevitori di gin. Acquistarono poi una vecchia società interessata alla produzione e alla vendita di marmellate (un'azienda familiare, la Chivers, di proprietà di due sorelle che si erano impegnate in un processo antieconomico di integrazione verticale: avevano cioè acquistato dei frutteti, che gli Schweppes vendettero immediatamente); infine gli Schweppes, come abbiamo già ricordato, si fusero con la maggiore industria d'Inghilterra (e una delle maggiori del mondo) produttrice di cioccolato. E importante notare che non c'è praticamente niente in comune nelle tecniche di ‛fabbricazione' di tutti questi prodotti; nè, dal punto di vista del consumatore, essi rispondono a bisogni simili o concorrenziali. Il loro elemento comune sta soltanto nella loro natura di alimenti (cibi o bevande) e, in questo caso, di alimenti non essenziali; inoltre, il consumatore ha sempre un forte interesse per certe caratteristiche qualitative indefinibili (nessuna imitazione dell'acqua tonica Schweppes è veramente riuscita), sicché sono importanti sia la qualità oggettiva sia l'immagine della marca. In altre parole, questi prodotti hanno in comune una stessa tecnica di marketing. In altri casi, la tecnica comune può avere a che fare con il tipo di manodopera da impiegare e/o con il metodo di dirigerla. Infine, la specializzazione basata sulla tecnologia è naturalmente ben lungi dall'esser scomparsa. Può ovviamente accadere che la diversificazione sia spinta troppo oltre o tentata troppo affrettatamente. Negli Stati Uniti apparve negli anni sessanta un tipo di diversificazione ‛conglomerata', il cui principale movente era la manipolazione finanziaria, senza che la specializzazione vi avesse parte alcuna. Molti di questi conglomerati fecero uno spettacolare esordio in borsa, seguito poi dal crollo. Prevalse in alcune società un orientamento direttivo a ridurre il grado di diversificazione, con lo scopo d'incrementare la profittabilità totale. Comunque sia, l'effetto generale delle potenzialità di diversificazione consiste nel rafforzare la tendenza a vedere i caratteri essenziali dell'identità di una società nella natura del team di persone che ne costituiscono il gruppo dirigenziale anche se questo team stesso, naturalmente, non è affatto un gruppo costante. Ci sono anzi alcuni di questi conglomerati, costruiti su basi solide, il cui unico tratto distintivo evidente è un'uniformità generale della gestione; è interessante notare come queste ditte siano spesso la creazione di un unico magnate - cioè un unico imprenditore - e abbiano successo solo fintantoché questi rimanga saldamente al timone. Quindi, comprando un'azione di una società moderna, l'investitore compra una quota (cioè un interesse) della capacità che un'organizzazione ha di realizzare profitti. Queste capacità possono dipendere dalla storia e dalla natura dell'organizzazione come tale più che da qualunque altro fattore (risorse umane e materiali) dal quale la ‛società' sia caratterizzata in un dato momento.
Le associazioni medievali e del periodo di transizione, e le piccole società private dei secc. XIX e XX, ottenevano capitali da fonti esterne, quali le banche o le fortune personali dei soci, ma, come in tutte le imprese, le più importanti fonti di capitale per lo sviluppo delle aziende erano rappresentate dai profitti ricavati dalle operazioni svolte. Uno studio ha mostrato (v. Mackintosh, 1962) che nel sec. XX le piccole e medie aziende industriali inglesi riservano a questo scopo fino al 75% dei loro profitti. Alle origini si dava per acquisito che al termine di ogni anno gli amministratori di società per azioni ‛pubbliche' o di grandi dimensioni dichiarassero un ‛dividendo', rappresentante una giusta quota di tutti i profitti dell'attività dell'anno. Gradualmente gli amministratori acquistarono il diritto di mantenere una parte dei profitti entro l'azienda, dapprima nei casi in cui pareva manifestamente prudente premunirsi contro un calo delle fortune commerciali nell'anno seguente e quindi trattenere i dividendi. Ma, con il passare del tempo, il diritto a trattenere parte dei profitti divenne permanente e venne sfruttato non solo per creare riserve di liquido, ma, come nell'impresa tradizionale, per finanziare lo sviluppo delle attività reali dell'azienda nel suo insieme. Di norma, almeno il 50% dei profitti viene trattenuto, e oltre il 75% di tutti gli investimenti delle società viene finanziato in questo modo. Tanto nell'Europa occidentale quanto nell'America del Nord, malgrado l'attenzione prestata dal pubblico a nuove emissioni di azioni e altre manifestazioni di finanziamenti ‛esterni', ricerche statistiche, potrebbero dimostrare che, in un periodo di 5-10 anni, c'è una percentuale consistente - circa il 20-30% - di società in rapido sviluppo che non ricorre ad alcuna forma di finanziamento esterno. Al finanziamento esterno, infatti, si ricorre generalmente quando una società viene fondata o ricostruita, o quando si prevede un periodo di sviluppo eccezionalmente rapido, oppure quando, dopo un periodo di sviluppo troppo rapido, si desidera ripristinare le riserve di liquido esaurite nel processo. Economisti e legislatori hanno spesso guardato sfavorevolmente all'‛autofinanziamento', specialmente in Germania dove, malgrado il relativo sottosviluppo del mercato di capitali, il sistema fiscale discrimina deliberatamente a favore dei profitti ‛distribuiti'. Il sistema fiscale francese sembra avere effetti analoghi. Poiché l'autofinanziamento è tuttavia prevalente, l'ostilità pubblica nei suoi confronti sembra, tutto sommato, priva di realismo. Tale ostilità si fonda sull'idea che il capitale reinvestito all'interno di un'impresa si sarebbe potuto meglio utilizzare in altri settori dell'economia: il mercato esterno dei capitali, si suppone, sarebbe più atto a effettuare la necessaria ridistribuzione. In sede di teoria economica, il problema è un tantino più complicato, giacché, in regime di autofinanziamento, si verifica che le società in più rapido sviluppo saranno necessariamente quelle con maggiori profitti: misurando dunque l'efficienza in termini di profitti, il capitale sarà gradatamente incanalato in direzioni remunerative. L'argomento contrario deve basarsi o su qualche criterio di efficienza diversò dal profitto, oppure sulla supposizione che il mercato esterno sia abbastanza bene informato e organizzato per effettuare più rapidamente la ridistribuzione. Comunque sia, tra il 1950 e il 1975, l'autofinanziamento è rimasto un aspetto fondamentale della realtà economica delle società, per cui le conseguenze economiche di una legislazione generale, richiedente che tutti i profitti (o magari un'altissima quota di essi) vengano distribuiti per intero, potrebbero essere immaginate in via d'ipotesi soltanto con scarsa approssimazione: per ricostruire la vecchia fonte di finanziamento sarebbe necessario che gli amministratori, al momento di distribuire i dividendi, persuadessero i loro azionisti a sottoscrivere regolarmente nuove azioni, trovandosi quindi nella necessità di presentare le necessarie garanzie e giustificazioni.
Un aspetto caratteristico delle burocrazie industriali del Novecento, che ha finito con l'esser dato per scontato, consiste nel fatto che, costituendo esse una forma di proprietà, possòno essere acquistate e vendute come oggetti. Un mercante tradizionale, quando cedeva la sua azienda, metteva in vendita i suoi titoli; oppure un socio poteva vendere la sua quota sia di attività sia di ‛avviamento' agli altri soci, ma c'era un mercato stabilito per simili transazioni. Un negoziante può vendere i suoi locali e nel valore della transazione può entrare un elemento di ‛avviamento' costituito dalla rete attuale di clienti che molto presumibilmente si conserverà anche dopo il passaggio di proprietà. Ma, nella misura in cui tali transazioni sono incerte (i clienti potrebbero disperdersi), il valore finanziario dell'avviamento è necessariamente ridotto. Nel sistema basato sulle società, il problema della proprietà diventa molto più complicato. Una piccola società può avere non più di una dozzina di azionisti, e alcuni di loro possono essere membri della stessa famiglia. In altre parole, una compagnia può rappresentare in realtà qualcosa di analogo a una società a responsabilità limitata. Ma, purché gli azionisti principali siano d'accordo, la società può essere trasferita come oggetto di proprietà a un altro piccolo gruppo che intenda comprarne tutte le azioni: quest'ultimo gruppo acquista allora le attività e l'avviamento, conservando però una responsabilità limitata nei confronti dei debiti. Se consideriamo società via via sempre più grandi, con azioni sempre più largamente disperse, la posizione muta. Può darsi che un'altra società (o un singolo individuo che disponga di cospicui mezzi finanziari) accosti singolarmente gli azionisti per persuaderli a vendere le loro quote, e che, alla fine, ne compri il 51%. Fatto questo, nella prima assemblea generale gli acquirenti possono estromettere gli amministratori in carica (talvolta questo processo richiede molto tempo, a causa della complessità delle norme di votazione), acquistando cosi il controllo dell'amministrazione; in altre parole, visto dagli amministratori in carica, il trasferimento è involontario. Oppure può darsi che gli amministratori in carica siano a loro volta importanti azionisti, e si accordino volontariamente per vendere la loro azienda cedendo le proprie azioni, capitalizzando quindi convenientemente il valore delle attività e del buon avviamento - che può per esempio concretarsi in una gamma di prodotti molto richiesti dai consumatori - che la loro capacità imprenditoriale ha precedentemente creato. Questa transazione è chiaramente più conveniente della vendita di una società a responsabilità limitata. Infine, se consideriamo una grossa società pubblica le cui azioni siano largamente distribuite e vengano largamente negoziate nelle borse nazionali e internazionali, la situazione è anche più singolare. Gli amministratori, avendo solo esigue frazioni del totale dei voti, non possono determinare direttamente il controllo della società. In tempi normali, il controllo dell'1 o del 2% dei voti può esser sufficiente a dominare l'assemblea generale; ma in momenti di crisi, ingenti transazioni di borsa possono alterare l'intera situazione in poche settimane. Un'altra compagnia, una banca, un gruppo di speculatori possono acquistare il 51% dei voti mediante transazioni sul mercato e quindi congedare al momento opportuno gli amministratori in carica. Oppure un gruppo di questo tipo può fare ‛offerte' essendo interessato al controllo di una società: può cioè annunciare al pubblico che pagherà una certa somma di denaro (di solito notevolmente superiore ai correnti prezzi di mercato) per ogni azione che gli venga ceduta, a condizione che il numero di azionisti che accettano l'offerta sia sufficiente a garantire il mutamento di controllo. L'amministrazione in carica deve difendersi da possibili offerte di questo tipo (note col nome di ‛offerte di acquisizione di controllo') evitando politiche tendenti a deprimere il prezzo delle azioni sul mercato; e può tentare di difendersi da un'offerta effettiva mediante una propaganda diretta a convincere la borsa che riuscirà a realizzare più profitti e dividendi dei concorrenti. Questi possono fare, naturalmente, una contropropaganda. Tra il 1950 e il 1970, prima a Londra, poi a New York e, gradatamente, anche nelle borse continentali, i tentativi di acquisizione di controllo divennero sempre più numerosi, al punto che, alla fine di tale periodo, una società industriale media quotata alla borsa di Londra aveva una probabilità su venti di essere vittima, in un anno qualunque, di un'offerta di acquisizione di controllo (v. Singh, 1971; v. King, 1971). È importante notare che, quando una società pubblica fa un'offerta per un'altra, l'offerta avviene solo in parte in contanti: l'equilibrio viene ristabilito cedendo a condizioni favorevoli azioni della società che ha fatto l'offerta. Di fatto, quindi, la ‛battaglia' per l'acquisizione di controllo diventa una gara basata sulla capacità di reddito che ci si aspetta per ogni unità d'investimento. Queste transazioni non sono tutte involontarie. Può darsi che gli alti dirigenti di due società vedano un vantaggio in un ‛matrimonio combinato' (un accordo in base al quale entrambi i gruppi conserveranno in qualche misura le loro cariche), e lo scambio di azioni in borsa divenga la forma più conveniente d'intesa. I moventi di queste fusioni, siano esse volontarie o involontarie, sono: a) i vantaggi della produzione o organizzazione su vasta scala; b) la maggior sicurezza finanziaria propria delle grandi aziende; c) l'acquisizione di potere monopolistico; d) la diversificazione; e) la conversione di alcuni beni, per esempio terreni, in impieghi più vantaggiosi. Le conseguenze economiche della tendenza alle fusioni, quale si potè constatare verso la fine del secolo, non sono state ancora valutate appieno. Alcuni osservatori ne sottolineano gli aspetti monopolistici, considerati indesiderabili; altri ritengono che il processo rappresenti un continuo ed efficace riordinamento della struttura amministrativa dell'industria: vengono eliminati teams manageriali inefficienti - si osserva - e le attività e la manodopera vengono stornate da impieghi ridondanti o poco remunerativi. In realtà alcuni dati mostrano che le ditte di cui si acquisisce il controllo hanno profitti minori e sviluppo più lento, in media, di quelle che acquisiscono il controllo; ma vi sono scarse prove del fatto che l'organizzazione così consolidata dia, in media, saggi di profitto maggiori della media ponderata dei saggi di profitto ottenuti dalle due organizzazioni nel periodo precedente alla fusione. In altre parole, l'efficacia oggettiva del processo di fusione è incerta. E comunque inevitabile che questo processo accentui la tendenza della produzione a concentrarsi nelle mani delle aziende maggiori; in media, le ditte che realizzano acquisizioni di controllo sono notevolmente più grandi di quelle che vengono a esser controllate.
Salvo il caso in cui sia soggetta a un'acquisizione di controllo, o quello relativamente raro in cui venga liquidata, una grande società ha oggi una vita potenzialmente illimitata. Nel settore delle piccole aziende, i tassi di ‛natalità' e di ‛mortalità' sono molto alti; ma tra le aziende maggiori la probabilità statistica di ‛scomparsa' per liquidazione o fusioni diminuisce decisamente, per diventare ancora minore per quelle di grandissime dimensioni. In che modo le aziende diventano grandi? Esse lo diventano perché sono capaci di continua crescita nell'arco di lunghi periodi, più lunghi della vita lavorativa dei singoli dipendenti. La crescita è dovuta non solo alle fusioni, ma anche al reinvestimento dei profitti (v. sopra), e all'assorbimento di finanziamenti esterni. Alcune aziende cresceranno per un periodo di vent'anni, con tassi medi fino al 7,5% all'anno, senza ricorrere nè a fusioni nè all'impiego di finanziamenti esterni (in vent'anni, un'azienda che cresce del 7,5% all'anno vedrà le proprie dimensioni accresciute di quasi quattro volte). Nel tradizionale sistema imprenditoriale, un'azienda non poteva svilupparsi al di là del punto in cui il singolo imprenditore o la sua famiglia poteva continuare a dirigerla efficacemente. Come è stato notato, in casi eccezionali, trattandosi di una famiglia molto numerosa, questa crescita poteva anche essere notevole. Ma nella grande maggioranza dei casi, i limiti obbligati della gestione del proprietario determinavano un livello di operazioni relativamente basso.
La società per azioni organizzata burocraticamente trasforma completamente questo problema. Il team manageriale, non più limitato da vincoli familiari, può crescere indefinitamente. Si è spesso supposto, tuttavia, che, col crescere delle sue dimensioni, un team amministrativo debba necessariamente diventare inefficiente per via delle difficoltà di coordinazione. Questo problema può essere esaminato con l'aiuto di alcuni esempi semplificati. Consideriamo dapprima il caso di un team il cui lavoro richieda che ciascun membro sia in comunicazione con ciascun altro. Il numero dei collegamenti necessari cresce approssimativamente in ragione del quadrato del numero dei membri. Oppure, se i membri sono disposti in una, catena gerarchica, nella quale gli errori possono venir fuori a ogni anello della catena, l'errore potenziale totale alla fine della catena, secondo ben note leggi statistiche, cresce linearmente con la lunghezza della catena. Il metodo tradizionale di organizzazione burocratica è la ‛piramide': il vertice ha, poniamo, cinque vicepresidenti; ogni vicepresidente ha cinque subordinati con funzioni direttive intermedie e così via fino a che, alla base, ogni operaio fa parte di un gruppo controllato da un solo caporeparto. Il ‛campo di controllo' (cioè il numero dei subordinati) non deve essere necessariamente costante in tutti i punti dell'organizzazione, ma è intenzionalmente limitato affinché nessun singolo individuo sia obbligato a venire a contatto diretto con un numero eccessivo di altre singole persone (questo è evidentemente il caso dell'organizzazione di base nelle forze armate). Le decisioni di vasta portata vengono prese dal vertice, sulla base delle informazioni provenienti dalla base, e vengono quindi trasmesse verso il basso per essere eseguite; in ogni punto di questo meccanismo esse sono sottoposte a una reinterpretazione che dà loro una forma più dettagliata e specifica di quella originaria; la direttiva generale, infatti, deve essere gradualmente trasformata in istruzioni specifiche per i singoli dipendenti (così, in un esercito, la direttiva: ‛l'esercito marcerà su Filippi' viene gradualmente trasformata in un gran numero di successive istruzioni dettagliate, come: ‛X, Y e Z marceranno verso quella collina seguendo un dato percorso', con conseguenti istruzioni a reparti specializzati come le salmerie ecc). La piramide è dunque un insieme complesso di catene dirigenziali, la cui lunghezza dipende dall'‛altezza', cioè dal numero di livelli gerarchici esistenti tra la base e il vertice. In un esempio puro della forma a piramide, l'altezza così misurata è data dal rapporto tra il logaritmo del numero dei dipendenti del livello base (che è una misura delle dimensioni dell'organizzazione) e il logaritmo del campo di controllo. Ne segue che l'altezza non cresce proporzionalmente alle dimensioni, salvo che, per qualche ragione, il campo di controllo si riduca. Quindi, un'organizzazione con 100 impiegati del livello base e un campo di controllo pari a 5 (occupazione totale 125) richiede soltanto un livello gerarchico in meno rispetto a un'organizzazione con 1.000 dipendenti del livello base (occupazione totale 1.350). Così secondo questo ragionamento, benché le grandi organizzazioni tendano a essere meno efficienti di quelle piccole, le conseguenze di tale tendenza sono limitate e in progressiva diminuzione. Inoltre, verso la metà del secolo, molte grandi società, specialmente americane, erano diventate abbastanza grandi da adottare quella che è nota come ‛forma pluridivisionale'. In questa forma, ogni prodotto è affidato alla responsabilità di una singola divisione, distinta dalle altre non solo riguardo al processo produttivo, ma anche riguardo alle vendite, allo sviluppo e al controllo finanziario. I capi delle divisioni sono dotati di notevole autonomia, e sono soggetti all'autorità della direzione solo per quanto riguarda l'allocazione di fondi d'investimento e le nomine più importanti. Essi vengono giudicati principalmente in base al loro successo finanziario e non hanno quindi bisogno di direttive operative dettagliate. Per questa via (che non rappresenta una soluzione ‛federativa' in quanto la direzione conserva un rigido controllo sulla strategia generale dell'organizzazione e impone alle divisioni una severa disciplina finanziaria), gli errori di comunicazione sono ridotti. Ma, a dispetto di tutto ciò, si ritiene ancora diffusamente che dimensioni elefantiache siano causa di debolezza amministrativa.
È stata avanzata l'ipotesi che il processo di trasmissione degli errori nella catena di comando non sia casuale; gli errori, in altre parole, si cumulerebbero. Se qualcuno passa una direttiva a un subordinato il quale, nella reinterpretazione e ritrasmissione, distorce la direttiva originaria in una certa direzione, è probabile che le successive distorsioni, nell'ulteriore movimento verso il basso, anziché tendere potenzialmente ad annullarsi, si muovano piuttosto nella stessa direzione. Questo fenomeno dipenderebbe dalla nota tendenza della mente umana, quando si trova dinanzi a informazioni non chiare, a tentare di indovinare il loro significato. La mente umana, diversamente dai calcolatori, ha la notevole e preziosa capacità di afferrare gli spunti basati su informazioni limitate, mentre un calcolatore, nella misura in cui si può supporre che ‛pensi', può farlo solo probabilisticamente. Si aggiunga inoltre che nelle organizzazioni burocratiche le informazioni sono intenzionalmente distorte, in quanto i responsabili della loro trasmissione hanno spesso un interesse concreto a tener nascosta la verità (un uomo soffocherà per esempio le informazioni che rivelino la sua inefficienza o tendano a minacciare la continuità del suo impiego). Se effettivamente gli errori si cumulano, può ben darsi che il risultato sia tale da superare i limiti illustrati sopra, e che, anche quando si adotti la forma pluridivisionale, abbia luogo, in una qualche misura, una perdita di controllo. Va però notato che il sistema pluridivisionale e altri meccanismi analoghi rappresentano sostanzialmente metodi per riacquistare il controllo, e come tali sono spesso efficaci.
A tutt'oggi, il dibattito su questi temi non si può ancora considerare concluso; benché in alcune industrie e in qualche paese si sia rivelata statisticamente, nelle aziende di grandissime dimensioni, una tendenza a realizzare profitti minori di quelle di medie dimensioni, una siffatta tendenza statistica generale non è però osservabile nel sistema industriale nel suo insieme. Le intrinseche inefficienze organizzative che tendono a manifestarsi nelle società di grandi dimensioni sono compensate da altri vantaggi, come il monopolio o la maggiore sicurezza finanziaria (quest'ultima in particolare fattore di grande importanza). Come un casinò ha minor probabilità di far bancarotta di un qualunque giocatore, così una società grande e diversificata richiede, per un dato grado di sicurezza, una liquidità minore di quella necessaria per una società più piccola e meno diversificata. (Sulla base d'ipotesi adeguate, si può mostrare che, per un dato grado di sicurezza, la riserva di liquido necessaria cresce solo in ragione della radice quadrata del volume d'affari). Lo stesso fenomeno può spiegare la notevole debolezza delle piccole organizzazioni; la più comune causa di crisi commerciale è la carenza di liquidità.
Se consideriamo insieme i vari aspetti discussi or ora, bisogna concluderne che nel sistema basato sulle società esiste una forte e quasi inevitabile tendenza verso una crescente concentrazione: vale a dire che, col passare del tempo, una porzione crescente del prodotto totale (o dell'intero capitale impiegato) si troverà nelle mani delle aziende più grandi. Nel Regno Unito, per esempio, all'inizio del sec. XX, come abbiamo già notato, solo una piccola parte dell'intero valore aggiunto della produzione proveniva dalle 100 maggiori imprese. Nel 1970, la cifra corrispondente era salita a più del 50% e, in base alla tendenza allora operante, ci si attende che salga al 75% nel 1985. Negli Stati Uniti le cifre indicano una tendenza analoga. Nel continente europeo, la tendenza sembrava meno accentuata, ma, negli ultimi venticinque anni, si è manifestata in modo ugualmente spiccato.
La natura di questo processo di concentrazione comunemente non è affatto intesa, benché alcuni studiosi di statistica economica l'abbiano compresa da molti anni. Già Marx formulò la sua ‛legge dell'accumulazione capitalistica' in una forma che presenta una somiglianza notevole con la teoria moderna, dovuta allo studioso francese R. Gibrat (v. Gibrat, 1929; v. Hart e Prais, 1956). Secondo questa teoria, la concentrazione può svilupparsi costantemente, anche in assenza di fusioni o di spinte verso espansioni monopolistiche. Essa non richiede neppure che tutte le aziende fiorenti prosperino continuamente; anzi si basa su un processo stocastico in cui i profitti e la crescita delle singole aziende componenti il sistema sono soggetti a continui disturbi casuali, le ‛frombole e i dardi della fortuna commerciale'.
Supponiamo che in un momento dato (per es. nel 1900), in un paese (poniamo gli Stati Uniti o il Regno Unito) esista un numero piuttosto grande di società (diciamo 10.000) tutte sostanzialmente delle stesse dimensioni (poniamo che per ognuna di esse l'intero capitale sia di $ 100.000). In altre parole, la produzione non si è ancora concentrata; siamo nel periodo di formazione del sistema societario. Supponiamo ora che, come conseguenza delle condizioni economiche generali predominanti, la crescita media nell'anno successivo di tutte le società, misurata in termini di attività, sia del 5% (cioè, secondo le cifre indicate, la ditta media aggiunge $ 5.000 alle sue attività, magari come conseguenza di un profitto di $ 10.000, dopo aver pagato le imposte e trattenuta la metà, mentre lo stock di capitale totale di queste società aumenta da $ 1.000 milioni a $ 1.050 milioni). I tassi di sviluppo delle singole società differiscono però in modo casuale, e si distribuiscono infatti secondo la distribuzione probabilistica normale o gaussiana. Cosi, benché il tasso medio di crescita sia del 5%, si riscontrerà che numerose ditte sono cresciute, per esempio, tra il 3 e il 7%. Un numero alquanto minore crescerà più del 7 o meno del 3%; un numero ancora minore farà registrare valori ancora più lontani dalla media e così via. Poniamo che sia s la varianza statistica (la media dei quadrati delle differenze tra i tassi di sviluppo individuali e il tasso di sviluppo medio) di questa distribuzione normale dei tassi di sviluppo. Poniamo che l'intero processo si ripeta l'anno seguente e in una cospicua serie di anni successivi e, per semplificare il discorso, supponiamo che in tutto questo tempo tanto il tasso di sviluppo medio quanto la sua varianza rimangano costanti. Facciamo ancora le seguenti ipotesi: a) durante il periodo considerato non si verificano fusioni o liquidazioni; b) non vengono fondate nuove società (più sotto esamineremo le implicazioni della caduta di questa ipotesi); c) non c'è alcuna correlazione statistica, nè positiva nè negativa, tra il reale sviluppo raggiunto da una ditta durante un dato periodo e le sue possibilità di sviluppo nei periodi seguenti: in altre parole, all'inizio di ciascun periodo, la distribuzione probabilistica del tasso di sviluppo atteso nel periodo susseguente è, per ogni azienda, uguale alla distribuzione probabilistica generale dei tassi di sviluppo, come l'abbiamo già definita, ed è completamente indipendente dalla storia passata della ditta. Quest'ultima ipotesi, cui si dà nome di ‛assenza di correlazione seriale', è di grande importanza. Essa viene introdotta al fine di dimostrare che la teoria non dipende dalla possibilità che il ‛successo generi il successo', cioè non implica che una ditta, la quale abbia avuto un successo commerciale superiore alla media in un dato periodo, abbia probabilità di successo superiori alla media nel periodo successivo. (Naturalmente, è più che probabile che nel mondo commerciale il successo generi davvero successo; d'altronde ha fondamento anche la tesi secondo cui, nella società moderna, il successo genera rilassamento e compiacimento di sé tra i dirigenti; v. Cyert e March, 1956; v. Singh e Wittington, 1968). Possiamo quindi dimostrare che, dopo un sufficiente periodo di tempo, la distribuzione delle dimensioni delle aziende, misurata per esempio in base alle attività, diventa approssimativamente ‛log-normale', con media logaritmica uguale a log (Y0+gt), e varianza logaritmica uguale a ts, dove Y0 è la dimensione media delle aziende all'inizio del periodo considerato (nell'esempio, 100.000), g il tasso di sviluppo medio (nell'esempio il 5%), ed s, come si è già indicato, è la varianza (non-logaritmica) dei tassi di sviluppo (distribuiti normalmente, non log-normalmente). Così una distribuzione normale dei tassi di sviluppo genera, nel tempo, una distribuzione log-normale delle dimensioni.
Circa questa distribuzione, possiamo fare un certo numero di osservazioni: a) caratteristica delle distribuzioni è il fatto di essere osservate empiricamente (v. Hart e Prais, 1956); b) quando viene ritrasformata nei numeri di partenza, la distribuzione manifesta un grado elevato e crescente di concentrazione, nel senso che le 100 imprese maggiori detengono una quota proporzionalmente sempre maggiore delle attività totali; c) benché le 100 maggiori grandi imprese aumentino la loro quota di attività e di produzione, la loro identità in quanto gruppo è in costante mutamento (la lista delle 100 aziende maggiori di oggi sarà solo parzialmente uguale alla lista delle 100 maggiori degli ultimi vent'anni: il sistema non rappresenta cioè un'oligarchia che si perpetua, benché ‛tenda' in quella direzione); d) date le ipotesi, il numero totale delle aziende non muta, sicché l'esistenza di un piccolo numero di grandi aziende che assorbono una quota elevata della produzione implica anche l'esistenza di un gran numero di piccole ditte responsabili di una piccola quota; in assenza di fusioni, l'economia societaria coesiste con un settore di enti di piccole dimensioni affollato, ma di peso ridotto. L'intero processo è dunque il risultato inevitabile delle istituzioni giuridiche e finanziarie della moderna impresa capitalistica, vale a dire il risultato dell'intrinseca capacità, propria dell'impresa capitalistica, di crescere in modo continuo benché incerto, nutrendosi dei frutti di continui - anche se incerti - sviluppi e profitti commerciali. Quando intervengono anche processi di fusione, il processo di concentrazione ne risulta fortemente accentuato, come è avvenuto in particolare negli ultimi anni. Il processo di concentrazione può essere invertito o ritardato solo da due fattori: la ‛nascita' di nuove società (che spesso in realtà rappresentano la capitalizzazione del successo di un'attività tradizionale già consolidata, nella forma di una società di persone o di una società a responsabilità limitata privata) e una correlazione seriale negativa dei tassi. Il secondo di questi fattori è già stato esaminato. Il primo è stato oggetto di un certo numero di ricerche teoriche ed empiriche (v. Simon e Ijiri, 1964), e veniva considerato un tempo come una possibile spiegazione della ‛pausa' nel processo di concentrazione che si determinò tra il 1930 e il 1950. Nella seconda metà del secolo, però, tutti gli effetti che ci si poteva aspettare da nuove ‛nascite' sono stati sopraffatti dalle conseguenze delle fusioni.
Per riassumere, nei capitoli precedenti si è osservato che il sistema e lo stile imprenditoriale emersi nel sec. XIX, e legati alla prima rivoluzione industriale, erano sostanzialmente uno sviluppo dello stile medievale. L'impresa del sec. XX ha inizio col rapido sviluppo di organizzazioni burocratiche capaci di crescere fino a dimensioni notevoli. In termini sociologici, queste organizzazioni, tanto nell'industria quanto nel commercio o nella pubblica amministrazione, vengono considerate come la soluzione razionale del problema del coordinamento in un periodo di crescente complessità e specializzazione tecnica. Così l'alienazione dell'individuo dal suo lavoro e dai mezzi di produzione, che nella concezione marxiana era un destino riservato al proletariato, può essere ora considerata potenzialmente estesa a tutta la società: la grande maggioranza dei ‛borghesi' devono lavorare in apparati burocratici di cui non sono proprietari e alla cui gestione essi partecipano efficacemente solo al culmine della loro carriera, e solo in caso di carriere fortunate. E stato suggerito (in particolare da T. Burns) che queste condizioni possono in qualche modo spiegare l'inquietudine diffusa quasi universalmente tra gli studenti universitari e i giovani laureati, verso la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. E stato mostrato poi che, dal momento che le grandi organizzazioni sono amministrativamente ed economicamente efficaci (se non ‛efficienti' sotto tutti i rispetti), esse hanno un notevole potenziale di crescita, e che, come risultato del processo stocastico sopra descritto, è quasi inevitabile che la produzione si concentri sempre più tra le organizzazioni maggiori e che queste diventino sempre più grandi. L'economia societaria è un sistema di economie concorrenziali pianificate in miniatura, circondato da un grandissimo numero di piccole aziende che, pur dando un ‛colore' alla vita economica, hanno poco ‛peso'. Il sistema si è mostrato notevolmente vigoroso nel promuovere i mutamenti tecnici, le innovazioni nei consumi e la crescita economica. Ma la sua ‛moralità' è stata molto discussa, al pari di quella del capitalismo tradizionale. Perciò il suo futuro è incerto, senza tener conto della concorrenza, reale o supposta, delle varie forme di socialismo. Di particolare interesse è il fatto che, una volta che le unità ‛imprenditoriali' divengano molto grandi, le premesse su cui A. Smith basava la necessaria conciliazione dell'interesse privato col vantaggio pubblico possono venir meno.
8. Impresa e teoria economica
Il ramo della teoria economica che si occupa dell'impresa e dell'imprenditore è noto come ‛teoria dell'azienda'. Curiosamente, nelle teorie del valore (vale a dire le teorie della determinazione del prezzo) degli economisti classici succeduti a Smith nella prima metà del sec. XIX, l'azienda non svolgeva alcun ruolo teorico esplicito, malgrado l'evidente ruolo implicito da essa svolto nella concezione smithiana della ‛mano invisibile'. In questa concezione - come si ricorderà - non esiste in realtà nessuna mano nascosta; piuttosto, sono le azioni indipendenti e interessate di un gran numero di unità economiche individuali - che in larga misura saranno delle aziende - a produrre risultati benefici ‛come se' fossero guidate da una mano invisibile. Per portare una teoria siffatta al di là di un livello puramente intuitivo, abbiamo evidentemente bisogno di una specifica teoria microeconomica circa la natura e il comportamento dei vari tipi di unità economiche. Per esempio, come abbiamo notato, e come A. Smith avvertiva bene, la ‛mano' non spingerà necessariamente in una direzione vantaggiosa, se gli imprenditori s'impegneranno in collusioni monopolistiche a vasto raggio. Nondimeno, nell'opera di Ricardo, di Nassau Senior e di J. St. Mill (i cui Principles of political economy vennero pubblicati nel 1848 e rimasero il testo dominante in tutte le università inglesi e in molte delle americane fino alla fine del secolo) e anche, naturalmente, in Marx (il primo volume di Das Kapital fu pubblicato nel 1867), la teoria del prezzo si basava sul costo di produzione (la cosidetta ‛teoria del valore-lavoro') cosicché il comportamento imprenditoriale non poteva avere un incidenza sul risultato complessivo, non poteva cioè incidere sulla struttura dei prezzi. Come ipotesi di lavoro, la teoria assumeva implicitamente che ogni singola azienda potesse produrre qualunque quantità di merci in condizione di ‛rendimenti di scala costanti': i costi medi di produzione, cioè, non tendevano nè a crescere nè a diminuire con l'espansione della ditta (è la stessa ipotesi, si noterà, che sta alla base della teoria della concentrazione aziendale delineata sopra). Si assumeva inoltre che la quantità di lavoro direttamente richiesta per produrre un'unità di una qualsiasi merce, e anche la quantità di lavoro incorporata nel capitale richiesto, fosse, analogamente, indipendente dalla scala della produzione dell'impresa di partenza, e quindi anche dalla scala della produzione nazionale della merce in questione. (Occorre sottolineare che, nella letteratura più antica, queste ipotesi non erano formulate in questo modo, ma, come abbiamo indicato, erano necessariamente implicite). Si presumeva che le quantità unitarie di lavoro diretto e incorporato richieste dalle varie merci fossero determinate dalle condizioni tecnologiche del tempo (si ricorderà che in generale l'impresa medievale e del periodo di transizione accettava passivamente le tecnologie vià via sviluppate da artigiani e da altri); esse sono note nella terminologia economica moderna col nome di ‛coefficienti fissi di produzione'. Poiché i coefficienti determinano la quantità di lavoro richiesta per ogni unità di produzione, se è noto il salario reale dell'operaio espresso nella quantità di merci prodotte che un'ora del suo lavoro può comprare - è nota anche la quantità di profitto, analogamente misurata. Il profitto è un surplus, la differenza tra salari e produzione. Dato anche il ‛coefficiente di capitale' - la quantità di lavoro incorporato nel capitale fisso per unità di produzione - ne seguiva che (dato il salario reale) era determinato il tasso di profitto sul capitale: il tasso di profitto infatti era uguale al prodotto per operaio (che costituiva esso stesso una sorta di coefficiente fisso) meno il salario reale per operaio, tutto diviso per il capitale per operaio (un coefficiente ottenibile dividendo il coefficiente prodotto/capitale per il coefficiente prodotto/operaio). Gli economisti classici assumevano che il salario reale non avrebbe mai superato il minimo necessario per la sussistenza del lavoratore, in quanto, sulle orme di Malthus supponevano che se il salario reale fosse stato superiore, la popolazione sarebbe aumentata vertiginosamente fino alla riduzione dei salari.
Per un'economia basata su una sola merce, come per esempio il frumento, la teoria era completa. In un'economia con molte merci, invece, il prezzo di ogni singola merce in relazione alle altre è ancora indeterminato, in quanto i tassi di salario reale necessari per il calcolo dei profitti relativi alle singole merci dipendono essi stessi dai rispettivi prezzi delle merci: così, se in un certo momento è necessaria una data quantità di denaro per mantenere un operaio e la sua famiglia per una settimana, i profitti ottenuti producendo una data merce dipendono dal prezzo di vendita di quella particolare merce o, più precisamente, dal livello di prezzo di quella merce in relazione alle altre merci. Siccome i prezzi relativi erano necessari per completare la teoria, essi non potevano essere determinati dalla teoria stessa. Il problema si risolveva parzialmente assumendo che il tasso di profitto fosse ovunque lo stesso e imponendo quindi un vincolo matematico suscettibile di portare a una soluzione unica. Nella soluzione ricardiana del problema restavano quindi molte grosse ambiguità che vennero risolte definitivamente solo con la comparsa, verso la metà di questo secolo, dell'opera di P. Sraffa (v. Sraffa, 1960). Ma ci furono anche altri economisti, operanti in una tradizione che può esser fatta risalire anch'essa alla prima metà del sec. XIX, specialmente l'importante e originale matematico francese A. Cournot (Recherche sur la théorie de la richesse, Paris 1838), più tardi seguito dall'austriaco C. Menger e da due inglesi, W. S. Jevons e F. Y. Edgeworth (questi ultimi attivi tra il 1870 e il 1890), i quali videro che, diversamente da quanto previsto dalla teoria classica, i prezzi delle merci dovevano dipendere non solo dal costo di produzione, ma anche dalla domanda. Per domanda intendiamo la forza soggettiva del desiderio del consumatore che, nell'esplicita supposizione di Menger, dipende dalla soddisfazione fisiologica che una merce fornisce. Nel sistema classico, il prezzo di una merce non era influenzato dalla forza della domanda del consumatore, in quanto il prezzo non era influenzato dal livello di produzione: se una merce era molto richiesta, sarebbe certo stata prodotta in quantità maggiori, ma il prezzo sarebbe rimasto lo stesso. Cournot vide in particolare che, appena si ammetta l'importanza della domanda, il comportamento dell'imprenditore ha la possibilità di svolgere un ruolo importante nella determinazione effettiva del prezzo. Per molti aspetti, i risultati raggiunti da Cournot non sono mai stati migliorati in seguito.
Come si ricorderà, la descrizione dell'imprenditore fatta da Cantillon sottintendeva che egli abitualmente vendesse i suoi beni al miglior prezzo possibile: nella terminologia moderna l'imprenditore era un price-taker (‛prendeva' il prezzo corrente del mercato e lo accettava). Nell'elaborazione di Cournot, si ammetteva invece che l'imprenditore potesse anche dover decidere ‛quanto' vendere al prezzo corrente. Si assumeva che egli volesse trarre il massimo profitto possibile dalla sua attività, e che ritenesse che le condizioni del mercato fossero tali che una variazione delle sue vendite non avrebbe apprezzabilmente influenzato i prezzi. Così, si vide facilmente che la produzione poteva aumentare fino a che il costo aggiuntivo di un'unità ulteriore non fosse maggiore del prezzo, in altre parole finché, aumentando la produzione di un'unità, il profitto cresceva invece di diminuire.
Ma questa teoria è ancora indeterminata, a meno che non si presupponga che i costi unitari, di fatto, non salgano col crescere della produzione. Altrimenti, se i costi unitari fossero inferiori al prezzo, e non aumentassero progressivamente, la produzione ottimale sarebbe infinita. Così fu necessario assumere che, se per una qualche ragione l'azienda ingrandisce, i costi salgono. Nelle prime versioni di questa teoria, sembrava che l'aumento dei costi fosse dovuto alla scarsità di capitale, ma questa spiegazione, evidentemente, vale solo per una teoria a breve raggio, se il capitale può a lungo termine essere aumentato. Nelle interpretazioni novecentesche si presumeva invece, implicitamente o esplicitamente, che le cause dell'aumento dei costi andassero ricercate nelle difficoltà di coordinazione, quali le abbiamo esaminate sopra (v., per es., Robinson, 1934; v. Marris, 1972). Comunque sia, l'ipotesi di un aumento dei costi costituisce il presupposto della cosiddetta teoria neoclassica del valore, elaborata nei particolari da A. Marshall e altri alla fine del sec. XIX, teoria che rimase in auge in molti ambienti per tutto il mezzo secolo successivo. Se un grande gruppo di aziende di una branca della produzione si comportano come price-takers, la quantità totale della merce offerta in vendita, qualunque sia il suo prezzo, deve essere tale che in ciascuna azienda il costo aggiuntivo dell'ultima unità aggiunta alla produzione è praticamente uguale a quel prezzo. In tali condizioni ogni ditta realizzerà il massimo profitto e non avrà voglia di variare la sua produzione. Se poi si assume che la quantità della merce richiesta dai consumatori dipende anche dal prezzo - nel senso generale che più alto è il prezzo, più bassa è la quantità richiesta - si ottiene un'unica soluzione che determina sia il prezzo sia la produzione dell'industria. L'univocità del risultato deriva da tre esigenze di equilibrio, cioè: a) la quantità richiesta è pari alla quantità offerta in vendita; b) la quantità offerta in vendita dipende dal prezzo determinato dai crescenti costi di produzione; c) la quantità richiesta diminuisce in ragione degli aumenti del prezzo.
Espresso in linguaggio matematico il ragionamento può essere così formulato: prendiamo un'industria costituita da l, ..., i, ..., N aziende, e poniamo Ci=Ci(qi), dove Ci rappresenta i costi totali di produzione e qi la produzione totale, rispettivamente, della ditta i. Poniamo QD=D(P), dove QD rappresenta la ‛domanda totale', cioè il numero totale di unità di merce richieste all'acquisto da tutti i clienti dell'industria (questa non va definita come la somma delle quantità richieste da ogni i, in quanto la quantità richiesta per ogni data i è indeterminata); P rappresenta il prezzo corrente della merce. La derivata prima della funzione costo, simbolizzata da C′(qi), è sempre positiva, e la derivata prima della funzione domanda, simbolizzata da D′, è sempre negativa. La condizione perché i massimizzi (Pqi−Ci (i profitti), e quindi sia in equilibrio (cioè non richieda mutamenti nella sua offerta alla vendita), è Ci′=P. Ma Ci′ è a sua volta funzione di qi, il che può essere scritto in forma inversa: qi=S(Ci′). Così, l'equilibrio dell'azienda implica qi=S(P). La quantità totale offerta in vendita sarà perciò N•S(P). La condizione di equilibrio per l'industria (quantità totale richiesta uguale alla quantità totale offerta in vendita) è perciò D(P)=N•S(P). Si può vedere che, perché esista equilibrio per una certa produzione, maggiore di zero e minore d'infinito, la funzione costo deve essere di forma tale che C″(qi) sia positiva quando qi è zero, e che C″(qi) diventi negativa per qualche qi finito positivo.
Questo è un equilibrio a breve termine. I profitti sono stati massimizzati, ma, date le condizioni immediate, il ‛massimando' potrebbe essere alto o basso. In questa versione della teoria si assumeva quindi che il sistema imprenditoriale, nella sua tradizionale funzione di ricerca del profitto avrebbe assicurato, nel caso di profitti alti in modo anormale, l'ingresso di nuove aziende nel settore, aumentando così la produzione e abbassando il prezzo; nel caso di profitti bassi, si sarebbe verificato l'opposto (nelle equazioni sviluppate sopra l'adattamento consiste in un cambiamento in N). Così, dato il ‛tasso di profitto normale nell'economia', nell'industria in questione il prezzo di lungo termine risultava determinato in modo univoco. Va notato però che l'univocità del risultato dipendeva dal fatto che venivano presi come dati i prezzi di tutte le altre merci, insieme con i tassi salariali correnti e il tasso di profitto. Non è questa perciò una teoria atta a determinare tutti i prezzi dell'economia in condizioni di equilibrio generale.
Il pioniere delle teorie del prezzo in condizioni di equilibrio generale fu L. Walras, professore di economia politica presso l'Università di Losanna verso la fine del secolo scorso. Ma la sua teoria, al pari della teoria classica, supponeva coefficienti di produzione fissi e lasciava indeterminate le dimensioni dell'azienda. Le teorie moderne dell'equilibrio generale concorrenziale, come quelle di Debreu (v. 1959) e Mackenzie (v., 1959), riescono invece a deterininare tutti i prezzi, nonché le dimensioni e la produzione di tutte le aziende, assumendo però che per ragioni imprenditoriali o manageriali i ‛rendimenti di scala' siano decrescenti, cioè che i costi unitari totali si espandano implicitamente con le dimensioni. In queste teorie rivive la ‛mano invisibile', in quanto dimostrano che l'equilibrio generale risultante è unico e ottimale nel senso di V. Pareto; cioè, una volta realizzato quest'equilibrio attraverso il meccanismo concorrenziale (in cui ogni unità attiva dell'economia adotta la politica per sé più vantaggiosa, dato il sistema di prezzi con cui nel momento dato ha a che fare), è impossibile calcolare qualunque riassestamento dello schema di produzione capace di consentire a tutti i membri della popolazione di migliorare la propria posizione. Il mutamento economico che altera l'equilibrio può ridistribuire il reddito, ma non può aumentare il benessere generale, salvo che, per qualche ragione, non si ritenga che l'acquisto morale derivante alla società dall'aumento di reddito di un gruppo superi l'eventuale perdita connessa alla riduzione del reddito di un altro gruppo. Nella loro forma moderna, queste teorie sono in grado anche di determinare i ‛metodi' di produzione scelti dagli imprenditori in modo tale che i metodi stessi siano insieme ottimali per le aziende (cioè atti a massimizzare i profitti) e ottimali (nel senso di Pareto) per la società.
Si sarà visto che, in queste teorie concorrenziali, il ruolo dell'imprenditore, benché significativo, non è straordinario. Gli si chiede di calcolare, sulla base di fatti noti, la sua produzione ottimale. Inoltre, egli non può espandere la sua sfera al di là di un certo limite, in forza della premessa dei ‛rendimenti decrescenti', senza i quali la stabilità dell'equilibrio concorrenziale è sempre incerta. E possibile tuttavia formulare teorie anche nel caso di rendimenti crescenti, purché si presupponga la presenza di un elemento monopolistico. Torniamo così di nuovo a Cournot. Egli supponeva un ‛monopolista' che non fosse price-taker. Al contrario, questo imprenditore sapeva che, per aumentare le vendite, doveva permettere riduzioni dei prezzi. Le ulteriori entrate, ottenute dai successivi incrementi del prodotto offerto in vendita, erano perciò decrescenti e, quando fossero scese a un livello non maggiore del costo addizionale di produzione, i profitti erano massimizzati. Questo tipo di teoria determina univocamente prezzo e prodotto finito anche se i costi addizionali di produzione non sono crescenti (cioè senza ricorrere ai rendimenti decrescenti) e ammette persino che essi calino. (Nelle equazioni precedenti, la produzione ottimale per il massimo profitto monopolistico si ottiene quando a) QD≡qi≡Q (che è la definizione dell'esistenza del monopolio) e b) Q•P−Ci=Max, il che si verifica quando d(P•QD(P))/dQ=C′(Q)=C′(Q). A condizione che C(Q) sia positivo per ogni Q positivo, ciò darà sempre un prezzo finito positivo e una produzione finita positiva anche se Q″(Q) è negativo per ogni (Q). Ma solo nel 1971 le teorie monopolistiche sono state analizzate in condizioni di equilibrio generale per rendimenti costanti o crescenti (v. Arrow, 1971).
Le teorie della concorrenza monopolistica, così come le abbiamo accennate sopra, limitano il ruolo dell'imprenditore per un altro aspetto importante, assumendo cioè che egli sia veramente un monopolista, nel senso che il suo principale ‛avversano' sia il consumatore. Più precisamente, queste teorie assumono che l'imprenditore ritenga che le cose stiano in questi termini. Può darsi certamente che esistano altre aziende che producano sostituti prossimi, ma non perfetti, del suo prodotto, e che i prezzi da queste praticati influiscano sulla domanda del suo prodotto, ma queste teorie suppongono che, nello stabilire i suoi prezzi, l'imprenditore ignori tali aziende. Più precisamente, egli suppone che, qualunque sia il prezzo praticato dagli altri, essi continueranno a praticano senza tener conto del prezzo da lui praticato. E allora possibile esaminare l'equilibrio ultimo raggiunto dopo una serie di azioni siffatte, per cui ogni azienda riaggiusta i suoi prezzi sulla scorta di quello che è accaduto ai prezzi della concorrenza, senza sforzarsi mai di apprendere dall'esperienza e di anticipare le reazioni. È naturalmente probabile che questo processo conduca a successive riduzioni di prezzi che tutte le aziende, se avessero anticipato le conseguenze, avrebbero preferito evitare.
Una teoria alternativa, nota come teoria dell'oligopolio, tenta di prendere in considerazione la possibilità che imprenditori in forte concorrenza tra loro si comportino più realisticamente. Siffatte teorie, benché più convincenti nel loro orientamento generale, sono inficiate da indeterminazione, ovvero diventano determinate solo sulla base di arbitrarie ipotesi di comportamento. Lo stesso Cournot studiò una forma primitiva di oligopolio, e nei limiti del calcolo differenziale diede alla teoria uno sviluppo non lontano da quello che doveva raggiungere in seguito: in particolare, egli riuscì a definire l'equilibrio che deve esistere tra un piccolo gruppo di concorrenti strettamente interdipendenti, se ognuno, successivamente, sceglie la politica atta a massimizzare i suoi profitti nella supposizione che le politiche degli altri rimangano immutate (malgrado il fatto che, all'occorrenza, esse non possano restare immutate). Questo equilibrio è stabile a condizione che persista tale comportamento ‛miope'. Non c'è però alcuna forma di equilibrio nell'ipotesi di un comportamento diverso. Supponiamo, per esempio, che ogni concorrente assuma che, se egli adotta una particolare politica, gli altri sceglieranno la propria politica in funzione della sua. Si verifica allora una particolare combinazione di politiche, nella quale nessuno dei concorrenti vorrà alterare la sua produzione (nell'ipotesi della massimizzazione dei profitti), che implica l'esistenza di un prezzo unico, anche se le ipotesi dei due proprietari circa le loro reazioni reciproche non sono coerenti. Ma c'è una sola ‛soluzione' siffatta per ogni coppia d'ipotesi sulle reazioni, e poiché queste ipotesi sono arbitrarie, le soluzioni non sono veramente univoche e, non essendo tali, sono potenzialmente instabili. La soluzione di Cournot descritta sopra è in realtà un caso speciale di questa tesi generale. Nel caso generale, ciascuna azienda si aspetta che l'altra manifesti una qualche reazione (arbitrariamente definita) alla propria azione; nel caso speciale, la reazione attesa è (arbitrariamente) supposta uguale a zero. Agli occhi moderni, questo teorema implica che, in condizioni di oligopolio, la ‛massimizzazione del profitto', cioè una soluzione ottimale ottenuta col calcolo differenziale, sia insensata, in quanto le funzioni che interessano non possono essere convenientemente definite.
Le moderne teorie del comportamento oligopolistico sono state fortemente influenzate da idee elaborate nell'ambito della teoria dei giochi, cioè la teoria matematica - dovuta a J. von Neumann e O. Morgenstern - del comportamento razionale generale in situazioni di conflitto nelle quali, per decidere quale sia per noi la mossa migliore (come in un gioco, per es. il bridge), è necessario tener conto delle potenziali reazioni di tutti gli avversari (v. von Neumann e Morgenstern, 1947; v. Shubik, 1960). Nell'oligopolio, gli avversari sono concorrenti commerciali. L'oligopolio è una situazione che viene indicata col nome di gioco a ‛somma non-costante', nel senso che tra quanti sono identificati come giocatori (un gruppo di venditori) la somma delle vincite non è uguale alla somma delle perdite e, di conseguenza, è possibile individuare mosse combinate (come un generale aumento dei prezzi) che migliorino la condizione di tutti, a spese, naturalmente, del consumatore. Se il consumatore è concepito come un giocatore, si ha un gioco a somma nulla; ma, se i consumatori sono molti e passivi, questo approccio non è molto fruttuoso. In un gioco a somma non-costante, se si suppone che l'avversario condurrà sempre una politica miope, o almeno se non si ha alcuna ragione di supporre che non lo farà, è meglio adottare una strategia difensiva intesa a massimizzare la propria vincita minima, per esempio a scegliere il prezzo che massimizzi i propri profitti nell'ipotesi che l'avversario fisserà un prezzo basso. Ma se tutti e due i giocatori possono per qualche ragione comportarsi in modo meno concorrenziale, entrambi possono avere risultati migliori. Il problema centrale è però il seguente: dato che per entrambi i giocatori è potenzialmente disponibile una vincita netta, in che modo questa dovrebbe esser divisa tra loro? In termini diversi, supponiamo che due concorrenti pratichino prezzi abbastanza alti, tali che il totale del profitto monopolistico sia ugualmente ripartito tra loro. Per un giocatore - che sia magari commercialmente forte e ambizioso - c'è sempre la tentazione di ridurre il suo prezzo in modo tale da aumentare i profitti. Egli è trattenuto dal pensiero che l'altro giocatore può render la pariglia, ma può nondimeno intraprendere l'azione nélla speranza di indurre l'altro giocatore (il quale sarà anche lui danneggiato da una guerra dei prezzi) a cedere una parte della sua quota del mercato. In altre parole, mentre il comportamento di ‛cooperazione' è più razionale del comportamento ‛concorrenziale' - e si osserva molto frequentemente nella pratica - il risultato è indeterminato. Infatti, la situazione è in qualche modo simile a un processo di contrattazione, ed è stato suggerito che l'esito è probabilmente la tacita accettazione delle quote di mercato basate sulla forza di contrattazione, definita in riferimento alle previste perdite rispettive dei giocatori nel caso di un'interruzione della cooperazione (v. Harsanyi, 1966). Queste teorie approdano a soluzioni univoche, ma, non potendo prendere in considerazione gli effetti delle pure minacce (per esempio, un giocatore minaccia di comportarsi in un modo che lo danneggerà, allo scopo di danneggiare l'altro attuando un bluff coercitivo), le teorie non sono a loro volta univoche. Nella misura in cui il processo di concentrazione nell'economia societaria è strettamente connesso con lo sviluppo dell'oligopolio, pare che i risultati del funzionamento del sistema dei prezzi nel nostro secolo siano indeterminati in un senso piuttosto radicale. A. Smith sosteneva che agli imprenditori si doveva permettere di perseguire una politica d'illuminato interesse personale, a condizione che essi non ‟cospirassero contro il pubblico interesse" attraverso accordi miranti a fissare i prezzi. Ma l'ipotesi di una cooperazione in condizioni di oligopolio non implica assolutamente la necessità di una collusione diretta; a condizione che i prezzi possano di tanto in tanto essere riaggiustati, in modo tale che ogni giocatore abbia qualche protezione dal pericolo di essere vittima di un doppio gioco, essi possono ‛insegnarsi' a vicenda che il modo migliore per ricercare l'interesse personale non consiste affatto nel ridurre i prezzi. È osservazione comune che talvolta scoppiano delle guerre di prezzi tra gli oligopolisti, ma si tratta generalmente di minacce occasionali piuttosto che di una concorrenza permanente.
La minaccia di una concorrenza potenziale o ‛nuova' è anch'essa uno dei fattori principali che l'oligopolista prende in considerazione. E stato suggerito che questa minaccia rappresenta uno dei fattori principali che impediscono ai prezzi determinati oligopolisticamente di salire troppo, ed è stato mostrato che probabilmente questo fattore è tanto più efficace quanto più deboli sono le barriere all'entrata, quali la necessità di grandi quantità di capitale, la fedeltà dei consumatori alle marche esistenti del prodotto, ecc. (v. Bain, 1956; v. Sylos-Labini, 1956). Alcuni dati empirici indicano che, dato che i tassi di profitto dell'economia delle società variano in misura molto notevole da industria a industria, questa variazione può essere in parte spiegata mediante differenze misurabili dai livelli delle barriere all'entrata (v. Mann, 1966). Una parte più cospicua di questa variazione è però connessa, per ragioni che esamineremo sotto, alla differenza tra i tassi di crescita delle industrie. A rigor di logica però il potenziale nuovo concorrente è rappresentato come una pura estensione del ‛gioco'; ed è stato mostrato che concettualmente il suo inserimento nei modelli oligopolistici basati sulla teoria dei giochi, benché possa modificare in modo significativo e interessante il risultato, non ripristina affatto, anche in assenza di ‛barriere', l'equilibrio classico (v. Marris e Wood, 1971, pp. 299-300).
È stato già notato che un oligopolista non può sensata- mente massimizzare i suoi profitti. Più in generale, nelle condizioni attuali, le società manifestano una notevole ‛discrezione' circa le politiche da adottare, in quanto la natura della concorrenza oligopolistica tra grandi società non è assolutamente tale da render fruttuoso un tipo di comportamento univoco.
Di conseguenza, le teorie si sono basate sull'ipotesi che le società perseguiranno politiche direttamente orientate in conformità dei desideri e delle necessità dei dirigenti, come il desiderio di più alti salari, il desiderio di un gran numero di subordinati, il desiderio di vedere espandersi l'organizzazione stessa al fine di fornire ai dirigenti maggior prestigio, sicurezza, possibilità di avanzamento e un più ampio flusso finanziario da cui trarre, in seguito, maggiori salari. Le principali teorie di questo tipo sono state proposte da O. E. Williamson e R. Marris, con contributi ulteriori di W. Baumol e J. H. Williamson (v. Penrose, 1959; v. Marris, 19682; v. O. E. Williamson, 1964; v. Baumol, 1959 e 1962; v. J. G. Williamson, 1966). Inoltre, E. Penrose, al pari di R. Marris, ha esaminato specificamente le teorie della crescita delle società sul lungo periodo. Alcune implicazioni dì queste teorie sono esaminate più avanti. Si è sviluppata anche un'importante scuola, nota come scuola ‛comportamentistica', basata sulla convinzione che le teorie fondate sull'ipotesi della massimizzazione fanno propria un'errata concezione della psicologia umana. In pratica, le decisioni imprenditoriali non dipendono da un numero esiguo di variabili, come il prezzo e la produzione, connesse a fatti ben definiti, come la variazione della domanda col prezzo o del costo con la produzione. Le decisioni imprenditoriali sono tipicamente complesse e si basano su fatti intrinsecamente incerti. In siffatte situazioni, la mente umana è incapace di calcolare una soluzione ottimale, e adotterà invece - come sostengono i comportamentisti - regole empiriche per determinare decisioni che siano ‛abbastanza buone' (che per esempio producano profitti sufficienti alla sopravvivenza). I nomi dei principali esponenti di questa scuola, sviluppatasi presso la Carnegie University di Pittsburgh (Pennsylvania) negli anni cinquanta, sono: R. M. Cyert e J. G. March (v., 1963). Essi hanno mostrato che è possibile adoperare empiricamente queste teorie in una quantità di applicazioni, ma rimane controversa la validità globale del loro approccio (malgrado l'evidente acutezza delle loro posizioni), e in particolare la sua applicabilità ai più elevati livelli decisionali nelle aziende.
Tutte queste nuove teorie pongono sempre più in questione il concetto neoclassico di equilibrio, benché taluni autori - per esempio Alchian e altri - (v. Alchian e Kessel, 1962; v. Manne, 1965), abbiano tentato di ripristinare il concetto teorico di equilibrio supponendo che il processo di acquisizione di controllo in borsa, descritto sopra, sia abbastanza intenso da incentivare il comportamento inteso a massimizzare i profitti. Quest'ipotesi, peraltro non provata, non risolverebbe comunque il problema dell'ambiguità della ‛massimizzazione' in condizioni di oligopolio. Nè potrebbe un'ipotesi siffatta risolvere i gravi problemi psicologici suscitati da uno dei principali fenomeni dell'impresa novecentesca, non ancora esaminato, cioè l'evidente potere del produttore d'influenzare il consumatore mediante la pubblicità. J. K. Galbraith (v., 1967) è giunto ad affermare che il produttore può praticamente determinare la domanda del consumatore, ma la sua posizione è considerata esagerata. Tuttavia è chiaro che tutto il concetto di un modello ottimale di produzione va incontro a una notevole scossa non appena le domande o le ‛soddisfazioni', su cui si suppone esso sia basato, si rivelino a loro volta come il risultato di un'attività imprenditoriale nell'industria pubblicitaria.
Per ricapitolare, nel sistema economico fondato sulle idee classiche, l'imprenditore aveva un ruolo decisivo rispetto al sistema dei prezzi, quello cioè di ottimizzare il meccanismo della produzione a vantaggio della società, secondo la teoria della ‟mano invisibile" di Smith. Gli effetti della concentrazione delle aziende, dell'oligopolio, del potere discrezionale dei dirigenti e della pubblicità, che si registrano nella seconda metà (o negli ultimi tre quarti) del sec. XX nell'ambito del sistema societario, hanno largamente contribuito a distinguere la credibilità dell'intero concetto, senza necessariamente implicare che le caratteristiche più generali di questo tipo di sistema economico siano necessariamente meno desiderabili, dal punto di vista sociale, di quelle di possibili sistemi alternativi.
9. Impresa e sviluppo economico
Abbiamo già esaminato il ruolo dell'impresa nei mutamenti istituzionali e tecnologici connessi con le prime rivoluzioni industriali. Ci occuperemo ora della relazione, più strettamente teorica, tra teoria dell'azienda e teoria della crescita economica. A questo livello, il modello che sviluppava nel modo migliore i classici era quello di Marx. L'imprenditore capitalista borghese era indotto ad accumulare capitale traendolo dai profitti delle sue attività. In conseguenza di ciò, il capitale e la produzione della sua impresa sarebbero effettivamente cresciuti come sarebbero cresciuti lo stock di capitale e la produzione totale del sistema. Ma, col trascorrere del tempo, le opportunità di espandersi con profitto sarebbero diminuite per la carenza di terra, di lavoro o di domanda. Il tasso di profitto sui nuovi investimenti sarebbe diminuito, quindi anche il tasso di accumulazione. Questa caduta del tasso di profitto e di accumulazione avrebbe cosi rappresentato una contraddizione dinamica del capitalismo, tale da condurlo al crollo. Nella versione leniniana, la caduta del tasso di profitto portava all'imperialismo e alla guerra. Ma, diversamente dalla previsione di una crescente concentrazione, la previsione marxiana di una caduta del tasso di profitto non si è avverata, in quanto il persistente progresso tecnico ha sostenuto la costante ascesa della produttività del lavoro, allontanando quindi costantemente, anche in mancanza d'incremento demografico, il momento dell'esaurimento delle risorse di lavoro. Inoltre, com'è noto, la popolazione ha continuato a crescere. La domanda di beni di consumo non è stata saturata: il progresso tecnico e le innovazioni nei consumi hanno creato nuove merci cosicché i bisogni (o almeno i desideri) hanno continuato anch'essi a espandersi. Nella misura in cui la ‛domanda' di tempo libero è anch'essa cresciuta, si sono avuti aumenti complementari nella domanda di merci per il tempo libero. (È degno di nota però il fatto che, se la domanda di tempo libero dovesse crescere a un ritmo più rapido della domanda di tutte le merci, comprese le merci per il tempo libero - compresi a loro volta i servizi pubblici per il tempo libero, ecc. -, allo scopo di mantenere costante l'utilizzazione dell'attività produttiva, siccome il puro tempo libero non richiede capitale, il tasso di accumulazione del capitale dovrebbe diminuire. Nella concezione marxiana, e in alcune teorie moderne, ciò vuol dire che il tasso di profitto decresce necessariamente, in quanto, essendo i profitti usati principalmente nell'accumulazione, sono necessari minori profitti. Se il necessario processo di adattamento comporti delle crisi è un'altra questione).
Talune teorie moderne, derivanti da lavori originali di R. F. Harrod e E. Domar degli anni quaranta, tengono conto in modo più specifico del progresso tecnico; e negli ultimi tre decenni si è sviluppata una vastissima letteratura concernente tanto i paesi sviluppati quanto quelli in via di sviluppo (v. Hahn e Mathews, 1964). Ma fino agli anni settanta queste teorie non si sono granché interessate alrapporto tra la teoria dell'azienda e le ipotesi più generali su cui esse stesse si fondavano. Per comprendere gli sviluppi successivi è necessario esaminare rapidamente i caratteri fondamentali di queste teorie esclusivamente macroeconomiche. Immaginiamo un'economia in cui ogni anno una certa percentuale fissa (s) del reddito totale delle persone e delle società viene risparmiata, cioè non spesa in beni di consumo, ma depositata nelle banche, trattenuta sotto forma di contante, o convertita in titoli finanziari. Ne segue che, della produzione totale dell'economia di quell'anno (chiamiamola Y) la quantità sY non obbedisce alla ‛legge di Say', cioè non crea un'equivalente quantità di domanda. Si dice che la somma sY ‛esce' dal sistema circolare costituito da produzione, reddito e spesa. Say in modo implicito e Ricardo specificamente (e implicitamente tutti gli economisti tra Malthus e Keynes) supponevano che una siffatta ‛fuoruscita' dovesse automaticamente rientrare in circolazione in quanto, posta in banche ecc., essa doveva automaticamente essere offerta agli imprenditori e da essi accolta sotto forma di prestiti con cui acquistare nuovi beni capitali. I conseguenti acquisti di beni capitali avrebbero compensato i limiti della domanda; in questo modo risultava che, dato un qualunque livello di produzione Y, si sarebbe sempre automaticamente generata una quantità di domanda totale sufficiente appunto ad acquistare Y. Il rifiuto opposto da Malthus a questa argomentazione era in larga misura intuitivo. Il rifiuto di Keynes fu più articolato e specifico, e non c'è qui bisogno di parlarne in modo particolareggiato; sarà sufficiente un piccolo esempio: se viene depositato in banca del denaro, non è scontato che aumentino i prestiti della banca per nuovi progetti di investimento, in quanto, dato il livello di fiducia del momento negli affari, può darsi che nessun imprenditore in quel momento sia disposto ad aumentare la sua capacità produttiva. Invece può accadere semplicemente che salga il rapporto tra le riserve di liquidità e la passività totale delle banche. In questo caso gli acquisti totali di merci cadranno al di sotto della produzione totale e potrà risultarne un calo dell'attività economica, o un ‛crollo'. Per conservare l'equilibrio, è necessario che gl'investimenti totali che il settore imprenditoriale dell'economia desidera promuovere si trovino a essere uguali al risparmio totale che il pubblico desidera offrire. Dato l'indice s, il risparmio totale varia col reddito, sicché, se un particolare livello di reddito (supposto uguale al valore della produzione totale in forza del pagamento dei salari e degli stipendi e della realizzazione dei profitti) deve rappresentare un livello di equilibrio, dev'esserci un unico livello di investimento. Da ciò segue che, se definiamo Y′ come il livello di produzione e di reddito connesso alla piena utilizzazione dello stock globale di capitale esistente, per mantenere la completa utilizzazione occorre che l'investimento totale sia in ogni momento sY′. Ma l'investimento totale rappresenta l'incremento annuo dello stock di capitale stesso, sicché l'equilibrio necessario è un equilibrio mobile: dato che lo stock di capitale cresce col tempo, anche Y′ cresce col tempo. Supponiamo per semplicità che ci sia una relazione fissa tra le dimensioni dello stock di capitale K e la capacità produttiva Y′, tale che K=vY′ (v è un coefficiente tecnico, il reciproco della produttività media del capitale). Allora l'investimento necessario per l'equilibrio mobile, cioè sY′, deve implicare che lo stock di capitale cresca annualmente al tasso proporzionale sY′/K, da cui, sostituendo vY′ a K, si vede facilmente che l'equilibrio mobile comporta un tasso annuo proporzionale di crescita del prodotto s/v. Questo tasso di crescita era indicato da Harrod col nome di tasso di crescita garantito (warranted rate of growth). Nessun altro tasso di crescita è compatibile con il mantenimento di una costante utilizzazione delle capacità produttive.
Sulla base delle ipotesi fatte, l'equilibrio mobile è instabile, in quanto, se il tasso di investimento scelto dalle aziende è minore di quello necessario per sostenere il tasso di crescita garantito, la carenza di domanda causerà una progressiva sottoutilizzazione delle capacità produttive, inducendo quindi le aziende a ridurre ulteriormente i nuovi investimenti. Per converso, se il tasso di crescita ‛desiderato' è momentaneamente al di sopra di quello garantito, la domanda supererà via via le capacità, portando a un esagerato ottimismo economico e a un ulteriore aumento del tasso ‛desiderato'. Harrod introdusse però anche il concetto di tasso di crescita ‛naturale' del sistema. Si tratta del tasso di crescita dello stock di capitale totale appena sufficiente a mantenere costante l'utilizzazione della forza lavoro disponibile. In assenza di sviluppo della produttività del lavoro, il tasso naturale di sviluppo era evidentemente uguale al tasso naturale di sviluppo della popolazione lavorativa. In mancanza d'incremento della popolazione, ma in presenza di progressi tecnici che aumentino la produzione per operaio, il tasso naturale di crescita era esattamente uguale all'incremento annuo proporzionale della produttività del lavoro (il quale tasso era infatti definito come ‛tasso di progresso tecnico'): se la produttività del lavoro saliva, ad esempio, del 5o% supponendo una piena utilizzazione delle capacità, sarebbe stato necessario espandere le capacità produttive del 5% al fine di trovare occupazione ai lavoratori che altrimenti sarebbero rimasti senza lavoro. In presenza sia d'incremento della popolazione, sia di progresso tecnico, il tasso di crescita naturale era approssimativamente uguale alla somma aritmetica dei due tassi. Così, per una stabile crescita dell' economia come costante utilizzazione tanto del lavoro quanto del capitale era necessario che il tasso garantito fosse uguale al tasso naturale, cioè l'equazione generale dell'equilibrio mobile era gp+gT=s/v, dove gp era il tasso d'incremento naturale della popolazione lavorativa, espresso in percento annuo, gT il tasso di sviluppo della produttività del lavoro (progresso tecnico) misurato analogamente, s la percentuale del reddito risparmiato (cioè non speso in beni di consumo) e v il valore del capitale necessario per produrre il valore di un dollaro. Poiché nell'argomentazione iniziale tutte queste variabili erano trattate come coefficienti di comportamento o tecnici, e poiché il tasso di crescita effettivo era a sua volta instabile, se ne inferì l'improbabilità che, senza una modificazione delle ipotesi, un'economia retta da questa teoria potesse effettivamente crescere in modo stabile. La vasta letteratura successiva, già menzionata, si è dedicata a sviluppare e perfezionare questo modello base, e in particolare a suggerire ipotesi per ridurre l'instabilità in esso implicita e cosi accordarlo meglio con l'osservazione empirica che la crescita capitalistica, pur non essendo affatto stabile, anzi spesso soggetta a crisi, non si è tuttavia rivelata catastroficamente instabile.
In rapporto alla teoria dell'impresa, possiamo notare due punti a proposito di questa fase della teoria macroeconomica. In primo luogo, non c'erano indicazioni circa il modo in cui l'intensità complessiva dello sforzo imprenditoriale avrebbe potuto influire sul tasso di progresso tecnico. Benché i teorici in questione ammettessero che il progresso tecnico era in parte il risultato dell'attività imprenditoriale, il tasso stesso era considerato come una variabile capace d'influenzare il modello, ma non influenzata da altre variabili all'interno di esso. Cosi, benché s'ipotizzasse che la qualità e la natura dell'imprenditoria influenzassero il tasso di crescita dell'economia, in pratica, l'effetto non era teoricamente evidente. Versioni più tarde dello stesso tipo di modello adottarono ipotesi più raffinate, come quella secondo cui il progresso tecnico era in parte incorporato negli investimenti e quindi era influenzato dal tasso d'investimento; questi perfezionamenti non riuscirono però a eliminare effettivamente la sostanziale passività del presunto ruolo imprenditoriale. In secondo luogo, va notato che, nella separazione tra atti di risparmio e d'investimento (separazione che costituiva il fondamento principale della teoria di Keynes), noi vediamo un'economia le cui istituzioni sono a metà strada tra quelle di un sistema in cui l'imprenditore tradizionale finanzia in un unico atto i suoi investimenti con i suoi profitti, e le istituzioni di un avanzato sistema economico fondato sulle società, in cui gli amministratori trattengono i profitti al fine d'investirli, e si ha dunque un'azione coordinata. Nel sistema keynesiano e post-keynesiano, perciò, in forza della loro indipendente determinazione collettiva degli investimenti, l'azienda e la classe imprenditoriale svolgevano una funzione nient'affatto passiva: determinavano il livello di occupazione nell'economia e la stabilità, se non la grandezza, del suo tasso di crescita. Sotto questo rispetto, agli occhi dell'economia politica, essi si erano assai allontanati dal ruolo loro assegnato due secoli prima da R. Cantillon.
Più di recente si è tentato di combinare le teorie della crescita dell'azienda, come quelle cui abbiamo fatto cenno prima, con le teorie della crescita dell'economia, in modo che il ruolo delle società per azioni fosse esplicitamente riconosciuto. Possiamo per esempio immaginare una società moderna e diversificata, formata da una quantità di divisioni, ciascuna responsabile della produzione e del marketing di un prodotto particolare. Esiste anche, o in un unico reparto o in una pluralità di reparti o unità, un corpo di managers, di professionisti specializzati e di operai impiegati nei programmi di ricerca e sviluppo, miranti a espandere lo spazio di mercato della società stessa. L'intera organizzazione è quindi governata da un quartier generale responsabile del controllo generale e delle decisioni strategiche. L'attività di ricerca e sviluppo, se ha successo, porta alla creazione di divisioni per nuovi prodotti (o ‛operative'), cioè porta, in altre parole, alla crescita della società nel suo insieme. Uno dei compiti principali del quartier generale consiste nel determinare il tasso di crescita, cioè nel determinare quanta parte dei profitti delle divisioni operative dovrà essere distribuita agli azionisti, e quanta parte dedicata alla ricerca e allo sviluppo; inoltre, nel caso che l'attività di ricerca e sviluppo abbia buoni risultati, quanta parte andrà dedicata al conseguente investimento nei nuovi impianti necessari per costituire le nuove divisioni operative. Nello stesso contesto vanno prese anche le decisioni concernenti il finanziamento esterno. Si può vedere che l'effetto dell'insieme delle sottodecisioni comprese nelle decisioni circa il tasso di crescita consiste nel determinare tanto il livello quanto il tasso di mutamento dei dividendi. Tanto più elevato è il tasso di crescita desiderato per la società in questione, tanto maggiore è la porzione dei profitti di gestione che devono essere trattenuti e tanto più basso è il livello del dividendo; ma, nella misura in cui la crescita delle attività significa la crescita delle capacità di reddito, una più rapida crescita della società comporta anche un più rapido sviluppo del dividendo. Così, considerando tassi di sviluppo alternativi successivamente più elevati, la direzione sceglie tra i futuri orientamenti alternativi che i dividendi assumeranno; nel caso di un tasso di crescita elevato, l'orientamento implica bassi dividendi immediati e dividendi futuri relativamente alti, mentre un tasso di crescita basso comporta la conseguenza opposta. Si può presumere che gli azionisti preferiranno un orientamento che costituisca un compromesso tra guadagni immediati e guadagni futuri, e conseguentemente l'attesa di una crescita zero (configurata nelle decisioni dei dirigenti) non porterà necessariamente a un'alta quotazione di borsa delle azioni della società. Tassi di crescita più elevati possono portare a quotazioni maggiori. Ma alla fine un tasso molto elevato, con dividendi immediati molto bassi, deprimerà le quotazioni di borsa, in quanto l'interesse degli investitori per il futuro potrebbe essere stato spinto troppo oltre, un effetto questo che aumenterà se si suggeriscono tassi ancor più elevati. Ne segue che deve esistere un tasso di crescita che sia, almeno in linea di principio, ottimale per gli azionisti. Ma i dirigenti non sono necessariamente tenuti a scegliere un siffatto tasso di crescita. Se hanno una forte propensione personale per lo sviluppo essi possono, dato il loro potere discrezionale (v. sopra), scegliere un tasso di crescita più elevato, lasciando che le quotazioni di borsa cadano, almeno fino a che non sia diventato così basso che ogni ulteriore riduzione comporti il sensibile rischio di una corsa all'acquisizione di controllo.
Con una teoria siffatta, dato un qualche appropriato criterio di decisione (come il massimo beneficio per l'azionista, o il massimo beneficio per il gruppo dirigente), è possibile costruire un modello in cui il tasso di crescita ottimale emerga come funzione lineare del sottostante tasso di profitto di gestione dell'azienda, cioè del rapporto tra i profitti realizzati nelle divisioni operative (il cui livello può essere considerato come l'esito dei vari risultati della partecipazione razionale di queste divisioni al gioco dell'oligopolio nei singoli mercati dei loro prodotti) e le attività totali della società (v. Marris, 1972). Mutando il criterio di decisione non si ottiene altro che un correlativo variare della funzione. Possiamo ora interpretare ‛le frombole e i dardi della fortuna commerciale', cui accennavamo prima, come una perturbazione stocastica dei tassi di profitto di gestione dell'intera popolazione delle società, il cui risultato sono proprio le perturbazioni stocastiche dei tassi di crescita suggerite sopra. Così, questo modello teorico della crescita dell'azienda si riconcilia facilmente col processo di concentrazione.
Esso è riconciliabile anche con le teorie dell'equilibrio macroeconomico (ibid.). Nell'intraprendere attività di crescita a un tasso determinato, la società evidentemente influenza il tasso di progresso tecnico della macroeconomia, in quanto, nei nuovi prodotti, l'innovazione è quasi sempre connessa con un innovazione concernente i loro mezzi di produzione. Come ipotesi estrema (che per essere realistica avrebbe bisogno di essere particolareggiata) si potrebbe supporre che il tasso naturale di crescita dell'economia sia uguale alla somma dei tassi di crescita che le società decidono di scegliere. Esso deve quindi dipendere dal livello generale dei tassi di profitto di gestione. Bisogna notare anche che, nello scegliere i loro tassi di crescita in base a un criterio fondato sulle quotazioni di borsa, le società determinano, in realtà, le proprie rispettive quotazioni di borsa. Esse determinano anche il tasso di crescita di tali quotazioni, in quanto, sulla base delle ipotesi e delle conclusioni dei capitoli precedenti, è inevitabile che il tasso medio di crescita a lungo termine delle quotazioni di borsa risulti uguale al tasso di crescita a lungo termine delle attività delle società cui le quotazioni si riferiscono.
Il verificarsi di una persistente crescita delle quotazioni di borsa influenza necessariamente l'equazione dell'equilibrio macroeconomico, in quanto, in queste condizioni, persistenti utili in conto capitale saranno considerati come reddito, una parte del quale sarà realizzata in beni di consumo, influendo così sulla bilancia generale dei risparmi e degli investimenti. Si può vedere allora che la natura e l'entità di questa modificazione delle equazioni del macroequilibrio dipendono a loro volta dal livello reale (nonché dal tasso di crescita) delle quotazioni di borsa; in altre parole, sotto il profilo dell'equilibrio macroeconomico, esiste una relazione tra le quotazioni di borsa e il tasso di crescita dell'economia. Se immaginiamo un'economia societaria in forma ‛pura', nella quale il tasso di crescita dell'economia sia nè più nè meno che la media ponderata dei tassi di crescita delle società di cui essa si compone, allora, data l'indipendenza manageriale, è possibile concepire un processo di adattamento in borsa nel corso del quale si raggiunge il seguente equilibrio: dato il tasso di profitto di gestione della singola azienda, poniamo che essa scelga un tasso di crescita g*. Così facendo essa determina il suo valore di borsa, il quale, misurato per comodità come rapporto del valore di sostituzione delle attività totali dell'azienda, può essere simbolizzato con v*. Le equazioni di equilibrio macroeconomico richiedono però che, se il tasso medio di crescita dell'economia è à, e il valore medio del rapporto di valutazione è un qualche valore specifico, poniamo ã′; allora il processo assicura che ã*=ã′. Se è possibile costruire un modello siffatto, è possibile determinare il tasso di crescita dell'economia, il suo tasso di concentrazione, il suo valore di borsa (e quindi il tasso di rendimento della proprietà delle azioni), e una quantità di altre variabili interessanti, come la quota di reddito nazionale dedicata alle spese di sviluppo. La natura e la grandezza di questi risultati dipendono da tre forze principali: a) le forze che determinano il tasso medio del tasso del profitto di gestione insieme con le forze che determinano la distribuzione statistica di questi tassi tra le aziende; b) gli atteggiamenti e le preferenze degli investitori di borsa nei confronti dell'aumento e del livello dei dividendi; c) l'intensità della preferenza dei dirigenti per la crescita. La società per azioni torna quindi a un ruolo potenzialmente attivo nel determinare il tasso di crescita dell'economia, benché, nell'ipotesi secondo cui i dirigenti più elevati non hanno altro movente se non il vantaggio dei loro azionisti, questo potere ritorni agli investitori di borsa (o rentiers). Così, se concepiamo il sistema moderno come una divisione delle funzioni dell'imprenditore tradizionale, e ipotizziamo che, in questa divisione, l'alta dirigenza serva fedelmente gli interessi di quanti forniscono il capitale e sopportano (ma non ‛si assumono') i rischi, cioè gli azionisti reali o potenziali, troviamo allora che, sebbene alla gestione manageriale sia stato demandato il compito di creare progresso tecnico, il ruolo di determinare l'‛intensità' con cui questo compito viene espletato resta, indirettamente, agli azionisti. Ma se invece accettiamo la tesi secondo cui la separazione della proprietà dalla gestione lascia a quest'ultima un notevole potere discrezionale, allora è negli alti dirigenti delle grandi società che troviamo l'equivalente moderno della tradizionale funzione imprenditoriale, cioè creare e incentivare lo sviluppo economico - e questo malgrado la limitata responsabilità sociale che essi hanno delle loro azioni.
Come abbiamo già notato, questa limitazione della responsabilità sociale degli alti dirigenti è stata oggetto di crescenti critiche. Si è osservato in particolare che la lotta concorrenziale per la crescita, che le società perseguono, ha avuto come conseguenze un'eccessiva proliferazione d'inutili innovazioni consumistiche e una crescente minaccia per l'ambiente fisico. Come abbiamo già accennato, può darsi che queste critiche conducano a una crisi caratterizzata da una sostanziale riorganizzazione sociale capace di ridurre o modificare l'autonomia delle società. In questo caso, le loro residue caratteristiche ‛capitalistiche' sono probabilmente destinate a sparire.
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