Imprese multinazionali
Il fenomeno dell'impresa multinazionale è controverso fin dalla definizione. Quella più comunemente accettata definisce 'multinazionale' l'impresa che realizza investimenti diretti esteri in attività produttive. Dietro la sua apparente semplicità, essa nasconde una moltitudine di problemi. Un investimento diretto si distingue da un semplice piazzamento finanziario perché implica anche un controllo operativo sull'unità posseduta; ma allora il criterio discriminante non dovrebbe essere il controllo, piuttosto che il possesso di una quota o della totalità del capitale? Se la risposta è positiva, si apre la possibilità di definire multinazionali anche imprese che non hanno all'estero filiali possedute al 100%, e magari neppure al 51%. Il controllo può infatti essere attribuito, in base a patti parasociali o a contratti di gestione, anche al partner che abbia una partecipazione minoritaria al capitale della 'filiale', o che addirittura non abbia alcuna partecipazione.
Generalmente si tende a escludere dalla definizione di impresa multinazionale quell'impresa che abbia attività estere controllate ma non possedute. Al tempo stesso non esiste una soglia convenzionale al di sotto della quale l'investimento si considera meramente finanziario anziché diretto: ogni singolo caso è a sé stante, il che rende poi molto difficile l'analisi statistica del fenomeno e delle sue caratteristiche. I dati si riferiscono invariabilmente ai flussi di capitale per la realizzazione di investimenti diretti esteri, e spesso sottovalutano l'importanza del fenomeno, perché non includono i profitti reinvestiti localmente, né gli apporti di capitale di eventuali altri soci minoritari.
Altra fonte di incertezza è il riferimento alla natura produttiva dell'investimento estero. Se da un lato risulta chiara l'esigenza di escludere dal fenomeno tutte le pure e semplici rappresentanze commerciali, dall'altro non è del tutto evidente perché ci si debba concentrare su quella particolare forma di creazione di valore aggiunto che è la trasformazione industriale; né è chiaro esattamente dove finisca la trasformazione industriale e dove inizi la commercializzazione (confezione, dosaggio, montaggio sono tutte fasi che possono essere viste come intermedie tra la trasformazione industriale vera e propria e la commercializzazione pura e semplice).
Alcuni autori hanno perfino tentato di graduare o categorizzare le imprese multinazionali, distinguendo tra multinazionali semplici, transnazionali, internazionali, ecc. Tentativi del genere non sembrano avere attecchito nella letteratura, principalmente per l'evidente e crescente diversità delle imprese multinazionali, che rende effimero qualsiasi tentativo di categorizzazione ulteriore.In realtà il fenomeno dell'impresa multinazionale può essere compreso solo storicamente. Anche se alcuni esempi di multinazionalizzazione si registrano già nel secolo scorso e si fanno più numerosi nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale, l'esplosione del fenomeno e il suo ingresso nella letteratura economica si hanno soltanto con il secondo dopoguerra. Per tutti gli anni sessanta la letteratura si concentra sulle determinanti della decisione di effettuare un investimento diretto estero, cioè sulla trasformazione dell'impresa da nazionale in multinazionale.
Con lo sviluppo e l'estensione del fenomeno, tuttavia, questo approccio perde gradualmente di interesse. Le imprese che hanno assunto una dimensione multinazionale continuano a impegnarsi in sempre nuovi progetti di investimento in nuovi paesi, ma in alcuni casi abbandonano, volontariamente o forzosamente, investimenti effettuati in passato, o semplicemente gestiscono le loro filiali già stabilite all'estero. L'attenzione si sposta quindi dal fenomeno della multinazionalizzazione a quello dell'essere multinazionale. Al tempo stesso la multinazionalizzazione prosegue a ritmo intenso, nonostante alcune ritirate molto visibili, e interessa imprese di un numero crescente di paesi, inclusi alcuni paesi considerati in via di sviluppo. Infine si moltiplicano le forme di coinvolgimento internazionale diverse dall'investimento diretto (contratti di fornitura di parti o componenti, contratti di subappalto o di lavorazione per conto, franchising, contratti di gestione, contratti di build, operate and transfer e così via). Il fenomeno diventa quindi molto più diversificato e complesso.
Diventano di pari passo più difficili e meno credibili le generalizzazioni. Inizialmente si riscontrava nella letteratura la tendenza a una netta divisione tra sostenitori e detrattori dell'impresa multinazionale, accusata di volta in volta: di essere uno strumento di subordinazione neocoloniale o un pericolo per la sovranità degli Stati; di esportare posti di lavoro e provocare la deindustrializzazione; di creare gerarchie internazionali di comando che avrebbero assunto una valenza politica oltre che economica. Oggi invece quasi nessun autore si avventura a proporre qualcosa di più di una tipologia dei risultati che possono prevalere a seconda delle caratteristiche e dei comportamenti delle imprese interessate.
All'interno del complesso fenomeno dell'impresa multinazionale è utile, a scopo più descrittivo che interpretativo, distinguere alcune tipologie principali che ricorrono più frequentemente.La prima è quella dell'impresa che investe all'estero essenzialmente in funzione di un approvvigionamento di materie prime o di prodotti di base necessari alla sua attività e che altrimenti potrebbero venirle a mancare nella quantità o qualità desiderate. Si tratta principalmente di investimenti minerari (tra cui primeggiano, per l'importanza degli immobilizzi, quelli petroliferi) o agricoli. Storicamente è stato questo il primo tipo di investimento multinazionale ad assumere una dimensione di rilevanza mondiale, anche se ancor prima dello sviluppo di multinazionali si è avuto quello di compagnie locali possedute da investitori esteri, ma autonome.
Le imprese multinazionali nel settore minerario e agricolo sono state in passato al centro di una controversia particolarmente accesa. I paesi in cui esse svolgevano la loro attività le hanno strettamente associate all'esperienza coloniale, e hanno spesso rivendicato il controllo nazionale delle risorse naturali in nome della propria indipendenza.
Culminata in una serie di nazionalizzazioni molto pubblicizzate negli anni sessanta e settanta, questa forma di nazionalismo economico si è però diffusa meno del previsto e ha ben presto perso la sua attrattiva. Vari paesi hanno constatato che la creazione di una compagnia nazionale non aumentava necessariamente il grado di controllo dell'autorità politica sulle vicende industriali, ma rischiava di creare una forte concentrazione di potere burocratico più o meno irresponsabile. Altri paesi hanno approfittato dell'esistenza di un'aspra concorrenza fra le imprese per ottenere condizioni più favorevoli, e hanno fatto ricorso a garanzie e strumenti di controllo amministrativo e fiscale imposti attraverso la legislazione nazionale, senza ricorrere alla nazionalizzazione completa. Infine non pochi settori primari sono entrati in crisi, e questo è bastato a sopire la controversia. Oggi è evidente in molti settori un ritorno a forme di presenza diretta delle imprese multinazionali minerarie e agricole, seppure certamente sulla base di regole diverse da quelle del passato.
La seconda principale forma di impresa multinazionale è quella che replica all'estero sostanzialmente la medesima attività che svolge in patria. Nella maggior parte dei casi la catena del valore aggiunto all'estero non è completa e la filiale dipende dal centro per la fornitura di componenti, semilavorati, o altri inputs. Lo scopo della filiale è essenzialmente quello di servire il mercato locale del paese estero, e forse in qualche misura quelli limitrofi, sulla base di una convenienza a localizzare almeno parte della produzione nelle immediate vicinanze del mercato. Questa convenienza può scaturire da varie circostanze, come ad esempio gli elevati costi di trasporto o la necessità di adattare il prodotto alle esigenze locali. Rientrano in questa tipologia non soltanto molti insediamenti di tipo manifatturiero, ma anche investimenti nel settore dei servizi finanziari, commerciali, turistici o di altra natura.
La terza tipologia è quella dell'insediamento all'estero di una fase del processo produttivo per riesportare il prodotto anche nel paese di origine dell'impresa, sfruttando così le più favorevoli condizioni produttive che possono esistere nel paese estero. La maggior parte degli investimenti di questo tipo è tesa a sfruttare il basso costo della manodopera, tuttavia in misura crescente si registrano anche investimenti destinati alla valorizzazione di risorse naturali (gas metano, energia idroelettrica, ecc.) disponibili localmente e che non possono essere facilmente esportate a causa dell'elevato costo di trasporto o di vincoli amministrativi (per esempio limiti all'esportazione concordati in sede internazionale) o perché il loro sfruttamento in loco è agevolato da speciali incentivi
Infine si registra anche il caso di imprese che concentrano in certe aree la produzione per tutti i mercati, o almeno per i rispettivi mercati continentali, e realizzano quindi una specializzazione internazionale centralmente controllata. Questi casi sono stati oggetto di particolare attenzione da parte di quanti vi vedono gli antesignani di una futura struttura industriale interamente globalizzata, ma non è affatto chiaro che siano l'immagine del futuro anziché una temporanea eccezione destinata a cedere il passo a strutture più flessibili, che realizzano una specializzazione internazionale attraverso una strategia di alleanze e di cooperazione fra imprese indipendenti, anziché centralmente controllate. Nel caso dell'industria elettronica, la crisi dell'IBM, impresa globalizzata per eccellenza, dovuta alla concorrenza di imprese più piccole, più specializzate e legate fra loro da una rete di rapporti contrattuali e cooperativi, sembra indicare proprio che la stagione dell'impresa globalizzata è tramontata prima ancora di giungere a piena maturazione. Gli altri esempi di specializzazione internazionale degli insediamenti produttivi, ad esempio nel settore automobilistico, sono in realtà molto più limitati e discutibili, perché alla diversificazione della produzione si accompagna una prevalente dipendenza dal mercato nazionale o, al più, regionale, e non un orientamento verso tutti i mercati del mondo.
Le prime interpretazioni teoriche del fenomeno impresa multinazionale risalgono all'inizio del decennio sessanta. In una tesi di dottorato del 1960, divenuta celebre in anni successivi, l'economista canadese Stephen Hymer (v., 1974 e 1976) partiva dalla constatazione che l'operare all'estero è per un'impresa fonte di costi addizionali; ne derivava la fondamentale intuizione che l'investimento diretto estero può darsi solo in presenza di una imperfezione del mercato che convinca l'impresa ad abbandonare la strada dell'esportazione/importazione e a impegnarsi in un'attività produttiva remota. In un mondo perfettamente concorrenziale, in cui tutte le imprese abbiano accesso agli stessi fattori della produzione e non esistano 'barriere all'entrata' (v. Bain, 1956), l'impresa multinazionale non si comprenderebbe. È solo in un contesto oligopolistico, generato dall'una o dall'altra delle varie forme di imperfezione del mercato e nel quale l'impresa goda di uno speciale vantaggio competitivo, che l'investimento diretto estero può validamente essere contemplato. L'impresa, nella visione di Hymer, è una struttura gerarchica che sostituisce decisioni amministrative alle transazioni di mercato, lo 'internalizza', per meglio sfruttare un vantaggio competitivo. L'impresa persegue una strategia di crescita e di massimizzazione del profitto e adegua la propria struttura alla strategia (v. Chandler, 1962): è in questo contesto che nasce la decisione di investire all'estero.
Di poco successiva è la teoria del ciclo vitale del prodotto, proposta da Raymond Vernon (v., 1966 e 1971). Questi pone l'accento sul continuo processo di innovazione tecnologica e produttiva, che porta all'introduzione di nuovi prodotti e alla sostituzione dei vecchi. Un nuovo prodotto viene introdotto con caratteristiche qualitative molto superiori a quelle degli altri diffusi sul mercato, in quantitativi limitati, a costi elevati e diretto a un pubblico specialistico o di élite disposto a pagare somme relativamente elevate per averlo. Man mano che la conoscenza del prodotto migliora, esso si diffonde, aumentano e vengono standardizzate le quantità prodotte, diminuiscono i costi di produzione. Si manifesta allora la possibilità/pericolo che imprese concorrenti possano imitare l'innovazione, acquisendo una parte del profitto potenziale permesso dal mercato. Per prevenire questo pericolo, l'impresa può ricorrere all'investimento diretto estero. L'alternativa della concessione di licenze a produttori indipendenti è, secondo Vernon, generalmente considerata meno efficace dal punto di vista della cattura dell'intero potenziale di profitto. Infine, quando il prodotto avrà raggiunto la sua piena maturità, la concorrenza sul prezzo diverrà sempre più importante e l'impresa potrà essere indotta a trasferirne la produzione in paesi in cui i costi siano strutturalmente inferiori.
Questa impostazione, forse più descrittiva che teorica, rifletteva le particolari circostanze del periodo in cui venne proposta e le prime manifestazioni del processo di declino strutturale del tradizionale apparato industriale statunitense. Negli anni successivi le imprese con il loro operare hanno dimostrato che le cose possono evolvere diversamente da quanto immaginato da Vernon: la concorrenza per l'introduzione di nuovi prodotti ha drasticamente ridotto il tempo durante il quale una sola impresa può contare su di una posizione di monopolio dell'innovazione; l'opzione della cessione di una licenza in luogo dello sfruttamento diretto è stata di fatto preferita in molti casi per una varietà di motivi finanziari e manageriali; l'innovazione - sostanziale o di immagine - è stata trasformata in un processo continuo, allontanando indefinitamente la maturazione del prodotto; i costi di produzione sono stati ridotti in molti modi, in alternativa alla delocalizzazione degli impianti.
Nonostante tutto ciò, il paradigma di Vernon è rimasto un punto di riferimento estremamente utile, magari per negarlo. Il fatto più importante è che attorno a Vernon si sviluppò alla Harvard School of Business un progetto collettivo di indagine empirica sull'impresa multinazionale, che ha avuto un ruolo fondamentale nel migliorare la conoscenza del fenomeno. Quel progetto ha generato un gran numero di studi di casi (per esempio v. Stobaugh e altri, 1976; v. Stopford e Wells, 1972; v. Wilkins, 1970 e 1974), sui quali si sono innestate le analisi di vari autori tese a valutare criticamente la teoria del ciclo vitale del prodotto in diversi contesti. Ma ne sono nate anche intuizioni ulteriori che conservano una validità interpretativa: ad esempio l'interessante studio di Knickerbocker (v., 1973) sulle strategie di comportamento oligopolistico delle imprese, che spiega fatti come la 'presa di ostaggi' (investimento incrociato nel 'territorio del nemico') o la concentrazione dell'investimento in ondate (le imprese imitano la mossa del concorrente per impedire che acquisti un vantaggio competitivo importante).
Oltre alle due citate, meritano una breve menzione le impostazioni di quanti hanno tentato di spiegare l'impresa multinazionale essenzialmente come un fenomeno finanziario. Così Aliber ha posto l'accento sulle imperfezioni del mercato dei cambi per spiegare, in particolare, perché le imprese multinazionali finanziassero il proprio investimento in gran parte nel paese di destinazione anziché in quello di origine (cfr. Aliber, in Klindleberger, 1970). Altri invece hanno posto l'accento sulla diversificazione del rischio, sostenendo che la crescita multinazionale dell'impresa offre all'azionista una possibilità di diversificazione geografica del rischio superiore a quella offerta dall'investimento finanziario in varie imprese localizzate in diversi paesi. Queste teorie si sono però rivelate ancora più contingenti delle precedenti: cambiate le condizioni dei mercati finanziari, sono cambiate le strutture di finanziamento dell'investimento all'estero, e i mercati dei capitali sembrano oggi preferire i rischi semplici a quelli complessi.
Di fronte alla diversità delle impostazioni, si deve a John Dunning il merito di aver proposto una teoria che egli stesso ha definito eclettica, e che tenta di proporre nei termini più generali possibili una visione del fenomeno della multinazionalizzazione dell'impresa.Secondo Dunning (v., in particolare, Multinational enterprises..., 1993, pp. 76-86), la capacità e la volontà dell'impresa di un paese di rifornire il proprio mercato interno o un mercato estero da una localizzazione produttiva all'estero dipende dal fatto che essa possegga o sia in grado di acquistare dei vantaggi che non sono disponibili, o lo sono solo a peggiori condizioni, all'impresa di un diverso paese. Questi vantaggi sono specifici della proprietà e vengono denominati 'vantaggi O' (da ownership) perché si suppone che essi siano caratteristici solo delle imprese la cui proprietà abbia una data nazionalità.Vi sono poi dei vantaggi che sono specifici di una determinata localizzazione produttiva, e disponibili a tutte le imprese che scelgono quella localizzazione; questi vengono denominati 'vantaggi L'.
La posizione competitiva di ciascuna impresa deriva dalla combinazione di vantaggi O e vantaggi L. Certe imprese non avranno accesso a significativi vantaggi O e baseranno la loro posizione competitiva sui soli vantaggi L: si cade così nel caso della teoria neoclassica del commercio internazionale (Heckscher-Ohlin-Samuelson). L'aggiunta della considerazione dei vantaggi O può spiegare perché talvolta la distribuzione della produzione e i flussi dell'interscambio commerciale divergano da quelli previsti dalla teoria neoclassica; tuttavia ancora non spiega l'investimento diretto. Per comprendere quest'ultimo è necessario introdurre la considerazione delle imperfezioni di mercato. Dunning distingue tra imperfezioni strutturali e imperfezioni transazionali. Le prime, che sono quelle cui Hymer attribuiva importanza decisiva, si concretano nella presenza di barriere all'entrata capaci di generare delle posizioni di rendita monopolistica; le seconde, potenzialmente più diffuse e quindi più importanti per spiegare la generalità del fenomeno, riflettono l'incapacità del mercato di organizzare le transazioni in modo ottimale. Dunning individua tre possibili fonti di imperfezioni transazionali.
La prima è il fatto che compratori e venditori entrano nel mercato con informazioni incomplete o asimmetriche, o non operano in condizioni di certezza circa i risultati della transazione che devono concludere. Questo genere di situazioni è particolarmente frequente nel caso di transazioni internazionali, in cui le conoscenze di partenza degli attori possono essere molto parziali o l'incertezza dovuta al quadro politico-normativo-legale è molto più elevata che nel contesto puramente nazionale.La seconda fonte di imperfezioni transazionali è il fatto che il mercato non riesce a tener conto dei costi e dei benefici che conseguono alla conclusione di una particolare transazione ma sono esterni alla transazione stessa. Ad esempio il caso di prodotti congiunti o normalmente utilizzati in combinazione può offrire una buona motivazione per includere sotto un controllo unico fasi diverse della catena del valore aggiunto.
Infine la terza fonte di imperfezioni transazionali è il caso in cui la domanda di un prodotto non è abbastanza grande da consentire all'impresa produttrice di conseguire pienamente le economie di scala o di diversificazione di prodotto o geografica.
In presenza di imperfezioni di mercato, le imprese troveranno un incentivo a sostituire una struttura gerarchica al meccanismo di mercato; esse avvertiranno, in altre parole, l'esistenza di importanti vantaggi di internalizzazione, o 'vantaggi I'. Questi sussistono anche per le imprese uninazionali, ma sono più frequenti nel caso di transazioni internazionali, e dunque specificamente rilevanti per giustificare il fenomeno della multinazionalizzazione.In definitiva il paradigma eclettico afferma che il livello e la struttura delle attività di creazione di valore aggiunto di una impresa all'estero dipenderanno dalle quattro condizioni seguenti.
1. La disponibilità di vantaggi proprietari (vantaggi O), persistenti nel tempo, rispetto a imprese di altre nazionalità. I vantaggi O hanno prevalentemente natura di possesso privilegiato di fattori intangibili, oppure derivano dal controllo congiunto di attività di generazione di valore aggiunto attraverso le frontiere.
2. La misura in cui l'impresa percepisce che è più nel suo interesse usare dei vantaggi O per creare direttamente valore aggiunto che cedere questi vantaggi o il diritto alla loro utilizzazione a imprese di altri paesi. Se l'impresa ha questa percezione, essa gode di vantaggi di internalizzazione (vantaggi I) che possono riflettere o la maggiore efficienza organizzativa delle strutture gerarchiche o la loro capacità di esercitare un potere monopolistico grazie ai vantaggi O a loro disposizione.
3. Nell'ipotesi che siano soddisfatte le due precedenti condizioni, la misura in cui gli interessi globali dell'impresa sono meglio serviti dall'utilizzazione dei suoi vantaggi O in una localizzazione estera. La distribuzione delle risorse e delle opportunità differisce a seconda della localizzazione, e dunque genera dei vantaggi L che sono specifici di ciascun paese (o localizzazione al suo interno) e a disposizione di tutte le imprese che vi investono.
4. Data la configurazione dell'insieme di vantaggi proprietari, di localizzazione e di internalizzazione (OLI) a disposizione di ciascuna particolare impresa, la misura in cui l'impresa in questione ritiene che la produzione all'estero sia coerente con la sua strategia di lungo periodo.
L'impostazione di Dunning paga il pregio della generalità con il difetto dell'indeterminazione. Di fronte all'enorme varietà dei possibili vantaggi O, L e I, la teoria, oltre ad affermare la necessaria presenza di tutti e tre i tipi di vantaggi, dice assai poco su quando, quanto e come un'impresa investirà all'estero. Tanto più che i tre tipi di vantaggi non sono immutabili nel tempo, ma, al contrario, tendono a evolvere, in non piccola misura, anche in funzione delle decisioni di investimento di altre imprese. Per certi versi, quindi, il paradigma offerto da Dunning è più utile come tassonomia di riferimento - e ormai in quanto tale è ampiamente accettato e utilizzato dalla letteratura empirica - che come teoria vera e propria.
Dunning ha anche esteso il paradigma OLI proponendo il concetto di 'cammino di sviluppo dell'investimento'. L'ipotesi di base di questo concetto è che man mano che un paese si sviluppa le configurazioni dei vantaggi OLI che interessano le imprese straniere che potrebbero investire in quel paese, o le imprese di quel paese che potrebbero investire all'estero, mutano, ed è possibile individuare le condizioni del mutamento e il loro effetto sulla traiettoria dello sviluppo.Il cammino di sviluppo dell'investimento identifica in tal modo vari stadi attraverso i quali un paese può passare. Il primo è quello della preindustrializzazione, in cui il paese non attrae investimento dall'estero, né si impegna in investimento all'estero, perché offre insufficienti vantaggi di tipo L e le sue imprese hanno insufficienti vantaggi di tipo O. Se riesce a passare a uno stadio ulteriore di sviluppo, la configurazione dei vantaggi OLI potrà mutare e il paese riuscirà inizialmente ad attrarre investimenti in settori basati su risorse naturali, o nei settori manifatturieri tradizionali e ad alta intensità di lavoro, nel commercio e nella distribuzione, nei trasporti e nelle telecomunicazioni, nelle costruzioni e in qualche misura nel turismo.
Se il paese è in grado di creare un sistema legale soddisfacente, una infrastruttura commerciale e di trasporti adeguata e capitale umano di buona qualità e se la politica governativa verso l'investimento dall'estero è positiva, i vantaggi L aumenteranno. Col tempo questo favorirà anche l'acquisizione di vantaggi O da parte delle imprese nazionali. I vantaggi L cambieranno di natura, e imprese che erano attirate inizialmente lo saranno in minore misura, mentre altre cominceranno a esserlo per motivi diversi da quelli iniziali. Si avrà così una progressiva evoluzione nella natura dell'investimento proveniente dall'estero, mentre le imprese nazionali inizieranno a loro volta a investire progressivamente all'estero.
Nel lungo periodo, se il paese riesce con successo a perseguire una politica di industrializzazione, i due fenomeni dell'investimento diretto da e per l'estero sono, nella visione di Dunning, destinati a bilanciarsi. Una visione, questa, radicalmente diversa da quella di Hymer, che, ponendo l'accento sulle imperfezioni strutturali del mercato, vedeva nell'impresa multinazionale lo strumento di una durevole dominazione industriale da parte dei paesi più sviluppati e anche di gerarchizzazione fra questi ultimi.
Il fenomeno dell'investimento diretto estero ha conosciuto una crescita assai rapida dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questa crescita è continuata a ritmo molto intenso fino all'inizio del decennio novanta, allorché sembra essersi verificata una battuta d'arresto, quasi certamente transitoria e legata alla congiuntura economica negativa che ha interessato tutto il mondo industrializzato.
La tab. I descrive la crescita del fenomeno a partire dal 1967. In un ventennio (1967-1988) lo stock di investimento estero diretto risulta essersi decuplicato, passando da 112 a 1.140 miliardi di dollari. Per tutti gli ultimi vent'anni il capitale direttamente investito all'estero è cresciuto un po' più rapidamente del reddito mondiale: in rapporto a quest'ultimo, esso è passato dal 4,0% al 6,7% tra il 1967 e il 1988. Fino al 1980 l'investimento diretto è cresciuto meno rapidamente del commercio mondiale, mentre nel decennio ottanta la sua crescita ha sopravanzato quella del commercio.
Nel 1967 l'investimento diretto estero era ancora una prerogativa quasi esclusiva degli Stati Uniti: da soli questi erano all'origine del 50% dello stock di investimento diretto estero nel mondo (mentre il Regno Unito era in seconda posizione, ma a notevole distanza, con un 14%). Venti anni più tardi questa posizione risulta mutata radicalmente: la quota degli Stati Uniti è scesa al 30% del totale. L'unico altro paese che abbia registrato un declino importante sono i Paesi Bassi, la cui quota è passata dal 9,8% al 6,8%. Gli altri paesi hanno registrato aumenti più o meno marcati: l'Italia è passata dall'1,9% al 3,5% del totale, ma certamente l'aumento più clamoroso è quello registrato dal Giappone, la cui quota è passata dall'1,3% al 9,8%. Tenuto conto del rapido aumento del fenomeno nel suo complesso, l'aumento della quota del Giappone è a dir poco straordinario. La tab. II mostra l'evoluzione del rapporto fra investimento diretto verso l'estero e quello dall'estero per i principali paesi industriali e alcuni paesi in via di sviluppo. Essa evidenzia come fino al 1975 gli Stati Uniti fossero forti investitori netti, mentre in seguito si è avuta una vera e propria ondata di investimenti esteri negli Stati Uniti, che hanno condotto il rapporto addirittura al di sotto dell'unità nel 1988. Molti altri paesi che erano forti debitori netti di investimento diretto hanno in seguito progressivamente riequilibrato la propria posizione: è anche il caso dell'Italia, che ancora nel 1975 aveva investito all'estero solo un terzo di quanto le imprese estere avessero investito in Italia, mentre nel 1988 registrava un equilibrio fra le due posizioni. Eccezionale appare ancora una volta il caso del Giappone, che ha sempre registrato un rapporto superiore all'unità, ma lo ha visto crescere al punto che nel 1988 l'investimento all'estero risultava essere quasi quindici volte superiore a quello dall'estero. Infine i dati mostrano un'incipiente e timida tendenza verso il riequilibrio delle posizioni anche nel caso di alcuni paesi in via di sviluppo. Se non fosse per il caso del Giappone, questi dati sembrerebbero confermare che i due fenomeni dell'investimento diretto da e per l'estero tendono a equilibrarsi nel lungo periodo; tuttavia l'eccezione giapponese è troppo macroscopica per poter essere trascurata.
La tab. III rappresenta l'andamento dell'investimento diretto estero (come flusso, non come stock) negli anni più recenti. Tra il 1986 e il 1990 l'investimento diretto verso l'estero dei paesi industriali si è quasi triplicato, passando da 86 a 226 miliardi di dollari l'anno. Questa crescita ha interessato tutti i paesi industriali, ma è particolarmente significativo il vero e proprio boom dell'investimento francese, che è cresciuto ancor più rapidamente di quello giapponese (recuperando rispetto a una maggiore timidezza degli anni precedenti). La tab. III conferma il forte declino percentuale degli Stati Uniti e il forte aumento del Giappone.
La tab. IV si riferisce più specificamente ai flussi di investimento diretto in entrata e in uscita dell'Italia.
L'impresa multinazionale cresce di concerto con il commercio internazionale e i due fenomeni sono indissolubilmente intrecciati. Si è molto insistito sull'idea che l'impresa multinazionale, localizzando all'estero un'attività produttiva che altrimenti (si riteneva) sarebbe rimasta localizzata in patria e avrebbe dato luogo a un flusso di esportazioni, fosse alternativa al commercio. Questa visione è stata in parte confortata dal fatto che storicamente l'investimento diretto è stimolato dall'esistenza di barriere tariffarie oppure dal processo di creazione di aree regionali di libero scambio che rappresentano una minaccia per le imprese esportatrici del resto del mondo.Tuttavia non sembra dubbio che, al contrario, la crescita multinazionale dell'impresa abbia fortemente stimolato la crescita del commercio internazionale. E ciò non solo e non tanto perché sovente l'unità produttiva all'estero continua a essere dipendente dal centro per una parte almeno dei suoi inputs, ma soprattutto perché la crescita multinazionale dell'impresa ha fondamentalmente contribuito a una migliore conoscenza dei mercati e delle condizioni produttive nel mondo, accelerando dei processi che attraverso il puro e semplice meccanismo del commercio internazionale sarebbero avvenuti solo molto più lentamente.Quanti credono che il commercio internazionale sia retto dalle regole della concorrenza senza alcuna imperfezione di mercato tendono a vedere nell'impresa multinazionale uno strumento di limitazione del commercio stesso. Ma se si riconosce che i mercati internazionali sono sovente molto imperfetti, se non altro per la limitatezza delle conoscenze, non si stenta a concludere che l'impresa multinazionale, internalizzando il controllo dei flussi commerciali, ne facilita e ne accelera lo sviluppo.
Per quei pochi paesi per i quali esistono, i dati sulla quota di commercio internazionale che avviene all'interno dell'impresa, cioè con transazioni fra filiali di una medesima impresa multinazionale, confermano il ruolo preponderante delle multinazionali nel commercio internazionale: risulta infatti che il 51% delle esportazioni inglesi (nel 1984), il 41% di quelle americane (1987) e il 48% di quelle belghe (1976) sono transazioni all'interno di una stessa impresa. Per le importazioni gli analoghi dati sono rispettivamente 29, 34 e 53%.
Tuttavia la stretta correlazione fra crescita multinazionale dell'impresa e crescita del commercio internazionale non significa che dal punto di vista del singolo paese un aumento del grado di apertura all'investimento diretto estero porti sempre a un miglioramento della posizione commerciale. Mentre la maggior parte degli studi sugli effetti dell'investimento diretto verso l'estero conclude che un aumento di tale tipo di investimento è seguito da un aumento delle esportazioni, e quindi contraddice il timore di delocalizzazioni e di perdita di posti di lavoro che frequentemente accompagna gli investimenti all'estero di imprese nazionali, gli studi sugli effetti dell'investimento dall'estero sono più ambigui.
Ciò dipende in non poca misura dalla diversità delle politiche commerciali e del grado di sviluppo dei vari paesi. Alcuni paesi continuano a seguire politiche preoccupate più di limitare le importazioni che di stimolare le esportazioni, e finiscono quindi coll'attirare insediamenti di imprese multinazionali in funzione del loro mercato interno. Altri perseguono invece un'aggressiva politica di industrializzazione trainata dalle esportazioni, e hanno maggior successo nell'attirare investimenti che contribuiscono a creare flussi di esportazione. Se quindi da un lato si può affermare che ciascuno ha le imprese multinazionali che desidera o merita, dall'altro non si può escludere che una forte presenza di filiali di imprese straniere nella struttura industriale di un paese ne danneggi nel lungo periodo le capacità di proiezione sui mercati esteri.
Tutte le interpretazioni dell'impresa multinazionale indicano una forte correlazione fra il progresso tecnologico e la crescita multinazionale. Questo legame è centrale per Vernon, ma è anche una delle principali fonti di vantaggi competitivi tanto nell'impostazione di Hymer che in quella di Dunning. L'importanza dei contenuti tecnologici è stata esplorata attraverso un'analisi del rapporto fra spesa in ricerca e sviluppo e fatturato complessivo. Gli studi empirici sono pressoché unanimi nel confermare l'importanza di questo fattore come determinante dell'investimento diretto all'estero (v. United Nations Centre on Transnational Corporations, 1992, p. 8).
L'importanza dell'innovazione tecnologica nella concorrenza oligopolistica è uno dei principali incentivi alla crescita internazionale. Il fatto che una impresa possa investire in ricerca e sviluppo, e quindi competere in un contesto oligopolistico, è legato alla dimensione del suo fatturato; e lo sforzo di ricerca e sviluppo si giustifica se esso può consentire un miglioramento dei margini di profitto su di una superficie di mercato la più vasta possibile. L'impresa di dimensioni limitate che entri in possesso di un vantaggio tecnologico non ha, il più delle volte, altra scelta che quella di cederne il diritto d'uso a dei licenziatari, opzione che normalmente riduce il beneficio per l'innovatore.
La funzione di ricerca e sviluppo è solitamente fra le più accentrate nella struttura multinazionale dell'impresa. Questa concentrazione induce a sospettare una dipendenza tecnologica che potrebbe divenire irreversibile nei paesi la cui struttura industriale sia dominata da filiali di imprese multinazionali. Per questo motivo l'attenzione si è recentemente concentrata sulle politiche di localizzazione delle attività di ricerca e sviluppo delle imprese multinazionali. Questa analisi ha evidenziato che in un numero crescente di casi le imprese multinazionali ricorrono all'internazionalizzazione anche della funzione di ricerca e sviluppo, creando laboratori decentrati che hanno il compito di studiare l'adattamento del prodotto alle esigenze dello specifico mercato o di internalizzare le conoscenze che possono essere acquisite grazie alla prossimità con i principali poli della ricerca scientifica. Sebbene quantitativamente i casi di decentramento della ricerca siano ancora limitati, "emerge dall'analisi che le imprese multinazionali hanno una tendenza sistematica verso una crescente globalizzazione della loro ricerca e sviluppo e delle attività di innovazione, come elemento chiave di risposta alla natura sempre più globale della concorrenza" (v. Pearce e Singh, 1992, p. 205).
La crescita multinazionale è strettamente legata alla concentrazione industriale. Ambedue discendono dalla presenza di imperfezioni di mercato che consentono lo sviluppo di strutture oligopolistiche. Esiste anche una correlazione parziale fra dimensione dell'impresa e investimento diretto estero, nel senso che all'interno di ciascuna industria sono le imprese di maggiori dimensioni quelle che investono di più all'estero (ma in altre industrie la dimensione media dell'impresa può essere elevata mentre gli investimenti all'estero sono limitati: per questo la correlazione non sussiste al livello dell'intero sistema industriale).
Se quindi da un lato la crescita internazionale dell'impresa può essere vista come un processo attraverso il quale si riproducono a livello internazionale le barriere all'entrata che ostacolano la concorrenza a livello nazionale, dall'altro lo sviluppo del commercio internazionale e la crescita multinazionale delle imprese che con esso va di pari passo costituiscono il principale deterrente alla creazione di posizioni di monopolio nei singoli mercati nazionali. L'apertura al commercio internazionale si è rivelata il principale antidoto alla concentrazione industriale e alla restrizione della concorrenza che questa implica, e lo sviluppo multinazionale dell'impresa è un aspetto della crescita della concorrenza a livello internazionale.
Non è quindi sorprendente che l'atteggiamento dei governi verso le imprese multinazionali sia sempre più determinato da preoccupazioni legate al mantenimento di condizioni di concorrenza piuttosto che da preoccupazioni per la nazionalità dell'impresa. È il desiderio di beneficiare della concorrenza internazionale che spinge all'apertura verso il commercio estero e, una volta che questa sia stata accettata, l'atteggiamento verso le imprese multinazionali diventa uno strumento competitivo in un contesto in cui la concorrenza si fa, appunto, sempre più acuta. Il medesimo desiderio di garantire condizioni di concorrenza spinge alla formazione di aree regionali di libero scambio, che a loro volta divengono la sede per l'adozione di politiche volte a prevenire una eccessiva concentrazione industriale. Nel caso della Comunità Europea la politica di concorrenza ha svolto un ruolo essenziale nel creare un quadro di controllo delle imprese multinazionali, prevenendo fusioni o acquisizioni che avrebbero portato a costituire posizioni dominanti, e stabilendo parametri per il comportamento dei governi membri che rendono più difficile per l'impresa giocare l'un governo contro l'altro. Anche nei paesi in via di sviluppo si è gradualmente affermata la convinzione che il miglior modo di beneficiare dell'investimento diretto estero è, da un lato, preservare una qualche presenza nazionale e, dall'altro, incoraggiare l'insediamento di più imprese, che operino in concorrenza fra loro.
Anche il futuro del processo di multinazionalizzazione è strettamente legato alla concentrazione industriale e ai processi di integrazione verticale e/o orizzontale. In anni recenti un processo di deconcentrazione sembra aver prevalso in numerose industrie nei principali paesi industriali. Le imprese tendono sempre meno a internalizzare nuovi segmenti della catena del valore aggiunto integrandosi verticalmente, per controllare fornitori e sbocchi di mercato, o orizzontalmente, per controllare concorrenti. Al contrario sembra prevalere una tendenza a una crescente specializzazione, in particolare con il ricorso a fornitori indipendenti di servizi, semilavorati e talvolta perfino di prodotti finiti. A livello internazionale questo processo si manifesta con lo sviluppo dei networks collaborativi e di alleanze, che è purtroppo molto difficile da quantificare, ma che sembra crescere ben più rapidamente dell'investimento diretto estero.
Vi sono numerosi motivi per ritenere che la formula degli accordi di collaborazione fra imprese di diversi paesi sia destinata a svilupparsi più rapidamente della multinazionalizzazione 'classica'. In primo luogo bisogna sottolineare che i vantaggi I (di internalizzazione) non sono costanti nel tempo. La difficoltà di certe transazioni può ridursi perché le parti interessate possono col tempo acquisire migliori conoscenze, perché si sviluppano nuove forme contrattuali e più sofisticate difese della validità del contratto anche in diverse giurisdizioni nazionali (ad esempio attraverso il crescente ricorso all'arbitrato internazionale), perché si organizzano mercati con caratteristiche di trasparenza per gestire transazioni che in passato avevano luogo solo tra pochi attori e dietro le quinte. Un caso clamoroso di quest'ultimo tipo di sviluppo è la nascita di un mercato internazionale del petrolio greggio, mercato che prima degli anni ottanta non esisteva affatto, mentre è oggi accettato come punto di riferimento per la fissazione dei prezzi in tutta l'industria, anche per le transazioni che continuano ad avvenire al di fuori di esso.
Il ricorso a nuove forme di multinazionalizzazione basate su accordi di cooperazione, su fornitori indipendenti, sul franchising e simili è un'efficace strategia difensiva per quelle imprese che non hanno assunto una dimensione multinazionale e intendono egualmente competere con giganti multinazionali. Nelle condizioni di crescente globalizzazione dei mercati internazionali, l'impresa di piccole o medie dimensioni, o comunque puramente nazionale, che goda di un vantaggio competitivo trova un ambiente più favorevole che in passato allo sfruttamento di questo vantaggio attraverso accordi cooperativi.
La crescente specializzazione e lo sviluppo di fornitori di prodotti intermedi o di servizi creano le condizioni per una separazione delle diverse componenti di una impresa, e ciò accresce anche le possibilità per le imprese di paesi emergenti di consolidarsi e competere con i giganti multinazionali. Uno dei supposti vantaggi dell'investimento diretto rispetto a quello finanziario consiste nella circostanza che esso mette a disposizione del paese ospite non solo delle disponibilità finanziarie ma anche un complesso di capacità manageriali, di conoscenze tecniche, di know-how, di marketing e così via. È proprio contro il 'pacchetto integrato' che si è levata spesso la polemica dei paesi in via di sviluppo, che vedevano limitata la propria capacità contrattuale dal dover prendere o lasciare l'intero pacchetto, specialmente nel caso di investimento nello sfruttamento di risorse primarie. Oggi la crescente disponibilità di imprese che si limitano a offrire l'una o l'altra delle componenti del pacchetto rafforza la posizione contrattuale del paese ospite e consente perfino la creazione di nuove imprese dal nulla, attraverso una intelligente cooperazione con imprese multinazionali, organismi internazionali, consulenti esteri, ecc.
Spinge in questa direzione anche la crescente difficoltà che perfino le imprese di maggiori dimensioni incontrano nel finanziamento dei propri investimenti. L'attenzione sempre maggiore alle variabili finanziarie incoraggia a limitare gli immobilizzi. Il tradizionale atteggiamento negativo dell'impresa multinazionale verso l'investimento in joint-ventures sta rapidamente evolvendo, e non sono infrequenti i casi in cui, al contrario, l'impresa è disponibile a investire soltanto se il suo rischio è limitato e condiviso dalla presenza di altri partners, locali o esteri, nel capitale del nuovo progetto che si considera.
Le nuove forme di crescita multinazionale attraverso la creazione di reti di imprese di diversa proprietà consentono un'espansione molto rapida. La nuova filosofia della crescita multinazionale è forse quella espressa da Luciano Benetton: "Abbiamo cercato di rimanere snelli, semplici. Siamo molto forti qui al centro, poi in giro non abbiamo niente, ecco perché i settemila negozi sono tutti di altri. Facciamo molte joint-ventures. Sotto un certo punto di vista, questo è un network di amici" ("La Repubblica", 255-93, p. 11).
Se la prima ondata di crescita delle multinazionali è stata stimolata dalla creazione del Mercato Comune Europeo, nei prossimi anni la crescita sarà sostenuta dal diffondersi di politiche di liberalizzazione economica e di privatizzazione dell'impresa pubblica. I processi di trasformazione delle economie già centralmente pianificate costituiscono un'occasione per l'ulteriore diffusione del fenomeno, aprendo spazi anche a imprese che sino a oggi sono rimaste prevalentemente nazionali.
In passato il protezionismo commerciale aveva stimolato l'investimento teso a superare le barriere doganali e a occupare comunque quote di mercato. Si è trattato di un investimento che col tempo ha sofferto della medesima impasse in cui si è venuta a trovare tutta la politica di sostituzione delle importazioni. L'evoluzione verso una maggiore apertura al commercio internazionale e il desiderio di tutti i governi di attirare investimenti capaci di originare flussi di esportazione creano condizioni sulla carta molto favorevoli alle imprese multinazionali. Ma quel che sembra avere più effetto sulle decisioni di investimento delle imprese, siano esse nazionali o multinazionali, non sono tanto gli speciali incentivi offerti, quanto le condizioni produttive favorevoli e il migliorato clima di crescita dell'economia del paese.
La crescente tendenza al disimpegno almeno parziale dello Stato dalla conduzione diretta di attività economiche riapre spazio all'investimento estero in settori come i servizi di base (elettricità, gas e acqua, telecomunicazioni, trasporti aerei, viabilità, ecc.), nei quali l'investimento estero di tipo finanziario era stato importante all'inizio del secolo, ma che in seguito sono diventati puramente nazionali.
L'impresa pubblica rimane peraltro uno strumento di controllo e di contrattazione nei confronti delle imprese multinazionali. Nonostante la voga ideologica in favore della privatizzazione, è del tutto improbabile che le imprese pubbliche abbandonino completamente certi settori, e particolarmente quelli in cui non è possibile una cessione a investitori privati nazionali, talché la privatizzazione implicherebbe necessariamente la cessione a un'impresa estera. Più probabile è la diffusione di un modello misto in cui l'impresa pubblica conserverà almeno temporaneamente una quota del capitale, forse anche minoritaria, ma comunque garanzia di un certo potere di controllo sulle decisioni dell'impresa.
Si è visto come l'Italia sia stata fino alla seconda metà del decennio ottanta in posizione di debitrice netta di investimenti dall'estero e come in seguito sia stato raggiunto un equilibrio tra investimenti italiani all'estero ed esteri in Italia.
Rispetto ad altri paesi europei, l'Italia rimane in posizione relativamente marginale per quanto riguarda il fenomeno della multinazionalizzazione, e questo vale per i flussi in ambedue le direzioni: l'Italia ha attirato meno investimenti dall'estero di quanto non abbiano fatto altri paesi europei, e le imprese italiane sono meno internazionalizzate di quelle dei nostri partners.
Su questo risultato hanno influito principalmente le vicende politiche e le preferenze più volte espresse dalle forze di governo e dalle parti sociali. Il governo ha usato lo strumento dell'industria a partecipazione statale per impedire l'acquisizione da parte di imprese estere di imprese private nazionali in difficoltà e ha favorito a più riprese la conclusione di fusioni e di acquisizioni tra imprese italiane, limitando oggettivamente le occasioni di ingresso per i concorrenti esteri. A sua volta l'impresa a partecipazione statale è stata soggetta a condizionamenti che ne hanno scoraggiato l'apertura internazionale (v. Acocella, 1983) e, visto il ruolo dominante svolto dalle partecipazioni statali in molti settori normalmente caratterizzati da elevata multinazionalizzazione, ha sfavorito la partecipazione italiana al fenomeno. Infine anche l'impresa privata ha spesso preferito rafforzare la propria posizione in Italia, dove ha sempre potuto godere della protezione e della complicità delle autorità di governo, piuttosto che avventurarsi nelle acque agitate della crescita multinazionale.
Questa impostazione ha finito col condurre a crescenti difficoltà specialmente in rapporto all'intensificazione del processo di integrazione europea, anche se ha, al tempo stesso, consentito la crescita di attori nazionali in industrie chiave, che altrimenti avrebbero potuto essere interamente controllate da imprese estere. Sembra esservi un crescente consenso intorno alla conclusione che, se può essere stato utile proteggere imprese deboli in passato, è oggi inevitabile che la sfida della multinazionalizzazione sia pienamente accolta anche dalla struttura industriale italiana. Questa potrà sfruttare, attraverso l'investimento diretto, i nuovi spazi di crescita multinazionale che saranno aperti dalla transizione al mercato delle economie già centralmente pianificate e dallo sviluppo delle nuove economie industriali; potrà inoltre approfittare delle nuove forme di crescita multinazionale attraverso l'ingresso in reti di alleanze e accordi di cooperazione.
La sfida per il futuro è quella della progressiva formazione di imprese che meritino di chiamarsi europee. Se l'impresa ha acquisito dimensione multinazionale localizzando i suoi insediamenti produttivi in numerosi paesi, essa rimane però, salvo rarissime eccezioni, solidamente nazionale dal punto di vista della composizione del gruppo dirigente, del rapporto privilegiato col governo di un paese, della cultura aziendale e dell'uso della lingua nazionale nelle comunicazioni interne. La persistente nazionalità dell'impresa multinazionale non costituisce un problema in quei contesti in cui l'interscambio economico rimane un fatto inequivocabilmente internazionale, cioè fra soggetti che obbediscono a diverse sovranità; ma nel contesto dell'Unione Europea l'ambizione federale contrasta con il ritardo nello sviluppo di imprese che trascendano il legame col singolo paese membro per assumere una genuina identità europea. (V. anche Concentrazione industriale; Concorrenza; Economia internazionale; Finanziari, mercati; Impresa e società; Impresa pubblica; Industria; Innovazioni tecnologiche e organizzative).
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