Impulsi riformatori del mondo di fuori: dal Rinascimento all'Illuminismo
Al volgere del Quattrocento si parlava molto di riforma. La denuncia dei mali della società italiana e della Chiesa, a essa tanto intimamente connessa, era così comune da costituire un luogo retorico dietro il quale si celavano idee profondamente diverse tra loro. C’era l’idea di riforma degli ordini religiosi, che significava ripristino dell’antica disciplina e ritorno a uno stile di vita ascetico, e c’era l’idea di riforma del clero secolare che significava cura delle anime e affermazione dell’autorità episcopale; c’erano ecclesiastici di alto rango, che cominciavano a rilevare gli effetti prodotti dalla formazione di una potente burocrazia monarchica, e c’erano le lamentazioni popolari contro ricchezza e carnalità delle gerarchie ecclesiastiche; c’erano le proteste dei ceti più colti contro l’impreparazione teologica del clero, e c’erano le proteste per la sua assenza dal territorio; c’erano le profezie millenaristiche di un prossimo rivolgimento sociale e c’erano le attese di renovatio degli umanisti, c’erano tutte queste cose mescolate tra loro a formare uno stato di effervescente speranza di tempi migliori1. Gli umanisti, poi, rivolgeva di preferenza la propria attenzione al tema della mondanità e della corruzione del clero, accompagnandolo con un particolare accento contro l’ipocrisia e il fallimento morale degli ordini religiosi. Dopo l’esordio di Luigi Marsili, Coluccio Salutati fissò il canone del discorso umanistico indicando l’origine della deformatio cristiana nell’arricchimento e nella mondanizzazione del clero seguiti alla donazione di Costantino, assumendo così la formazione dello stato ecclesiastico come simbolo epocale di un processo di secolarizzazione. Poggio Bracciolini eseguì una variazione sul tema denunciando, nel Dialogus contra hypocrisim, l’ipocrisia dei frati e le vaste ricchezze da essi godute senza fatica, e analogo tasto suonò Leonardo Bruni contrapponendo all’esteriorità della religione fratesca l’interiorità morale dell’uomo comune. Lorenzo Valla batté anch’egli sul tema dell’incontinenza fratesca mentre Lapo di Castiglionchio, nel De curiae commodis (Ferrara 1438), indicò la curia romana come origine della corruzione ecclesiastica. Sullo stesso registro si mosse la critica di Antonio de Ferrariis, il Galateo2.
Al tema critico si univa l’attesa di radicali rivolgimenti. Nel centro più importante dell’umanesimo italiano, nella Firenze di fine Quattrocento, era diffusa l’attesa di una nova aetas di rigenerazione morale, che avrebbe riunito tutti gli uomini in «unum ovile et unus pastor», mentre i predicatori annunciavano ai quattro angoli della città una prossima reformatio della Chiesa come avvento di un regno spirituale di una comunità purificata. In questo caso, i predicatori di ambiente piagnone profetizzavano un periodo di lutti e sciagure cui sarebbe seguita la reformatio e poi la fine del mondo: facevano cioè trascorrere l’idea di riforma in quella millenaristica descritta nell’Apocalisse di Giovanni. E alcuni umanisti, soprattutto di indirizzo platonico, raccolsero il motivo profetico vaticinando – come fece Marsilio Ficino in una lettera a Paolo di Middleburg del 1492 – l’arrivo di una nuova età dell’oro e di nuovi «saturna regna» nel segno di un Cristo rigenerato. Quattro anni più tardi, il suo discepolo Giovanni Nesi tornava sul tema pubblicando l’Oraculum de novo saeculo, nel quale si annunciava un periodo di calamità seguito da una reformatio e dal millennio felice3.
La polemica anticonventuale era destinata a durare i tre secoli successivi, unificando ispirazioni tra loro differenti e opposte come il moralismo umanistico, la giustificazione sola fide protestante e l’utilitarismo illuministico. Avrebbe assunto così il carattere di una tendenza di lungo periodo dell’età moderna. Ciononostante, la cultura umanistica non incontrò che marginalmente gli indirizzi riformatori operanti all’interno della Chiesa italiana. Il modello offerto dalla cultura antica volse infatti i maggiori umanisti italiani verso soluzioni diverse da quelle che avrebbero occupato l’Italia nel secolo successivo. Di là dalla brillante impresa critica condotta con la dimostrazione della falsità della donazione di Costantino, Lorenzo Valla finì per porre al centro della propria riflessione il tema morale discusso nel dialogo De voluptate, nel quale l’etica stoica era posta a confronto con quella epicurea e si concludeva che una versione moderata della morale di Epicuro si conciliasse meglio di quella stoica con l’etica cristiana e la sua promessa di premi ultraterreni4. Questo presupposto forniva a Lorenzo Valla il fondamento per la critica della vita monastica e degli ordini religiosi da lui sviluppata nel Dialogo intorno alla professione dei religiosi. Se questo era il centro etico della sua critica agli ordinamenti ecclesiastici, il luogo invece dove lo strumento umanistico conduceva a maggiore sostanza critica la sua analisi del cristianesimo contemporaneo stava nel passaggio del discorso In lode di san Tommaso, nel quale egli biasimava la filosofizzazione del cristianesimo attribuendone la responsabilità alla scolastica mendicante. Cipriano, Lattanzio, Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino «non fondarono sopra la filosofia le loro asserzioni poiché avevano letto Paolo che esclama non per philosophiam et inanem fallaciam […] non c’è ragione perciò che i nuovi teologi svalutino quelli antichi, veri discepoli di Paolo, per il fatto che non hanno mescolato la filosofia alla teologia»5. Con il tema della filosofizzazione del credere cristiano, Valla toccava in effetti la radice forse più rilevante dello sviluppo «moderno» – cioè, nel nostro linguaggio, medievale – del cristianesimo in un corpo di veritates articolate in dottrina, ma mancava poi di indagarne gli effetti sul rapporto tra istituzione ecclesiastica e vita religiosa per abbandonare il problema alla tradizionale opposizione umanistica tra positività degli antichi e negatività dei moderni.
Nell’impostazione stoica di Leon Battista Alberti, Dio si esprime nella natura, o attraverso la natura, pensata come fonte normativa unica e sempre retta del vivere umano. Mentre mancavano richiami a Cristo o al Vangelo, nel discorso di Alberti ritornava invece con una certa frequenza l’idea di Dio. Dio nella natura, Dio che è natura, la natura divina, la natura cioè Dio: le espressioni albertiane erano varie, ma la sostanza concettuale era costante e collocava nella natura il codice del discorso divino6. Il movimento concettuale che conduce ciò che è divino nella natura, conduce anche ciò che è religioso nella giustizia. Come divina è la natura così divina è la giustizia che è il riflesso della natura nella società umana. Alberti era dunque indotto a intendere la religione come sostanza sacra della giustizia e, di conseguenza, l’ufficio ecclesiastico come una magistratura volta a promuovere la saggezza e la virtù civile tra i membri della città. In una tale impostazione si dissolveva ogni distinzione tra due diritti, civile ed ecclesiastico, che venivano uniti in un diritto civile memore delle leggi divine. Nella epistola giovanile De iure, scritta nel 1437, Leon Battista definiva il diritto come l’opera di risolvere le controversie e attribuiva carattere religioso all’ufficio del giureconsulto, invitando a rinunciare a ogni discussione su un diritto divino che ci rimane ignoto e può solo essere rammemorato nel diritto umano7. La risoluzione della religio in sacralità della iustitia ritornava incidentalmente tanto nel Profugiorum ab aerumna quanto nelle Sentenze pitagoriche: «la virtù, madre della felicità, tiene tra i mortali luogo di Dio. Adorala. […] e in ciò che tu fai o pensi, obbedisci alla ragione e abbi reverenza a te stesso»8. Nel De re aedificatoria l’istituzione religiosa era indicata come uno degli aspetti del governo riservato ai sapienti assieme alla giustizia ed era considerata loro funzione specifica. La religio è rei publicae pars. Di conseguenza, Alberti attribuiva scarso rilievo a distinzioni di carattere giurisdizionale e se nel dialogo Pontifex egli assegnava al vescovo il compito di celebrare il sacrificium, promuovere la virtù dei cittadini e curare il pubblico decoro, nel De iure non pensava affatto a contestare il foro riservato per i chierici9. Al contrario, la risoluzione del servizio di Dio in sacro della giustizia lo conduceva a concepire la giurisdizione ecclesiastica come quella parte del governo civile affidata al saggio governante con lo scopo di promuovere virtù e pace tra i cittadini. Il magistrato episcopale – chiamato da lui «pontifex» con un’espressione che lo riportava alla sua dimensione classica e insieme sembrava dissolvere una distinzione gerarchica tra vescovo e pontefice – veniva così condotto verso un modello del saggio governante. Un tale panneggiamento d’antiche vesti era volto evidentemente a interpretare più che a mutare gli assetti ecclesiastici del presente, offrendo al principe prospettive culturali per una presenza in spiritualibus tenuta a rispettosa distanza dai contrasti teologici ed ecclesiologici esistenti nella Chiesa contemporanea. Il messaggio prudentemente conservatore contenuto nel discorso di Alberti era del resto reso del tutto chiaro dietro il sottile velo metaforico dell’intercenale Templum, una variante dell’apologo di Menenio Agrippa dove le proletarie pietre di fondazione del tempio, insorte per l’eccessivo carico dell’edificio sacro gravante sulle loro spalle, conducevano al crollo dell’intera costruzione e alla propria stessa rovina.
Il discorso di Alberti sulla religione si dispiegava così come un’interpretazione della cultura classica e della tradizione cristiana pensate nel luogo della loro coincidenza e condotte a un termine di equivalenza. Leon Battista riteneva evidentemente che il cristianesimo contemporaneo sopportasse una interpretazione classicizzata e naturalizzata della religione e ne forniva il saggio più esplicito nel De re edificatoria, dove presentava l’eucarestia come una cena condotta con animo familiare al fine di celebrare la concordia della comunità e la virtù dei cittadini10. Niccolò Machiavelli compiva invece il percorso inverso e, partendo da una idea di religione affine a quella albertiana, contrapponeva religione cristiana e religione romana pensandole nel luogo della loro differenza. Per lui, religione era sostanza della vita civile, radice dell’educazione e dei buoni ordini, fonte di virtù pubblica e valore militare:
«La religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto è cagione della grandezza delle repubbliche così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse»11.
Nella cultura italiana dei tre secoli successivi, questa relazione della religione con i «buoni ordini» e i «felici successi delle imprese» sarebbe rimasta ineludibile anche per i tanti antimachiavelliani. Partendo da questo punto di vista, Machiavelli avanzava contro la Chiesa romana tre accuse tra le più severe mai formulate da penna italiana: di essere la causa della irreligiosità degli italiani; di essere la causa, con la presenza dello stato ecclesiastico, della divisione politica d’Italia; di aver creato culti e devozioni poveri di valore civile e fonte di debolezza morale.
Quale fosse la strada indicata da Niccolò agli italiani, emergeva chiaramente nel modello della religione romana proposto loro nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Quale significato essa potesse assumere per il cristianesimo contemporaneo non era altrettanto evidente, dal momento che in quegli stessi Discorsi veniva esposta una regola generale di riforma della religione consistente nel «ritirarla spesso verso il suo principio». Tale universale regola di conservazione dei «corpi misti» aveva dato frutti essenziali anche al cristianesimo italiano:
«Ma quanto alle sette, se vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie, per lo esemplo della nostra religione la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo principio da santo Francesco e da santo Domenico, sarebbe del tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta; e furono sì potenti gli ordini loro nuovi che ei sono cagione che la disonestà de’ prelati e de’ capi della religione non la rovinino, vivendo ancora poveramente e avendo tanto credito nelle confessioni, con i popoli e nelle predicazioni, che ei danno loro ad intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene vivere sotto la obbedienza loro, e se fanno errore lasciargli gastigare a Dio»12.
Se la legge di riforma delle religioni conduceva il cristianesimo a «pestare i fanghi» di Francesco d’Assisi, lo conduceva certo lungo una via molto differente da quella percorsa da Romolo e da Numa. Il significato riformatore del discorso machiavelliano si trovava così posto di fronte a un bivio e presentava al lettore una fondamentale esitazione. Quale delle due strade imboccare? Quella di Numa che conduceva alla religione del giuramento e del valore militare o quella di Francesco d’Assisi che conduceva alla religione della povertà e dell’eguaglianza? L’esitazione tuttavia non ebbe occasione di durare a lungo perché fu risolta dall’apparizione del ‘cinghiale sassone’ sulla scena europea.
Le parole di Machiavelli sulla regola di riforma delle religioni furono scritte mentre la protesta di Lutero muoveva i suoi primi passi. Non tenevano dunque conto di essa né delle dinamiche politiche e religiose da essa avviate. Tuttavia, benché esse si attagliassero così bene al principio ispiratore del movimento protestante e benché Machiavelli fosse ancora vivo – morì nel 1527 – quando la notizia di Lutero si diffuse in Italia e in Firenze, non possediamo nessun commento suo sul riformatore tedesco e sul suo movimento. Esiste un positivo giudizio di Francesco Guicciardini sulla Riforma luterana che è di carattere politico e si tiene a rispettosa distanza dal tema teologico:
«Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti […]. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato a amare per el particolare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto arei amato Martino Luther quanto me medesimo; non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa comunemente ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti cioè a rimanere o sanza vizi o sanza autorità»13.
Non esiste invece alcun giudizio di Machiavelli sulla Riforma tedesca; e non esiste perché i temi da essa sollevati non erano problema suo. Troppo distante era il modello della religione romana offerto nei Discorsi da quello che andava costruendo Lutero con la teologia della giustificazione sola fide; troppo distante era la religione delle virtù civili e militari dalla religione che arrivava dalla Germania perché Niccolò potesse partecipare davvero alla discussione che si andava aprendo nel cristianesimo europeo. Il suo problema era costituito dalla riforma politica avvertita come dovere religioso e dalla riforma religiosa avvertita come dovere politico: la riforma della fede come problema della teologia esulava dalla sua cultura e dal suo modo di intendere la questione. Non pochi storici, preoccupati di offrire confortanti prospettive di progresso della cultura europea, compongono insieme umanesimo e riforma fin nelle loro espressioni più radicali rappresentate da Machiavelli e da Lutero. Ma, così facendo, costruiscono a posteriori concordanze che non rendono il senso delle alternative presenti nella cultura europea. Machiavelli riformatore religioso sarebbe tornato nel Settecento quando illuministi nutriti dalla lezione della religione civile avrebbero cercato un’alleanza con i giansenisti per riformare le devozioni popolari.
L’Italia delle riforme e delle ben più numerose controriforme prese una strada diversa dalla religione disegnata da Alberti o da Machiavelli, e anzi recise un istituto che nel corso del Rinascimento aveva tenuto legati gli intellettuali alla Chiesa: quel beneficio senza cura d’anime che ebbe un ruolo essenziale nella formazione del letterato rinascimentale. Il tipo dell’umanista di ordini minori o di trascurata regola conventuale mantenuto agli studi da benefici ecclesiastici, fu disgregato prima dall’attacco luterano e poi dall’esigenza tridentina di formare un clero curato ben allineato sulle dottrine della professio fidei uscita dal concilio. La riforma della provvista beneficiale e della disciplina conventuale che intaccò solo parzialmente il cumulo dei benefici praticato dall’aristocrazia in carriera ecclesiastica, incise invece a fondo su quell’istituto che non soltanto costituiva una tradizionale fonte di sostentamento per gli scrittori italiani, ma garantiva anche una cerniera tra istituzione ecclesiastica e mondo laico14. Il chierico non curato o il regolare dedito alle lettere costituivano una figura che poteva sussistere nel contesto della religione immaginata da Alberti e da Machiavelli e interpretata dalla Chiesa dei Della Rovere, dei Medici e dei Farnese, una Chiesa incline a considerare il mestiere delle lettere come una forma di cura d’anime, ma non trovava spazio nel cristianesimo confessionale scaturito dalle nuove chiese delle Riforme. Quella Chiesa intesa come istituzione della società letterata e custode del patrimonio librario tutto, usciva dalla scena dell’Italia moderna portandosi dietro i suoi umanisti e la loro idea di religione.
La riforma che si affermò in Italia andò in direzione opposta a quella indicata dai teorici della religione civile. La società ecclesiastica accentuò la sua gerarchia separata e il suo governo rigorosamente monarchico. La cristianizzazione fu basata su rielaborazioni teologiche scolastiche di indirizzo prevalentemente tomistico che si muovevano in direzione opposta tanto alla defilosofizzazione chiesta da Lorenzo Valla quanto alla scritturalità auspicata da Tommaso Giustiniani e da Vincenzo Querini. Gli strumenti di controllo creati dall’ideologia controriformistica offrirono a una élite ecclesiastica occasione e modo per costruire e imporre una cultura accuratamente diretta dal centro da specifiche congregazioni cardinalizie create nel corso del Cinquecento: la Congregazione del Sant’Uffizio della romana ed universale inquisizione, istituita nel 1542, la Congregazione dell’Indice, istituita nel 1572, e la Congregazione dei Riti istituita nel 158815. Il sistema permise di indirizzare la cultura degli italiani mediante tassonomie negative e positive, accurati elenchi di libri vietati e libri consigliati, costruiti su un dispositivo a quattro comparti: i libri inseriti nella prima classe dell’Indice dei libri proibiti (prima edizione 1559), assolutamente vietati a tutti, compresi principi e cardinali, da far scomparire dalla scena italiana e da essa effettivamente scomparsi; i libri inseriti nella seconda classe di quell’Indice, vietati in maniera più elastica e concessi a qualcuno in ragione del rango sociale e della affidabilità confessionale; i libri permessi; e infine i libri consigliati attraverso appositi strumenti bibliografici, le «biblioteche selezionate» diffuse attraverso i canali forniti dalla scuola e dalla Chiesa tra loro variamente intrecciate16. Tale sistema incise sulle idee degli italiani permettendo un rimodellamento culturale a raggio ‘nazionale’ – esteso cioè dalle Alpi allo stretto di Messina – imposto in maniera omogenea da un ramificato sistema burocratico17. Alcuni dei dispositivi forgiati in quei decenni, a partire dai ‘catechismi’, sarebbero stati poi imitati dai repubblicani negli anni dell’occupazione francese18.
All’umanesimo più radicale furono tagliate le ali ma in forme meno dure di quelle riservate alla Riforma protestante. I libri di Alberti passarono inosservati fino al 1584, quando l’occhio della censura spagnola cadde sulla pagina del De re edificatoria dedicata alla cena eucaristica e alla collocazione dell’altare che, a suo giudizio, doveva essere unico19. Di Lorenzo Valla furono proibiti nel 1559 il De libero arbitrio, il De falsa donatione Constantini e le Annotazioni sul Nuovo testamento20. Machiavelli invece conobbe una storia più complessa. Inserito tra gli autori eretici nell’Indice inquisitoriale del 1559 e mantenutovi poi nel successivo Indice romano del 1564, fu oggetto di una sentenza dettata vivae vocis oraculo il 21 ottobre 1579 da Gregorio XIII che ne vietò ogni riedizione sia pur espurgata. Il suo nome uscì così dal circuito legale per divenire bersaglio della polemica ufficiale degli scrittori tanto cattolici quanto protestanti, che lo fissarono in formule semplificate cui fu dato nome di ‘machiavellismo’. La religione sottoposta a valutazioni di carattere pratico o regolata dal potere politico, la sovranità statale e la sua facoltà di emettere norme in materia ecclesiastica, la ragion di stato, le formule di tolleranza che riservavano alla verità gli stessi diritti concessi all’errore furono da allora catalogate come forme di machiavellismo. Estromessa dal circuito di massa, la pagina di Machiavelli rimase però radicata tra le élites fino al principio dell’Ottocento, quando Vincenzo Cuoco ne richiamava ancora con perizia i passaggi nella sua critica della repubblica partenopea. Rallentando la penetrazione della cultura europea in Italia, la censura ecclesiastica ebbe l’effetto di mantenervi più vivo il rilievo della cultura indigena e, con essa, di Machiavelli, anche quando di là dalle Alpi il suo nome era stato ormai sostituito da altri autori politici. Messo in frigorifero, Machiavelli si conservò più fresco.
La lezione del segretario fiorentino visse così per due secoli radicandosi nella cultura italiana al confine tra sdegnata critica e solerte impiego. La sua valutazione da parte della cultura cattolica rimase compattamente negativa e produsse fiumi di inchiostro, volti a confutare un impianto concettuale considerato come l’ispiratore dei politiques francesi e delle prime formule di tolleranza sperimentate in Francia e in Germania. Nel suo Del dispregio del mondo, Giovanni Botero definì i politiques come coloro i quali sostenevano «non importare che i popoli siano cattolici o eretici, gentili o cristiani purché essi governino e i Signori loro portino la corona» e li accusò di meritare perciò il titolo di «machiavellisti»21. Con maggiore eleganza concettuale, nel trattato De providentia numinis et animi immortalitate libri duo adversus Atheos et Politicos (1613), Leonard Leys (Lessius) definiva i «politici» come coloro i quali «omnem religionem ad Politiam sive Statum politicum referunt […] ex horum numero non postremus tulit Nicolaus Machiavellus»22. Nonostante queste valutazioni, tuttavia, anche la cultura controriformistica, soprattutto laica, scelse di misurarsi sul terreno del machiavellismo dando vita a una trattatistica sulla ragion di stato inaugurata da un saggio di Giovanni Botero. Nel suo Della ragion di stato, l’ex gesuita illustrava la tesi della particolare funzionalità politica della religione cattolica che, attraverso la dottrina dell’efficacia delle opere e il mezzo del confessionale, offriva più di ogni altra i mezzi per tenere i sudditi in obbedienza.
Ma spunti e schegge della pagina di Machiavelli si diffusero anche in altri ambiti, meno facili da ascoltare ma più vicini alla sua ispirazione. Negli anni centrali della Controriforma, a cavaliere tra Cinquecento e Seicento, tali spunti tornarono nelle proposte religiose di due domenicani meridionali. Come l’itinerario percorso da Alberti ha mostrato, quella forma di pensiero che riconosceva Dio nella natura, poco importa se nella forma concettuale di una identità o di una partecipazione, era portata a vedere la verità scritturale nella verità naturale e, di conseguenza, la religione nella politica e la Chiesa nello Stato. La riforma religiosa attesa da Tommaso Campanella era perciò radicale renovatio politica di tipo millenaristico – i solari «aspettano la renovatione del secolo e forse il fine» – e consisteva nella rivoluzione dell’evo politico-religioso cristiano in un nuovo evo ordinato da una religione naturale comune all’intera umanità23. Tale religione della natura venne da lui inizialmente concepita come una sostituzione della vecchia religione basata su istituzioni e sacramenti politici – l’età della politica e del potere, l’età della Chiesa potente e machiavellica – con una nuova capace di superare conflitti e coazioni dell’età presente per dar vita a una società basata sull’amore e la fratellanza universale quale era annunciata dall’Apocalisse e descritta nella Repubblica di Platone. Più tardi, nel corso dei primi anni di prigionia, tale religione naturale venne invece conciliata con il cristianesimo e concepita come una tendenza operante nel suo stesso seno e destinata a realizzarsi pienamente quando il papa e le potenze cattoliche avessero portato a termine l’unificazione dell’umanità in un solo ovile sotto un unico pastore. In questa nuova prospettiva, anche il carattere politico dei sacramenti e delle istituzioni ecclesiastiche acquistò un nuovo valore razionale consistente nel rendere visibili e celebrare i legami e i doveri sociali attraverso «simboli naturali et appropriati all’institution naturale»24. I caratteri della società e della religione dell’età nuova furono descritti da Campanella nella Città del sole: si trattava di una società comunista governata in spiritualibus e in temporalibus da una gerarchia di sacerdoti filosofi secondo una scienza astrologicamente orientata.
La riforma proposta da Giordano Bruno muoveva invece dalla convinzione che il cristianesimo avesse avuto l’effetto di separare gli uomini dalla divinità della causa prima, interrompendo quella proporzione morale e quella comunicazione tra umano e divino che gli antichi sacerdoti egiziani sapevano stabilire attivando le connessioni magiche presenti nelle cose. Il cristianesimo, secondo Bruno, aveva spento l’antica sapienza dei sacerdoti egiziani i quali «conoscevano […] dio essere nelle cose e la divinità, latente nella natura, operandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti […] venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita ed intelletto»25. Divini sono allora gli uomini tutti e nessuna religione «che non è ordinata alla prattica del convitto umano deve essere accettata […] perché, o che vegna dal cielo, o che esca da la terra, non deve essere approvata, né accettata quella institutione o legge che non apporta la utilità e comodità»26. Entrambi dunque i filosofi del panteismo meridionale – Giovanni Gentile lo chiamava «naturalismo», e così anche si può chiamare accentuando il carattere oggettivistico da essi attribuito alla divinità – pensavano a una religione volta a superare la distinzione tra Stato e Chiesa, pagano e cristiano, per porre capo a una sacralizzazione della città e della scienza intesa sotto forme magico-astrologiche.
Ridotta in pillole e in forma polemica, la convinzione che la religione sia fatta di politica e serva gli interessi dei potenti si radicò nell’Italia di antico regime anche a un livello popolare. Che costituisse un’eco semplificata della pagina di Machiavelli o scaturisse da esperienze più elementari e immediate, l’idea della natura politica della religione emerge frequentemente, fino alla fine del Settecento, negli sparsi processi di inquisizione che ci trasmettono la voce degli illetterati27. In quella dei letterati poi, la lezione di Machiavelli manda segnali costanti in seno alla cultura illuministica. Seguendo ancora il modulo dell’ambivalenza, un deista come Alberto Radicati di Passerano nei suoi Discours moraux attribuiva il machiavellismo all’azione della Chiesa che tradiva le regole cristiane per ubbidire a quelle della politica ma ciò non gli impediva, anzi gli suggeriva, di esortare Vittorio Amedeo a seguire le massime di Machiavelli fondando un forte potere monarchico capace di arginare quello ecclesiastico. Il senso di questo suo ambivalente rapporto con Machiavelli è ben illustrato nell’apologo esposto nel Récit fidelle […] de la religion des modernes cannibales, dove Machiavelli, prima rinchiuso in un convento gesuita, riusciva a fuggirne per rinascere in una volontà politica illuminata28. Quarant’anni dopo, al culmine della battaglia anticuriale dell’Illuminismo italiano, nella sua Riforma d’Italia Carlo Antonio Pilati si appellava di nuovo alla lezione dei Discorsi che, invitando a tornare in sul principio, inducevano a «obligare il clero a ripigliare i suoi costumi di prima». Il fatto non sfuggiva al «Mercure de France» che recensiva il libro giudicandolo frutto di machiavellismo29. E benché in Europa la connessione fosse ormai spenta, in Italia anche il repubblicanesimo e la religione civile del Contratto sociale venivano letti a riscontro del segretario fiorentino, come mostra esemplarmente il caso di Giuseppe Maria Galanti30.
Anche all’interno del più ristretto campo costituito dalla reformatio tridentina, il termine ‘riforma’ assumeva un ventaglio di significati differenziati individuabili attraverso il termine a essi opposto. Esisteva la riforma interiore, che indicava un movimento di conversione e una volontà di mutar vita e che si definiva attraverso la relazione con il concetto di ‘peccato’. Esisteva poi la riforma delle istituzioni ecclesiastiche che si definiva attraverso il concetto di ‘abuso’31. Ed esisteva infine la riforma nel senso di evangelizzazione o cristianizzazione della società e della cultura che si definiva attraverso il concetto di ‘superstizione’. Il termine era ereditato dalla cultura romana e costituiva lo strumento da essa impiegato per discernere ciò che apparteneva alla religione da ciò che ne cadeva fuori ed era quindi ‘superstizioso’. Vi risuonava da sempre un’idea di giusta misura da distinguere dalla misura eccessiva, dal troppo e dal magico presenti nei riti da rigettare32. Nel memoriale presentato a Leone X da Tommaso Giustiniani e da Vincenzo Querini in occasione del V concilio ‘lateranense, la superstitio rivestiva un ruolo essenziale. Era indicata come uno dei due mali essenziali – l’altro era l’‘ignoranza’ – della società cristiana ed era trattata sotto i due distinti ma connessi capitoli costituiti dai culti e dalle credenze in uso presso le popolazioni extraeuropee o presso quelle indigene33. Questo schema analogico sarebbe durato fino al Settecento dando fondamento all’analogia tra missioni di evangelizzazione esterne e interne allo spazio europeo. Definita come «peccato contro la religione», la superstitio era per loro in primo luogo quella delle popolazioni americane appena scoperte che «si dedicano servilmente all’insignificante culto degli idoli, del sole, della luna e di animali diversi»34, e in secondo luogo quella indigena riassunta sotto i tre grandi generi della divinazione, della medicina ‘magica’ e dell’affettata osservanza delle cerimonie religiose. La divinazione, a propria volta, comprendeva la conoscenza del futuro a partire dall’astrologia per proseguire poi con la negromanzia, la chiromanzia, l’idromanzia, la piromanzia, la geomanzia e infine con l’interpretazione dei sogni. Il rimedio suggerito dai due camaldolesi per combattere queste pratiche era di tipo interdittivo: si trattava di distruggere i libri di astrologia o di divinazione e di vietare l’uso di oggetti come i salmi, i dipinti, i segni, gli amuleti e i brevi a scopo curativo assieme all’uso miracoloso-magico delle processioni e a un certo numero di orazioni usate per scopi pratici di tipo prevalentemente curativo o amoroso35.
Il dispositivo fu sostanzialmente recepito con l’integrazione introdotta dalla bolla Coeli et terrae pubblicata nel 1586 dal francescano Sisto V con la collaborazione del decano del Sant’Uffizio, Giulio Antonio Santori. L’astrologia, fino ad allora di fatto tollerata, fu posta sullo stesso piano della magia e inquadrata nello schema del patto diabolico assieme alle altre pratiche considerate ‘superstiziose’. Quindi, in conseguenza di tale inquadramento, la giurisdizione su questi reati fu affidata agli inquisitori36. Questa impostazione possedeva un duplice vantaggio pratico: permetteva di combattere un certo numero di pratiche divinatorie o curative senza porne in discussione l’efficacia o la realtà, ma ricorrendo invece a una valutazione negativa della loro origine. Anche quando considerava illusori gli effetti magici, questo modo di vedere le cose attribuiva infatti tale illusione a una causa esterna e oggettiva – il diavolo ingannatore – e non a una interna e soggettiva. La giurisprudenza di inquisizione moderò poi tale interpretazione articolandone la gravità sui due livelli nettamente distinti del patto tacito o del patto espresso con il demonio, così da alleggerire il carico penale gravante sulle «superstizioni semplici»37. La pratica giudiziaria, infine, si incaricò di rendere ancor più leggero tale carico lasciando spesso cadere, per tali superstizioni semplici, anche l’imputazione del patto tacito con il diavolo, senza tuttavia porne mai in discussione l’impianto concettuale. I libri di magia, di astrologia, di negromanzia, idromanzia, piromanzia e geomanzia furono inseriti tra i generi proibiti a partire dall’Indice inquisitoriale del 1559. Le forme di cerimoniale non ecclesiastico furono perseguite con rigore. L’astrologia, avversata dagli inquisitori ma apprezzata da un vasto mondo colto radicato nell’episcopato e nella Congregazione dell’Indice, continuò invece a essere tollerata fino al terzo decennio del Seicento per cominciare a essere combattuta con energia, del tutto priva di successo, a partire dagli anni Trenta del secolo. Nel corso del Seicento la fiducia nell’astrologia e il ricorso agli oroscopi conobbero infatti il loro momento di maggior splendore, e anche l’uso propiziatorio delle processioni non conobbe ostacoli, arricchendosi anzi della rafforzata energia ‘magica’ di bolle e brevi38. Quando nel 1609 la comunità di Este chiese a Roma un breve per ottenere la pioggia, Venezia non trovò nessuna collaborazione a forme di contrasto dell’uso magico di carte papali39.
Nell’attività dei tribunali di inquisizione questa impostazione ‘riformatrice’ cinquecentesca persistette ancora nel Settecento. Continuarono così a essere impiegati manuali come il Tractatus de officio sanctissimae inquisitionis di Cesare Carena nel quale il catalogo dei poteri attribuiti al diavolo contava la facoltà di suscitare tempeste, grandini, venti e calamità naturali, muovere rapidamente i corpi come faceva con le streghe, procurare malattie, trasformare i corpi di uomini e animali, generare impotenza, far nascere giganti e far parlare le bestie40. La lista delle orazioni ‘superstiziose’ si allungò nel corso del Seicento e fu gravata da una connotazione magica sempre più netta41. Nel 1708 l’inquisitore di Bologna, Antonio Leoni, ne recensiva ben 38 nella sua Breve raccolta d’alcune particolari operette spirituali proibite, orazioni e divozioni vane e superstiziose nel quale egli definiva coloro che praticavano riti superstiziosi come persone:
«che abbiano fatto o facciano atti da’ quali si possa argomentare patto espresso o tacito col demonio, esercitando incantesimi, magia, sortilegi, porgendovi suffumigi, incensi per trovar tesori e altri intenti, chiedendo da lui risposte e invocandolo e a quest’effetto promettendogli obbedienza e consecrandogli pentacoli, libri, spade, specchi, o altre cose nelle quali intervenga il nome e operativa»42.
Se questa era la via percorsa dai tribunali di inquisizione, l’esperienza missionaria, soprattutto gesuitica, aveva però contribuito a introdurre alcune rilevanti correzioni nell’atteggiamento verso le superstitiones. Le missioni in India e Cina avevano posto i gesuiti a contatto con riti e credenze da loro inquadrate, secondo lo schema tradizionale, sotto la categoria delle ‘superstizioni’. L’incontro con questi mondi aveva posto però il problema dell’atteggiamento da assumere verso tali complessi culturali nella strategia di cristianizzazione, e alcuni importanti missionari, come Matteo Ricci e Roberto Nobili, avevano proposto di considerarli come religioni germinali pervase da un sentimento della divinità allo stato embrionale e confuso, da condurre verso i rudimenti del cristianesimo43. Seguendo lo schema analogico già illustrato nel Libellus ad Leonem X, selvaggi americani e contadini italiani assunsero così nella metodologia gesuitica – in realtà, solo in alcune sue punte più coraggiose – una analoga posizione di persone volte a superstizioni contenenti però semi di religiosità da educare verso il cristianesimo44. L’analogia condusse dunque i gesuiti a un atteggiamento maggiormente conciliante tanto verso le culture extraeuropee quanto verso quelle interne. Lo stesso schema condusse invece i giansenisti all’atteggiamento opposto inducendoli ad assumere una posizione più intransigente, tanto verso le culture extraeuropee quanto verso le tradizioni contadine interne, da loro considerate prive di germi di verità e quindi da combattere e sostituire con una religione che, nell’origine rivelata, manteneva un carattere di assoluta originalità non rintracciabile in sostrati culturali precedenti.
La categoria di ‘superstizione’ assunse un ruolo centrale anche nella cultura illuministica, che anzi ne fece lo strumento di base della propria battaglia. Gli illuministi introdussero però delle modifiche che ne trasformarono le caratteristiche ereditate dalla Controriforma. Essi sostituirono lo schema dell’origine maligna della pratica ‘superstiziosa’ con quello della falsa credenza e posero l’attenzione principale su riti e credenze presenti all’interno della tradizione cattolica. In quanto intellettuali cattolici parteciparono a questo processo, in tanto si può parlare di una ‘Aufklärung cattolica’. In quanto essi fallirono la propria partecipazione a tale processo, in tanto non si può parlare di una ‘Aufklärung cattolica’. Questo obbiettivo indusse gli illuministi a prediligere l’alleanza con i giansenisti, che aveva il significato di porre in primo piano la battaglia contro le superstitiones interne agli assetti ecclesiastici, lasciando in secondo piano il problema dell’atteggiamento da assumere verso le culture extraeuropee, dove invece l’alleanza con i giansenisti era destinata a dissolversi. Gli illuministi divaricarono infatti sempre più nettamente l’atteggiamento verso le superstitiones interne da quello verso le culture extraeuropee dove la convergenza con la maggior tolleranza gesuitica, tante volte rinnegata dalla stessa Compagnia di Gesù, non poteva che rimanere parziale ed episodica.
Il saggio Del congresso notturno delle Lammie, pubblicato da Girolamo Tartarotti nel 1749, era assai cauto e quasi timido nelle sue formulazioni. Si limitava a contestare la realtà del sabba senza porre in dubbio né la realtà della magia né quella della stregoneria. La novità tuttavia esisteva e stava nel fatto che, ipotizzando «un pazzo gioco della fantasia» e valutando la credenza nel sabba come «contraria alla sperienza»45, Tartarotti introduceva la categoria della falsa credenza come opinione non riscontrata dall’esperienza. Era un’innovazione di essenziale rilievo. Nell’edizione della Magia naturalis pubblicata nel 1558, Della Porta aveva spiegato le rappresentazioni del sabba come un’illusione indotta dall’uso di unguenti allucinogeni: non dunque come una falsa credenza ma come un’allucinazione prodotta dall’effetto di droghe. In ogni caso, tale passaggio, contrario alla dottrina ufficiale della Chiesa, era stato omesso nella traduzione del 1560 e a partire dall’edizione del 1589 era caduto definitivamente con il consenso dell’autore46. Nella sua risposta al trattato di Tartarotti, Gian Rinaldo Carli fu ben più deciso e recise nettamente la questione considerando falsa credenza la stregoneria tutta – non solo il sabba – assieme alla magia e all’astrologia47. Scipione Maffei lo seguì. Non altrettanto fece Ludovico Antonio Muratori, il quale avvertì tuttavia il bisogno di giustificarsi con l’amico: «Siete entrato ancor voi nell’opinione della non magia. Non vi prendiate fastidio s’io l’havessi tenuta: è perché io non sono stato animoso come voi. Le Sacre Scritture mi fanno paura; e giacché nulla è stato proibito finora del mio, non vorrei che fosse neppure di qui in avanti»48. Anche un erudito cauto e ortodosso come Muratori, tuttavia, rivolse la sua attenzione verso eccessi e false credenze presenti nelle devozioni promosse o accettate dalla Chiesa italiana. Egli ne affrontò il tema prima nel De superstitione vitanda (1740) e poi nel Della regolata divozione de’ cristiani (1747), nel quale considerava lecito pregare i santi per ottenere «benefici temporali» quali il liberarsi dai mali del corpo o dalle calamità naturali, ottenere fertilità e figli o far prosperare viaggi e navigazione, ma biasimava la devozione «per isperanza unicamente de’ beni temporali» e denunciava sia l’abbondanza di falsi miracoli sia l’uso di chiederne ai santi. Più deciso di Muratori ma non degli scrittori protestanti, Pilati indicò come ‘superstizioni’ pompe, processioni, tavole votive e produzione di falsi miracoli, obbligo del digiuno e uso di flagellarsi, compiere pellegrinaggi, visitare chiese, dare elemosine per le messe, fare legati pii, recitare spesso l’ufficio della Madonna o pagare le decime per ottenere favori celesti49. Questi costumi stavano a suo giudizio imbarbarendo gli italiani che erano indotti così «a rubare, ad uccidere e a danneggiare per altra qualunque maniera il prossimo suo e poi intraprend[ere] qualche pellegrinaggio nel santuario del loro santo Avvocato»50. E ripetendo un gesto antico che dimostrava quanto inefficaci fossero stati i discorsi svolti nei due secoli precedenti, egli tornava a indicare la principale sorgente di questa «superstizione» nei conventi dove i frati «fingono le vite dei santi» e «compongono i miracoli» non secondo quanto conviene alla Maestà divina «per cui volontà ogni miracolo avviene» ma secondo «che loro addita la lor riscaldata e puerile fantasia». I frati erano soliti inventare «mille devozioncelle e mille folli maniere di atti pietosi […] con irriducibile perdita di tempo e con danno infinito della Società che perde le fatiche di tanta gente», così rendendo gli uomini «superstiziosi, goffi, timidi, creduli, e sommamente poltroni»51.
Nel giro di una trentina d’anni, la dottrina e le credenze utilizzate dalle autorità ecclesiastiche per combattere la ‘superstizione’ erano diventate esse stesse ‘superstiziose’. Parallelamente alla categoria di ‘superstizione’ mutava allora anche quella della sua ‘riforma’ che si volgeva ora verso le abitudini interne alla tradizione cattolica. E il suo criterio diveniva quello che guidava la nuova cultura settecentesca: l’utilità, sempre più frequentemente impiegata per valutare consuetudini, devozioni e privilegi promossi o accettati dalla Chiesa italiana. Introducendo il lavoro, la produzione e l’utilità sociale come criteri di riforma, Muratori suggeriva di proibire ai mendicanti di elemosinare in chiesa e di sfoltire l’eccessivo numero delle festività che danneggiavano «chi s’ha da guadagnare il pane coll’arti»52. E Pilati faceva valere criteri analoghi, sebbene più radicalmente applicati, proponendo la chiusura dei conventi e dei tribunali di inquisizione, lo scoraggiamento dei pellegrinaggi, la riduzione del numero dei preti secolari, l’introduzione della tolleranza religiosa e l’istituzione di collegi di istruzione dove insegnare materie «che agli affari del mondo propriamente appartengano». Sulla stessa linea si muoveva Antonio Genovesi quando considerava la riduzione del numero degli ecclesiastici e la riforma della loro funzione sociale uno dei cardini del proprio insegnamento53.
La ‘riforma’ tornò così a essere l’espressione più diffusa del lessico etico-politico italiano. «O riforma, riforma, quanto sei necesaria» scriveva l’autore veneziano del Piano ecclesiastico per un regolamento da tentare54; e Antonio Verney parlava di fare «qualcosa per il pubblico bene e per riformare i disordini»55. Il «Giornale letterario» di Pilati attribuiva a Genovesi il merito di aver parlato «delle tre possibili riforme, di chi ne aveva bisogno, dello stato e del popolo»56 e un anonimo scrittore, commentando le iniziative di Pombal all’inizio degli anni Sessanta, osservava che «il sentire che uno ci vuol riformare ci dispiace subito»57. La ‘riforma’ era valore così indiscutibile che nel suo Nazarenus et Lycurgus mis en parallèle Alberto Radicati ne faceva l’ufficio fondamentale di un Cristo descritto come liberatore dalla tirannia, instauratore dell’eguaglianza e della democrazia e quindi «riformatore» del genere umano58. La dislocazione delle posizioni era però mutata da quella operante nel Rinascimento: se le ‘superstizioni’ da riformare erano quelle presenti nella tradizione ufficiale, l’interlocutore ecclesiastico si faceva evanescente e la forza cui rivolgersi diveniva il potere politico. Questo processo, culminato con le riforme di Toscana e di Lombardia, era cominciato in effetti fin dall’inizio del secolo e costituiva una tendenza di lungo periodo del movimento illuministico in tutte le sue diverse tendenze religiose. Era a Vittorio Amedeo II che Alberto Radicati si rivolgeva nei Discours moraux per «riformare gli abusi introdotti dopo tanti secoli nel corpo ecclesiastico»59. Era il decreto emanato da Pombal il 28 giugno 1759 a essere salutato come una ‘riforma’ del clero, ed era il riordinamento asburgico dell’università austriaca a essere definito dall’arcivescovo di Vienna, Cristoforo Migazzi, «una novella riforma degli studi di Vienna»60. Era la filosofia che Pilati indicava come organo della «riformazione» ed erano gli intellettuali laici operanti al servizio del principe che Pedro Rodríguez de Campomanes indicava come gli ufficiali del moto riformatore61. Quando dunque nel penultimo decennio del secolo Giovanni Amaduzzi auspicava in Toscana «che Dio si serva del risentimento de’ principi laici per promuovere e maturare la necessaria riforma della Chiesa che non è sperabile d’avere dalla spontanea deliberazione dell’odierno regnante sacerdotale» non faceva che trarre le conclusioni di una tendenza di lungo periodo del riformismo settecentesco. De Vecchi gli faceva eco scrivendo a Ricci il 1° agosto 1781 che «se l’impegno non è tutto del Gran Duca io ci vedo poca conclusione: e certamente bisogna molto pregare Iddio»62. Le riforme devozionali progettate in Toscana da Pietro Leopoldo tra 1786 e 1788 provarono, senza successo, a tradurre in misure concrete un’alleanza maturata lungo l’intero secolo.
Gli uomini vicini alla curia videro invece nella riforma una parola nemica e si collocarono su posizioni di apologia della conservazione. Nel 1757 il benedettino bavarese Anselmo Desing difendeva il principio della libera proprietà ecclesiastica biasimando i «disadattati e sciocchi riformatori»63 e nel 1767 Tommaso Maria Mamachi scriveva che «lo spirito di innovazione e di riforma in materie di religione» era «funesto allo stato non meno che alla chiesa»64. In effetti, non è possibile indicare un momento specifico, una svolta a partire dalla quale le autorità ecclesiastiche cominciarono a opporsi agli illuministi, così come non è possibile rappresentare l’Illuminismo italiano come un movimento volto verso posizioni filosofiche e religiose tanto radicali da condurlo a spezzare la corda che lo aveva tenuto in precedenza legato alla Chiesa. Il processo fu diverso. In Italia esistevano autorità ecclesiastiche di controllo sulla circolazione di idee e libri che tra Seicento e Settecento funzionarono con continuità colpendo regolarmente le idee provenienti d’Oltralpe. Mutamenti di indirizzo e cambi di passo ci furono, ma si inserirono entro una collaudata persistenza di metodi e di atteggiamenti. In effetti, le posizioni radicali sul piano filosofico e religioso – di carattere deistico, panteistico o ateistico – si manifestarono in forme aggiornate alla fine degli anni Ottanta del Seicento, ma furono soffocate con prontezza da due grandi processi avviati dall’irrigidimento inquisitorio di Alessandro VIII e condotti a termine sotto il più moderato Innocenzo XII. Al volgere degli anni Ottanta si formarono contemporaneamente a Roma e a Napoli due gruppi piuttosto folti: il primo riunito attorno al ricco prelato Pietro Gabrielli, il secondo attorno a Basilio Giannelli e Giacinto de Cristofaro. Questo secondo gruppo, napoletano, era contrassegnato da un materialismo di impianto epicureo a innesto cartesiano mentre il gruppo romano di Gabrielli, per quanto si può evincere dai sommari del processo, seguiva idee di tipo deistico che a tratti assumevano aspetti panteistici simili a quelli del contemporaneo deismo inglese65. I due gruppi furono oggetto di due processi paralleli che nel caso romano presero una piega cruenta. L’accademico Antonio Oliva, ispiratore del gruppo romano, si gettò dalla finestra mentre veniva portato per la seconda volta in camera di tortura e morì tra tormenti atroci. Pietro Gabrielli, protetto dalle parentele cardinalizie, riuscì a evitare la corda ma non la condanna al carcere duro a vita. Il suo bibliotecario Filippo Alfonsi, invece, privo di pari protezioni, fu sottoposto a un’ora di corda e condannato poi al carcere perpetuo e duro assieme a Giuseppe Pignatta e Pietro Antonio Capra66. Morì per i postumi della caduta sofferta mentre tentava di fuggire dal carcere: le braccia indebolite dalla quaestio non sostennero il peso del corpo. Qualche anno dopo, il deista Antonio Radicati di Passerano dovette fuggire in Inghilterra, dove trascorse il resto della sua vita da esule. Pietro Giannone, invece, nel 1721 provò a stampare la sua Istoria civile del regno di Napoli in patria. Il libro fu messo all’indice, l’autore scomunicato e costretto a fuggire prima a Vienna e poi a Venezia, dove poté soggiornare soltanto un anno perché il 13 settembre del 1735 fu catturato da agenti del Sant’Uffizio e abbandonato in territorio pontificio. Riparato a Ginevra, fu rapito da agenti di Carlo Emanuele III il 24 marzo 1736 e consegnato all’inquisizione piemontese che lo condannò ad abiura e carcere. E come era accaduto già a Tommaso Campanella, l’esperienza del carcere segnò la fine del suo programma deistico e il ripiegamento su posizioni di compromesso67. In Toscana, infine, nel 1739 fu processato e condannato il massone Tommaso Crudeli. È inutile discutere, con metodi controversistici che poco hanno a vedere con la comprensione storica, se misure come queste non conservassero un principio di misura che il Novecento avrebbe dimenticato lasciando vedere di peggio. Il fatto è che a cavaliere tra Seicento e Settecento tutte le più rilevanti manifestazioni del pensiero deistico o materialista furono individuate e costrette all’abiura o all’esilio con pene tali da scoraggiare ambienti intellettuali isolati e dispersi, in qualche caso di estrazione nobiliare, in qualche altro borghese, ma sempre appartenenti alla società letterata vicina alla corte e alle pubbliche magistrature.
Le proibizioni emanate dall’Indice tennero il passo. Nel 1679 furono censurati gli Opera postumi di Benedetto Spinoza. Nel 1682 fu proibita la Histoire critique du vieux Testament di Richard Simon. Nel 1701 fu sottoposto a censura il Leviathan di Thomas Hobbes. Nel 1715 fu vietato il Discourse of Freethinking di Anthony Collins. Nel 1722 fu la volta dell’Adeisidaemon di John Toland. Nel 1723 toccò a Giannone. Benché apparso in una versione espurgata, non appena il Paradise Lost giunse a conoscenza delle autorità ecclesiastiche fu proibito: anno 1732. Il 19 giugno 1734 fu condannato con breve di Clemente XII il An Essay Concerning Human Understanding di John Locke. Lo stesso anno fu proibito The Tale of Tube di Johnatan Swift. La The Reasonableness of Christianity di Locke fu condannata dal Sant’Uffizio il 25 settembre 1737. Nel 1751 fu la volta dell’Esprit des Lois di Montesquieu. Nel 1762 toccò al Candide di Voltaire e alle Lettres persanes68. Sono condanne che non devono sorprendere. Esistevano due congregazioni incaricate di condannare e perseguire la manifestazione di idee contrarie alla dottrina della Chiesa – naturalmente, quale da esse stesse definita – e che svolgevano normalmente il proprio lavoro condannando difformità anche assai minori di quelle contenute in questi scritti. Tali condanne, che colpirono con regolarità le novità religiose e il dibattito filosofico provenienti d’Oltralpe, non ebbero la stessa incidenza di quelle cinquecentesche, ma non furono tuttavia irrilevanti e, sommate ai processi, concorsero a mantenere sotto tutela la pubblica discussione. Il dibattito illuminista non si svolse in uno spazio libero davanti a una società di liberi lettori, ma si dipanò piuttosto in condizioni di libertà vigilata e circoscritta da confini facili da individuare.
Il maggiore accesso alla lettura fu consentito, fino alla metà del Settecento, da un largo impiego del permesso di leggere rilasciato dalle autorità ecclesiastiche in deroga ai divieti dell’Indice. Come esso funzionasse negli anni posti tra Seicento e Settecento ce lo spiega Pietro Gabrielli, in una lettera scritta dal carcere nel 1695:
«[…] in quanto alli libri proibiti, credo pure che la licenza sarà facile ad ottenersi in quanto a ritenergli ad uso di libraria et appartatamente da gli altri, e sottochiave, come si pratica in tutte le librarie di Roma pur non publiche, la qual cosa non si suole mai negare, benché non sarebbe facile ad ottenerla in quanto a leggerli»69.
La testimonianza è resa forse troppo ottimistica dall’intento dello scrivente di smuovere il suo neghittoso interlocutore e dalle sue strette connessioni curiali. Essa ci fornisce comunque il quadro di una distinzione ormai nettamente affermata tra permesso di possedere e permesso di leggere e della conseguente formazione, in tutte le biblioteche di una certa consistenza, di depositi librari conservati in armadi chiusi o stanze sigillate. Chi non riusciva a ottenere il permesso di lettura per i libri di suo interesse, poteva ricorrere a un contrabbando non difficile, come faceva ancora alla fine del Settecento Alessandro Verri quando riceveva i libri proibiti nascosti dal fratello Pietro in piccoli pacchi70.
Per quanto riguarda gli scrittori il discorso era diverso. S’è visto quali certi confini si imponesse Muratori per non essere esposto a condanne. Chi voleva spingersi oltre doveva farlo attraverso stampe anonime e con falsa data, o più semplicemente lasciando il testo manoscritto. Il libro di Carlo Antonio Pilati, Di una riforma d’Italia, uscì nel 1767 anonimo e sotto falsa data. L’opuscolo La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, oggi attribuito a Cosimo Amidei dopo laboriose ricerche, fu stampato sotto rigoroso anonimato e, appena apparso nel 1768, prontamente condannato al rogo71. La mancata presenza dell’approvazione episcopale alla Istoria civile costò a Giannone una peripezia durata l’intera vita. Il Ragionamento sopra la potestà temporale de’ principi e l’autorità spirituale della Chiesa, scritto nel 1768 dal barnabita Paolo Frisi, rimase più prudentemente inedito, e lo stesso accadde alle meditazioni di Celestino Galiani sui rapporti tra ragione e fede72. Erano questi i certi confini imposti al pubblico dibattito e rispettati da coloro i quali volevano accedere a stampe regolari. La condizione di equilibrio, trovata allora dagli scrittori illuministi per accedere al vaglio di una pubblica discussione, fu di spingersi a discutere raramente i principi regolatori dei rapporti tra Stato e Chiesa e mai i temi filosofici dotati di una valenza teologica. L’esempio offerto da Gianbattista Vico rimane a questo proposito un’eccezione dei primi tempi. Il carattere pratico assunto dall’Illuminismo italiano non fu il frutto di scelte metodologiche ma corrispose a condizioni imposte dall’esterno. Esemplare di una strategia collettiva fu la svolta operata negli anni centrali del Settecento da Antonio Genovesi che, partito da ambizioni di nuova fondazione filosofica, lasciò cadere questi interessi e si volse verso quelli economici a causa degli innumerevoli ostacoli incontrati nella sua impresa. Gli Elementa metaphisicae apparsi a Napoli nel 1743 furono sottoposti alla consueta accurata censura che condusse all’altrettanto consueta richiesta di modifiche al testo, realizzate pubblicando una Appendix. Il problema si ripropose con il quarto volume dell’opera, del quale evitò la proibizione collaborando con le autorità alla correzione delle successive edizioni73. La scelta degli studi economici si presentò allora come neutralizzazione di una ricerca filosofica per la quale in Italia non esistevano le condizioni. Non si trattò di una ricchezza ‘antimetafisica’ dell’Illuminismo italiano, ma di una povertà generata dai persistenti limiti imposti alla produzione intellettuale nella penisola.
Benché sancita nel Quattrocento dalla definitiva prevalenza della soluzione monarchica sui concorrenti progetti conciliaristici, la concentrazione del potere ecclesiastico nelle mani degli uffici romani produsse nella cultura umanistica una trattatistica sulla corte e il cardinalato ma non un’analisi delle conseguenze di questo processo sulla politica e sul governo degli stati italiani74. Gli umanisti continuarono a proporre, con maggiore o minore decisione, un’idea di religione come sostanza etica degli ordini politici, un antico ripensato in forma moderna, che non incontrava le tendenze del dibattito ‘riformatore’ interno alla Chiesa. Dopo il concilio di Trento il rapporto tra politica e religione imboccò una strada opposta a quella descritta da Alberti e da Machiavelli, e il pensiero uscito dalla scuola di quegli umanisti dovette misurarsi con la situazione determinata dalla crescita di un dualismo di poteri tra stati regionali e monarchia ecclesiastica.
Paolo Sarpi fu il primo filosofo italiano – poi divenuto giurista e storico – a misurarsi con la nuova figura assunta dalla religione nell’età dell’assolutismo monarchico. La sua analisi pose capo alla definizione del governo pontificio come di un «totatus», una forma nuova e originale di potere volta a concentrare nelle proprie mani ogni altra autorità ecclesiastica abbattendo i vincoli posti dalla Scrittura, dalla tradizione patristica, dai canoni o dai decreti conciliari. Il processo avviato trasferendo i poteri della società cristiana prima dai laici agli ecclesiastici e poi dagli uffici intermedi a quelli monarchici possedeva, a suo giudizio, tre caratteristiche: era un processo di lungo periodo avviato già in età tardoantica e proseguito poi con decisione e chiarezza di propositi nel Duecento; aveva posto capo a una forma di potere moderna, cioè nuova e inusitata; e infine aveva prodotto una completa positivizzazione del diritto, usato da un apparato burocratico come una tecnica di governo presentata però in forma sacrale e quindi mistificata.
La politica ecclesiastica, da lui gestita al servizio di Venezia dal 1606 al 1623, fu una conseguenza di questa analisi e costituì il primo coerente e organico modello giurisdizionalistico approntato da uno Stato italiano. Il suo scopo fu di estendere la sovranità di Venezia su persone e beni ecclesiastici, difendere autonomia e prerogative degli uffici territoriali, dai parroci fino ai vescovi, e di limitare la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. Ciò che invece venne effettivamente realizzato di tali scopi illustrati nei consulti, fu di mantenere alcune prerogative tradizionali esercitate da Venezia sulle persone ecclesiastiche – come la giurisdizione laica sui delitti più gravi commessi da chierici di rango non troppo elevato, i giuspatronati laici o la sorveglianza sui monasteri femminili – e di stabilire una certa sorveglianza politica sulle giurisdizioni ecclesiastiche. Nel complesso dunque, il giurisdizionalismo veneziano sorto dalla crisi dell’interdetto (1606-1607) si risolse nella salvaguardia di alcune prerogative veneziane in rebus spiritualibus, lasciate intatte nella configurazione loro attribuita dal concilio di Trento.
Seppur guidato da strategie meno organiche, tutto il giurisdizionalismo italiano del Seicento assunse la forma di una convivenza tra l’esercizio di funzioni giurisdizionali e politiche da parte del potere ecclesiastico e la tutela delle esigenze di un potere civile guidato dall’emergente criterio di sovranità. Così accadde al timido giurisdizionalismo milanese e così accadde a quello napoletano, volto soprattutto a ridurre esenzioni fiscali, civili e penali generatrici di una smisurata crescita del numero delle ordinazioni e ad arginare l’avanzata della giurisdizione ecclesiastica promossa dalla redazione della bolla In Coena Domini pubblicata da Pio V nel 156875. E questa situazione si protrasse fino agli anni Sessanta del Settecento. Ancora nelle trattative relative al Concordato napoletano del 1748, il problema principale sollevato dalla parte regia fu l’immunità locale e reale del clero con il connesso godimento dell’esenzione da gabelle e dazi su prodotti agricoli, bestiame, censi e arrendamenti. Il Concordato superò il principio dell’immunità stabilendo la regola della doppia tassazione dei beni ecclesiastici, limitò l’immunità locale e personale, stabilì il controllo regio sull’amministrazione dei luoghi pii laicali e pose un freno alle ordinazioni sacre76. In Toscana nel 1769 fu varata la legge sulla manomorta, fu ristabilito l’exequatur e fu abolito il diritto d’asilo, quindi, nel 1770, furono abolite le carceri claustrali. A Venezia nel 1754 fu ripristinato l’exequatur e nel 1768 fu varata la legislazione sulla manomorta77.
Nel corso di queste trattative giurisdizionali, i rappresentanti degli stati cominciarono a descrivere la propria parte come parte «laica». Nella relazione presentata nel 1767 dalla Deputazione estraordinaria formata a Venezia in materia di riforma ecclesiastica si poteva trovare lamentato quanto dalle proprietà ecclesiastiche restasse «impedita la circolazione dei fondi dello stato e di quanti tarli venga corroso quel cibo che dovrebbe alimentare il corpo laico»78. Due anni dopo, nelle sue Riflessioni sopra la bolla In Coena Domini, Tommaso Antonio Contin scriveva che «chi esaminerà lo spirito della bolla […] vedrà che tende a snervare i domini laici»79. Nella sua Riforma d’Italia, Pilati lamentava invece che si lasciassero ai laici «tutte le cure e molestie»80. Il significato dell’aggettivo «laico» prendeva così a slittare dal tradizionale significato di «membro laico della chiesa» o «membro della chiesa privo di ordini sacri», usato nelle Controversie di Bellarmino, a quello di corpo civile autonomo e orientato dalla ragione naturale verso un proprio sistema di interessi81. Altrettanto importante del lento mutamento di significato dell’aggettivo ‘laico’ era il fatto che gli scrittori di quella parte che si definiva appunto laica non rappresentassero più la trattativa giurisdizionale come un conflitto tra le ragioni di uno Stato cristiano e quelle della curia romana, ma la rappresentassero invece come una divergenza di interessi tra il corpo ecclesiastico e un corpo civile sempre più governato dal concetto di ‘utilità’. L’atteggiamento giurisdizionalistico cambiò infatti segno negli anni Sessanta del Settecento con l’affermarsi anche in questo campo del nuovo criterio utilitaristico posto in auge dai saggi di Quesnay e di Hume. Su questa nuova base fu lanciato un attacco al clero regolare sopprimendo un certo numero di conventi con lo scopo di incardinare le funzioni ecclesiastiche sul clero «utile» – il clero secolare con le sue funzioni di cura d’anime, istruzione e assistenza – e di liberare la terra per la circolazione commerciale e gli investimenti produttivi auspicati dalle teorie fisiocratiche82.
Nel complesso, fino al principio degli anni Settanta del Settecento, il giurisdizionalismo italiano non possedette né la progettualità né la volontà di entrare nel campo di una riforma delle devozioni e degli assetti ecclesiastici. Ciò non significa che esso non svolgesse una funzione correttiva di quegli stessi assetti. Con il rifiuto della Riforma protestante e della dissoluzione del diritto canonico da essa promossa, la Chiesa italiana andò consolidando la propria natura di «chiesa del diritto» e la fatale tendenza a espandere poteri e giurisdizioni83. Atti come la bolla In Coena Domini del 1568, che comminava la scomunica ai nemici dello Stato pontificio e ai violatori delle immunità personali e reali del clero, o come la bolla Cum alias nonnulli del 24 maggio 1591, con la quale si dichiarava lo ius divinum delle esenzioni ecclesiastiche, costituirono gli episodi più appariscenti di un’istituzione che si autotutelava emanando norme di diritto. In un tale contesto, chiusa la via di una riforma teologica della fede, le preoccupazioni politiche fatte valere dagli Stati valsero a contenere la giurisdizione ecclesiastica in terra italiana. Di fatto, fu una riforma da fuori: la prima di una serie che di lì a poco avrebbe acquistato ritmo incalzante.
Le forme assunte dalla politica giurisdizionalistica furono molteplici e, come s’è detto, volte ad affermare prerogative sovrane senza contestare alla Santa Sede il potere di emanare norme di diritto valide negli Stati italiani ma vincolandole all’exequatur statale. Si trattò di politiche differenziate in ogni singolo Stato e non sempre omogenee. La strategia più densa di sviluppi e produttiva di forme politiche fu quella volta a separare il giudizio ecclesiastico dalla giurisdizione ‘coattiva’. Gli Stati meglio ordinati, sosteneva Sarpi, erano quelli che:
«rimettono sempre alla chiesa il giudicare se una dottrina è catolica o no, ma il punire li delinquenti vogliono che dipendi dalla loro autorità, se bene alcuni la commettono a ministri secolari, altri hanno ministri ecclesiastici per ciò, ma dependenti da loro come in Spagna»84.
La competenza dottrinale e la cura morale alla Chiesa, i poteri coattivi o, come avrebbe detto più tardi Max Weber, il monopolio dell’uso legittimo della forza allo Stato. Il principio era semplice ma applicarlo in Italia non era facile. Le classi dirigenti degli stati italiani infatti non intendevano rinunciare al principio che fede, morale e costumi interpretati dalla Chiesa andassero tutelati dallo Stato e imposti alla generalità dei sudditi con leggi penali. Ci si trovava così di fronte a un bivio, anzi a un trivio: lasciare la tutela penale di quegli interessi alle magistrature ecclesiastiche e rinunciare quindi alla applicazione del principio del monopolio statale dell’uso della forza, oppure affidare alle magistrature ecclesiastiche il giudizio e alle magistrature civili la sua esecuzione e ridurre così lo Stato a braccio della Chiesa, oppure ancora affidare tale tutela alle magistrature dello Stato e costruire così uno Stato confessionale di tipo luterano: che era precisamente quanto i giurisdizionalisti avversavano. La via era stretta e la soluzione perseguita dal giurisdizionalismo ispirato da Sarpi fu di scindere la giurisdizione ecclesiastica in due sfere distinte: da una parte il giudizio dottrinale e la cura morale degli individui, da lasciare alle magistrature ecclesiastiche, e dall’altra la tutela penale esercitata dal magistrato politico sulla manifestazione pubblica di atti contrari alla religione dominante. Nel caso dell’inquisizione, questo significava estinguere la sua giurisdizione separando l’opinione dottrinale da riservare al giudizio ecclesiastico e, se mantenuto nella sfera privata, alle sue cure spirituali, dall’offesa pubblica e ‘scandalosa’ fatta alla religione dominante, da affidare invece alla punizione del magistrato laico. Questo principio fu enunciato per la prima volta il 9 settembre 1609 in relazione alla disciplina da riservare alla minoranza greca:
«[…] li greci siino soggietti nelle cose temporali alli magistrati e nelle spirituali alli loro prelati, e se fallano nelle cose della fede cristiana, anco in quelle dove convengono con noi, se questo è stato senza scandolo, si è lasciato il pensiero alli suoi preti, se con scandolo, sono stati puniti dal giudice temporale. E così è cosa giusta che si osservi e si pratichi per l’avenire, non permettendo che l’ufficio dell’Inquisitione per qual si voglia causa proceda contro giudei, saraceni, marrani o contra altri infideli di qual si voglia sorte; né meno contro cristiani greci, egizi, armeni o di altra natione, la qual tutta intiera non riconosce la corte romana e ha propri prelati a’ quali è soggietta»85.
In questo consulto, Sarpi eccettuava prudentemente i protestanti: se non l’avesse fatto, il suo discorso sarebbe equivalso a una richiesta di soppressione dell’inquisizione per la quale non esistevano le condizioni. Ma il principio secondo il quale andava esentata dalla giurisdizione di quel tribunale ogni «natione, la qual tutta intiera non riconosce la corte romana» conduceva alla logica esclusione anche dei protestanti d’Oltralpe lasciando intravedere, a chi avesse saputo leggere, una estinzione completa di quel tribunale. E infatti, il 29 ottobre 1622, Sarpi colse l’occasione di un processo di magia per proporre precisamente l’abolizione dei tribunali di inquisizione:
«e sono qualche decenne d’anni che a quel ufficio non si è fatto processo di eresia formale, ma solo di qualche incontinenza di lingua, usata da alcuno in non parlar della religione con la conveniente riverenza et intelligenza, e per qualche occorrenza di erbarie e strigarie, cause che siccome appartengono per lo spirituale al patriarca e per il temporale alla biastema (sc. agli Esecutori contro la Bestemmia), così occorrendo necessità possono essere trattate a quei tribunali»86.
Era lo stesso schema proposto il 9 settembre 1609 per regolare la giurisdizione veneziana sui greci e il fatto che il regime riservato a una minoranza religiosa fosse proposto a modello della religione di Stato, era altrettanto rilevante della specifica soluzione predisposta. Questa nuova ripartizione delle competenze avrebbe avuto l’effetto di depenalizzare la sfera della coscienza e delle idee manifestate in forma privata e ‘non scandalosa’. E poiché per lui «all’autorità spirituale della Chiesa non sono soggetti se non li fedeli», la giurisdizione ecclesiastica sarebbe stata avviata verso la sfera della volontarietà. Si trattava dunque di un modello che non era quello dello Stato confessionale perché non si occupava né della dottrina ecclesiastica, né della coscienza, né della sfera privata dei sudditi, e non era quello del successivo Stato liberale perché tutelava penalmente la religione di Stato nella sfera pubblica.
La proposta di Sarpi non fu accettata e Venezia continuò a mantenere in vita i tribunali di inquisizione insieme a quelli laici. Era stato prospettato però un percorso denso di sviluppi. La tutela della moralità e dei costumi era una dimensione della religione che gli stati di antico regime consideravano indispensabile al buon governo. Attraverso di essa la confessione religiosa assumeva una funzione regolatrice dei comportamenti sociali. Si trattava dunque di una funzione legata alla sfera della politica e la strada intrapresa dagli stati a più marcata vocazione laica fu di scorporarla dalla giurisdizione ecclesiastica e assegnarla a nuove magistrature politiche. Non si trattò di una semplice appropriazione giurisdizionale, ma della dissoluzione di antiche figure di governo – il potere temporale e il potere spirituale – al fine di creare figure nuove formate attraverso aggregazioni di competenze di diversa origine e natura.
Per un certo periodo, Venezia si trovò all’avanguardia di questo processo. Nel 1537 essa istituì infatti la magistratura degli Esecutori contro la Bestemmia che, partendo dalla funzione religiosa di reprimere la bestemmia detta in pubblico, estese poi rapidamente le proprie competenze al gioco d’azzardo, ai ridotti nobiliari, all’applicazione delle leggi sulla censura, alla violenza tra nobili o in luogo sacro, alla prostituzione, alla deflorazione con promessa di matrimonio e al controllo sull’immigrazione illegale. In realtà, anche la funzione di partenza si allontanava dalla concorrente figura ecclesiastica perché puniva soltanto atti, sia pure verbali, e soltanto nella loro manifestazione ‘scandalosa’, cioè pubblica. L’ampliamento delle competenze trasformò poi rapidamente il modo di operare degli Esecutori conducendolo alla sorveglianza di specifici luoghi, ambienti, modi di vivere e classi sociali. E la categoria giuridica che permise un tale rapido slittamento dagli atti verbali contro la religione alle classi sociali non laboriose fu quella romanistica dello ‘scandalo’, la stessa invocata da Sarpi per distinguere tra competenza spirituale volontaria e competenza temporale obbligatoria nei fatti connessi alla religione87.
Un processo analogo si svolse con maggior incisività in Francia dove pose capo nel 1667 a un ufficio chiamato police. Esso possedeva competenze non lontane da quelle degli Esecutori contro la bestemmia: assicurare la sicurezza delle vie cittadine, controllare taverne e cabaret, applicare la legge che vietava il porto d’armi, sorvegliare le case da gioco, proteggere la popolazione dalle epidemie, organizzare i soccorsi in caso di inondazione o incendio, garantire la pulizia delle strade, controllare la circolazione dei libri, garantire l’approvvigionamento dei mercati e la stabilità dei prezzi di prima necessità88. Anche la police parigina secolarizzava in una giurisdizione di foro esterno le competenze affidate in Italia ai tribunali ecclesiastici. Lo spiegava Nicolas Delamare nel suo Traité de la police quando scriveva che «la religion seule étant bien observée, toutes les autres parties de la Police seroient accomplies», traendone la conseguenza di attribuire alla polizia tutto ciò che concerneva i «beni dell’anima» – le leggi sulla religione e i costumi, il lusso, i giochi, gli spettacoli, i giuramenti, la bestemmia, gli indovini, le streghe e i maghi – ai quali congiungere strettamente i beni del corpo costituiti dalla sanità, dalla salubrità dell’aria e dalla purezza delle acque, dalla garanzia degli alimenti e dalla sicurezza delle strade89.
Dalla Francia il sistema passò in Italia. Il sistema di polizia toscano fu basato sulla istituzione di commissari investiti di una «potestà economica», un potere di correzione rapida su un certo numero di reati minori e casi morali. Tali commissari controllavano i comportamenti pubblici e privati della popolazione attraverso funzionari e clero, sorvegliavano i disoccupati e i libertini, i «discoli» e gli «osterianti», prendendo nota delle persone che tenevano fissamente pratiche scandalose. Nel 1799 tale potestà economica fu definita come rivolta a «tutte le azioni tendenti al delitto ma che non costituiscono un vero delitto» punibile per via ordinaria: le ingiurie verbali e le piccole offese, i delitti privati e le trasgressioni alle leggi di polizia per finire con tutte le azioni immorali suscettibili di portare «scandalo o mal esempio alla società»90. A Milano, invece, nel 1769 Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg propose di istituire un ispettore «incaricato di vegliare specialmente sull’esterna disciplina de’ costumi delle diverse classi sociali della popolazione dello stato» attivando una più incisiva repressione di «oziosi, vagabondi, malviventi ed anche per i mendicanti»91. Il passo successivo fu compiuto con il codice penale giuseppino che introdusse la distinzione tra delitti «criminali» e delitti «politici» consistenti, questi ultimi, nella trasgressione alle norme di polizia, alle regole del decoro e della morale sociale e alle norme di diligenza nell’esercizio di professioni pericolose. Nel 1787 entrò quindi in funzione il tribunale criminale di prima istanza e un ufficio di polizia diretto da Girolamo Carli, il fratello minore dell’autore delle obiezioni a Girolamo Tartarotti. Una parte essenziale nella nuova figura di governo che si andava creando fu svolta dalla sanità preventiva che fu incorporata nelle competenze di polizia secondo i criteri esposti da Peter Frank nel suo System einer vollständigen medicinischen Polizey (in italiano a partire dal 1786). Nacque così una polizia medica che sostituì ai riti di purità religiosa le misure di igiene e prevenzione rivolte alla sepoltura dei morti fuori dei luoghi abitati, alla rimozione delle immondizie, al divieto di coltivare campi a risaia e marcita nei pressi delle città, al controllo sulle carni infette e le industrie nocive.
La nuova figura di governo non costituì soltanto una inedita combinazione di competenze ma contenne in sé essenziali trasformazioni dei compiti assegnati al governo politico. La figura di governo offerta dalla polizia presentò infatti un modello per definire la differenza tra il sistema delle relazioni esterne regolate dallo Stato e il sistema delle finalità morali poste a tema della cura ecclesiastica. Il fine della Chiesa – scriveva Pilati – era la «purità e santità de’ costumi»: i principi invece si contentavano «che i loro sudditi ubbidiscano esteriormente alle lor leggi e che le azioni esterne de’ sudditi siano conformi a quel tanto che dalle leggi viene ordinato»92. La società spirituale voleva dunque l’interno dell’uomo mentre il fine dello Stato «è di stabilire e conservare tra i cittadini un certo ordine e una certa polizia esteriore»93. Su questa competenza di polizia, Pilati basava anche il diritto del principe a concedere la tolleranza a tutti i culti religiosi perché «egli appartiene all’ordine della Polizia che in uno stato non vi possano aver luogo le radunanze di parecchie persone»94. Ciò mutava anche la funzione della pena che, seguendo il movimento di esteriorizzazione utilitaria del governo, perdeva la propria funzione espiatoria ed educativa per assumere invece quella puramente deterrente assegnatale da Cesare Beccaria. E mutava di conseguenza anche la funzione di educazione e di sorveglianza morale svolta dalla pubblica religio che veniva separata dal suo rapporto con la fede e aggregata ai mezzi del governo politico. Il capitolo XII del Dei delitti e delle pene era dedicato al tema Della pubblica tranquillità. In esso Cesare Beccaria ricordava che:
«La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite ne’ diversi quartieri della città, i semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei templi protetti dall’autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere gli interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato che i francesi chiamano della police»95.
In questo passaggio di Beccaria, dove i discorsi morali svolti nelle chiese sono accostati alla illuminazione stradale e alla sicurezza cittadina, non faceva questione di magistrature o di giurisdizioni ma diceva che, da qualunque parte provenisse, la funzione educativa della religio era parte del pubblico governo. Questa soluzione offerta dall’Illuminismo al problema sollevato dalla teorica della ragion di stato in ordine alla essenziale funzione politica svolta dalla religione, era destinata a sollevare una decisa opposizione nei ranghi della Chiesa romana. Se ne faceva interprete Pasquale Maglio quando, nella sua invettiva contro gli illuministi, rilevava la contraddizione esistente nel chiedere tolleranza e libertà di pensiero e voler poi controllare la Chiesa introducendo un dispotismo orientale e pagano che era la conseguenza, affermava, di considerare il culto divino «mero affare di polizia e non di rivelazione»96. Come s’è visto, non era esattamente quel che avevano sostenuto gli illuministi i quali si erano tenuti ben lontani tanto dal culto quanto dalla coscienza. Ma ciò non avrebbe impedito l’inizio di un lungo conflitto.
1 Un’illustrazione delle proposte di riforma avanzate nel corso del Quattrocento in H. Jedin, Il Concilio di Trento, I, Brescia 1949, che si occupa esclusivamente del livello istituzionale del discorso riformatore. Sul rapporto di connessione e di distinzione tra renovatio e reformatio cfr. A. Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, II, L’età moderna, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Bari 1994, pp. 16-19.
2 E. Garin, Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 166-182; per il quadro culturale cfr. Id., Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965; Id., L’Umanesimo italiano, Bari 1965; Id., La cultura del Rinascimento, Bari 1967.
3 C. Vasoli, L’attesa della nuova era in ambienti e gruppi fiorentini del Quattrocento, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medio evo, Todi 1962, pp. 370-432; F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970, pp. 124-129.
4 L. Valla, De voluptate et vero bono, Parisiis, in aedibus Ascensiensis, 1512; cito dalla traduzione italiana: L. Valla, Del vero e del falso bene, in Id., Scritti filosofici e religiosi, a cura di G. Radetti, Firenze 1953, pp. 196-197; per l’inquadramento critico cfr. R. Fubini, Ricerche sul ‘De voluptate’ di Lorenzo Valla, «Medioevo e Rinascimento», 1, 1987, pp. 189-239.
5 L. Valla, In lode di san Tommaso, in Id., Scritti filosofici e religiosi, cit., pp. 465-467.
6 Sugli aspetti filosofici del pensiero di Alberti cfr. E. Garin, Il pensiero di Leon Battista Alberti: caratteri e contrasti, «Rinascimento», 12, 1972, pp. 3-21; Id., Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari 1990, pp. 131-196.
7 C. Grayson, Il ‘De iure’ di Leon Battista Alberti, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, I, a cura di R. Cardini, E. Garin, L.C. Martinelli, et al., Roma 1985, p. 178: «Iurisconsulti officium est integra fide et summa religione controversiam dirimere»; il rapporto tra i due diritti ibidem e p. 190: «Sunt qui divina ab humanis disgregent, deque iure divino disputent late atque diffuse. Nos divina Deo esse relinquenda censemus, ut existimemus in praemiiis atque poenis iudicem tantum humana pensitare, sed ea lege, ut Dei memoret recti amantissimus sit». Un quadro del pensiero religioso degli umanisti in C. Trinkaus, Il pensiero antropologico-religioso nel Rinascimento, in M. Boas Hall, A. Chastel, C. Grayson, et al., Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi, Bari 1983, pp. 103-149.
8 L.A. Alberti, Opere volgari, II, a cura di C. Grayson, Bari 1966, p. 299.
9 Il dialogo Pontifex è pubblicato in L.B. Alberti, Opera inedita et pauca separatim impressa, a cura di G. Mancini, Firenze 1890, pp. 67-129.
10 L’Architettura di Leonbattista Alberti, tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli, In Venetia, appresso Francesco Franceschi, Sanese, 1565, p. 248: «Gli antichi feciono lo altare alto sei piedi e largo dodici, sopra il quale collocavano le statue, ma se egli è bene che in un tempio sieno più altari per fare i sacrificij o non, lasceremo giudicare ad altri. Appresso a nostri antichi in que’ primi principij de la nostra religione, gli huomini da bene e buoni convenivano a la cena, non per empiere il corpo di vivande ma perché pigliando tutti insieme quel cibo diventassimo più mansueti e più benigni et empiendo gli huomini di buoni ammaestramenti se ne tornassimo a casa accesi et infiammati del desiderio della virtù. In questo luogo dunque gustare più tosto che mangiare quelle cose che moderatamente erano ordinate per la cena, si leggeva e si havevano ragionamenti de le cose divine […]. Sì che havevano un solo altare in que’ tempi, dove si radunavano a fare un solo sacrificio per giorno».
11 N. Machiavelli, Discorsi, I, 11.
12 Ibidem, III, 1; non molto esiste sul concetto di religione in Machiavelli. Segnaliamo le purtroppo molto concise riflessioni di A. Tenenti, La religione di Machiavelli, «Studi storici», 10, 1969, pp. 708-748, ripubblicato in Id., Credenze ideologie libertinismi tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 175-219; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna 1980, pp. 507-517;.
13 F. Guicciardini, Ricordi, in Id., Opere, I, a cura di E. Lugnani Scarano, Torino 1970, pp. 735-736; su tale giudizio di Guicciardini cfr. A. Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, cit., p. 20.
14 Il fatto è stato posto in rilevo in un celebre studio di C. Dionisotti, Chierici e laici, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967 (rist. 1984), pp. 61-70. Per segnalare i casi più importanti, vale la pena ricordare che nel 1360 Giovanni Boccaccio era un chierico, Francesco Petrarca era cappellano e canonico. Leon Battista Alberti era un chierico e chierico era Angelo Poliziano che mancò di poco il cappello cardinalizio al quale l’aveva candidato Lorenzo il Magnifico. Vescovi letterati e umanisti furono Baldassarre Castiglione, Giovanni Della Casa, Giovio, Colocci, Guidiccioni, Minturno, Musuro, Palladio, Tolomei e Baldassarre Olimpo da Sassoferrato. Cardinali furono Bembo e Bibbiena, e papi divennero due umanisti come Tommaso Parentucelli ed Enea Silvio Piccolomini. A ordini religiosi appartennero Egidio da Viterbo, il Bandello e Zaccaria Ferreri; da essi uscirono Anton Francesco Doni e Ortensio Lando; a essi ribelli furono Bandello, Firenzuola e Folengo.
15 Per il quadro delle congregazioni e dei tribunali romani cfr. N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Roma 1970; sul rilievo della concentrazione del potere nei processi di canonizzazione cfr. P. Giovannucci, Canonizzazioni e infallibilità pontificia in età moderna, Brescia 2008.
16 Cfr. V. Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia 2008, pp. 351-401; quadri del funzionamento della censura anche in G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura, Bologna 1997; E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Cremona 2008.
17 Sul carattere nazionale del governo pontificio insiste A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 57-117.
18 Sui catechismi repubblicani del triennio francese cfr. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Bologna 1999.
19 Index librorum expurgatorum Ill.mi ac Rev.mi DD. Gasparis Quiroga, Cardinalis et Archiep. Toletani Hispan. generalis Inquisitoris iussu editus, Madritii, apud Alphonsum Gomezium regium typographum, 1584, p. 173; J.M. De Bujanda, Index des livres Interdits, VI, Index de l’Inquisition espagnole, 1583, 1584, Genève 1993, pp. 849-850; per indicizzazione italiana cfr. G. Fragnito, La Bibbia al rogo, cit., p. 269. Il passo espurgato dall’Indice di Quiroga è quello indicato alla nota 10.
20 Index des livres Interdits, VIII, Index de Rome 1557, 1559, 1564, a cura di J.M. De Bujanda, Genève 1990, pp. 306-307.
21 R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969, p. 234.
22 L. Leys, De providentia numinis et animi immortalitate libri duo adversus Atheos et Politicos, Antwerpiae, ex officina Plantiniana, 1617, p. 5; cfr. V. Frajese, s.v. Machiavellismo, in Dizionario dell’Inquisizione, II, a cura di A. Prosperi, V. Lavenia, J. Tedeschi, Pisa 2010; un quadro generale della fortuna di Machiavelli in G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Bari 1995.
23 T. Campanella, La città del sole, a cura di L. Firpo, Bari 1997, pp. 6-8; Id., L’ateismo trionfato overo riconoscimento filosofico della religione universale contra l’antichristianesimo machiavellesco, I, a cura di G. Ernst, pp. 91-98. Per i dispositivi concettuali che permisero il passaggio dalla fase profetico-rivoluzionaria a quella autoritaria: V. Frajese. Profezia e machiavellismo. Il giovane Campanella, Roma 1995.
24 T. Campanella, L’ateismo trionfato, cit., p. 116.
25 G. Bruno, Spaccio de la Bestia trionfante, in Dialoghi italiani, II, a cura di G. Gentile, Firenze 1958, p. 778; per un’interpretazione del dialogo cfr. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Bari 1992, pp. 120-155; sulla riforma ermetica cfr. F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1980, pp. 228-259; A. Corsano, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, Firenze 1940.
26 G. Bruno, Spaccio de la Bestia trionfante, cit., p. 656.
27 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino 1976; Id., La colombara ha aperto gli occhi, «Quaderni storici», 38, 1978, pp. 628-642; F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Milano 2006.
28 F. Venturi, Alberto Radicati di Passerano, Torino 2005, pp. 113, 132, 138, 182.
29 F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, Torino 1976, pp. 263, 269, 278.
30 Ibidem, pp. 206-207.
31 È il concetto di riforma al quale si riferisce prioritariamente il saggio di H. Jedin, Katholische Reformation oder Gegenreformation?, Luzern 1946.
32 Per il rapporto tra magia e religione cfr. K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Milano 1985. Per l’impostazione metodologica del problema della magia cfr. C. Levi Strauss, Anthropologie structurale, Paris 1974; E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 20002, in partic. pp. 260-308; Id., Sud e magia, Milano 20022, in partic. pp. 117-130; C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Torino 1972, pp. 603-676. Per la comparazione con l’Africa cfr. E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Oxford 1976 (trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Milano 2002). Per il rapporto tra magia e stregoneria in Italia il quadro più vasto è in R. Martin, Witchcraft and the Inquisition in Venice (1550-1650), Oxford 1989.
33 Sul tema dell’analogia tra missioni interne ed esterne cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., pp. 551-599.
34 P. Giustiniani, V. Querini, Libellus ad Leonem X, in Annales camaldulenses ordinis sancti Benedicti, a cura di G.B. Mittarelli, A. Costadoni, Venetiis, aere Monasterii S. Michaelis de Muriano, 1773, t. IX (trad. it. P. Giustiniani, V. Querini, Lettera al papa, a cura di G. Bianchini, Modena 1995, p. 22).
35 Ibidem, p. 112.
36 Bolla Coeli et terrae, 9 gennaio 1586, in Bullarium privilegiorum ac diplomatum, Romae, Mainardi, 1747, pp. 176-179. La bolla dichiara sortilegi e atti superstiziosi come operazioni che non possono non essere compiute senza l’aiuto del diavolo: «sortilegis et superstitionibus, non sine daemonum saltem occulta societate aut tacita pactione operam dare».
37 Erano «superstizioni semplici» che implicavano solo un «patto tacito» con il diavolo ed erano soggette a minore penalità: le previsioni astrologiche, le cure mediante immagini e orazioni proibite o medicazioni improprie come quelle consistenti nell’applicare il medicamento su pezze di lino imbevute del sangue del ferito. Erano invece «sortilegi ereticali» implicanti un patto espresso con il diavolo quelli operati con detti o atti ereticali, abuso di sacramenti o oli santi, candele benedette, Agnus Dei o impiegando il Vangelo, il Simbolo o il Pater Noster.
38 Cfr. F. Barbierato, La stanza dei circoli. Clavicula Salomonis e libri di magia a Venezia nei secoli XVII e XVIII, Milano 2002, pp. 84-194.
39 Cfr. P. Sarpi, Consulti, I, II, a cura di C. Pin, Pisa-Roma 2001, pp. 811-827.
40 Ma poiché il suo potere era limitato e per definizione inferiore a quello di Dio, gli veniva negato il potere di compiere ‘miracoli veri’ come resuscitare i morti e procurare l’ubiquità.
41 Sulla censura delle orazioni cfr. M.P. Fantini, Saggio per un catalogo bibliografico dai processi dell’Inquisizione: orazioni, scongiuri, libri di segreti (Modena 1571-1608), «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 25, 1999, pp. 587-668; Id., La circolazione clandestina dell’orazione di santa Marta: un episodio modenese, in Donne, disciplina e creanza cristiana, a cura di G. Zarri, Roma 1996, pp. 45-65.
42 A. Leoni, Breve raccolta d’alcune particolari operette spirituali proibite, orazioni e divozioni vane e superstiziose, indulgenze nulle o apocrife, per commodo dei suoi vicari foranei, s.n.t., Bologna 1708, pp. 104-105. Devo la segnalazione del testo alla cortesia di M.P. Fantini.
43 Cfr. G. Imbruglia, Dalle storie di santi alla storia naturale della religione. L’idea moderna di superstizione, «Rivista storica italiana», 101, 1989, 1, pp. 35-84; sulle missioni gesuitiche cfr. E. Novi Chavarria, L’attività missionaria dei gesuiti nel Mezzogiorno d’Italia tra XVI e XVIII secolo, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, II, a cura di G. Galasso, C. Russo, Napoli 1982, pp. 1-38; A. Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti, Milano 1988.
44 Sulle difficoltà e l’isolamento di Matteo Ricci cfr. J. Shih, C. Laurenti, introduzione a M. Ricci, N. Trigault, Entrata nella China de’ padri della Compagnia di Gesù: 1582-1610. Volgarizzazione di Antonio Sozzini (1622), Roma 1983, pp. 12-34; un quadro storico generale della presenza gesuitica in Cina in R. Etiemble, L’Europe chinoise, I, De l’Empire romaine à Leibniz, Paris 1988, pp. 241-321; sulle missioni gesuitiche in India cfr. P. Aranha, Il cristianesimo latino in India nel XVI secolo, Milano 2006.
45 G. Tartarotti, Del congresso notturno delle Lammie libri tre, presso Gianbattista Pasquali, Rovereto 1749, p. 75.
46 Cfr. G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze 1990, p. 21.
47 Lettera del signor conte Gian Rinaldo Carli al signor Girolamo Tartarotti intorno all’origine e falsità della dottrina de’ maghi e delle streghe, in G. Tartarotti, Del congresso notturno delle Lammie, cit., p. 332-337.
48 Cfr. su questo P. Giannone, Il Triregno, a cura di G. Ricuperati, p. 141.
49 C. Pilati, Di una riforma d’Italia ossia de’ mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia, Villafranca, 1767, p. 189.
50 Ibidem, p. 87.
51 Ibidem, pp. 75-76.
52 Cito dall’edizione L.A. Muratori, Della regolata devotione de’ cristiani tratto da Lanundo Pritanio, Siena 1789, pp. 243-245.
53 F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 164.
54 Piano ecclesiastico per un regolamento da tentare nelle circostanze de’ tempi presenti, con l’aggiunta di un Discorso sopra l’autorità della Chiesa, Bortolo Baronchelli, Venezia 1767, p. XLVI.
55 L. Cabral de Moncada, Un ‘illuminista’ portuguès do sèculo XVIII: Luis Antonio Verney, Coimbra 1941, pp. 151-152.
56 Cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 291.
57 Ibidem, p. 3.
58 F. Venturi, Alberto Radicati di Passerano, cit., p. 177.
59 Ibidem, p. 114.
60 Cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 14.
61 Ibidem, pp. 317, 334. L’osservazione è di Franco Venturi.
62 Cit. in M. Rosa, Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella politica ecclesiastica leopoldina, «Rassegna storica toscana», 11, 1965, 2, pp. 264-267.
63 A. Desing, Le ricchezze del clero utili e necessarie alla repubblica, appresso Giannantonio Coatti, Ferrara 1768, p. 259.
64 La pretesa filosofia de’ moderni increduli, s.n.t. è attribuita a T.M. Mamachi da F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 188.
65 Per il processo romano ai Bianchi cfr. D. Frascarelli, D. Testa, La casa dell’eretico. Arte e cultura nella quadreria romana di Pietro Gabrielli (1660-1734) a palazzo Taverna di Montegiordano, Roma 2004, pp. 15-79; sul coinvolgimento nel processo di Giovanni Maria Lancisi cfr. V. Frajese, Giovanni Maria Lancisi e i Bianchi. Il processo del 1690, in La fede degli italiani. Festschrift in onore di Adriano Prosperi, a cura di A. Malena, G. Dall’Olio, P. Scaramella, Bologna 2010. La vicenda di Francesco Giuseppe Borri, che incrocia quella dei Bianchi, è narrata in G. Cosmacini, Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Roma-Bari 1998. Per il deismo inglese cfr. F. Venturi, Alberto Radicati di Passerano, cit., pp. 139-155. Per il processo agli ateisti napoletani cfr. L. Osbat, L’inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma 1974.
66 Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, S. O. Decreta 1692, 9 gennaio 1692.
67 P. Giannone, Triregno, cit., p. 147; cfr. G. Bonnant, Pietro Giannone à Genève et la publication de ses oeuvres en Suisse au XVIIIeme et au XIXeme siècle, «Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’università di Roma», 3, 1963, pp. 119-13; G. Giarrizzo, Illuminismo e religione, in Storia dell’Italia religiosa, cit., pp. 479-499.
68 Per queste condanne cfr. P. Del Piano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna pp. 76-80, 124. Per la censura di Spinoza cfr. P. Totaro, Documenti su Spinoza nell’Archivio del Sant’uffizio dell’Inquisizione, «Nouvelles de la Republique des Lettres», 1, 2000, pp. 95-120; per la censura a Hobbes cfr. M. Fattori, La filosofia moderna e il sant’Uffizio: Hobbes haereticus est et anglus, «Rivista di storia della filosofia», 1, 2007, pp. 83-108.
69 D. Frascarelli, L. Testa, La casa dell’eretico, cit., p. 205; per l’organizzazione della censura nel Settecento cfr. M. Infelise, I libri proibiti, Bari 1999, pp. 61-120.
70 P. Del Piano, Il governo della lettura. cit., p. 168.
71 F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 241.
72 Per Paolo Frisi cfr. D. Sella, C. Capra, Il ducato di Milano dal 1535 al 1796, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XI, Torino 1984, p. 397. Per Galiani cfr. P. Del Piano, Il governo della lettura, cit., p. 77.
73 P. Del Piano, Il governo della lettura, cit., p. 85.
74 Una traccia di questo processo in P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, pp. 13-41; per la critica del concetto di «modernizzazione» presente in questo studio cfr. E. Brambilla, La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma 2006, pp. 237-241.
75 A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel regno di Napoli, Roma 1974, in partic. pp. 66-67.
76 M. Rosa, Politica concordataria, giurisdizionalismo e organizzazione ecclesiastica nel regno di Napoli sotto Carlo di Borbone, «Critica storica», 4, 1967, pp. 494-531.
77 Ibidem, pp. 257-260; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia 1999, pp. 135-144.
78 «Notizie dal mondo», 54, 1771, p. 439; cfr. a riscontro F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 140.
79 T.A. Contin, Riflessioni sopra la Bolla In Coena Domini, Venezia 1769, p. 277.
80 Cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit., p. 263.
81 Per un quadro generale del significato del termine ‘laico’ cfr. E. Tortarolo, Il laicismo, Bari 1998.
82 M. Rosa, Politica concordataria, cit., p. 511: Id, Settecento religioso, p. 135.
83 L’espressione è della traduzione italiana di G. Le Bras, Histoire du Droit et des Institutions de l’Eglise en Occident, t. I, Prolegomènes, Paris 1955; (trad. it. La chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche, Bologna 1976).
84 P. Sarpi, Consulti, cit., p. 860.
85 Ibidem, p. 889; per l’inquadramento critico V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna 1994, pp. 375-376.
86 P. Sarpi, Gli ultimi consulti (1621-1623), a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, Torino 1979, p. 46.
87 Per la funzione giuridica della categoria di ‘scandalo’ in Francia cfr. E. Brambilla, La giustizia intollerante, cit., pp. 169-171; sulla funzione della categoria di ‘scandalo’ nell’azione degli Esecutori contro la Bestemmia cfr. R. Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600. Gli Esecutori contro la bestemmia, in Stato società e giustizia a Venezia (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, Roma 1980, pp. 458-461; per il rilievo della categoria di scandalo in Sarpi cfr. V. Frajese, Sarpi scettico, cit., pp. 359-369.
88 A. Lebigre, La police. Une histoire sous influence, Paris 1993, pp. 38-45; un quadro complessivo in Polizey im Europa der frühen Neuzeit, a cura di M. Stollers, K. Harter, H. Schilling, Frankfurt a. M. 1996; un quadro del Seicento inglese in G.R. Elton, Policy and Police. The Enforcement of the Reformation in the Age of Cromwell, Cambridge 1972.
89 R. Mousnier, La monarchie absolue en Europe du Ve siècle a nos jours, Paris 1982; sulla secolarizzazione dei poteri episcopali insiste anche E. Brambilla, La giustizia intollerante, cit., pp. 169-214.
90 C. Mangio, La polizia toscana. Organizzazione e criteri di intervento (1765-1808), Milano 1988, p. 17.
91 Cit. in D. Sella, C. Capra, Il ducato di Milano, cit., p. 528.
92 Ibidem.
93 C.A. Pilati, Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa in generale e sopra il clero sì regolare che secolare, sopra i vescovi e i pontefici romani e sopra i diritti ecclesiastici de principi, Borgo Francone 1768, p. 210.
94 Ibidem, pp. 288-289.
95 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino 1978, pp. 29-30.
96 Cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica, cit. p. 209.