INCISIONE
. Arte di disegnare sopra una superficie dura, scavandola. L'incisione può essere fine a sé stessa (cammeo, pietre dure); servire per decorazione, sia da sola sia associata ad altre tecniche (intarsio, ageminatura, niello); oppure essere fatta a scopo di riproduzione in altra materia (punzoni per matrici di monete e medaglie, sigilli, stampe). L'incisione nel senso più particolare, di cui qui si tratta, ha appunto lo scopo d'essere riprodotta su carta in molteplici copie mediante la stampa. Essa ha un suo linguaggio particolare che può metterla, pur nella sua piccola e fragile mole, come importanza espressiva, al paro di qualsiasi più appariscente e anche monumentale forma d'arte. L'incisione si vale di due procedimenti perfettamente contrarî: può essere cioè in cavo o in rilievo, secondoché il segno destinato a ricevere l'inchiostro è incavato oppure risalta in superficie. L'incisione in cavo si pratica prevalentemente sui metalli (rame, zinco, acciaio) e si stampa al torchio calcografico; quella in rilievo sul legno, e si stampa tipograficamente. La fondamentale differenza fra i due procedimenti appare a prima vista, presentandosi il segno inciso rilevato sulla carta che la pressione del torchio ha costretta e modellata nel segno stesso, mentre quello in rilievo tende a imprimersi profondo tra i contigui spazî bianchi fra i quali è stato impresso. Nell'incertezza dell'occhio, basta sfiorare col dito la stampa per risolvere ogni dubbio sulla sua tecnica. Tuttavia questo accertamento non ha ragion d'essere che nel sospetto di frode per riproduzioni fotomeccaniche, ché la differenza in discorso è evidentissima anche nel tracciato e nell'aggruppamento dei segni. Quelli incisi su metallo sono sottili, lunghi, regolari, disinvolti, spesso sovrapposti e incrociati per modellare; mentre quelli incisi su legno sono più larghi, robusti, di spessore irregolare, a bordi sempre taglienti, e non possono, di regola, venire incrociati. Questi ultimi sono inceppati nella loro scioltezza dalla necessità di ottenerli con due tagli invece che con uno; inoltre non è possibile graduarne l'intensità altrimenti che modificandone la larghezza, perché la densità dell'inchiostro è eguale per tutti; mentre sul metallo l'intensità è regolabile, essendo soprattutto in rapporto alla capacità ricettiva del segno. L'incisione su metallo ha possibilità di espressione di gran lunga più vaste e complete dell'altra. L'incisione su legno, inadatta al rendimento dei valori, costretta dalla semplicità dell'esecuzione alla sintesi lineare, suggerisce più che non esprima; e in questa suggestione risiedono appunto la sua bellezza e la sua forza. Essa è molto più confacente dell'altra alla decorazione del libro, per la sua affinità, nel carattere e nei procedimenti, con la tipografia.
Incisione su metallo. - I numerosi processi d'incisione su metallo possono venire raggruppati in tre categorie, secondoché avvengono per l'azione diretta della mano, o si valgono dell'aiuto di sostanze corrosive, o hanno luogo per azione elettrica. Al primo gruppo appartengono il bulino (v.), la puntasecca, la maniera nera; al secondo l'acquaforte (v.), l'acquatinta (v.), la maniera punteggiata, la vernice molle.
Puntasecca (fr. pointe sèche; sp. punta seca; ted. kalte Nadel; ingl. dry point). - È la più semplice di tutte le tecniche. Si disegna sul metallo nudo, rame o zinco, con una matita tenera o con l'inchiostro; poi, con una punta d'acciaio, piuttosto tagliente che aguzza, robusta, infissa solidamente in un manico di legno, si graffia il metallo intaccandolo più o meno profondamente.
L'effetto particolare caratteristico della puntasecca è dato dalle cosiddette barbe che hanno la facoltà di trattenere l'inchiostro anche fuori del segno che le ha prodotte, del quale accentuano l'intensità, pur attenuandone la purezza in conseguenza della sfumatura dei bordi. Ne risulta, alla stampa, quel particolare aspetto di morbidezza vellutata impossibile a ottenere con altri mezzi. Accessorio indispensabile è il raschiatoio, lama a sezione triangolare, appuntita e affilatissima, che si adopera in piano per asportare le barbe inutili. La punta non è facile da maneggiare, specialmente nelle curve, per la sua tendenza a sfuggire; donde la necessità, per meglio padroneggiare il segno, di ottenerlo con un fascio di linee leggiere accostate, piuttosto che con un solo graffio robusto. Si può anche abbozzarlo con leggerezza e approfondirlo a più riprese fin ch'è necessario. Per i segni o piani di chiaroscuro di delicatezza eccezionale, si adoperano punte di diamante preparate a questo scopo. A causa della fragilità delle barbe, che tendono a ripiegarsi sul segno, chiudendolo sotto la pressione del torchio, la tiratura della puntasecca è operazione che richiede cure speciali, e limitato è il numero delle buone prove ottenibili. L'acciaiatura è di rigore, anche, possibilmente, per le prove di stato, da limitarsi alle indispensabili, e magari da evitare del tutto. Si possono infatti sostituire, per seguire il lavoro, con una spalmatura di nerofumo e sego applicata con il dito senza tampone, seguita dalla pulitura con il palmo della mano, come per la stampa. La puntasecca è di prezioso aiuto per armonizzare le lastre incise all'acquaforte; essa permette di arricchirne i valori, completarne il modellato, fonderne i piani; e ciò sia con l'insistere sui segni già fatti, sia con il crearne dei nuovi.
Maniera nera (fr. manière noire; sp. manera negra, de humo; ted. Schabkunst; ingl. mezzotint). - Questo processo, detto anche mezzatinta o incisione a fumo, fu inventato da Luigi Siegen nel 1642, e largamente adottato in Inghilterra. Sopra una lastra incisa in modo da dare alla prova una superficie completamente nera, si ottiene il disegno per valori di chiaroscuro, ricavando le luci e risparmiando le ombre, come se si disegnasse con il gessetto su carta nera. La lastra si prepara per mezzo di un ferro speciale che gl'Inglesi chiamano rocker, i Francesi berceau, specie di larga lama piatta, d'acciaio ben temprato, con bordo a mezzaluna seghettato come un pettine in piccolissimi denti aguzzi ed equidistanti. Questo utensile si fa scorrere sulla lastra con una pressione non troppo forte, e con movimento oscillante, seguendo linee parallele tracciatevi con la matita regolarissimamente, prima in direzione verticale, poi orizzontale, indi diagonalmente a 45° da destra a sinistra, poi da sinistra a destra. Queste quattro serie di linee costituiscono un giro. Perché una lastra risulti ben preparata e uniformemente granita, occorrono non meno di una ventina di giri. Per eseguire il lavoro si adoperano raschiatoi e brunitoi di diversa grandezza, con i quali si schiaccia gradatamente la grana cominciando dalle grandi luci e scendendo ai riflessi.
Difficile è la stampa della maniera nera perché le luci, ottenute per logoramento e schiacciamento della superficie, si traducono sulla superficie stessa in sensibili incavi che tendono a trattenere l'inchiostro; dimodoché la mano non riesce a pulirle per bene se non a spese dei valori contigui che s'indeboliscono. È bene servirsi piuttosto d'un pezzetto di tela o garza bagnata avvoltolate sopra un leggiero stecco. I veli sono da evitare quanto è possibile. L'acciaiatura è di rigore, essendo rapidissimo il logoramento del rame nella tiratura. Rispetto agli altri processi d'incisione, la maniera nera è il più facile, forse, ma le sue possibilità di estrema finezza nel modellato non compensano adeguatamente la deficienza di fermezza e di stile. È oggi in disuso, ma ebbe un passato brillantissimo, specie nel campo della riproduzione di quadri; e fu molto utilizzato per la stampa a colori, alla quale si presta assai bene.
Maniera punteggiata (fr. pointillé; sp. puntillado; ted. Korn-Manier; ingl. stipple engraving). - Consiste nel condurre il disegno a via di punti invece che di linee. L'impiego del punto nel modellato fu praticato da molti incisori fin dai primordî del Cinquecento, ma non divenne processo a sé, d'importanza artistica e storica, che verso la fine del Settecento, per opera soprattutto del Bartolozzi, il cui metodo di lavoro consisteva nell'abbozzare il disegno per contorni punteggiati sulla preparazione da acquaforte, mediante le ordinarie punte d'acciaio, modellando poi, sempre con punti, le ombre e mordendo all'acido. Dopo una prova di primo stato, i punti venivano approfonditi con speciali bulini a punta arrotondata (stipple gravers) o con la puntasecca.
Una varietà di maniera punteggiata è l'opus mallei, che viene eseguito con ferri da cesello battuti dalla mazzetta da cesellatore (vedi cesello). Fu così chiamata dall'olandese Jan Lutma che incise in tal modo parecchie lastre, conosciute soprattutto per la singolarità del processo.
Vernice molle (fr. verünis mou; sp. barniz blando; ted. Durchdrückverfahren; ingl. soft ground). - Prende il nome dalla ordinaria vernice nera da acquaforte, resa più molle con la aggiunta a bagnomaria di una certa quantità di sego variabile da una metà a un terzo del suo volume, secondo la stagione (la quantità minore in estate, la maggiore nell'inverno). Sulla lastra ben pulita (v. acquaforte) si passa prima un leggerissimo strato di grasso di bue, poi si applica la vernice procedendo come fu detto per l'acquaforte, tamponando delicatamente, ma senza affumicare. Si fissa la lastra, ben raffreddata, sopra il tavolo da lavoro, e si dispone sopra di essa, rovesciato, il disegno da eseguire che fu prima ricalcato su carta trasparente sottile, a questo scopo. Fra il calco e la lastra s'interpongono uno o più fogli di carta velina secondo l'effetto che si desidera. Poi, con una o più matite di durezza e affilatura adatte, si ripassa tutto il disegno, premendo con moderazione e uniformità. Bisogna avere gran cura di tener la mano sollevata e di non toccare in nessun modo il lavoro. La vernice si attacca alla carta velina lungo le linee tracciate, e a disegno finito viene via insieme con essa, lasciando nei segni il rame scoperto in maniera morbida e delicata, tale da riprodurre, dopo la morsura, il caratteristico aspetto del segno del lapis.
Naturalmente l'effetto dipende dalla quantità e qualità della carta interposta e dalla durezza della matita. Uno stesso lavoro può essere condotto variando le carte e le matite secondo le diverse necessità, in successive riprese, badando a ritrovare con cura, per ciascuna di esse, la esatta collocazione del foglio con il lucido; ciò che è possibile ottenere per mezzo di opportuni punti di confronto sul calco e sulla lastra.
La morsura va eseguita con acidi lenti e piuttosto leggieri a causa della poca resistenza della preparazione; tenendo presente che i segni da matita dura e carta sottile sono assai più prontamente attaccati dall'acido che non quellì ottenuti con matita tenera e carta meno delicata di grana. In ogni caso la durata della morsura dev'essere assai più lunga di quella che si pratica per l'acquaforte, richiedendo talvolta fino a dieci e quindici ore nei segni più robusti. La morsura puó essere piana, o a coperture successive eseguite con le vernici adatte allo scopo.
Come procedimento a sé, la vernice molle è raramente adoperata; trova invece frequentissimo uso come preparazione dell'acquatinta, con la quale armonizza assai bene per la leggerezza del segno. Pura, ha molta somiglianza con la litografia.
Processi vari. - Esistono, oltre a quelli accennati, numerosi altri processi per l'incisione su metallo, e l'ingegnosità degl'inventori, aiutata dalle possibilità pratiche che la scienza e l'industria mettono di continuo a disposizione degli artisti, ce ne dà sempre di nuove. Basterà qui accennare al metodo del lapis, a quelli della penna, dell'olio, dello zucchero, alla grana libera, alla cellulotipia, per ricordare i principali tra i molti escogitati.
Incisione su legno (fr. gravure sur bois, gravure en taille d'épargne; sp. grabado en madera; ted. Holzschnitt; ingl. woodcut). - È detta anche silografia. Si vale di qualunque legno, purché duro, di grana compatta, senza fibre grosse. I legni più adoperati sono quelli degli alberi fruttiferi: pero, melo, ciliegio, sorbo, noce, eccellenti per tirature limitate e lavori correnti, per i quali anche il faggio trova il suo impiego. Ma se si tratta di lavori delicati, e soprattutto destinati a tirature forti, fino a 500 copie, il bosso risponde meglio allo scopo; come pure alcuni durissimi legni coloniali, primo fra tutti l'ebano. Il legno può essere adoperato in due modi, ai quali corrispondono due differenti tecniche d'esecuzione: di testa o di filo, secondoché la superficie da incidere è perpendicolare alla direzione delle fibre o sullo stesso loro piano. La preparazione del legno di testa è cosa delicata e difficile, presentandosi esso in piccoli pezzi che è necessario squadrare e connettere con grande cura per ottenere le dimensioni volute. Non conviene all'artista prepararli da sé, ciò che invece deve fare, potendolo, per il legno di filo. Questo si può sempre trovare in dimensioni sufficienti per essere utilizzato senza riporti. Si sceglie un tronco bene stagionato e si fa segare nel senso delle fibre in tavole di 32 millimetri, per aver modo di portarne lo spessore definitivo a 22. Questa misura è consigliata da un doppio ordine di ragioni: sufficiente resistenza alle distorsioni e fenditure sotto il torchio, e possibilità d'inserire l'incisione, se occorre, nel testo tipografico, che vuole appunto questo spessore. Le due facce della tavola dovendo essere perfettamente piane e parallele, è consigliabile, per regolarizzarle, servirsi della pialla meccanica, provando la perfezione del piano per mezzo d'una riga metallica che vi si fa scorrere in ogni senso. Se il legno è poroso, se ne possono chiudere i pori con una mano di colla forte a caldo; dopodiché se ne completa la pulitura e levigatura con sottili frammenti di vetro. L'incisione su legno di filo si fa per mezzo delle lancette e delle sgorbie; su legno di testa, con i bulini e con le ciappole.
Le lancette (o coltelli, se grandi; punte, se piccole), sono semplici lame d'acciaio (temperini, bisturi, molle da orologio, lame di rasoio) bene affilate e appuntite, sporgenti per quattro o cinque centimetri da manichi di legno duro gonfî nel centro per ben riempire il cavo della mano. Le lame si fanno penetrare per metà dentro il manico battendo l'estremità di questo con un martello. Se ne completa la fissità con legature di fil di ferro. Ce ne vogliono di almeno tre dimensioni.
Le sgorbie sono scalpelli concavi a sezione semicircolare che può anche avere i bordi rialzati a guisa di una U.
Una varietà di esse, con sezione ad angolo più o meno acuto, come una V, si chiama ferro a vela o capretta.
I bulini da legno sono in tutto identici a quelli già descritti per il metallo (v. Buling), salvo nella sezione del ferro, che presenta solamente due angoli, il superiore e l'inferiore, invece di quattro; essendo i due laterali arrotondati. Queste due curve laterali sono più o meno rigonfie secondo la larghezza del solco che debbono scavare.
Le ciappole sono bulini un poco più robusti la cui lama presenta una sezione a U allungata, più o meno stretta. La tempra è identica a quella descritta per i bulini da metallo.
Tutti questi ferri debbono essere taglientissimi, e vanno frequentemente arrotati sopra una piccola mola di carborundum, azionata a mano o meglio elettricamente, indi affilati sulla pietra a olio. L'incisione su legno esige la massima sicurezza d'esecuzione, non essendo possibile ricuperare il legno una volta tagliato; è quindi necessaria una prepararazione accuratissima del disegno.
Questo si riporta sul blocco da intagliare in varî modi, ricalcandolo, sempre a rovescio, sia con la comune carta lucida su quella da trasporto, sia con il foglio di celluloide o di talco, come fu descritto per l'acquaforte. La superficie del legno può essere conservata nel suo colore naturale fino a incisione avanzata, quando cioè il tracciato, che fu diligentemente ripassato all'inchiostro di China, non è più indispensabile. È utile, allora, per vedere con precisione il lavoro, imbiancare il fondo degl'incavi con polvere di talco o di magnesia, e tingere i rilievi di nero passandovi il rullo di gelatina carico d'inchiostro tipografico.
L'incisione su legno di filo si eseguisce contornando le sagome e isolando i segni più ravvicinati, con le lancette; e scavando con le sgorbie gli spazî più grandi. Le lancette si afferrano e si maneggiano nel modo più adatto allo sforzo che esigono: a piena mano, o con tre dita come una penna, aiutandone anche il lavoro, se necessario, con l'indice della sinistra. Le sgorbie si spingono con le mani o col mazzuolo di faggio, se grosse. Le lancette lavorano asportando il legno mediante due tagli paralleli in superficie ma inclinati in profondità, secondo due piani convergenti, che incontrandosi liberano la listerella di legno intermedia facendola saltar via. La profondità media del solco è all'incirca di due millimetri; minore per i segni molto delicati e ravvicinati. I grandi spazî bianchi debbono essere più approfonditi nella parte centrale, affinché durante la stampa la carta non vada, per la sua elasticità, a toccarli, insudiciandovisi. Per spostare con facilità il piano da incidere nella direzione e inclinazione più confacenti, si usa appoggiarlo sopra una mezza palla di legno duro, che giuoca entro un'apertura circolare di diametro inferiore, praticata sul tavolo da lavoro, simile a quella adoperata dai cesellatori (v. cesello). Il piano di essa si fodera di linoleum che trattiene meglio il blocco di legno senza graffiarlo.
L'incisione su legno di testa, indispensabile per lavori fini e per tirature forti, superiori alle due o trecento prove, si fa, meglio assai che con le lancette, con i bulini e le ciappole. Il filo del legno non inceppa la libertà del taglio, che può essere tracciato in ogni direzione con eguale scioltezza e facilità come sul metallo. Il taglio avviene con un solo colpo di ferro, che stacca un ricciolino di legno; e la sua larghezza dipende, oltreché dalle dimensioni del bulino, dalla profondità con la quale esso incide. La condotta del ferro è identica a quella già descritta per il metallo; sennonché l'incrocio del taglio è qui fuori luogo, risultandone un effetto assai diverso e inutilizzabile ai fini del modellato. Per togliere quantità maggiori di materia, si ricorre alle ciappole, le quali si adoperano su per giù come i bulini.
Le correzioni e le riparazioni non sono agevoli, ma neanche impossibili. Per sostituire una parte di lavoro difettosa, la si asporta con la sgorbia, avendo cura di scavare una cavità a bordi regolari, della quale si prende l'impronta in cera. Questa si controstampa sopra un pezzo di legno della stessa specie che si foggia a misura e s'inseri sce nella cavità preparata, fissandolo con colla e livellandone la superficie con frammenti di vetro. Gl'intagli errati si possono riempire con una pasta di polvere di bosso e colla forte. Le spaccature avvenute in seguito alla tiratura si chiudono incollandole.
La stampa delle silografie si fa per mezzo del torchio tipografico, a piani o a rulli. A questo scopo l'inchiostro si stende sopra un piano di pietra o di cristallo, con l'aiuto d'un rullo di gelatina o di pelle, che si passa, non troppo carico, sul legno, in ogni senso.
La carta può essere anche bagnata in precedenza, come si usa per la stampa calcografica. Per le prove in corso di lavoro, quando non si dispone d'un torchio, si procede applicando sul legno tinto d'inchiostro il foglio di carta, sul cui rovescio si passa in ogni direzione una stecca di legno da scultore, tenendo, naturalmente, il foglio ben fermo.
Stampa a colori. - La incisione può essere anche stampata a colori. In questo caso il lavoro dev'essere condotto fin dal primo momento con speciale riguardo a questa finalità, regolando sul metallo la profondità del segno, sul legno la sua larghezza, in rapporto alla densità, trasparenza e rendimento in chiaroscuro del colore al quale il segno stesso è destinato. Ché se si stampasse a colori un'incisione fatta per un solo inchiostro il giuoco dei valori risulterebbe del tutto diverso. La più semplice forma di stampa a colori è quella che si vale di una lastra unica, sulla quale si applicano i varî toni. Sul metallo, si toglie volta per volta l'eccesso dell'inchiostro colorato con il velo duro pulitissimo, asciugando poi con la mano il tutto e velando con precauzione. Il colore si applica con i pennelli, e per maggiore sveltezza e precisione si può darlo attraverso sagome opportunamente traforate su fogli di zinco. Adoperando più di una lastra o legno, che devono naturalmente combaciare a perfezione, si possono ottenere effetti di varia natura, valendosi anche della sovrapposizione e dell'accostamento dei toni (v. colore, X, p. 881 segg.). In questo caso, generalmente, ogni lastra è destinata a un solo colore; nella stampa si comincia dal più chiaro. Si può anche stampare con una lastra o legno il tono dominante, a tinta unita o graduata, sovrapponendovi poi la lastra disegnata. Sul rame si può anche, prima di disporre i colori, preparare la lastra unica con una velatura nel tono dominante, come insegnò il Bartolozzi. Come si vede, il campo è vastissimo e intricato; ma la stampa a colori, se non rimane nell'ambito della decorazione, è sempre un compromesso fra la pittura e l'incisione. Il procedimento più adatto alla cromoincisione è la silografia, che dispone di masse larghe e piene, e di robusti segni ottimi al rendimento del colore. Fra le tecniche del metallo rispondono meglio allo scopo quelle condotte per valori piuttosto che per linee, come l'acquatinta e la maniera nera. L'azione dei veli e della mano, indispensabile nella stampa calcografica, togliendo sempre al colore un po' della sua freschezza, rischia di produrre risultati forse più armoniosi, ma non brillanti. I colori che bisogna preferire sono quelli macinati con un olio pesante.
Incisione in rilievo su metallo. - Aiutandosi con i procedimenti già descritti per l'acquaforte, il bulino, la silografia e il cesello (i cui ferri sono qui utilissimi), si fa anche un genere d'incisione in rilievo su metallo, a somiglianza di quanto veniva praticato dagli antichi orafi. Il risultato è assai simile alla silografia, e il vantaggio è di avere, con opportuna montatura su legno, un cliché di durata illimitata che può venire inserito nel testo tipografico. A questo scopo serve anche la galvanoplastica, per mezzo della quale si può facilmente riprodurre in rame un legno inciso.
Incisione elettrica. - Per l'addietro molto trascurata, va oggi assumendo un considerevole sviluppo, presentando per la sua semplicità e comodità dei vantaggi non indifferenti di fronte all'incisione all'acido.
Essa può essere fatta su un metallo su cui è stato eseguito a mano un disegno, o su cui è stato trasportato litograficamente o con mezzi fotografici (v. grafiche, arti) un disegno. Occorre prima di tutto costituire una riserva sulle parti che non debbono essere incise, e questa si può fare mediante sostanze varie (gomma lacca, bitume, stearina, ecc.) perché resistenti all'azione del bagno elettrolitico. La lastra da incidersi elettricamente si porta all'anodo, si attacca cioè al polo positivo d'un bagno galvanico, mentre al polo negativo si pone un metallo qualunque (ad es., ferro inattaccabile dagli acidi). Per bagno si adoperano soluzioni diverse, leggermente acide, in relazione al metallo che si vuole incidere (per il rame, ad es., una soluzione di solfato di rame e cosi via).
La regolare profondità dell'incisione s'ottiene con coperture progressive, con vernice isolante, delle parti che vengono progressivamente incise (similmente a quanto si fa per l'incisione chimica dei clichés), e in tal guisa e in un tempo assai più rapido di quello che non occora nella incisione chimica, si ottengono delle ottime e profonde incisioni. Agitando il bagno elettrolitico, l'incisione acquista una maggiore regolarità, e si raggiunge una maggiore finezza nella granitura.
Ora l'incisione elettrica tende ad avere una larga applicazione nell'industria dei velocipedi, delle sciabole, dei coltelli, per l'incisione di disegni, di diciture ecc., applicati su tali oggetti; e nell'incisione fotomeccanica non solo per la morsura dei clichés a tratto, ma anche di quelli a retino su rame o ottone.
Bibl.: Vedi bibl. alla voce acquaforte, e inoltre: M. Busset, La technique moderne du bois gravé, Parigi 1925.
Storia dell'incisione su legno e su metallo.
In Europa l'incisione incominciò ad affermarsi nella prima metà del secolo XV. Per vario tempo si è creduto, sulla fede del Vasari, a un'invenzione di quest'arte e si è ripetuto che essa fosse dovuta all'orafo fiorentino Maso Finiguerra circa l'anno 1460 (v. finiguerra, maso). In realtà, anche a non volere tener conto di precedenti germanici, gli studiosi sono riusciti a isolare nella produzione stessa fiorentina un gruppo di opere le quali sono da ritenersi indubbiamente anteriori al 1460, all'anno, cioè, in cui il Finiguerra avrebbe inventato.
Deve ammettersi, piuttosto, che quest'arte sia derivata dalla lenta elaborazione di processi tecnici usati ad altri fini (marchi, sigilli, ecc.); elaborazione che, nel suo complesso, può indovinarsi, ma di cui non è possibile precisare i successivi momenti. Ecco perché sono vani gli sforzi che gli scrittori italiani, francesi, tedeschi hanno fatto nell'intento di ascrivere, ognuno al proprio paese, il vanto del primato cronologico dell'incisione. È provato che l'apparizione della silografia abbia preceduto in Europa quella delle stampe su metallo: ché Cennino Cennini, nel suo Trattato della pittura, insegnava già a intagliare una tavola lignea per riprodurre disegni.
La precedenza dell'impressione silografica su quella calcografica, si spiega con la maggiore facilità e rapidità del procedimento tecnico, al quale fu affidata, già sul finire del sec. XLV, la decorazione di svariati oggetti: stoffe, carte da giuoco, immagini religiose per le case dei meno abbienti, ecc. Le carte da giuoco, anzi, stampate secondo un metodo coincidente con quello delle più antiche silografie, erano note in Italia fin dal Duecento, e in Francia, Spagna, Germania fin dal Trecento. Esse, come le più antiche silografie, venivano colorate a mano: quindi, le linee si limitavano quasi esclusivamente ai contorni e non vi erano accenni a effetti chiaroscurali, derivati da linee incrociate. Poco ci è pervenuto della più remota produzione silografica aumentata specialmente al Nord d'Europa da quando, dalla Cina, si era diffuso l'uso della carta: si possono ricordare la Andata al Calvario (circa del 1400), il Riposo durante la figuga in Egitto nella raccolta Albertina di Vienna, e, tra i fogli datati, la Madonna con quattro Santi (1418) del Gabinetto delle Stampe di Bruxelles e il S. Cristoforo di lord Spencer (1423), conservato ora a Manchester. Il carattere stilistico di opere di questo tipo è del resto scarsamente personale.
Oltre ai fogli volanti stampati con processo silografico si ebbero, nei primi decennî del sec. XV, libri silografici, di soggetto religioso, formati da pagine contenenti vignette, con scritte interposte: i più tipici fra essi sembrano doversi attribuire a esecutori dei Paesi Bassi. Sempre all'inizio del Quattrocento il processo silografico venne talora usato per riprodurre libri non illustrati, con il solo testo (impressione tabellare). La diffusione d'immagini sacre, di libri religiosi non fu, però, l'unico scopo della primitiva silografia; ma, nonostante la varietà dei soggetti, gli elementi figurativi si mantennero più che mai semplici, di sovente rozzi: l'effetto era sempre affidato esclusivamente alla greve linea di contorno.
Le stampe su metallo non tardarono a essere usate con i fini stessi della silografia. Con la diffusione di esse si perviene, però, oltre la metà del sec. XV, al periodo in cui nell'Europa occidentale incominciavano a precisarsi le scuole nazionali con caratteri stilistici proprî e con intenti artisiici. A quelle scuole conviene ora rapidamente accennare.
Italia. - Incisione su legno. - I rari esemplari di primitive silografie italiane si conservano nella Biblioteca Classense di Ravenna, nella Kunsthalle di Amburgo e nel Gabinetto delle stampe a Berlino: qui v'è un libro silografico, illustrante la Passione di Cristo, uno dei monumenti più remoti e notevoli dell'incisione d'arte in legno, opera forse dello stesso artista che incise la preziosa stampa della Crocefissione conservata nel Museo di Prato.
Ricordiamo anche la famosa Madonna del Fuoco di Forlì, foglio volante inciso su legno non dopo l'anno 1418. Mentre la produzione italiana di silografie su fogli volanti è assai scarsa, a giudicare almeno dai pochissimi documenti che ne restano, quella messa a servizio del libro fu ricchissima, cominciò presto e si svolse rapidamente nelle principali città d'Italia, raggiungendo poi, soprattutto a Firenze e a Venezia, la più alta espressione artistica. Il primo libro apparso in Italia composto tipograficamente e ornato di figure incise su legno fu pubblicato a Roma da Ulrico Han nel 1467. Contiene le Meditationes di Ioh. De Turrecremata, ristampate con gli stessi legni nel 1473 e nel 1478. Questa illustrazione fu opera di artista tedesco, mentre quella che segue in ordine di data, e che arricchisce il testo del De re militari di Roberto Valturio, pubblicato a Verona nel 1472, viene correntemente attribuita al noto medaglista Matteo dei Pasti.
Ora se le silografie del Turrecremata sono celebri per essere il più antico esempio in Italia di quell'arte applicata al libro, esse per altro riproducono scene bibliche copiate da affreschi; e le figure del Valturio rappresentano per la massima parte strumenti di guerra: cosicché l'illustrazione del Philocolo del Boccaccio apparsa a Napoli nel 1478 può considerarsi veramente il primo tipo del genere.
Quasi nello stesso tempo fu pubblicato a Napoli un Ovidio illustrato e nel 1485 apparve il famoso Esopo in volgare, adorno d'un gran numero di silografie giudicate fra le più argute del sec. XV. Poco tempo prima era stato pubblicato a Vicenza il Libro delle sorti di Lorenzo Spirito, ampiamente illustrato, e ripubblicato nel 1484 a Brescia con legni di altro artista: forse di quello stesso artista che arricchì di figure un Esopo e la Divina Commedia che furono stampati dallo stesso tipografo Bonino de Boninis (v. de boninis, bonino, XII, p. 443) nel 1487.
A Venezia quest'arte si sviluppa un poco più tardi: è del 1486 un Supplementum Chronicarum di I. F. Foresti con figure rappresentanti vedute di città italiane; l'illustrazione delle Meditazioni di S. Bonaventura, del 1487, fu eseguita usando i legni dell'edizione silografica della Passio J. C. (esemplare unico a Berlino) e sostituendo la composizione tipografica al testo, ch'era anch'esso inciso su legno. Meritevoli inoltre di ricordo sono le edizioni del Petrarca, con le rappresentazioni dei Trionfi (1488,1490), di Dante (marzo e novembre 1491), un delizioso Fior di virtù (1490), la Bibbia volgarizzata da N. Mallermi e le Vite dei Ss. Padri del 1491, il Decamerone e il Novellino di Masuccio del 1492 (illustrazioni quasi ignorate per l'estrema rarità dei libri che le contengono), il meraviglioso Fasciculus Medicinae del Ketham (1493), le Metamorfosi di Ovidio e il Terenzio del 1497, la Hypnerotomachia Poliphili, curioso romanzo allegorico di Francesco Colonna, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499 e riccamente illustrato, da artista rimasto sconosciuto, con figure espresse a semplice contorno di un gusto impareggiabile.
Le illustrazioni dei libri milanesi del Quattrocento sono poche, ma hanno un carattere che le fa subito distinguere: forse l'esempio più importante è il ritratto posto in fronte alle Rime di Bernardo Bellincioni, il cui disegno fu attribuito a Leonardo da Vinci.
A Firenze l'incisione su legno a servizio del libro si sviluppò intorno al 1490 ed è di questo anno la mirabile silografia che orna le Laudi di Iacopone da Todi; del 1491 l'Arithmetica del Cal andri.
Segue la ricca serie delle operette di Girolamo Savonarola e quella delle Sacre rappresentazioni le cui illustrazioni, caratteristiche anche per le cornici su fondo nero, vanno certamente annoverate fra le più cospicue che siano state prodotte fino a oggi.
A Venezia ha origine anche la maggiore manifestazione silografica italiana del Cinquecento: quella del chiaroscuro, ossia di stampe ottenute con la successiva pressione di legni. Ugo da Carpi, conte di Panico, chiedeva nel 1516 al senato veneto protezione per una scoperta che permetteva di "fare con le stampe di legno carte che paiono fatte col pennello".
La critica tedesca ha protestato contro il primato della invenzione, attribuitosi dal Carpigiano, e gli ha opposto la precedenza di pittori tedeschi e olandesi: il Cranach, il Burgkmair, Jost de Negker e altri. Ma di fatto nessuna delle "carte" oltremontane rende l'effetto dei chiaroscuri italiani, i quali mirano a imitare l'acquerello con superficie libere, larghe, impressionisticamente sentite e abilmente graduate sulla base d'un solo colore.
Ugo da Carpi ha interpretato disegni di Raffaello e del Parmigianino, trasformandone il significato formale-romano, in significato pittorico-veneziano. I seguaci più noti del Carpigiano sono Antonio da Trento, Giuseppe Nicola Vicentino, che supera per audacia luministica lo stesso Ugo, Andrea Andreani di Mantova: si hanno, inoltre, alcune opere d'autore non certo, che rappresentano uno stato d'evoluzione anche più sorprendente di quello che si verifica per le stampe di riconosciuta paternità: per es., la Guarigione del paralitico (B. XII, 11,14).
Già con l'Andreani, però, la pratica del chiaroscuro appare, per diminuita spontaneità, in decadenza. Né durante il sec. XVII le sorti di tale specie di silografia si risollevano: i bolognesi Giambattista e Bartolomeo Coriolano, interpretando invenzioni del Tiarini e di Guido Reni, si rivelano perfettamente in accordo con lo spirito accademico proprio della pittura ufficiale secentesca. Dopo si Coriolano il chiaroscuro muore, ma risorge nel secolo successivo per la piacevole interpretazione che A. M. Zanetti ci offre di una bella serie di disegni del Parmigianino.
La silografia italiana non si esplicò; tuttavia, soltanto nel chiaroscuro: a Venezia, nello stesso sec. XVI, servì alla riproduzione di vasti disegni del Tiziano, ideati, appunto, per essere replicati mediante un legno. Furono interpreti del Vecellio, o indirettamente s'ispirarono a lui, D. Campagnola, N. Boldrini, D. Delle Greche, G. Scolari, Fr. di Nanto. Anche i silografi ferraresi, che hanno il migliore rappresentante in G. Ruina, non furono, per la qualità pittorica delle loro opere, completamente estranei all'influsso di Venezia. Ma la silografia, dopo il Cinquecento in Italia decade anche sotto l'aspetto d'illustrazione di libri (v. illustrazione).
Occorre giungere agl'inizî del sec. XX, con A. De Carolis (v.) e la sua scuola, per sentire un desiderio vero di rinascita di quell'arte. Adolfo De Carolis, affermatosi nel 1902 nel Leonardo - cui collaborarono come silografi anche Giovanni Costetti e Armando Spadini - raggiunse più tardi effetti di sorprendente virtuosismo, ispirandosi a un ideale classicistico di gusto che potrebbe essere detto post-michelangiolesco, e che trovava nel legno un ottimo mezzo d'attuazione.
Dalla scuola del De Carolis uscirono, o a lui s'ispirarono, molti degli odierni maestri di silografia: Carlo Guarnieri, Diego Pettinelli, Ettore Di Giorgio, Antonio Moroni; né si può dire che siano del tutto estranei a lui anche altri, che pur non dimostrano dipendenza diretta; taluni, anzi, hanno caratteri di bella originalità. Sono Giannetto Malmerendi, Benvenuto Disertori, Alpinolo Porcella, Roberto Melli, Luigi Servolini, Dario Neri, Duilio Cambellotti, Gino Carlo Sensani, Pietro Parigi, Guido Marussig, Felice Casorati, Mario Reviglione, Guido Nincheri, Cafiero Luperini, Carlo Turina, Mino Maccari, Nicola Galante, Francesco Nonni, Giulio Cisari, Sergio Sergi, Alessandro Pandolfi, Bruno da Osimo, Giorgio Pianigiani, Bruno Bramanti: quest'ultimo, fra i giovani, si caratterizza per uno speciale senso decorativo, che, in piccolissime composizioni, lo induce a sfruttare le intime possibilità del legno, come un silografo antico. Un gusto originalmente arcaicizzante, sebbene di tutt'altro tipo, dimostra anche il pittore Antonio De Witt, come chiaramente appare dalle sue illustrazioni dell'Ombra del Magnifico e dell'Orfeo del Poliziano.
Posizione a sé, fra i silografi come fra i pittori, presentano Arturo Checchi e Lorenzo Viani: nell'opera del secondo, che va studiata anche in relazione con l'arte del Vianí come scrittore, sono robustamente rivissuti spunti di tradizionalismo fattoriano; nel primo, il bianco e il nero, violentemente opposti, concorrono di per sé a esprimere la sofferente umanità dei soggetti.
Incisione su metallo. - Se non si può ascrivere a Maso Finiguerra l'invenzione del procedimento calcografico, e neppure si può ammettere un primato italiano del procedimento stesso, è stato tuttavia dimostrato che gl'inizî dell'incisione italiana sono indipendenti dalla produzione tedesca di qualche decennio anteriore; e che la stampa calcografica italiana è nata veramente dalle botteghe degli orafi fioreutini. Gli orafi, infatti, traendo sulla carta l'impronta dei nielli, per giudicarne l'effetto, incominciarono a ottenere delle piccole impressioni a disegni ornamentali, su fondo nero; essi si fecero a poco a poco meno occasionali; e si eseguirono di proposito piccole stampe a uso niello, le quali si distinguono dalle prime soltanto per il fatto che in esse, tratte da una lastra destinata alla stampa, se ví sono delle iscrizioni appaiono con i caratteri in senso giusto, mentre nelle altre i caratteri sono controverso. Tali stampe rappresentano uno stadio d'arte assai evoluto: il contorno è precisissimo, e, date le piccole dimensioni, basta il minimo velo d'ombra, per creare risultati di esatto, prezioso rilievo. Le stampe di nielli e quelle a uso niello appaiono rappresentate in tutte le grandi collezioni pubbliche e nella raccolta del barone Rothschild a Parigi. Artisti di gran nome come A. Pollaiolo e il Francia, attesero ai nielli; ma colui che si dedicò in modo particolare a questo genere d'attività fu Pellegrino da Cesena (operoso fino agl'inizî del sec. XVI).
L'interesse prestato dai pittori fiorentini all'incisione fece sì che essa, intorno al 1460-70, si staccasse sicuramente dall'oreficeria e si svolgesse secondo fini suoi proprî. Artisti quali il Botticelli e il Lippi fornirono disegni, che, attraverso la mano degl'incisori, conservarono in parte lo spirito del maestro, e influirono sulla produzione del secolo. Antonio Pollaiolo creò, circa il 1470, il primo capolavoro dell'incisione italiana, con il Combattimento d'Ignudi. Altre stampe si attribuiscono, ma senza probabilità, al maestro. Il principio pollaiolesco d'incidere dando il senso immediato del tocco a penna riappare in molte incisioni fiorentine del secolo, riproducenti disegni di altri artisti: per es. nella serie della Vita della Madonna e di Gesù, nei Trionfi del Petrarca. L'influenza del Botticelli fu però maggiore di ogni altra: per essa si tentò di riprodurre il segno lieve della matita e della punta d'argento, piuttosto che quello della penna: anzi, la maniera larga, pollaiolesca, fu opposta, modernamente, alla maniera fine, botticelliana. Il più fedele interprete del Botticelli sarebbe stato, secondo il Vasari, l'orafo Baccio Baldini; sotto questo nome si raccolsero disparatissime cose, molte delle quali oggi sono ritenute invece del Finiguerra. Comunque, l'influsso botticelliano è evidente, per es., nelle tre stampe del Monte Santo di Dio (Firenze 1477) e in quelle della Divina Commedia (1481). Accanto a questa produzione di carattere schiettamente fiorentino altra incomincia a vedersi a Firenze, sulla fine del sec. XV, che rivela influssi oltremontani: quella di Cristoforo Robetta (1462-dopo il 1522), per es., che cerca di adattare alla visione di Filippino Lippi spunti paesistici dello Schongauer e del Dürer; quella di Lucantonio degli Uberti.
Nell'Italia settentrionale l'incisione del Quattrocento ha il suo grande rappresentante in Andrea Mantegna (1431-1506), che circa il 1480 prese ad usare di sua mano il bulino. Il suo metodo tecnico è affine a quello del Pollaiolo; ma al contorno profondamente segnato adattò ombre fatte di tagli più fitti, tracciati parallelamente e diagonalmente; tale incisione, esasperatamente plastica, racchiude lo stesso senso di profonda, fervida gravità, che caratterizza la pittura di quel maestro. Fra le stampe autentiche più belle sono: la Lotta di mostri marini, i due Baccanali, la Pietà, la Vergine col Bambino, alcune parti dei Trionfi di Cesare. La serie dei Tarocchi, nota in due versioni, e una volta attribuita al Mantegna, ha caratteri stilistici evidentemente ferraresi. Fra gl'interpreti e gl'imitatori del Mantegna vanno menzionati tre bresciani: Zoan Andrea, Giovanni Antonio, Giovanni Maria. Rivela meno diretto influsso Nicoletto Rosex da Modena, che da arcaistici inizî di niellista, attraverso lo studio del Mantegna, dello Schongauer, del Dürer e del "Maestro I.B. con l'uccello", giunge ad una visione singolarmente personale, in composizioni dagli ampî sfondi architettonici, ispirati a un'arbitraria idea dell'antico, segnati, come le figure, con linea frastagliata e nitida. Gli si avvicina un po' negl'intenti figurativi il "Maestro I. B. con l'uccello", che si cercò d'identificare con l'orafo modenese G. B. da Porto; le sue stampe più note sono la Leda con i figli e la Famiglia del Satiro. Un punto di partenza mantegnesco e una successiva elaborazione in senso düreriano presenta anche Benedetto Montagna, vicentino (1470?) dopo il 1540), sul quale influì la pittura veneziana contemporanea, specialmente quella di Giovanni Bellini, del quale si riconosce l'influsso anche nell'opera del veronese Giovanni Mocetto (operoso fra il 1484 e il 1531). Iacopo de' Barbari, attivo a Venezia attorno al 1500 (morto nel 1514), conclude la schiera degl'incisori veneti, che per carattere di stile possono dirsi quattrocenteschi. Egli ha specifiche affinità con il Dürer e con altri incisori germanici; le sue stampe si caratterizzano per la prevalenza stilistica della linea: rappresenta senza dubbio il più geniale risultato dell'accordo fra le tendenze incisorie del Nord e quelle del Sud. Se lo spirito pittorico, latente nell'opera di questi maestri settentrionali, non fu del tutto espresso a causa degl'influssi plastico-mantegneschi e lineari-düreriani, più liberamente esso si esplicò quando nel campo della pittura veneta si affermarono le conquiste giorgionesche. Precisatosi il fine figurativo, si precisò, anche nell'incisione, una nuova tecnica; le linee, interrotte, distanziate, intrecciate, con cui di solito si ottenevano la mezza tinta e gli scuri, vennero alternate con punti: spesso, anzi, esse furono del tutto sostituite da una stesura di punti, che determinò ammorbidimento della forma e funzione stilistica dell'atmosfera. Tale innovazione è dovuta al padovano Giulio Campagnola (1482-1515) e si afferma con grande coerenza nelle sue stampe tarde: Il Giovane pastore, la Donna coricata, ecc. Suo nipote Domenico Campagnola (attivo fino al 1568) ha anch'egli una visione assai originale, che si esprime con un giuoco di fitte, ardite linee parallele, di effetto appariscentemente pittorico (Madonna col Bambino e Santi, Pastore e Guerriero). Il Campagnola interpretò silograficamente disegni paesistici di Tiziano. Il vero continuatore della sua maniera non fu però Domenico, bensì Marcello Fogolino (operoso nel 1515-48) da Vicenza, nell'opera del quale, oggi rarissima, si manifesta l'espressione più significativa del giorgionismo.
Mentre nel Veneto l'incisione andava così tendendo ad effetti coloristici e anche in Lombardia, per influsso leonardesco, le opere incise erano singolarmente pittoriche (v. il Capriolo del misterioso "Maestro della Decollazione di S. Giovanni"), a Bologna nasceva l'incisore antipittorico per eccellenza, colui che doveva porre quest'arte sulla via del plasticismo classicista: Marcantonio Raimondi (1480-circa 1534). Egli frequentò dapprima la bottega del Francia, di cui incise disegni attenendosi a maniere niellistiche, di gusto bolognese. Andato a Roma e incontratosi con Raffaello, egli annientò la sua personalità, nell'intento di riprodurre fedelmente le invenzioni del Sanzio. S'inizia, così, sistematicamente, l'"incisione di riproduzione", che aspira alla resa e alla diffusione di opere ideate da altri. Innumerevoli sono le stampe raimondiane del periodo romano (1510-1527), informate a criterio plastico-classicista, abilissime nella tecnica: quelle più tarde hanno invece una tecnica greve e un'aderenza assai meno immediata allo spirito del modello, che fu talora, dopo la morte del Sanzio, Giulio Romano o il Bandinelli. Non ostante la mancanza di originalità, Marcantonio ebbe grandissima rinomanza e formò intorno a sé una scuola numerosa. Suoi imitatori, e probabilmente suoi scolari, furono Agostino Musi di Venezia, Marco Dente di Ravenna, il cosiddetto "Maestro del Dado". Anche Giacomo Caraglio (attivo circa 1550) fa parte della scuola romana; però si distingue dai più fedeli seguaci del Raimondi per maggiore libertà di aspirazioni. Interpreta, oltre che da Raffaello, dal Parmigianino, dal Rosso Fiorentino, da Tiziano. Giulio Bonasone da Bologna, che opera tra il 1531 e il 1575, si scosta ancor più da Marcantonio, pur serbando fondamentalmente i caratteri della scuola romana; incise pure ad acquaforte, mediocremente.
Il parmense Enea Vico (operoso nel 1541-1567), il francese Niccolò Beautrizet (Beatricetto, 1507-dopo il 1565), Mario Cartaro (operoso 1564 e 1567) e qualche altro attivo in Roma rappresentano nella storia dell'incisione un gruppo a sé, non tanto per il carattere stilistico della loro opera, la quale sempre più fiaccamente continua ad applicare i principî estetici raimondiani, quanto perché essi la diressero sistematicamente a fini di commercio. Roma, verso la metà del Cinquecento, era il maggiore mercato europeo di stampe: Antonio Salamanca, Antonio Lafrery, Giangiacomo Rossi, Tommaso Barlacchi, Filippo Thomassin, incisori essi stessi, raccoglievano rami della scuola raimondiana ed emettevano stampe con il loro nome in calce. Enea Vico, Beatricetto, Cartaro furono tra coloro, appunto, che più lavorarono per il mercato.
All'affrettato tecnicismo di questa produzione commerciale si oppone la maniera elaborata e coscienziosa dei "Mantovani", attivi in Roma nell'orbita di Giulio Romano, e degni continuatori degl'ideali plastico-chiaroscurali del Raimondi. Giovanni Battista Scultori e Giorgio Ghisi hanno meritato gran lode; Diana e Adamo, figli dello Scultori, meno. Le stampe dei due primi si caratterizzano per certe ombre fumose, che costituiscono l'aspetto nuovo dell'opera di questi maestri; le ombre sono dovute ad un serrato lavorio di bulino che, mediante tagli e punti, tormenta la lastra, senza lasciarle luogo che non sia toccato, accentuando al massimo l'esteriore plasticità degli oggetti; tali stampe possono dirsi l'equivalente incisorio della pittura di Giulio Romano.
Nell'Emilia, senza alcun rapporto con i tentativi del Dürer, era nata intanto, per opera del Parmigianino, l'acquaforte, che doveva trasformare da plastici in pittorici gl'ideali estetici degl'incisori italiani. Il Parmigianino praticò poco l'acquaforte, ma dischiuse agli altri un campo vastissimo; non solo per il fatto d'aver dato alla fantasia un mezzo d'espressione tanto scorrevole ed agile, ma anche per aver fornito una grande quantità di disegni. Andrea Meldolla (lo Schiavone, 1522-1582) fu il suo continuatore: anzi, aiutandosi anche con la puntasecca, ottenne effetti ancora più evoluti, giungendo talora a un vero e proprio dissolvimento della corporeità delle cose sotto l'azione dell'atmosfera. L'influsso del Parmigianino varca il confine e si afferma nella scuola di Fontainebleau, dove possono identificarsi, fra i molti anonimi, il bolognese Antonio Fantuzzi, il fiorentino Domenico del Barbiere, il misterioso monogrammista L. D., forse belga. Nel Veneto l'acquaforte non esplicò - come potrebbe supporsi - tutte le sue pittoriche possibilità; esse furono impedite da intellettualistici intenti d'accordo di luce e ombra con rilievo, intenti determinati dall'influsso di Giulio Romano. Perciò la rapida tecnica fu congiunta al lento lavorio del bulino: l'udinese Giambattista Franco, il veronese Giambattista Fontana, i vicentini Giambattista Pittoni e Niccolò Vicentino segnano una traccia non profonda nella storia dell'incisione; qualche originale risultato consegue, piuttosto, Paolo Farinati di Verona (1524-dopo il 1606), che aspirò a rendere con effetti di ampia lumeggiatura solare l'equivalente dei dipinti di Paolo Caliari. A Bologna, invece, l'acquaforte e l'incisione in genere furono assai praticate. Quasi tutti i pittori del Cinquecento e Seicento hanno lasciato stampe, ma più di tutti Agostino Carracci, che fece di quest'arte, per varî periodi della vita, l'occupazione sua principale: con il bulino facile e franco cercò soprattutto di ottenere effetti che dessero il senso del colore; il gusto accademico della pittura del tempo dominò le sue vaste stampe, che, a causa dell'appariscente tecnica, diedero ai più l'illusoria impressione che il maestro avesse compiuto una riforma. La sua maniera ha invece palesi precedenti nell'opera di C. Cort (1535-1878) e di D. Tibaldi (1841-1582). Anche Lodovico Carracci, suo cugino, e Annibale, suo fratello, lasciarono stampe a bulino e ad acquaforte: il secondo risente dell'influsso di B. Passerotti (morto nel 1592). Furono seguaci di Agostino: Cherubino Alberti, Orazio De Santis, Francesco Brizio, Gianluigi Valesio, Francesco Villamena. Nell'opera di questi ultimi si manifestano già sintomi di reazione all'accademismo: sintomi che non mancano, del resto, nella produzione stessa di Agostino. Tuttavia uno dei temperamenti più sensibili agli effetti dell'acquaforte fu, nella seconda meta del secolo, l'urbinate Federieo Barocci (1535-1612): alle sue poche acqueforti - cui concorsero anche la puntasecca e il bulino - egli ha dato una vita propria, vivacemente pittorica, ristretta nei limiti, ma sincera e profonda.
Nel Seicento l'incisione, esperta ormai di tutte le scaltrezze tecniche, assume intenti eminentemente luministici. Il contrasto, fino allora quasi drammatico, fra aspirazioni pittoriche e formali, si placa, sopraffatto dal gusto barocco, che fonde le due tendenze in una, ricca di aspetti e di sorprese. Praticarono, sia pure occasionalmente, l'acquaforte lo stesso Caravaggio, il Guercino, e Guido Reni, che "si ricollega meravigliosamente al Parmigianino" (B. Disertori) e accoglie anche influssi carracceschi, ma tutto rinnova attraverso uno schietto senso d'improvvisazione, in netto contrasto con la sua elaborata pittura. Esce dalla scuola di lui Simone Cantarini da Pesaro (1612-1678), acquafortista nato, che - un po' alla maniera di P. Farinati - sentì soprattutto il valore stilistico della luce diffusa. A lui pare essersi ispirato il veronese Giulio Carpioni (1611-1674), effettivamente scolaro del Padovanino; il Carpioni ricercò, però, opposizioni luministiche più staccate e ardite, e nella serie degli Elementi presenti le conquiste che renderanno grandissimo G. B. Tiepolo anche nel campo dell'acquaforte. A tali maestri che, dal punto di vista dello stile, partecipano tutti del pittoricismo incisorio bolognese, di carattere schiettamente italiano, oppongono tutt'altra visione, non esente da influssi nordici, i fiorentini Antonio Tempesta (1555-1630) e Stefano della Bella (1610-1674): il primo nella vastissima produzione rivela una dipendenza dai Fiamminghi e dai Romani, rinnovata attraverso un ricco temperamento; il secondo, discepolo di Remigio Cantagallina (morto nel 1630), si avvicina alla maniera del Callot, che tuttavia trasforma per una sensibilità più rapida e impressionistica, sulla quale deve avere agito lo studio delle acqueforti del Rembrandt e di G. B. Castiglione. Derivano senza genialità dal Tempesta Raffaele Schiaminossi (1570-dopo il 1620) e Giovanni Battista Mercati (1613-1637), entrambi di Borgo S. Sepolcro; si ricollega, sia pure indirettamente, alla maniera di questi Toscani anche Pietro Testa di Lucca (1611-1660). Il suo stato d'inquietudine gli tolse unità di visione e lo indusse ad effetti talora così liberi e audaci da annunziare il Settecento; talora così calcolati e freddi da annunziare il neoclassicismo.
Sul gruppo genovese (Bartolomeo Biscaino, Giannandrea Podestà, Francesco Amato) domina Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto (1610-1665), che, con lievissimo tremulo segno, compose scene all'aperto, diffusamente illuminate, di un'atmosfera in perenne vibrazione, impressionisticamente subordinante i fantasiosi oggetti di quella singolare natura.
D'un pittoricismo diverso, più robusto e mutevole, affine allo spirito della pittura secentesce napoletana, appaiono invece i due maggiori acquafortisti dell'Italia meridionale: Giuseppe Ribera e Salvator Rosa. Il Ribera, nato in Spagna, con tecnica abile e varia creò effetti audaci, per disposizioni di parti e per azione di luce, che si concreta in raffiche vibratamente contrapposte a zone d'ombra. Le acqueforti di Salvator Rosa rivelano lo stesso fare grandioso, lo stesso spirito romantico della sua pittura.
Nel Settecento l'acquaforte italiana ha la sua ora più bella, nella quale sussistono le aspirazioni stilistiche del secolo precedente, ma trasformate da una coscienza più libera delle possibilità dell'atmosfera e della luce. Di Venezia sono i migliori maestri; Gian Battista Tiepolo è il più grande. Nei Capricci e negli Scherzi di fantasia dimostra la sua originalità, che si esplica nel rendere lieve, brillante, trasfigurato dalla luce l'aspetto di cose disparatissime, aggruppate secondo un rapporto che sfugge alla logica. Nella grande Adorazione dei Magi le sue doti di compositore si affermano come nei suoi più celebrati affreschi: con il vibrantissimo segno suggerisce e non precisa. Invano i figli Giandomenico (1727-1804) e Lorenzo (1736-1773 circa) tenteranno d'accostarsi a tanta genialità. In G. B. Piranesi (1720-1778) i contrasti di ombra e luce si risolvono in una prevalenza dell'ombra, che raggiunge neri profondi. Un senso eroico anima i ruderi, gli edifici che, attraverso il travisamento della luce e degli effetti scenografici rivelano tuttavia la conoscenza costruttiva dell'architetto. E basterà poi ricordare il nome di B. Pinelli (1781-1835). Il Canaletto (1697-1768) ripete con l'acquaforte i calmi effetti della sua pittura: anima le vedute veneziane di macchiette, che richiamano alla mente quelle del Callot e di Stefano della Bella, ma si muovono in un'atmosfera più calda, concretata da un tranquillo giuoco di linee parallele. S'ispirarono a lui Michele Marieschi (1696-1743) e il nipote Bernardo Bellotto (1720-1780): mentre, sempre in Venezia, da lui si scostano un po' Gian Antonio Faldoni (nato nel 1690) e Marco Pitteri (1707-1786), l'interprete del Piazzetta, per cui adottò una tecnica tutta sua, a tagli paralleli e punti. Dalla bottega dello svizzero Giuseppe Wagner in Venezia usciva poi il fiorentino Francesco Bartolozzi (1727-1815), che dapprima riprodusse ad acquaforte disegni del Guercino, conservandone l'intensa vita pittorica; adottato più tardi l'uso del granito, interpretò con effetti di delicata morbidezza composizioni del Reynolds, del Lawrence, della Kauffmann; usò anche l'acquatinta: tecnico in tutti i campi abilissimo, mancò però di capacità creatrice. La schiera di maestri del bulino uscita dalla bottega del Wagner fu tutta, del resto, abile e non geniale. Le tendenze formalistiche, che il neoclassicismo ridestava, allontanavano ancora una volta gl'incisori dall'acquaforte e li inducevano sulla via dell'accademia verso cui li spingeva anche lo scopo meramente riproduttivo delle stampe. Il fenomeno di decadenza fu particolare di questa scuola veneziana; né da essa, anzi, uscì il meglio di quanto il momento offrisse; decadente era ormai lo spirito stesso della pratica a bulino, e sorpassate erano le sue aspirazioni. I migliori allievi del Wagner operarono a Roma: furono il senese Fabio Beraldi (1740-1788), il veneziano Antonio Cappellan (nato nel 1770), genero dello stesso Wagner, il veronese Domenico Cunego (1729-1794), il bassanese Giovanni Volpato (1733-1803). Di quest'ultimo fu discepolo il fiorentino Raffaello Morghen (1758-1833), uno dei più abili maestri del suo tempo: pochi, incidendo, diedero quanto lui senso di correttezza, di controllo. Il suo ideale di fredda perfezione, oggi incomprensibile, denota tuttavia un'aspirazione all'arte. Tale aspirazione, indipendentemente dai risultati, deve forse riconoscersi anche alle stampe di Giuseppe Longhi (1746-1831), di Paolo Mercuri (1804-1884), di Luigi Calamatta (1801-1869), con i quali può farsi concludere in Italia la storia dell'incisione riproduttiva.
Cessato, dopo le invenzioni fotomeccaniche, lo scopo di tale incisione, risorge anche in Italia l'acquaforte originale. I rappresentanti più insigni sono: Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Mosè Bianchi, Luigi Conconi. Il primo (1805-1908) occupa in questo campo la stessa eminente posizione che occupa nel campo della pittura. Stampe come Due bovi aggiogati, Due cavalli con soldato, Il riposo, Lo spaccapietre, Il soldato presso la tenda, ecc., indicano, anzi, la psicologia dell'artista più che i suoi grandi quadri. Accanto alla sua squallida forza le acqueforti di Telemaco Signorini (1835-1901) si rivelano, invece, opera d'un versatile raffinato. Nel suo notissimo Vicolo l'artista ci si mostra mentre si controlla, attraverso un lavoro abile e metodico, che produce un effetto uniforme; nelle vedute di Mercato Vecchio, invece, è libero, tutto pittoricismo brillante e fantasioso; altre acqueforti lo rivelano ancora diverso, lieve di mano, elegante, intento a toni sfumati, argentei, delicatissimi. Mosè Bianchi (1840-1904) e Luigi Conconi (1852-1917) continuano la tradizione lombarda, che, a partire da Leonardo, ha fatto prevalere, dipingendo e incidendo, l'ombra su ogni altra circostanza figurativa. Nelle acqueforti di entrambi la prevalenza è attuata con un rigore di stile pieno di poesia e di originalità: nel primo i bianchi appaiono meno staccati, più sottomessi ad una funzione stilistica dell'atmosfera; nel secondo, invece, essi valgono per sé stessi, con intenso nitore. Accanto a questi maggiori altri maestri hanno operato, che si caratterizzano per aver dato, secondo il gusto del secolo, molta evidenza all'aspetto psicologico del soggetto, riuscendo per altro di rado a ricreare poeticamente la scena. Eleuterio Pagliano (1826-1903), Tranquillo Cremona (1837-78), Federico Faruffini (1831-1869), Antonio Fontanesi (1818-1882) spesso, nell'ansia di tutto esprimere - e la tecnica abilissima li ha aiutati al massimo - si sono mantenuti troppo dentro la vita, perciò fuori dell'arte. Hanno illustrato, non creato. Ad ognuno di loro, tuttavia, può ascriversi qualche cosa, che non è illustrazione, ma vera e propria opera d'arte. Lo stesso può riconoscersi a Giuseppe Grandi, ai due Gigante, a Filippo Palizzi, al Grubicy, a Luigi Serra (di cui ci è nota una sola stampa).
Dinnanzi agl'incisori italiani del Novecento si constata subito che si è smarrito quel carattere di scuola per cui, nel secolo scorso, l'acquaforte d'un toscano non poteva essere confusa con quella d'un lombardo o d'un piemontese. Ognuno, oggi, lavora con caratteri proprî, o, se rivela comunanza d'influssi con altri, tali influssi dipendono, più che da un sentimento della tradizione paesana, da intellettualistiche tendenze verso altre affermazioni, di gusto, spesso, non italiano. Se si può notare qualche traccia di "fattorismo" in alcuni Toscani, si tratta più di coincidenze iconografiche che di effettiva affinità di temperamento e di stile (Arturo Checchi, Angiolo Bucci, Ottone Rosai, Achille Lega, Giorgio Morandi, Mino Maccari, ecc.). I nomi di Ardengo Soffici, di Carlo Carrà, di Giorgio De Chirico hanno, nella storia dell'incisione e della litografia, quel significato d'intelligenza e di ansia tormentata d'esperienze, che è, in modo diverso, la caratteristica della loro pittura. In tutt'altro mondo ci portano altri quattro incisori, nei quali alcuno ha voluto vedere la personificazione delle più evidenti tendenze dell'incisione italiana contemporanea (A. Del Massa). Essi sono E. Mazzoni-Zarini, Celestino Celestini, Antonio Carbonati, Benvenuto Disertori, che si sono dedicati professionalmente all'incisione. A sé, in un mondo letterariamente fantastico, di gusto talvolta macabro, stanno invece Alberto Martini, che si è dedicato specialmente alla litografia, e Raul dal Molin Ferenzona. Altri nomi annovera l'acquaforte italiana del Novecento: Augusto Sezanne, G. A. Sartorio, Giuseppe Miti-Zanetti, Emanuele Brugnoli, Ubaldo Magnavacca, Giuseppe Graziosi, Ludovico Cavaleri, Giovanni Costetti, Augusto Baracchi, Marina Battigelli, Vico Viganò, Guido Balsamo-Stella, Romano Romanelli, Romano Dazzi, Luigi Bartolini, Carlo Casanova, Paolo Mezzanotte, Francesco Chiappelli, Angelo Rossini, Laurenzio Laurenzi, Giovanni Buffa, Lodovico Tommasi, Guido Spadolini, Carlo Petrucci, Fabio Mauroner. Invece, la maniera nera e l'acquatinta sono state poco usate, né con risultati notevoli.
Germania. - In Germania, a differenza che in Italia - dove è eccezionalissimo che lo stesso maestro sia buon silografo e buon calcografo ad un tempo - gl'incisori, dal finire del Quattrocento in poi, esercitarono con pari bravura le due attività: i maggiori, però, non intagliarono quasi mai di loro mano la tavola, ma di ciò incaricarono artefici specializzati. A ogni modo, per la coincidenza fondamentale delle due attività, solo nel loro periodo iniziale si può trattare separatamente dell'una e dell'altra.
Il Kristeller è riuscito a determinare dei gruppi di primitive stampe su legno, germaniche, il cui interesse risiede soprattutto nel valore archeologico. Lo stesso può dirsi delle edizioni chirosilografiche, di cui un esempio tipico è la Biblia Pauperum (Biblioteca di Heidelberg) con rozze vignette intercalate nel testo, mentre un grado sempre maggiore di evoluzione stilistica rappresentano i veri e proprî libri illustrati, in Germania numerosi, dopo il 1470; in essi le silografie hanno un carattere lineare, che non esclude certa ricerca di plasticità: i contorni sono esatti, le ombre scarse, a tagli paralleli, obliqui. Tale processo tecnico non muta sostanzialmente fino al Dürer, sebbene le composizioni si facciano sempre più complesse, e il disegno più sicuro ed evoluto. Fra i libri meglio decorati dell'ultimo trentennio del sec. XV sono il De claris mulieribus di G. Boccaccio, bellissimo (Ulma 1473), le Peregrinationes ad sepulcrum Christi di Bernardo Breydenbach (Magonza 1486), la Bibbia di Lubecca (1494) e le belle edizioni pubblicate a Norimberga da Antonio Koberger, alla decorazione delle quali avrebbero atteso, pare, anche Michele Wohlgemuth, maestro del Dürer, e suo genero Guglielmo Pleydenwurff. Comunque, la sicurezza stilistica e la coscienza d'arte di tali edizioni annunciano ormai prossimo l'avvento di Alberto Dürer.
L'incisione germanica su rame aveva intanto trascorso appena quell'oscuro periodo di formazione, i cui prodotti hanno un interesse esclusivamente erudito, quando, nella seconda metà del Quattrocento, quasi a un tratto essa fioriva in una splendida primavera.
L' "Anonimo della Passione" del 1446 e il "Maestro dei giuochi di carte", che si sa essere anteríore al 1450, dimostrano già una visione limitata, ma sicura, espressa mediante una tecnica lieve, a sottili tagli paralleli, ispirata a gusto schiettamente lineare: al secondo particolarmente si riconnettono altri due anonimi, il "Maestro del Giovanni Battista" e il "Maestro delle banderuole" o "del 1464". Al disopra di costoro, però, si pone la prima vera personalità artistica dell'incisione tedesca, quella del "Maestro E.S. del 1466" (o 1467). La tecnica di questo incisore dipende da quella del "Maestro dei giuochi di carte", ma è più evoluta: tagli discosti, paralleli, incrociati, interrotti, tagli e punti isolati creano un risultato pittoricamente armonioso, nel quale la linea, pur continuando ad avere il predominio stilistico, tende già ad effetti di plasticità: talvolta, da un accordo singolarissimo di linee e rilievo nasce un dolce modellato, su cui la luce scorre, eliminando spigoli, arrotondandoli. Insomma, nella produzione vastissima di questo antico anonimo vi sono, in potenza, tutti quelli che saranno i caratteri stilistici dell'incisione germanica nell'ora sua più originale. Del grande influsso esercitato dal Maestro E. S. sono riprova le molte copie di opere sue, eseguite in Germania, nei Paesi Bassi, in Italia. S'ispira a lui, in un primo momento, anche Martin Schongauer, di Colmar (1456-1491), il quale, attraverso successive fasi stilistiche, accentua sempre più quella ricerca di plasticità che, per funzione di linee e di ombre, il Maestro E. S. aveva manifestata: nello Sch., però, il compito della linea è stilisticamente più sentito; le ombre sono più intense e meno graduate nei passaggi alla luce. Questa si rompe sui corpi come su facce di prismi con un risultato che è potente mezzo d'astrazione e prelude al Dürer. Ebbe anch'egli imitatori in Germania e nei Paesi Bassi, ma - se si eccettua il "Maestro del Gabinetto di Amsterdam" - tutti di scarsa originalità. Questo misterioso e discusso "Maestro del Gabinetto di Amsterdam", detto anche "del 1480", oscilla fra influssi dello Schongauer e del Dürer, ma pare originario della regione del medio Reno o della Svevia, dove sarebbe nato nell'ultimo quarto del sec. XIV: certo v'ha in lui, tradizionalmente ritenuto irlandese o fiammingo, affinità di stile con i pittori di Colonia: trattò di preferenza soggetti lievi, galanti, collocando le scene in paesaggi aperti, dove la prospettiva è resa con sicurezza. Posizione singolare, nonostante l'esiguità dell'opera incisa, occupa anche il norimberghese Veit stoss (1447-1533) che ebbe una visione un po' manieristica, ma vigorosa e ampia.
Alberto Dürer (1471-1528), uno dei più grandi incisori di tutti i tempi, riassunse in sé; arditamente rinnovandole, le conquiste dei suoi predecessori. Le sue opere a bulino lo rivelano dapprima affine allo Schongauer; ma, circa l'anno 1500, egli è già lontano da questo come da ogni altro. Nel 1504 crea il S. Eustachio, mirabile capolavoro. Il conseguimento di effetti prismaticamente plastici alla Schongauer non gli basta più; egli aspira ora a una maggiore aderenza fra linea ed effetto rilevato: la linea si compenetra nel rilievo, ne addolcisce la metallica apparenza, gli dà, se non morbidezza, una particolare attenuazione del senso dello spigolo. Il S. Eustachio sottintende un'evoluzione, che implica una più desta sensibilità dei passaggi da luce ad ombra, inducente verso il pittorico. L'Italia, che l'artista visitò due volte, esercitò un grande fascino su lui; ma, se si eccettua qualche isolata, passeggera condiscendenza al classicismo di Marcantonio (l'Adamo ed Eva, ad es.), il suo spirito tedesco perfettamente reagì ad influssi che potevano diminuirne la straordinaria originalità; così reagì ad influssi fiammingo-olandesi. Dopo il '14 l'artista non aggiunse più niente alle sue conquiste: né, per quella via, sarebbe stato possibile. Anche la silografia, che aveva avuto fino allora un compito di quasi esclusiva decorazione di testi, si mette, per il Dürer, alla pari con l'incisione su metallo. Appresane la tecnica dal Wohlgemuth (1434-1519), il Dürer, per il vigore della linea, per il contrasto della luce e dell'ombra, riesce a concretare quel senso esatto della forma, che è caratteristico delle sue stampe su rame. Lo spirito della tecnica silografica di per sé sarebbe antitetico a tale ricerca; ma, nella visione düreriana, essa è del tutto conseguente. Se l'artista, come pare certo, di persona raramente ha preparato le matrici, egli deve avere così dominato gli esecutori (fra cui va ricordato Gerolamo Resch), da annientarne ogní personale iniziativa. Nelle silografie düreriane l'aderenza fra il concetto compositivo e il mezzo tecnico d'espressione è così immediata, così spontaneo è il sacrifizio di tutto ciò che non ha spirito schiettamente silografico, che ognuno di tali fogli racchiude in sé un valore d'arte assoluto.
Grande fu l'influenza esercitata dalle stampe del Dürer. In Germania ne risentirono specialmente i silografi dell'imperatore Massimiliano, per opera del quale l'incisione su legno ebbe, agl'inizî del Cinquecento, un vivo incremento. Nelle silografie di Hans Burgkmair, di Augusta (1473-1531), è evidente l'aspirazione a fini stilistici simili a quelli del Dürer, ma essi raggiungono effetti di minor senso plastico, di minor forza spirituale. Spirito assai meno vasto di quello del Diirer, il Burgkmair comprese tuttavia le particolari esigenze delle incisioni su legno, e, mediante un segno esatto a tagli incrociati, sottili, ottenne effetti brillanti, ben fusi nei contrasti di luce e d'ombra. Della schiera degl'incisori, ispiratisi in Germania al Dürer, fanno poi parte Hans Leonard Schäuffelein di Norimberga (circa 1485-1540); Joerg Breu il Vecchio, d'Augusta (c. 1480-1537); Giovanni Weiditz, operoso in Strasburgo nel 1522, di recente identificato con il cosiddetto "Maestro del Petrarca". Personalità più originale e forte ebbe lo svevo Hans Baldung Grien, che se tende, come gli altri, ad effetti di aspra plasticità alla Dürer, li complica, tuttavia, mediante un più appariscente uso della luce, la quale crea con l'ombra contrasti violenti, come nella sua pittura. Sebbene si tratti di una funzione luministica di maniera, viene alle sue composizioni, da quelle ardite glissades, un senso di drammaticità e di vigore molto originale. Il B. ha eseguito, come il Burgkmair, alcuni camaïeux. Non si deve ad essi, tuttavia, l'invenzione della tecnica di tali stampe: essa spetterebbe a Giovanni Wächtlin, detto il "Maestro dai bordoni incrociati", o Pilgrim, di Strasburgo; altri, però, contendono anche a lui tale vanto. Comunque, i camaïeux del Pilgrim, a due legni, e le sue silografie ad uno, pur mantenendosi nell'orbita delle aspirazioni düreriane, non mancano di rude, originale spontaneità. Lo stesso riconoscimento meritano due maestri di Berna: l'orafo incisore Urs Graf (circa 1485-c. 1527 o '28), che rivela insieme con influssi del Dürer altri dello Schongauer, e Nicola Emanuele Deutsch (c. 1484-1530).
Tutti questi silografi, pur dimostrando di possedere caratteri proprî, hanno subito al massimo l'ascendente del Dürer e hanno ottenuto effetti di gotica, tormentata plasticità, espressione, nei migliori, di tormento spirituale: anche dal punto di vista della tecnica non si può dire che essi abbiano aggiunto qualche cosa a quella, abilissima, del grande modello. Posizione più indipendente occupano, invece, Giovanni Holbein il giovane (1497-1543), Alberto Altdorfer (1480-1538), Luca Cranach (1472-1553). Holbein incise su legno; anche se non eseguì di sua mano, si preoceupò tanto dell'effetto che silograficamente dal disegno doveva essere tratto, da non diminuire, rinunciando alla esecuzione materiale, il suo estro creativo. Anzi, egli sentì le possibilità particolari insite nella tavola di legno, tanto da tener conto, disegnando, della fibra stessa. Ebbe tendenze meno plastiche del Dürer: la sua fu, piuttosto, un'aspirazione verso effetti lineari; effetti, non fini a sé stessi, ma mezzo al conseguimento di una vivace unità di chiari e di scuri, di spirito eminentemente silografico. Mentre tali maestri furono soprattutto silografi, quelli che ora seguono - Cranach eccettuato - usarono di preferenza il bulino, e solo occasionalmente idearono disegni per silografie. Alberto Altdorfer, bavarese, incominciò imitando il Dürer, poi venne in Italia, copiò stampe da Marcantonio, ma non deviò dal suo personalissimo ideale pittorico, antitetico a quello raimondiano; usò un tratteggio lieve, fitto, vario, che rese con speciale sensibilità la funzione avvolgente dell'atmosfera; spesso pose alle scene sfondi di paesaggi alberati, che rivelano un senso della natura tutto diverso da quello del Dürer. Suoi fedeli seguaci furono Michele Ostendorfer (morto 1559), Volfango Huber (morto 1553), Lodovico Krug (morto 1532). Luca Cranach, preparando i disegni da trasportarsi su legno, mostra a volte d'aver guardato al Dürer e all'Altdorfer; ma normalmente trasforma del tutto gli elementi assimilati da altri, ed esprime la sua visione attraverso un rapido giuoco di tagli paralleli e discosti; consegue effetti in cui la luce diffusa domina, facendo risaltare, come nella pittura, il rilievo.
A questo mirabile periodo dell'incisione germanica, che va dall'ultimo decennio del Quattrocento ai primi del Cinquecento, segue l'inizio della decadenza: la rude, maschia sincerità del genio tedesco si svigorisce a contatto dell'intellettualismo classicista italiano; le aspirazioni si fanno più facili; il contenuto spirituale meno sincero; si forma la schiera dei "piccoli maestri". Tale denominazione non implica solo un giudizio di valore, ma allude alla preferenza di tali incisori per le stampe di piccola misura, a soggetti semplici e facilmente comprensivi: abilissimi tecnici, essi, ispirandosi specialmente al Dürer e all'Altdorfer, ma tenendo anche conto di tendenze italiane, hanno creato effetti talora gradevoli. Fra i "piccoli maestri" primeggiarono i fratelli norimberghesi Giovanni Sebastiano e Bartolomeo Beham. Il secondo (1502-1540), pur derivando dal Dürer, assimilò forma e tecnica di Marcantonio, dal quale copiò molte opere, germanizzandole tuttavia, così da conseguire effetti più pittorici che formali. Egli, perciò, può dirsi uno dei pochi incisori nordici che, pur adattandosi a ideali classicisti, non hanno perduto il carattere della propria nazionalità. Giovanni Sebastiano (1500-1550) tentò egli pure di conciliare le opposte aspirazioni germanico-italiche, ma i suoi effetti migliori sono quelli in cui il gusto germanico prevale assoluto. Nella silografia s'ispira al Holbein.
Se gl'influssi dell'Italia non nocquero fondamentalmente ai due Beham, furono invece deleterî ad altri "piccoli maestri", che, con educazione düreriana, accolsero ideali estetici di Raffello e tecnica del Raimondi. Si rinnova, insomma, anche nel campo dell'incisione, il dramma della pittura germanica del tempo, che volle accostarsi al manierismo romano. Le conseguenze furono, per l'incisione come per la pittura, più gravi che in Italia, dove il fenomeno, se non altro, aveva carattere originale. Insistenti e vani tentativi di accordare il Nord con il Sud, Dürer con Marcantonio, testimoniano l'opera di altri "piccoli maestri": di Giorgio Pencz (1500-1550), dell'Anonimo I. B., di Giacomo Bink (circa 1500-1569); Enrico Aldegrever, invece, il migliore degl'incisori cinquecentisti della Germania settentrionale (1502-1555), si mantenne, non ostante le intenzioni d'accordo, intimamente tedesco, forse perché gli aspetti del Rinascimento italiano giunsero a lui non direttamente, ma per il tramite del Mabuse e del Van Orley.
In questo contrasto di tendenze viene tuttavia affermandosi in Germania la nuova tecnica dell'acquaforte. Il Dürer aveva tentato la morsura della lastra di ferro, con effetti affini a quelli del legno; per quella via aveva continuato Daniele Hoppfer d'Augusta (nato 1553); ma, incapace di superare le contraddizioni fra gusto germanico e gusto romano, non aveva potuto penetrare lo spirito d'una tecnica d'essenza pittorica; né la lastra di ferro lo aveva aiutato. L'acquaforte su rame, praticata qualche volta dall'Altdorfer e da qualche altro "piccolo maestro", trova finalmente in Germania i suoi sistematici applicatori in Agostino Hirschvogel (1503-1553) e Giovanni S. Lautensack (1524-1563?).
Il progresso dei procedimenti tecnici, che rendeva minori le difficoltà, non concorse, però, alla qualità dei prodotti. Fra i maestri germanici della seconda metà del Cinquecento, ormai del tutto italianizzati, ebbero rinomanza Virgilio Solis, Jost Amman e Tobia Stimmer. Il primo (1514-1562) ebbe una produzione vastissima ad acquaforte e su legno, ispirata, con qualche libertà, a quel gusto manieristico classicheggiante, ormai diffuso per tutta Europa. L'Amman, di Zurigo (1539-1591), subì anch'egli influssi italiani, ma in modo più consueto, e così lo svizzero Stimmer (1539-1584), che ebbe facile larghezza di tratto.
Nel Seicento le condizioni dell'incisione germanica non migliorano certo: essa perde il carattere originale, e si fa riproduttiva; agl'influssi italiani si aggiungono quelli dei Paesi Bassi, e, verso la fine del secolo, quelli francesi. Manca unità di visione, e il superficiale eclettismo impedisce ogni vero slancio fantastico: l'attività degli incisori, del resto, ha ormai fini del tutto commerciali. L'elenco dei nomi potrebbe essere lungo, ma non merita il conto. Ricorderemo i Sadeler, belgi stabilitisi in Baviera, che, a bulino, con fredda perizia, riprodussero dipintì di maestri italiani e di tedeschi italianizzanti; i Kilian, che, orientati dapprima verso la scuola olandese, subirono l'influsso della Francia; Luca (1579-1637), il più abile, tradusse quadri di maestri veneti del Cinquecento, senza intenderne affatto il carattere; Gioachino Sandrart di Francoforte (1606-1688) e suo nipote Giacomo (1630-1708). Migliore è senza dubbio, fra i bulinisti, Geremia Falck di Danzica (1609 [o 1610]-1677), che rivela facile tecnica, secentescamente pittorica. Si è vista nella vastissima produzione di questo incisore (più che cinquecento stampe) affinità con gl'incisori contemporanei francesi, con i quali visse a lungo; ma non si può non vedere in lui anche una dipendenza dagl'Italiani, dai Bolognesi; quella stessa dipendenza che caratterizza l'opera dello strasburghese Matteo Greuter (1564 [o 1566]-1638), di suo figlio Giovanni Federico e di Dietrich Krüger di Monaco (c. 1575-1624), il quale riprodusse Andrea del Sarto con una tecnica alla Villamena. Tutti costoro soggiornarono a Roma, dove visse e morì anche l'acquafortista Adamo Elsheimer (1578-1610) di Francoforte, importante, più che per la limitata produzione, per l'influenza che essa, con i vivaci contrasti di luce ed ombra, esercitò in Germania e nei Paesi Bassi. In Germania praticarono poi l'acquaforte Giovanni Guglielmo Baur di Strasburgo, che s'ispirò nei suoi Capricci di varie battaglie al Callot e a Stefano della Bella; Giovanni Enrico Roos (1631-1685), che si formò sugli animalisti olandesi e sui paesisti romani, e conseguì effetti abili, ma, date le possibilità pittoriche dell'acquaforte, grevi; Matteo Merian di Basilea (1593-1650), vedutista; Venceslao Hollar di Praga (1607-1677), ma vissuto in Inghilterra, vedutista anch'egli.
Nel Settecento l'incisione germanica s'allontana dagli aspetti stilistici dell'Olanda e dell'Italia, per accostarsi più specificamente a quelli della Francia; all'accostamento concorre il soggiorno a Parigi di Giovanni Giorgio Wille (1715-1807) e del suo amico Giorgio Federico Schmidt (1712-1775): dicendo "Francia" non si allude al bel gruppo degl'incisori settecenteschi, tipo Fragonard, Boucher, ecc., ma a quello dei neoclassicisti, dei partecipi, cioè, al movimento che il David allora impersonava. La necessità proclamata da costoro, del ritorno alla "tradition de la gravure sévère", trovò, appunto, il suo tipico interprete nel Wille, che, per uno dei soliti intellettualistici ricorsi della storia delle arti, si volse con attenta e monotona tecnica a ideali del più solenne e freddo accademismo. Dalla scuola del Wille, in Parigi, uscirono il Bervic, e, fra i Tedeschi, t'iovanni Giorgio Preisler (1757-1808), Iacopo Schmutzer (1733-1811), Giovanni Federico Bause (1738-1814), Giovanni Gottardo Müller (1747-1830). Lo Schmidt ebbe con il Wille affinità d'ideali estetici e tecnici: eseguì soprattutto ritratti dal Rigaud e dal Pesne, compiacendosi d'un convenzionale pseudo-pittoricismo, intimamente accademico. Eseguì anche acqueforti, che rivelano l'abitudine del bulino e l'uso di esso in senso classicista. Ciò può dirsi, del resto, anche di altri contemporanei acquafortisti tedeschi: Giorgio Filippo Rugendas (1666-1742), e i suoi parenti, Giovanni Elia Riedinger (1695-1767), Salomone Gessner (1730-1788), Cristiano Dietrich (1712-1774), Giovanni Zeisig (1740-1806). Ebbe doti migliori di costoro Daniele Chodowiecki di Danzica (1726-1801).
La silografia fu nel sec. XVIII in Germania, come altrove, praticata scarsamente: si possono ricordare, a scopo informativo, Giovanni Giorgio Unger (1715-1788) e suo figlio Giovanni Federico (1750-1804).
L'Ottocento in Germania s'inizia con i seguaci di Schmidt e di Wille, i quali con sapiente, freddo bulino, ma senza alcuna intelligenza del modello, continuano a moltiplicare le stampe dei capolavori dell'arte italiana. Giovanni Federico Müller (1783-1816), figlio del già ricordato Giovanni Gottardo, e Giuseppe v. Keller (1811-1873) tipicamente personificano, nello spirito e nella tecnica, la monotona schiera: a questa si ricollegano Lodovico Jacoby e G. Ellers. Più tardi la riproduzione dei capolavori fu tentata dalla litografia e dall'acquaforte: ad acquaforte operò l'austriaco Guglielmo Unger (nato nel 1837, la cui produzione annovera 850 opere) e una schiera di incisori, sempre riproduttivi, da luí dipendenti: P. Halm, G. Hecht, E. Forberg, A. Krüger.
Ma ecco che, durante il Romanticismo, incomincia a fiorire in Germania anche l'acquaforte originale: attesero ad essa, fra glì altri, Maurizio Schwind (1804-1871), Lodovico Richter (1803-1884), Adolfo Menzel (1815-1905); quest'ultimo, però, occasionalmente, negli anni 1843-44. Fu in tempi più vicini a noi che l'acquaforte venne professata su vasta scala e con ansiosa, ardita varietà di ricerche e di effetti. Nelle maggiori città tedesche si formarono gruppi d'incisori con caratteri proprî, generalmente rivolti ad innovare; più importante di tutti fu il gruppo di Berlino, che faceva capo a Max Liebermann. Questi ha il merito di aver dato forte impulso al rinnovamento dell'arte germanica in genere, e perciò anche all'acquaforte e alla litografia, le quali ha praticate con genialità e abilità, emancipandosi sempre meglio dagl'impressionisti francesi. Si presentono in questo artista molte di quelle possibilità, che hanno preparato gl'ideali estetici d'oggi. Con lui devono essere ricordati Max Klinger (1857-1920), che ha produzione notevole, così dal punto di vista tecnico come da quello visivo, e Luigi Corinth (1858-1925), il quale può considerarsi uno dei maestri più originali che vanti l'incisione tedesca moderna: le sue composizioni, sia ad acquaforte sia in litografia, sono caratterizzate dall'essenzialità vigorosa dei tratti. L'opera di costoro ha esercitato grande influenza sui contemporanei: di questi l'austriaco Oskar Kokoschka (nato nel 1886) è una delle personalità più forti e più discusse, che ottiene le sue migliori attuazioni a bianco e nero in litografia. Delle attitudini di Emilio Nolde (nato nel 1867) è prova specialmente l'Autoritratto ad acquaforte; di quelle di Enrico Heckel (nato nel 1888), che pratica tutti gli aspetti dell'incisione, la sua scena di Donne sulla spiaggia. Citiamo ancora, fra gli appartenenti alla schiera dei più avanzati, Rodolfo Grossmann (1882), Ernesto Lodovico Kirchner (1880), Massimo Pechstein (1881), Max Beckmann (1884), Giorgio Grosz (1893), Enrico Maria Gravringhausen (1894): quest'ultimo si è specialmente dedicato all'illustrazione dei testi. A queste tendenze spiccatamente moderne si oppone in Germania una schiera, fedele alla tradizione: di essa fanno parte Maurizio Ernesto Geiger (1861), Käthe Kollwitz (1867), Massimo Slevogt (1868-1932), Giovanni Meid (1883), Emilio Orlik (1870), Ernesto Oppler (1885), Guglielmo Heise (1892), Sigfrido Sebba, Massimo Oppenheimer. In Germania praticano oggi, con buona scienza del mestiere, la silografia Giorgio Schrimpf (1889), Enrico Heckel (1883), Max Thalmann (1890), Ernesto Lodovico Kirchner.
Fra gli acquafortisti austriaci contemporanei hanno buon nome Enrico Revy, Guglielmo Legler, Federico Silberbauer, Vittore Hammer; fra i silografi; i due pittori viennesi Giovanni e Leone Frank, che originalmente si attengono alla tradizione incisoria del passato, rinnovandola, però, attraverso reminiscenze nipponiche.
Paesi Bassi. - Come le altre manifestazioni d'arte, così anche l'incisione ebbe a lungo, nelle Fiandre e in Olanda, caratteri non distinti. Tali caratteri si differenziarono soltanto nel sec. XVII, quando Rembrandt e Rubens ebbero fondato, ciascuno nel suo paese, una propria scuola.
Si è detto già come la critica, dopo non poche discussioni, riconosca oggi ai Paesi Bassi una serie di antichissimi libri con silografie, senza data. Dopo il 1476 incominciano le edizioni datate, tra cui si ricorda per le sue 121 stampe il Dialogus creaturarum, edito da Gherardo Leu a Gouda nel 1480. Nelle stampe dei libri pubblicati poi ad Anversa dal Leu (dal 1485 al 1487), come in quelle di tutti i libri del tempo, domina il carattere lineare e le ombre sono poche, ottenute per tagli obliqui, radi: lo stile s'ispira al gusto del van Eyck.
L'incertezza relativa al periodo iniziale della silografia nei Paesi Bassi domina anche il periodo iniziale dell'incisione su rame, dove fiorisce una serie di maestri, tutti anonimi: il "Maestro della morte di Maria", il "Maestro del Monte Calvario", il "Maestro del giardino d'amore"; di un secondo periodo, che corrisponde, in Germania, all'attività del Maestro E. S. e dello Schongauer, sono il "Maestro della Passione di Berlino" e Israele van Meckenem (circa 1450-1503): questi ampiamente ha derivato dai Tedeschi, ma rivela caratteri dei Paesi Bassi in alcune opere originali: p. es., nel Duetto. Caratteri del tutto fiamminghi sono invece quelli del misterioso Maestro I. M. o I. A. M. di Zwolle.
La prima personalità d'incisore biograficamente chiara è quella di Luca di Leida (1494?-1533), che occupa nei Paesi Bassi la posizione stessa che il Dürer occupa in Germania. Maestro già sicuro, personalissimo, nella sua stampa datata 1508, il Monaco e Maometto, con mezzi minimi, con tocchi di bulino tremuli e lievi, senza virtuosismo e senza sforzo, concreta un chiaro mondo, dove le figure plasticamente costruite vivono nella libera atmosfera. Questa è sentita secondo quei principî di prospettiva aerea, di cui già avevano avuto presentimento il Maestro del 1480 e il Maestro I. M. di Zwolle, ma che, con una semplice trovata tecnica, soltanto Luca attua veramente. Il periodo migliore della produzione dell'artista è anteriore al 1520. Fra il '20 e il '27 l'influsso del Dürer, l'influsso, dal '28 al '30, del Raimondi, turbano il suo senso di largo pittoricismo, con aspirazioni figurative non del tutto conformi ad esso; viene, così, ad essere diminuita la schietta spontaneità delle opere giovanili. Luca disegnò anche per il legno: le sue silografie, di gusto decisamente germanico, ricordano quelle di Baldung Grien. Non ebbe veri e proprî scolari, né imitatori. Praticarono l'incisione contemporaneamente a lui, e mediocremente, Jan Svart di Groninga (1469-1535), Jan Gossaert, detto Mabuse (1470-1541), Cornelio Matsys (operoso fra il 1520 e il 1550), Dirik Jacobsz Vellert (operoso nel 1511-'50). Né gl'incisori della seconda metà del Cinquecento offrono, dal punto di vista dell'arte, maggiore interesse: i Callaert, i Wierix, i Galle sono tecnici abili quanto monotoni e impersonali, che accolgono ormai senza riserva quegl'influssi romani, penetrati nell'incisione dei Paesi Bassi già al tempo di Luca di Leida, e determinano un manierismo di qualità anche inferiore a quello italiano e germanico. In tanto squallore meritano particolare ricordo le interpretazioni, talora assai intelligenti, da Breughel il vecchio, pubblicate da Gerolamo Cock di Anversa (1510-1570) e le pittoriche acqueforti di Giovanni Bol di Malines (1534-1593), che preludono ai paesisti olandesi del Seicento. Invece, con l'acquaforte eseguirono paesaggi ispirati a manierismo classicista lo stesso Gerolamo Cock, Paolo Brill (1556-1626), Rolando Savery (1576-1639) e altri, che, a loro volta, influirono sugl'Italiani. Fra gli Olandesi e i Fiamminghi della seconda metà del Cinquecento ebbero, però, la maggiore rinomanza Cornelio Cort (1530-1578), che trasformò in senso apparentemente pittorico l'essenza formalistica dei modelli romani, e in senso apparentemente formale l'essenza pittorica di Tiziano, ed Enrico Goltz (1558-1617), che fece del suo straordinario virtuosismo tecnico un motivo d'interesse e creò un tipo d'incisione, ispirata sempre a ricerche formalistiche, ma appariscente, fastosa, retorica, che fece proseliti ovunque. Praticò anche la silografia e, senza genialità, il chiaroscuro italiano.
Nel sec. XVII l'Olanda, protestante e repubblicana, non ha più niente in comune con le Fiandre, cattoliche e monarchiche. Si comprende che le ragioni di un tale distacco non avrebbero potuto non influire sul modo di pensare e di sentire, e perciò sul gusto dei due paesi: l'arte, conseguentemente, ne risentì: Rubens e Rembrandt impersonarono la diversità delle aspirazioni artistiche nelle Fiandre e in Olanda.
Pier Paolo Rubens rinnovò, come quello della pittura, lo spirito dell'incisione. Pur non praticandola, fornì disegni, per la riproduzione dei quali raccolse attorno a sé dei tecnici, che sorvegliò, consigliò, corresse. Cornelio Galle fu il primo interprete di Rubens. Scontento, il pittore chiamò a sé alcuni scolari del Goltz, fra cui Iacopo Andrea Matham (1571-1621) e Giovanni Muller (c. 1570-d. 1625); dopo di essi sperimentò Pietro Soutman (1580-1620); ma Rubens voleva persone che penetrassero veramente nello spirito dell'opera sua. Falliti altri tentativi, la scelta cadde sull'olandese Luca Vosterman (1595-1667), il quale creò sotto la guida del pittore uno stile più rubensiano di quello che il Rubens stesso, se avesse inciso, avrebbe avuto! Nelle sue stampe, tutte su rame, il Vosterman, superato il monotono tecnicismo degl'italianizzanti, disciplinato il virtuosismo tecnico del Goltz, consegue con una tecnica varia, a tagli prevalentemente incrociati, ora fittissimi, ora discosti, ora lunghi, ora brevissimi, quasi punti, effetti di neri fondi e di lucidi bianchi. La ricchezza cromatica del modello è resa da questo giuoco di riflessi, che non attenua la corporeità un po' enfatica delle immagini. Anche i successivi interpreti del Rubens si attennero allo stesso metodo tecnico: si ricordano Paolo Pontius (1603-1658), scolaro del Vosterman; gli olandesi fratelli Boetius e Scheltius à Bolswerth (1580-1633; 1586-1659); Marino Robin (1599?-1639), ecc. Vi fu anche un interprete silografo del Rubens: Cristoforo Jegher, d'origine tedesca, ma operoso in Anversa.
Gl'incisori del Rubens fecero poco uso dell'acquaforte, la quale, per la sua tendenza improvvisatrice, impressionistica, mal si adattava alla resa di quella pittura fondata, sì, sul colore, ma costruita e compositivamente complessa. Tuttavia nelle Fiandre tale specie d'incisione fu praticata da Teodoro von Thulden (1607-1676?), da Cornelio Schut (1605-1655), da Luca van Uden (1577-1655) e da Antonio Van Dyck (1599-1641): questi, con una tecnica che assomiglia a quella del Barocci e degli altri acquafortisti italiani, ma altrimenti pittorica, esegui fra l'altro una serie di 16 ritratti, espressivi ed eleganti, poi riprodotti anche a bulino e inclusi nell'jconografia, che il Van Dyck ideò e diresse, e che il Vosterman, il Pontius, il Bolswert, Andrea Stock e altri eseguirono.
Dopo la morte del Rubens e del Van Dyck l'incisione nelle Fiandre decadde. La decadenza coincide con il bel periodo olandese.
Il Goltz era morto nel 1617 e aveva lasciato una folla di scolari, la maggioranza dei quali (Giacomo Matham, Giovanni Muller, Cornelio Bloemart, ecc.) s'ispirava ancora a criterî formalistici. Ma, contemporaneamente ad essi, veniva determinandosi la vera scuola olandese del Seicento, intenta ad effetti del più schietto pittoricismo. Guglielmo Delff (1580-1638) può dirsi un precursore di essa; ma il vero iniziatore fu Pietro Soutman, il quale incise con straordinaria libertà, usando nella stessa stampa il bulino e la punta secca, quasi senza norma tecnica, mirando soltanto ad ottenere ciò che la fantasia gli suggeriva. Da lui derivano Giona Suyderhoef (operoso nel 1641-1669) e CornelioVisscher (1629-1658). Il primo lavorò con una libertà ancora maggiore di quella del Soutman, ottenendo con il bulino, specie dinnanzi a Frans Hals, neri vellutati, ombre fonde, che sembrano già maniera nera o litografia. Il secondo, un temperamento calmo, quasi metodico, usò una tecnica sicura, finita e tuttavia capace di arditi effetti. Altri scolari del Soutman furono Giovanni van de Veld (1596-d. 1630) ed Enrico Goudt (1585-1630); con il primo presenta qualche affinità stilistica il fratello Isaia (1590-1630).
Nell'acquaforte, gl'incisori olandesi del Seicento trovarono un mezzo espressivo perfetto: fu osservato a ragione che l'acquaforte olandese è derivata da quella italiana, ma che ha raggiunto una complessità molto maggiore, per l'influsso della tecnica evolutissima dei bulinisti del tempo, tipo Vosterman e Visscher. Come costoro hanno usato il bulino con assoluta libertà, così anche gli acquafortisti si sono abbandonati alla propria vena creativa, senza preoccuparsi della legittimità dei loro mezzi: si manifesta, nella tecnica, quella tendenza individualistica, che è causa ed effetto ad un tempo della più schietta sensibilità pittorica e che culmina nella produzione incisa del Rembrandt. Molti dei pittori olandesi, anche dei più rinomati, hanno praticato l'acquaforte: ma nessuno tanto quanto Allaert van Everdingen (1612-1675), che eseguì paesaggi con una lieve tecnica, più a punti che a tratti, e illustrò vivacemente storie d'animali: s'inizia con lui, anche nel campo dell'incisione, la serie degli "animalisti". Scolaro di Everdingen fu Iacopo van Ruisdael (1628-1682), che trasmise alle sue dieci acqueforti quello stesso senso solenne della natura che caratterizza i suoi dipinti: le sue stampe sono esempio di una così docile, intelligente sottomissione della tecnica all'estro creativo, da dare a chi le ha eseguite una posizione singolarissima nella storia dell'arte del suo paese. Accanto a questi Olandesi "dall'anima intatta", ecco ancora una volta gl'italianizzanti: Nicola Berchem (1620-1683), Karel du Jardin (1622-1678, m. a Venezia), Pietro de Laar, detto il Bamboccio (1590-d. 1652), Giovanni Both (1610-1662), Ermanno Swanevelt (1600-1655), Tomaso Wijck (1616-1677). È facile avvertire il fondo intellettualistico di tali maestri, quando si paragoni l'opera loro a quella di altri, che, senza preconcetti, trattarono temi affini: di Alberto Cuyp (1605-1691), ad es., e di Paolo Potter (1625-1654). Entrambi eseguirono un piccolo numero di acqueforti, il primo con una punta grossa, energica, pittorica; il secondo, con tecnica varia; ma l'effetto è sempre immediato e spontaneo e la luminosità diffusa è protagonista delle composizioni. Si avvicinano a quelle del Potter le acqueforti d'Adriano van de Velde (1635 o 36-1672). Una tecnica diversa, invece, lieve, lineare, ma sintetica e sicura è quella di Ranieri Nooms, che firma Zeeman (1612-c. 1665) le sue pittoresche marine. Anche i pittori Lodolfo Bakhuisen (1631-1708) e Abramo Storck (1630-1710) hanno qualche volta reso con l'acquaforte soggetti di mare. Singolare temperamento di acquafortista ebbe il pittore Adriano van Ostade (1610-1685), che ha lasciato una cinquantina di stampe d'una tecnica originale ed evoluta, cui concorre talora la punta secca, usata lievissimamente, come un lapis sottile. S'ispirarono a lui Cornelio Bega, Cornelio Dusart, Pietro Quast, ed altri.
Dalla famiglia di questi maestri, legati fra loro da identità di aspirazioni e di tendenze, esce, affine e diversissimo a un tempo, Rembrandt Harmensz van Rijn (1606-1669), il primo incisore compiutamente moderno. La sua attività d'acquafortista non fu per lui da meno di quella di pittore: egli passò dall'una all'altra indifferentemente, per esprimere, con l'una e con l'altra, attraverso la luce, i suoi sogni di genio visionario. E poiché il bianco e nero è il fine ultimo di una visione luministica, le sue trecento acqueforti hanno sempre quella coerenza di valori visivi e spirituali, che i dipinti hanno quasi sempre. La tecnica del Rembrandt è fondamentalmente quella degli altri maestri, ma assai più elaborata: ottenuto il primo stato dell'acquaforte, egli, infatti, ritoccava moltissimo la lastra con la puntasecca e con il bulino, e non le toglieva le "barbe": l'inchiostro, perciò, s'aggrumava qua e là, e determinava i caratteristici neri, intorno ai quali l'artista, che stampava da sé le prove, lavorava ancora. Proprio dalle ripuliture, dalle cancellature, dalle aggiunte, proprio dal tormento della materia deriva il senso indefinibile delle stampe di Rembrandt. L'arte di un simile maestro non poteva essere imitata: lo dimostra l'opera di Fernando Bol (1611-1681), di G. van der Vliet (1610-1635), di Giovanni Livens (1607-1674), che pure sono i migliori tra i suoi seguaci. Dopo il Seicento anche l'incisione olandese decade; il Houbraken (1696-1780) presenta un interesse soltanto culturale.
Nell'Ottocento L. Calamatta crea nel Belgio una scuola di riproduzione a bulino, ma all'acquaforte originale gli artisti belgi dovevano ancora rivolgersi. Si ricorda prima di tutti, per la maschia originalità della fantasia, Enrico de Braekeleer (1840-1888); quindi gl'incisori apprezzatissimi Feliciano Rops (1833-1898) e Giacomo Ensor (nato nel 1860). Il primo deve la sua notorietà, oltre che alle doti d'artista vero, dal segno vigoroso e scattante, al soggetto delle sue rappresentazioni, miranti a illustrare le perfide, sataniche seduzioni della donna. Armando Rassenfosse (nato nel 1862), che del Rops ha subito l'influenza, senza averne tuttavia la geniale evidenza del segno, illustrò le Fleurs du mal del Baudelaire. Giacomo Ensor, infine, è uno dei rappresentanti più insigni dell'incisione europea contemporanea. Le sue acqueforti rivelano originalità fantastica e conoscenza perfetta del mestiere. Egli supera la realtà, poeticamente trasfigurandola, mentre Francesco Maréchal (1861), altro incisore belga, si preoccupa di rendere gli aspetti della natura in modo vivace, intelligente, ma tale da celare in sé un programma, e perciò un limite. Ricordiamo ancora Augusto Michele Danse, J. de Bruycher, Alberto Baertson, Alfredo Delaunois, Gualtiero Vaes, Alberto Delstanche, Isidoro Opsomer, Alfredo Duariu, Giorgio Baltus.
Anche in Olanda fu nell'Ottocento di nuovo praticata l'acquaforte: basterebbero ad attestarlo i nomi di Giovanni B. Jongkind (1819-1891) e di Giuseppe Israêls (1824-1911). Il primo ebbe una tecnica singolare, tutta a segni lievissimi, i cui apparenti capricci conseguono vivaci contrasti pittorici. Il secondo, caposcuola dei pittori olandesi dell'Ottocento, eseguì talvolta acqueforti dal segno rapido, immediato, quasi brutale. Anche Vincenzo van Gogh (1853-1890) ha lasciato nel bianco e nero qualche traccia della sua genialità. Ma più vivace impulso all'incisione venne data da alcuni professionisti: Pietro Dupont (1870-1911), Carlo Storm de Gravesande (1841-1924), Iacopo e Mattia Maris, i quali tutti, per modernità di intenti, concorsero al risveglio, in Olanda, di una nuova era per quest'arte. Essa ha infatti altri degni rappresentanti in Filippo Zilcken (1857), Giovanni Toorop (1859), Stefano Bosch (1863), Mario Bauer (1867), Iacopo Veldheer, ecc. L'Olanda vanta anche un buon numero di silografi, tra cui meritano ricordo: Graat van Roggen, Giovanni Wittemberg, Giuseppe Nicolas, Harel van Veen.
Francia. - Gl'inizî dell'incisione sono forse più oscuri in Francia che altrove. Solo nell'ultimo quarto del sec. XV si può dire che essa incominci a essere applicata sistematicamente all'illustrazione delle opere che si pubblicavano a Parigi e a Lione: le prime, le cui stampe possono con certezza ritenersi francesi, sono Fierabras (Lione c. 1486) e il Messale di Verdun (Parigi 1481); nel 1481, pure a Lione, compare Bélial, e nel 1482 Le propriétaire des choses di Bart. de Glanvilla. Quando si diffusero i primi libri illustrati la miniatura francese era fiorentissima: gli editori cercarono di rivaleggiare con essa. Si ebbero perciò, accanto a libri di carattere popolare, le cui silografie sono piuttosto grossolane (la Danse macabre, edita da Guy Marchand nel 1485, il Calendrier des Bergers, edita dallo stesso, nel '91), altri di tipo lussuoso, come la Mer des Histoires, stampato da Pierre Le Rouge negli anni 1488-89, le figure del quale hanno veramente il valore decorativo di figure miniate. Tuttavia le gemme dell'antica tipografia francese sono i ben fregiati livres d'heures, fra cui eccellono quelli del Pigouchet, venduti da Simon Vostre.
Nella prima metà del Cinquecento il campo editoriale parigino è dominato dalla figura di Geoffroy Tory di Bourges, che s'ispira agli Italiani (v. Les heures de la Vierge, e lo Champfleury, Parigi 1521 e 1529). Anche Bernard Salomon di Lione (1508?-1561?), detto "le petit Bernard", distribuisce nei testi con fantasia e varietà incorniciature e vignette, ma derivando motivi decorativi e stilistici più dai Tedeschi: le sue silografie delle Metamorfosi di Ovidio (Lione 1557) sono assai originali.
Ma il Cinquecento in Francia non è più il secolo della sola silografia: si comincia a praticare anche l'incisione su rame, che diventerà poi, nel Seicento, accanto all'acquaforte, la tecnica predominante. Gl'inizî di quella pratica non sono però particolarmente caratteristici, perché i maestri si modellano in modo uniforme su esempî italiani: anzi, varî fra essi vivono e operano in Italia (Nicola della Casa, il Beatricetto, Stefano Du Pérac, Cesare Reverdino). Temperamento più sensibile dimostra Jean Drouot, detto Duvet, di Langres (1485-1564), che dapprima studiò A. Dürer, poi s'ispirò al Mantegna, a Raffaello, a Leonardo, giungendo a effetti piuttosto personali, particolarmente linearistici, lontani, se non altro, dal consueto formalismo romano: il suo capolavoro è una serie di 24 stampe sull'Apocalisse. Ancora all'Italia s'informano gl'incisori della scuola di Fontainebleau, che, attraverso il Primaticcio, subiscono influssi del Parmigianino. I più operosi furono Renato Boyvin d'Angers (1530?-1598), Stefano Delaune (1518-1595), Leonardo Limousin (nato circa 1544), Goffredo Du Monstier (morto nel 1547), Marco Duval (morto nel 1581), Stefano Du Pérac (morto nel 1601): incerti, come i pittori di cui interpretavano le composizioni, fra intenti di plasticità e di colore, questi "pratici" hanno trovato una tecnica di maniera eguale in tutti. Una visione più originale rivelano le stampe e i disegni per silografia di Jean Cousin (1522-1594): in esse è evidente la dipendenza dagl'Italiani, e per la composizione, ispirata a criterî formali, e per la tecnica, a fitti tagli incrociati; ma gli effetti sono, fino a un certo punto, rinnovati da una prevalenza della linea di contorno sul rilievo.
Nella prima metà del Seicento l'influsso dell'Italia non cessa, ma si trasforma; non attira più tanto il manierismo romano, quanto lo stile "riformato" dei Carracci, intenzionalmente almeno pittorico. Esso predispone all'altra corrente d'influssi, che sarà accolta nella seconda metà del secolo, quella fiamminga, e favorisce l'uso dell'acquaforte. Ma la Francia ebbe allora una personalitá del tutto indipendente in Jacques Callot (1592-1635), il quale, se abbandonò il bulino per l'acquaforte, praticandola così come allora la praticavano il Tempesta e il Cantagallina, creò, tuttavia, uno stile originalissimo, che supera di gran lunga, per spontaneità improvvisatrice, per estrosa facilità, quello dei suoi modelli italiani. Si è accennato ai rapporti tra Callot e Stefano della Bella; ma fu in Francia che specialmente si cercò d'imitare quella maniera. S'ispirarono più o meno ad essa Abraham Bosse (1605-1678), Israël Silvestre (1621-1691), Sébastien Le Clerc (1637-1714), Daniele Rabel, Giovanni di Saint-Igny.
Accanto a questi maestri originali la Francia ebbe nel Seicento anche varî gruppi d'incisori, capeggiati da un pittore alla moda, il quale affidava loro la traduzione delle sue opere: Simone Vouet, per esempio, non incise di sua mano che pochissimo, ma raccolse intorno a sé varie persone, che usarono bulino o acquaforte o puntasecca, ispirandosi tutte, quale che sia la tecnica, a principî italiani (Pietro Daret, Michele Dorigny, Francesco Tortebat, ecc.). Sui modi di costoro e sullo stile stesso del Vouet altri, generalmente pittori, s'informarono (Nicola Chapron, Francesco Perrer, Oliviero Dauphin, Eustachio La Sueur, Carlo Le Brun, ecc.), senza che nessuno dimostrasse peraltro vera originalità: solo Pietro Brebiette (1508-1660), in una produzione diseguale e troppo ampia, rivelò talora uno schietto senso pittorico e una posizione d'indipendenza rispetto agl'influssi italiani. Come S. Vouet, così ebbe molti interpreti N. Poussin: fra essi va ricordato, per lo sforzo di aderire al solenne, freddo intellettualismo del modello, Jean Pesne (1623-1700).
Claudio Gellé, detto Claude Lorrain (1600-1682), pratica invece egli stesso l'acquaforte: con una tecnica minuta, a tagli fittissimi, rende il senso arioso della massa fogliacea dei grandi alberi: ciò che, per il gusto d'oggi, nei suoi dipinti appare limite classicista, nelle stampe assume carattere assai più spontaneo.
Nella seconda metà del Seicento cessa quest'attività di pittori-incisori e si tralascia l'uso dell'acquaforte; l'incisione è praticata da professionisti, che, con intenti riproduttivi, si servono specialmente del bulino. L'Accademia di pittura e scultura, presieduta dal Le Brun, domina anche l'opera degl'incisori, che sono protetti da Luigi XIV stesso, attraverso l'istituzione del Cabinet du roi, primo nucleo della Calcografia del Louvre. Agl'influssi italiani, che avevano più o meno sempre ispirato gli acquafortisti francesi, si sostituiscono - come si è detto - quelli fiamminghi. Rubens e Van Dyck, quanto mai francesizzati, divengono i modelli dei bulinisti, che incidono specialmente ritratti.
Sono degni di ricordo: Claude Mellan d'Abbeville (1598-1688), scolaro del Vouet, derivò però dal Golzio, e portò a estreme conseguenze la tecnica dei lunghi tagli paralleli: evitando ogni incrocio di linea, egli diede alle stampe un aspetto chiaro, monotono e senza imprevisti, che nuoce alla resa del contenuto spirituale del soggetto. Robert Nanteuil di Reims (1623-1678) dapprima s'ispirò al Mellan, poi assunse una tecnica opposta, elaborata, varia, per cui stoffe, trine, carni assunsero un morbido risalto. Antoine Masson di Loury (1636-1700) interpretò a volte disegni proprî, più spesso del Mignard e del Le Brun: la sua tecnica è meno spontanea di quella del Nanteuil. Gérard Edelinck (1649-1707) ha sempre tradotto da altri, dimostrando innegabile attitudine ad adattarsi alle diverse fantasie; la sua tecnica è in ogni caso abilissima. All'idea, allora ribadita dall'Accademia, che l'incisione fosse soprattutto un mezzo per riprodurre capolavori, s'ispira tutta l'opera di Gérard Audran (1640-1703). Il Nanteuil, l'Edelinck, l'Audran ebbero ognuno moltissimi imitatori; i due primi trasmisero al Settecento la moda dei ritratti, che ebbe allora i migliori rappresentanti in Pierre Dravet (1663-1738), in suo figlio Pierre Imbert (1697-1739), in Stefano Ficquet (1719-1794), in Agostino de Saint-Aubin (1736-1807). Con questi e coi loro seguaci la concezione del ritratto, però, si è modificata; come si era modificata in pittura, per opera specialmente del Rigaud. L'idealizzazione dell'immagine secondo criterî classicisti di severità e di solennità non corrisponde più al mutato gusto del tempo, né il nutrito lavorio del bulino può rendere quel senso di libera, pittorica vita, che ora si richiede alle figure: la stampa diviene dunque più piccola, la tecnica si fa varia, leggiera, limpida, e, attraverso la prevalenza dei bianchi, rende, quasi indipendentemente dal soggetto, effetto di gioia e di lievità.
Nel Settecento, il secolo in cui la Francia reagisce all'accademismo ufficiale del Seicento, l'incisione s'orienta anch'essa verso gl'ideali nuovi dei maggiori pittori; Watteau esercita su essa grande influenza, non tanto con le proprie poche acqueforti, quanto con quelle che dai suoi dipinti ha tratte Francesco Boucher (1703-1770), il rinnovatore dell'educazione dei seguaci dell'Audran: Nicola Tardieu, Lorenzo Cars, Pietro Aveline, Nicola Larmessin. Il Boucher, che incise anche disegni suoi, insegnò loro, già predisposti da un'esperienza tecnica sicura, una maniera rapida, scorrevole, talora veramente settecentesca. Del Boucher fu scolaro J.-H. Fragonard (1732-1806), che ideò la serie del Giuochi del satiro, saggio raro, nel primo Settecento, d'acquaforte originale.
Alla corrente coloristica del Watteau e del Boucher appartengono ancora gli acquafortisti Michele Bartolomeo Ollivier (1712-1784), Pietro Lelu (1741-1810), Carlo Hutin (1715-1776), Carlo Natoire (1700-1778), Filippo Le Bas (1707-1783), Carlo Parrocel (1688-1752), ecc. Continuarono invece, nel Settecento, la tradizione classicheggiante del paesaggio alla Lorrain gli acquafortisti Adriano Manglard (1695-1760), Giuseppe Vernet (I714-1789), Uberto Robert (1733-1808); né è mai cessata a Parigi, accanto alla spontanea fioritura di esaltatori del colore e della luce, la corrente ufficiale, accademico-formalistica, rappresentata, anche nel campo dell'incisione, da Carlo Antonio Coypel (1694-1752), da Carlo Van Loo (1705-1765), da Pietro Ignazio Parrocel (1702-1775), da Gian Giacomo Lagrenée (1739-1821), da Gian Francesco Peyron (1744-1814) e da altri.
Al sec. XVIII, in cui la decorazione del libro fu assai curata, appartiene poi un genere fino allora sconosciuto, quello delle "vignette", piccole stampe commentanti un testo. Il significato illustrativo non ha impedito che, qualche volta, esse pervenissero a effetti di vera coerenza artistica. I nomi di Benedetto Audran, Lorenzo Cars, Filippo Le Bas, Tardieu, Aveline, Larmessin, ecc., i nomi, cioè, dei migliori interpreti di Watteau compaiono tra quelli dei decoratori del libro: le caratteristiche di vivace pittoricismo delle loro acqueforti isolate riappaiono nelle vignette, riproducenti disegni loro. Specialisti in questo campo furono però Pietro Filippo Choffard (1730-1809), Uberto Francesco Gravelot (1699-1773), Carlo Nicola Cochin (1735-1760), Gian Michele Moreau il giovane (1741-1814). Più tardi le vignette furono riprodotte anche su legno, essendosi applicato a esse il procedimento tecnico dell'inglese Thompson, scolaro del Bewick; procedimento che aboliva ciò che è la bella caratteristica della silografia, l'evidenza del tratto inciso, ossia del tratto disegnato. Si giunse così a effetti simili all'acquerello, di tonalità grigia ("vignette romantiche").
A proposito di silografia si possono qui ricordare i tentativi di chiaroscuro del conte Claudio F. Caylus (1692-1769), che sostituì alla prima tavola di legno una di metallo, trattata a bulino e all'acquaforte; le tavole in legno, da sovrapporsi successivamente, vennero preparate da Nicola Le Sueur (1692-1764): il chiaroscuro, limitato nel contorno da un rigido segno a inchiostro, perdette così il suo carattere impressionisticamente pittorico. Nel 1766 Giovan Michele Papillon pubblicava il suo Traité historique et pratique de la gravure sur bois, con il quale tentava invano di rimettere in onore la silografia.
Lo straordinario incremento dell'incisione francese nella seconda metà del sec. XVIII portò con sé il desiderio di nuovi mezzi, da sostituire a quelli tradizionali del bulino e dell'acquaforte: J. C. François (1717-1769) inventò il modo di riprodurre a facsimile disegni a lapis, ad acquerello (lavis), a sanguigna; sebbene, con le migliorie apportate loro da A. Saint Aubin e da J.-B. Le Prince (1734-1784), questi procedimenti tecnici fossero talvolta tali da dare veramente l'illusione dell'originale, caddero presto in disuso, sopraffatti dalla litografia e dai metodi meccanici moderni. È di questo tempo anche l'invenzione dell'acquatinta, più suscettibile di sfumatura del lavis e abbastanza simile, negli effetti, alla maniera nera, nonostante l'assoluta diversità del procedimento tecnico. Dell'acquatinta fecero uso Luigi Filiberto Debucourt (1755-1832) e suo nipote Giovanni Jazet (1788-1871): il primo con intento d'arte, il secondo a scopo divulgativo commerciale.
Migliore fortuna ebbe l'innovazione dei colori applicati alle stampe su metallo, innovazione dovuta a Iacopo Cristoforo Le Blon, di Francoforte (1670-1741), migliorata da Giacomo Gautier Dagoty (1717-1786), e dal figlio Edoardo (morto nel 1783). Nella sua prima fase la stampa a colori ebbe, per la tecnica, carattere inglese; assunse carattere francese, ossia si rese indipendente dalla maniera nera, soltanto con Francesco Janinet (1752-1813) e con Carlo Melchiorre Descourtis (1753-1820), i quali, sveltito il procedimento tecnico, resero le composizioni varie, leggiere, partecipi della grazia delicata e galante del sec. XVIII: ebbero giusta rinomanza anche il Debucourt e Antonio Sergent (1751-1817).
Ma sul finire del secolo, a Rivoluzione compiuta, il trionfo del formalismo davidiano, l'auspicato ritorno al culto des belles antiques soffocano questa manifestazione; come ogni altra basata sul predominio della luce e del colore. Quel gruppo d'incisori che, nonostante Watteau e i suoi interpreti, avevano continuato a serbarsi fedeli agl'ideali estetici e tecnici dell'Audran, ossia al grand genre, trovano un nuovo caposcuola nel già nominato tedesco Wille. Dalla scuola del Wille esce Carlo Clemente Bervic (1756-1822), che con serrato, impeccabile bulino aspira a un astratto ideale di bellezza classicista: abbattuto il davidismo, tale visione ristretta si svaluta, ma lascia dietro sé, per tutta la prima metà del secolo, il gusto della più fredda, intellettualistica correttezza: Achille Martinet (1806-1877), Henriquel-Dupont (1797-1892), Paolo Mercuri (1808-1886), Ferdinando Gaillard (1834-1887) sono fra i rappresentanti più notevoli dell'incisione riproduttiva nell'Ottocento francese.
Ma contemporaneamente fioriva in Francia la grande incisione originale, esplicantesi attraverso due tecniche: la litografia e l'acquaforte. Si usava l'acquaforte ancora durante la Rivoluzione; poi, per qualche decennio, non la si usò più; riapparve verso il 1830 nell'illustrazione di libri, e finalmente si affermò indipendente con i pittori romantici (F. Delacroix, A. Decamps, C. Nanteuil, G. Meissonier, T. Chassériau). Il momento aureo dell'acquaforte originale francese dell'Ottocento s'inizia, però, dopo il 1850, quando operava Carlo Méryon (1821-1868), eccezionale personalità d'incisore, che si esplica specialmente nelle vedute di Parigi: fosche, tristi, intensamente drammatiche, d'una forza pittorica massima.
Anche i pittori contribuirono genialmente al fiorire dell'acquaforte: Carlo Daubigny (1817-1878) improvvisava con punta lievissima, incapace di qualsiasi complessità, e creava alcuni paesaggi, pieni di senso della natura e della lontananza. Accanto a lui operavano, sia pure occasionalmente, gli altri paesisti della cosiddetta scuola di Barbizon, di cui anch'egli faceva parte: Huet, Dupré, Corot, Rousseau, Millet. Tutti gl'impressionisti, del resto, si provarono nell'acquaforte, ognuno in modo degno di sé.
Ma negli anni 1860-1880 incominciarono ad aversi i veri e proprî professionisti dell'incisione, che le iniziative di case editrici e di riviste aiutavano. Alfonso Legros (1837-1911), Felice Braquemond (1833-1914), L. A. Lepère (1849-1918) furono fra i più attivi e intelligenti. Attraverso lo studio dei maestri del passato e giapponesi (dei quali grande fu l'influenza sull'arte francese della seconda metà dell'Ottocento) il Braquemond giunse a uno stile personalissimo; il Lepère opera su metallo e su legno, dimostrando abilità di tecnico e capacità inventiva. Anche l'esempio d'incisori stranieri, come il Whistler, il Seymour-Haden, lo Zorn, eccitava i Francesi a rendere più continue le ricerche, più complessi i problemi tecnici: ne è prova l'opera di Felice Buhot, di Marcello Desboutin, di Giacomo Tissot, di Enrico Guérard, di Luigi Legrand. Più a sé sta Augusto Rodin, che in alcuni suoi ritratti ad acquaforte dimostra, anche in questo campo, la gagliardia delle sue disposizioni. Fra i più recenti e i oiù cari al pubblico, non soltanto francese, annoveriamo: Paolo Helleu, Edgardo Chahine, G. L. Forain, Teofilo A. Steinlen. Dei pittori più recenti, che hanno praticato l'acquaforte, sono Carlo Cottet, Luciano Simon, Renato Ménard, Andrea Dauchez; poi Bernard, Picasso, Derain, Matisse, Vlaminck, Utrillo, i quali, nella storia del bianco e nero, occupano tutti - ognuno a suo modo - la stessa intelligente posizione d'avanguardia che occupano nella storia della pittura.
Essendo intanto divenuta più frequente la pratica della litografia a colori (v. litografia), si estese l'uso del colore anche nel campo dell'acquaforte. Giovanni Francesco Raffaelli (1850-1924) fu l'iniziatore del metodo (che aveva avuto, per altro, dei precedenti nei tentativi di Enrico Guérard, Carlo Maurin, Mary Cassat). Seguaci furono, fra gli altri, Emanuele Robbe, Riccardo Ranft, Francesco Giordano, Giacomo Villon, Alfredo Müller. La silografia in Francia, come altrove, risorgendo a fini d'arte soltanto sugl'inizî di questo secolo mirò specialmente alla decorazione del libro: Augusto Lepère occupa in questo campo una posizione di precursore geniale: il semplicismo un po' schematico dei metodi tradizionali si associa in lui alle raffinatezze d'una sensibilità moderna. Anche Felice Vallotton, Emilio Bernard, Enrico Rivière dimostrano in questo campo diversa, ma egualmente spiccata originalità. Fra i silografi odierni più noti anche in Italia si ricordano Maurizio Vlaminck, Achille Ouvré, Maurizio Achener, Gabriele Bellot, Camillo e Giacomo Beltrand, Onorato Broutelle, P. E. Colin, Andrea Maire, Enrico Marret, Renato Quillivic, ecc.
Inghilterra. - Fino al termine del Quattrocento l'Inghilterra dimostra per l'incisione lo stesso disinteresse che dimostra per ogni altra attività di fantasia. Guglielmo Caxton illustrò in quel periodo qualche testo con silografie rozze, a grossi solchi discosti, prive di significato d'arte. Nel Cinquecento compare qualche frontespizio decorato, ancora silografico. Nel Seicento, dopo la mediocre pratica bulinistica di maestri del luogo (Rinaldo Elstracke, Francesco Delaram, Guglielmo Roger, Giovanni Payne), che s'ispirano agli Olandesi della famiglia de Passe, opera Venceslao Hollar di Praga, condottovi dal conte d'Arundel. Egli ha lasciato una vasta produzione ad acquaforte, di qualità diseguale. Altri maestri inglesi, tutti mediocri, sono: Guglielmo Fathorne (1616-1691), che si è ispirato al Rubens; Roberto Gaywood (nato c. 1630), che ha guardato piuttosto al Hollar e al Van Dyck; Roberto White (1645-1704), che si è modellato sulla maniera di Edelinck.
Le condizioni dell'incisione in Inghilterra erano dunque tali che quando, nella seconda metà del sec. XVII, vi fu introdotta la cosiddetta maniera nera (mezzotint), essa trovò il terreno particolarmente sgombro e vi fiorì più che altrove. La tecnica di questo tipo d'incisione era stata fissata nei suoi aspetti essenziali da Luigi Siegen (nato nel 1609 a Utrecht), che l'aveva insegnata al Principe Rupprecht (1619-1682). Il metodo si diffuse presto nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia e in Inghilterra, ma con fini più commerciali che estetici, a causa della diffidenza degli artisti, che, non a torto, vedevano nella rinuncia al bulino e alla punta lo smarrimento del carattere peculiare dell'incisione. Ma poi, per le possibilità che la nuova tecnica offriva, di rendere, come nessuna altra, ciò che la pittura del Settecento cercava, l'effetto del soffice, l'effetto dei riflessi di luce sulle cose, esso cominciò a penetrare nel campo dell'incisione riproduttiva.
Nei Paesi Bassi coltivarono la maniera nera: Cornelio Dusart (1660-1704); Abramo Blooteling (1634-1698?); Giovanni Vercolje (1650-1693); suo figlio Pietro (1673-1746); Pietro Schenk (1645-1715); Giovanni Somer (1645-1700); Cornelio Troost (1697-1750). In Germania: Teodoro G: di Fürstenberg (1615-1675); Jodoco Bickart (1600-1672); Giorgio e Michele Fennitzer; Cristoforo Veigel (1654-1725); Bernardo Vogel (1683-1751); e altri. In Francia, invece, questa tecnica, che era stata introdotta da A. Vaillant di Lilla (1629-1693), fu usata meno che altrove. Si può ricordare, tuttavia, Bernardo Picard (1673-1733).
In Inghilterra il metodo venne dapprima applicato da stranieri (Gherardo Valck, il Booteling, il Vercolje, Giovanni Simon, ecc.); poi dagli Inglesi: Isacco Beckett (1653-1719), Roberto White (1645-1704), Giovanni Smith (1652-1742) si dimostrarono esecutori sicuri e tradussero dipinti con intelligenza ed eleganza. Ma essi non derivarono ancora tutto ciò che si poteva derivare da quella tecnica in fatto di fluidità e di sfacimento formale. Tale merito spetta agl'incisori del Reynolds, il quale esercitò sulla maniera nera un influsso simile a quello esercitato dal Rubens sul bulino; egli non incise quasi affatto, ma sorvegliò e consigliò gl'interpreti della sua opera con tanto amore, che lo spirito dei suoi dipinti, il loro raffinato colorismo rivivono in quelle traduzioni. Emergono tra gl'incisori del Reynolds Giacomo McArdell (1729-1775) e Riccardo Houston (operoso c. 1755-1765), entrambi di Dublino. Altri Irlandesi hanno conseguito con quella tecnica effetti equivalenti alla pittura inglese del Settecento: Riccardo Purcell (operoso c. 1755-1765), Edoardo Fisher (operoso tra 1758-1781), Giovanni Dixon (1730-d. 1800).
In Inghilterra, poi, Tomaso Watson eseguì una delle più abili stampe di maniera nera nel ritratto di Lady Bampfylde (1777); Riccardo Earlom (1743-1823) tradusse i celebri Fiori dal Van Huysum; J. Spilsbury (1730-1795), Guglielmo Dickinson (1746-1823), Roberto Dunkarton (1744-1811), Giovanni Raffaello Smith (1732-1802), Valentina Green (1739-1813), Carlo H. Hodges (1764-1837) hanno deliziato contemporanei e posteri, riproducendo lo splendore della seta, il bianco dei lini, il morbido delle carni; quegli effetti, insomma, che la luce rende facilmente mediante il colore, ma che, nelle stampe, devono essere resi senza colore. Naturalmente il fascino che la maniera nera ha esercitato sul pubblico è nato anche dal tipo di pittura, che per essa è stata riprodotta: la pittura inglese del Settecento, la più elegante e comprensibile. In Inghilterra, per opera del Bartolozzi, è nata anche la tecnica del "granito" (il pointillé dei Francesi). Né poteva essere del tutto abbandonato l'uso del bulino e dell'acquaforte. Con il primo ottennero rinomanza sir Roberto Strange (1721-1792), Francesco Vivarès, d'origine francese (1709?-1782) e Guglielmo Woollet (1735-1785); ma in Inghilterra il punto d'arrivo delle possibilità bulinistiche riproduttive è rappresentato da Guglielmo Sharp (1746-1824). Praticarono il bulino, oltre che la maniera nera, Abramo Raimbach (1766-1843), Francesco Engleheart (1775-1849), Riccardo Earlom. Giovanni Boydell (1719-1804), incisore egli stesso, creò il commercio delle stampe in Inghilterra, facendo lavorare per suo conto i migliori incisori del tempo. Una posizione a sé, nella storia dell'arte inglese, occupano poi le stampe di Guglielmo Hogarth (1698-1764), che a bulino e ad acquaforte illustrò, o fece illustrare da altri, le sue satire. Lo scopo eminentemente esplicativo, la preoccupazione di rendere comprensibile il sottinteso filosofico, non possono non essere stati limite alla libertà creatrice: tuttavia traspare nelle migliori opere di lui chiara coscienza dei proprî fini figurativi e immediata spontaneità nel conseguirli.
La silografia nel sec. XVIII, in Inghilterra come ovunque, ha servito quasi esclusivamente alla decorazione dei libri: Tomaso Bewick (1753-1828) sostituì alla tavola di pero quella di bosso, di grana più fitta, e l'usò con le fibre perpendicolari al foglio. Le due innovazioni permisero. un'insolita precisione e una finezza di tratto, che venne portata a estreme conseguenze dal Thompson, da W. Linton e da W. H. Hooper. Praticarono la silografia con fini anche indipendenti dal libro, ma senza risultati considerevoli, varî altri. Praticaronn il chiaroscuro, con l'intento di ottenere effetti simili a quelli dei maestri italiani del Cinquecento, Elisha Kirkall (1682-1742) e Giovanni Battista Jackson (1701-1754), che - come il Caylus - incisero incoerentemente sul metallo la tavola dei contorni. La maniera nera, coltivata fino a circa il 1840, fu usata, morto il Reynolds, specie a tradurre Lawrence, e, facendosi uso di più violenti distacchi da luce e ombra, s'attenuò il senso di fluidità, proprio delle interpretazioni reynoldiane, ravvivandosi invece, sia pure intellettualisticamente, l'effetto pittorico. Si ricordano Giovanni Young, Guglielmo e Giacomo Ward, Guglielmo Say, e altri.
Il bulino continuò a essere usato anche nell'Ottocento, ma si sostituì talora alla lastra di rame quella d'acciaio. Il nuovo metodo, insieme con quello silografico, servì specialmente all'illustrazione dei libri, campo che fu specialmente caro ai preraffaelliti: D. G. Rossetti, W. Blake, W. Crane, W. Morris, E. Burn-Jones. Tale produzione concorse a raffinare negl'Inglesi il gusto del bel libro. Ad acquaforte e a legno operarono poi gli "umoristi", che, continuando la tradizione iniziata dal Hogarth, hanno dato luogo a un singolare aspetto dell'illustrazione inglese: Carlo Keene fu uno degli ottimi.
I migliori incisori inglesi dell'Ottocento si ricollegano alla tradizione del Watson, del Reynolds, del Turner, dello Sloane, ecc. Essi sono Carlo Keene, Edwin Edwards, Seymur-Haden, D. J. Cameron, Muirhead Bone, W. Strang, F. Brangwyn, Giacomo Mc Bey. Non è però nato in Inghilterra, ma negli Stati Uniti, il massimo acquafortista anglosassone, Giacomo Abbott-Whistler (1834-1903), che si è educato, tuttavia, a Londra e a Parigi. Nelle sue 450 acqueforti e punte secche il segno rivela un'audacia, una sicurezza, che soltanto Rembrandt può avergli insegnato: i termini, sempre piuttosto generici, di eleganza e di spiritualità possono dírsi veramente concretati dall'opera di questo grande incisore. Egli ebbe un degno scolaro ed emulo nel cognato Francesco Seymur-Haden (1818-1910). Anche Edwin Edwards (1823-1879) deve essere considerato tra coloro che concorsero al particolare carattere dell'acquaforte inglese contemporanea. È da questi capiscuola che esce tutta una discendenza d'incisori. Fra questi Martino Hardie, Elysa Lord, specializzata nell'acquaforte a colore, Malcom Osborne, Stanley Anderson, E. Blampied, Arturo Briscoe, Carlo W. Cain, Elda T. Chamier, Allan Elliot, Elisabetta Fyfe, C. B. Prescott, Percy Smith, V. Renison, Mc Ross, Enrico Rushbury, Giuseppe Simpon sono i più degni di essere ricordati. Nella silografia inglese si loda assai Gordon Craig, che schematizza robustamente la realtà nelle sue forme essenziali, attraverso una tecnica vigorosa e personalissima. Praticano la stessa arte con varietà non mai spiacevole d'effetti Roberto Austin, J. F. Badeley, Sidney Lee, G. F. Reiss, Mabel A. Royds, E. White ed E. Verpillieux, cui appartengono anche alcune interessanti silografie colorate.
Negli Stati Uniti domina ancora l'influenza di Whistler, il cui erede spirituale fu Giuseppe Pennel (1858-1926). Fra i più apprezzati contemporanei si citano: W. H. Bradley, J. Taylor Arms, Ernesto D. Roth, F. W. Benson, Donald Mac Lauglan, H. A. Webster, R. Partridge, ecc. Dei silografi meritano ricordo Rockwell Kent e C. H. Wilimowski.
Spagna. - L'incisione spagnola primitiva su legno, a giudicare da quel poco che oggi ne sappiamo, non presenta caratteri di originalità: il metodo tecnico a grossi solchi paralleli e discosti, che appare nelle illustrazioni dei libri spagnoli della fine del Quattrocento, è comune - si è visto - alla Germania, all'Italia, ai Paesi Bassi; in alcuni di quei libri, anzi, si trovano intere stampe, che sono copie dirette, in alcuni casi, o derivazioni o imitazioni, in altri, di cose già pubblicate in Germania, in Italia o altrove. Né l'incisione a bulino del Quattrocento e Cinquecento appare più indipendente e originale: i pochi esemplari che di essa si conoscono indicano tutti ispirazioni straniere. Anche nel Seicento, se si eccettua il Ribera, nessuno dei grandi pittori spagnoli ha eseguito stampe; e i pittori di secondo e terzo ordine - come i Carducci, gli Arteaga, Gian Battista Catenaro, ecc. - se hanno qualche volta praticato l'acquaforte, non si sono innalzati al disopra di una mediocre imitazione della maniera classicista italiana. Nel Settecento l'ispirazione ai capolavori francesi non reca risultati migliori. Emanuele Salvador Carmona fonda una scuola, da cui escono Francesco Muntaner, Fernando Selma, Bartolomeo Vázquez, tutti di gusto accademico. A ideali incisorî francesi s'ispirano altri Spagnoli: José López Enguidanos, Emanuele Esquivel Sotomayor e Raffaello Esteve y Vilella, anche dal punto di vista tecnico, hanno riprodotto mediocremente dipinti del Murillo, del Velásquez e degli altri maestri maggiori del loro paese. Influssi di Luca Giordano e di G. B. Tiepolo mostrano d'avere invece subito Niccolò Barsanti e Giuseppe de Castillo.
Tali essendo le condizioni dell'incisione spagnola, è quasi inesplicabile l'improvvisa apparizione di un artista come Francesco Goya y Lucientes (1746-1828). Anch'egli ha studiato Rembrandt, Tiepolo e i Francesi del Settecento, soprattutto Watteau; ma che cosa v'è, nella sua affascinante produzione, che non sia esclusivamente suo? Ha usato l'acquaforte talora pura, talora unita all'acquatinta. Le sue stampe non hanno precedenti, né nel tipo delle composizioni, né nell'uso della luce, che ne accentua beffardamente la tragica ironia, né - riferendosi a un altro ordine di fatti - nel senso d'incubo, che da esse emana. Accanto al Goya ognuno dei suoi connazionali sembra poco dotato, quasi incerto nelle aspirazioni. Eppure Mariano Fortuny (1838-74) fu personalità assai notevole, specialmente dal punto di vista dell'esperienza tecnica. Fra i contemporanei praticano l'acquaforte, così da essere stimati in Spagna e altrove: Francesco Esteve Botey, Mariano Fortuny y de Madrazo, M. Castrogil, Fernando Labrada Antonio Casero, Ernesto Gutierrez, Pedraza Ostos, Cobreros Uranga.
Giappone. - Fra le incisioni orientali ha per gli europei interesse soltanto quella giapponese, che pare derivata dalla cinese; tuttavia, allo stato attuale degli studî, non si hanno notizie precise circa l'origine della prima e i suoi rapporti con la seconda, né circa la posizione di entrambe rispetto alla pittura cinese. Sembra che intorno al sec. VIII d. C., con la penetrazione del buddhismo in Giappone, alcuni pittori cinesi e coreani ne abbiano introdotto la tecnica, che era la più atta a favorire la diffusione di immagini sacre.
Le più antiche stampe giapponesi sembrerebbero appartenere al sec. XIV, ma gli specialisti s'accordano nell'accennare a impressioni anteriori (sec. XII-XIII): tali stampe buddhiste erano eseguite secondo i procedimenti cinesi, e ispirate al gusto cinese, o meglio indocinese, avendo la Cina ricevuto il buddhismo dall'India. Caratteristica loro, che si trasmette all'incisione giapponese propriamente detta, è la mancanza d'ombre; l'incisore non si serve di tratti incrociati, perché non dà mai con un solo colore effetto di mezza tinta; dalla mancanza d'ombre deriva una rappresentazione schematica del vero, senza traccia di prospettiva lineare, in cui la linea prevale su ogni circostanza figurativa.
Le più antiche silografie giapponesi non buddhiste si trovano nei libri, e appaiono intagliate insieme con il testo nel blocco ligneo. Ma l'incisione giapponese deve il suo sviluppo soprattutto a Monorobu, temperamento raro d'artista, la cui produzione più significativa appartiene agli anni 1675-1695; egli ha esercitato influsso per il carattere immediato e vivace della sua arte, considerata allora popolare, fino alla metà del Settecento. Le sue stampe sono a monocromo; la linea vi domina in modo assoluto ed è sintetico mezzo di lirismo, d'un lirismo che veramente penetra l'intima essenza delle cose. Monorobu ha illustrato libri e ha eseguito qualche silografia isolata, oggi assai rara.
Suo contemporaneo fu Kwaigetsudō, il cui più attivo periodo di produzione corrisponde ai primi anni del sec. XVIII; egli si caratterizza per uno speciale sviluppo della linea altamente decorativa, che dà ai suoi effetti a bianco e nero uno spirito astratto, singolare.
Scolaro di Monorobu fu Okomura Masanobu (1685-1764), che decorò libri con silografie a monocromo e a due toni, rappresentando di preferenza, come già aveva fatto il suo maestro, scene di vita femminile.
L'arte giapponese della prima metà del Settecento è però dominata dalla scuola dei Torii, fondata da Kiyonobu (1664-1729): tale scuola, attraverso il predominio della linea, perviene a una drammaticità, che è ignota ai seguaci di Monorobu. Kiyonobu ha un disegno audace, a largo tratto, fatto per essere visto a distanza; usa raramente il monocromo; più spesso, vermigli, azzurri, verdi, che stende a mano, opponendoli vivacemente a zone nere, vellutate. Una tale colorazione a mano fu sostituita, pare intorno al 1745, dalle stampe a colori, che vennero tentate da Shighenaga (1697-1756), con la sovrapposizione di più legni: dapprima s'introdussero soltanto il rosa e il verde poi - verso gli anni 1759-1760 - il giallo e l'azzurro. Shighenaga ebbe continuatori in Toyonobu, Harunobu, Shighemasa, Shunshō: tutti raffinatamente coloristi. Con costoro l'incisione giapponese conclude veramente il suo periodo arcaico: le zone di colore cessano di essere giustapposte e si stendono in modo da dare senso di profondità, grazie all'uso di sfondi neutri, squisitamente irrealistici, grigi e verdi pallidi. La funzione della linea assume un carattere di armonioso dinamismo e dà intimo calore di vita alle immagini femminili, flessuose e raffinate. Dei quattro maestri il più geniale fu forse Harunobu (1717-1770); Shunshō, che dominò l'incisione giapponese dal '70 all'80, venne però maggiormente apprezzato, perché la sua maniera è più comprensibile e piacevole. Da loro derivò tutta una vasta discendenza d'incisori. Dalla scuola dei Torii, che aveva avuta tanta importanza nella storia dell'incisione giapponese, dal tempo degli effetti monocromi a quello delle stampe a più colori, ma che, da qualche anno - Harunobu, Shighemasa, Shunshōdominanti - era passata in secondo piano, esce, circa il 1775, un altro grande artista, Kiyonaga (1742-1815): questi libera l'incisione da ogni forma di stilizzato convenzionalismo, e, dotato di un vigoroso senso della realtà, rinnova lo spirito dell'arte giapponese. La linea cessa d'essere l'elemento figurativo predominante, il colore prende il suo posto; continuano a mancare la prospettiva e le ombre, ma gli sfondi si fanno meno indefiniti, più complessi: il paesaggio incomincia a valere come fattore compositivo. Questa maggiore precisione d'ambiente, questo senso di rigore, paragonato all'ineffabile astrattezza decorativa dei maestri precedenti, potrebbero sembrare, attraverso lo schematico semplicismo delle parole, effetto d'impoverimento di fantasia, di peggioramento - in senso intellettualistico - del gusto: ma si rifletta, per intendere, che qualche cosa di simile era accaduto a Firenze, nel campo della pittura, agl'inizî del Quattrocento, quando, in opposizione al manierismo gotico, era apparsa l'arte di Masaccio.
Quando Kiyonaga si ritirò dalla scena dell'arte tre maestri ne ereditarono la posizione eminente: Jeshi, Utamaro, Toyokuni. Il primo, operoso dal 1780 agl'inizî dell'Ottocento, si attenne agl'ideali estetici di Kiyonaga, accentuando specialmente la ricerca particolaristica dell'ambiente. Il secondo (1736-1805), che fu, dopo Hokusai, l'artista giapponese più noto in Europa e diede, attraverso un accordo singolare di linea e colore, un aspetto così stilizzato alle sue cortigiane e geishe, da richiamare a mente - se è permesso l'avvicinamento - le più squisite stilizzazioni del Parmigianino; illustrò numerosi libri di letteratura romantica; il terzo (1779-1825) si avvicinò anch'egli a Kiyonaga, di cui fu forse il migliore scolaro, ma, pur ispirandosi a quel vigoroso disegno, raggiunse nell'ora sua più felice, effetti del tutto personali. Toyokuni formò intorno a sé una scuola, di cui è apprezzabile esponente Kunisada. Ma tale scuola accentuò presto il manierismo, latente nella produzione tarda dello stesso Toyokuni, e decadde rapidamente: con Uleiyo essa ristagna ormai in un monotono convenzionalismo scolastico.
L'incisione giapponese doveva però sollevarsi ancora una volta con Katsushika Hokusai (1760-1849) e con Andō Hiroshige (1797-1858), i poeti del paesaggio giapponese. Hokusai, l'artista più comprensibile agli Occidentali, venne scarsamente apprezzato dai suoi connazionali e da quelli studiosi europei che guardarono la sua arte da un punto di vista nipponico (Fenellosa). Ma, indipendentemente da preconcetti di razza, non si può non riconoscere che le doti d'osservazione di Hokusai e la sua sicurezza nel rendere ciò che è osservato non furono di frequente eguagliate né in Giappone né altrove. La sua immensa produzione rivela un segno sintetico, nervoso, attraverso al quale originalmente si adombrano ricordi di altre visioni (Shunshō, Shighemasa, ecc.). Il colore vi ha una funzione prevalente, armoniosa.
Hiroshige, suo scolaro, fu forse ancora più sensibile di lui nel cogliere il poetico spirito del paesaggio, l'essenza decorativa di un corpo animale, da lui riprodotti con tanta immediatezza, con tanto lirico slancio, che solo gl'impressionisti, in tutt'altro modo, seppero esprimere altrettanto. Perciò egli ha influito sulla pittura occidentale contemporanea, specialmente francese, e ne ha subito gl'influssi. Hokusai e Hiroshige non bastarono tuttavia a rianimare l'incisione giapponese, esauritasi dopo meno che due secoli di vita. Oggi essa è abilmente praticata; ma l'arte europea è un limite alla libera esplicazione del genio nazionale nipponico.
V. tavv. CXCIII-CCVI.
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Storie dell'incisione: generali e di un particolare ramo di essa: F. Baldinucci, Cominciam. e progr. dell'arte di intagliare in rame, Firenze 1686; G. Longhi, La calcografia, Milano 1830; L. de Laborde, Histoire de la gravure en manière noire, Parigi 1839; J. C. Smith, British Mezzotinto Portraits, Londra 1878-1882; A. Whitman, The masters of mezzotinto, Londra 1898; G. Pauli, Inkunabeln d. deutsch. u. niederl. Radierung, Berlino 1908; H. C. Levis, A descriptive Bibliography of the most important Books in the English Language relating to the art and history of Engraving and the collecting of Prints, Londra 1912; P. Gusman, La gravure sur bois et d'épargne sur métal, du XVIe siècle au XXe siècle, Parigi 1916; P. Colin, La gravure et les graveurs, Parigi 1916; P. Colin, P. Kristeller, Kupferst. und Holzschn. in vier Jahrh., Berlino 1922; A. Reichel, Die Clairobscurschnitte des XVI., XVII. und XVIII. Jahrhunderts, Vienna 1926; W. Irvius, Prints and books informal papers, Cambridge (U. S. A.) 1926; L. Servolini, La xilografia a chiaroscuro italiana, Lecco 1930; E. Bock, Geschichte der graphischen Kunst von ihren Anfängen bis zur Gegenwart, Berlino 1931.
Storie dell'incisione in alcuni paesi e in alcune epoche: P. Zani, Materiali per servire alla storia dell'incisione, Parma 1802; W. Y. Ottley, An inquiry into the origin and early history of engr., Londra 1816; L. Cicognara, Memorie spett. alla storia della calcografia, Prato 1831; M. Alvin, Les Commencements de la gravure aux Pays-Bas, Bruxelles 1857; J. Renouvier, Hist. ... de la gravure dans les Pays-Bas, Bruxelles 1860; G. G. Duplessis, Hist. de la gravure en France, Parigi 1861; O. Weigel e A. Zestermann, Anfänge der Druckerkunst, Lipsia 1866; I. W. Holtrop, Monum. typogr. des Pays-Bas, L'Aia 1868; I. Rosell y Torres, Estampa española d. s. XV., in Museo español de antigüedades, XI (1873), p. 445; L. Carteret, Le trésor du bibliophile romantique et moderne (1801-1875), Parigi 1924-26, volumi 4; A. Essenwein, Die Holzschnitte d. 14. u. 15. Jahrh. im Germanischen Museum in Nürnberg, Norimberga 1875; R. Portalis e H. 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Buchillustration bis zum Jahre 1600, in Handb. d. Bibliothekswisensch., ed. da I. Milkau, Lipsia 1931, pp. 332-460; J. Rodenberg, Der Buchdruck von 1600 bis zur Gegenwart, ibid., pp. 461-568; N. Clément-Janin, Graveurs et illustrateurs romantiques, Parigi s. a.
Lessici e cataloghi: A. Bartsch, Le Peintre-graveur, Vienna 1803-21, volumi 21; Suppl. di J. Heller, Bamberga 1844, e M. R. Weigel, Lipsia 1843; P. Zani, Enciclop. metod. crit. d. belle arti, Parma 1819-28; A. P. Robert-Dumesnil, Le Peintre-grav. français, Parigi 1935-71; P. J. Mariette, Abécédario, in Archives de l'art français, Parigi 1851-60; C. Le Blanc, Manuel de l'amat. d'est., Parigi 1854-58; G. K. Nagler, Die Monogrammisten, Monaco 1858-79; J. D. Passavant, Peintre-graveur, Lipsia 1860-64; V. d. Kellen, Peintre-graveur hollandais et flamand, Utrecht 1866; A. Andresen, Des deutsche Peintre grav. der 16.-18. Jahrh., Lipsia 1867 segg.; E. Dutuit, Manuel de l'amat. d'est., IV-VI, Parigi 1881 (cont.); M. Bryan, Dict. of painters and engravrs, nuova ed., Londra 1903-05; C. Brun, Schweiz. Künstlerlexikon, Frauenberg 1905; Al. Baudi di Vesme, Le Peintre-graveur italien, Milano 1906; L. Delteil, Le peintre-graveur illustré (secoli XIX e XX), Parigi 1906 segg.; P. A. Lemoisne, Les xylographies du XIVe et du XVe siècle au Cabinet des estampes de la Bibliothèque nationale, Parigi 1927, 1930 (cont.).