India, Nepal, Pakistan e Afghanistan
La ricerca archeologica in India fu fenomeno d'importazione. Essa pertanto nella sua fase iniziale subì in maniera determinante l'influenza ideologica del potere britannico. Ciò è più che naturale e non deve suscitare scandalo, né affermarlo equivale a dire che tutta la ricerca archeologica (come quella linguistica, filologica, storico-religiosa, ecc.) in India sia stata sempre e comunque strumento del potere politico coloniale. Siffatte semplificazioni trovano oggi sempre più scarsa accoglienza presso gli storici più avvertiti, siano essi indiani o occidentali. Ormai vi è una certa concordia nel riconoscere l'ideale atto di nascita dell'archeologia indiana nelle parole pronunciate da sir William Jones per la costituzione (1784) dell'Asiatic Society di Calcutta (Asiatick Researches, 1, 1788). Non vi è nulla in esse che possa dirsi specificamente "archeologico", nemmeno nella prospettiva "antiquaria" che sarebbe stata naturale allora; tuttavia è chiaro che il giudice Jones ‒ affascinato com'era dall'India al pari del governatore generale del Bengala W. Hastings ‒ sperava che la nuova Società potesse affrontare lo studio sistematico di tutti gli aspetti del Paese (e dell'Asia in genere!), di tutto ciò che vi si trovasse di "creato dall'uomo o prodotto dalla natura". In questo slancio generoso e visionario, che direi illuministico piuttosto che romantico, sono coinvolte anche "musica, architettura, pittura e poesia", con la curiosa ma forse non casuale emarginazione della scultura. Possiamo dire che Jones creò le premesse di una vera attività archeologica in India. Nel 1814 si costituiva a Calcutta l'Imperial Museum (oggi Indian Museum), la più importante istituzione museale dell'impero anglo-indiano, presso la Asiatic Society: esso rifletteva in pieno l'ambito di interessi che si era proposto la stessa società. È anche del tutto comprensibile che lo spunto perché si giungesse ad una ricerca archeologica organizzata fu dato dalla numismatica e dall'epigrafia, discipline che consentivano una più immediata lettura "storica" di quanto fosse possibile con lo studio di altri resti di cultura materiale. Basterà qui ricordare il deciframento delle scritture brāhmī e kharoṣṭhī ad opera di J. Prinsep, segretario dell'Asiatic Society dal 1833 alla morte prematura (1840), e la raccolta sistematica di monete condotta da Ch. Masson in Afghanistan. Ma non mancavano spinte di natura estetica: i monumenti antichi erano sentiti da alcuni come degni di studio, documentazione e protezione, anche indipendentemente dalle informazioni "storiche" che essi potessero fornire. Così, sebbene le grotte di Ellora fossero state descritte da sir Charles Warre Malet già nel 1794, ancora nel 1824 il capitano J.B. Seely lamentava che la propria "potente, scientifica e generosa nazione" non si fosse ancora risoluta a "conservare" quelle opere venerabili. Più che di conservare i monumenti ci si preoccupava di "raccoglierne", molto spesso senza alcun rispetto per i vincoli che legano il manufatto asportabile alla struttura edilizia che lo contiene. E, come dal 1801 lord Elgin trafugava i marmi del Partenone, in quegli stessi anni C. Mackenzie, Surveyor General of India, compresa l'importanza dei marmi di Amaravati, ne distribuiva numerosi in diverse sedi; l'opera di smantellamento del grande stūpa veniva poi completata, fra gli altri, da sir Walter Eliot, dal 1845 in poi. Nell'assenza di qualsiasi norma di tutela e nelle particolari circostanze di Amaravati, è soltanto grazie a questi "saccheggi" che quelle opere insostituibili non ci sono state sottratte per sempre. Si può forse legittimamente affermare che l'inizio della vera e propria ricerca archeologica in India coincida emblematicamente con la pubblicazione dell'opera di H.H. Wilson, Ariana Antiqua (1841), in cui furono messi a frutto anche i dati raccolti da Ch. Masson; ma non si dovrà dimenticare che alla formazione di una consapevolezza piena delle potenzialità offerte dal Paese concorsero le ricognizioni topografiche e statistiche dei vari territori ai quali era interessata la Compagnia: celebre quella condotta nel 1800 da F. Buchanan nel territorio di Mysore. Merita anche che si ricordi la descrizione dei monumenti di Delhi compilata da Sayyid Ahmad Khan (1852), resa poi nota agli studiosi europei da J. Garcin de Tassy (Journal Asiatique, 1860). Ancor prima che, in conseguenza della Mutiny del 1857-58, si giungesse all'assunzione diretta delle responsabilità di governo da parte della Corona, A. Cunningham proponeva la creazione di una struttura che avesse il compito di "scoprire e pubblicare tutti i resti esistenti di architettura e scultura, insieme con le monete e le iscrizioni", perché questo avrebbe gettato più luce sulla storia antica dell'India "che la stampa di tutte le sciocchezze contenute nei diciotto Purana" (Journal of the Asiatic Society of Bengal, 1848). Per un compito del genere Cunningham prevedeva l'impiego di almeno due (!) persone, una delle quali avrebbe dovuto essere un bravo disegnatore. Le proposte di Cunningham ebbero una prima realizzazione con l'attività di un Archaeological Survey of India (ASI) tra il 1861 e il 1866, poi ancora dal 1871 sotto la direzione dello stesso Cunningham, ma per tempo relativamente breve. Le dimissioni di J. Burgess (1889), successore di Cunningham, portarono ad una temporanea mancanza di coordinamento centrale, ma non s'interruppe l'attività a livello locale. Il lavoro svolto, immenso se rapportato all'esiguità del personale, prese forma negli Annual Reports, nei volumi della New Imperial Series, a carattere monografico, e in quelli di Epigraphia Indica. Non si trattò tanto di scavi (fortunatamente, dovremmo dire, data la lentezza di Cunningham nel far proprie le più avanzate esperienze dell'archeologia europea), quanto di ricognizioni topografiche e di rilievi di monumenti: l'opera più significativa di Cunningham è ancora oggi The Ancient Geography of India (1871). È da sottolineare il fatto che in questa fase molta attenzione veniva rivolta ai monumenti islamici. Assai più consapevoli dei processi di formazione dei depositi stratigrafici di quanto fosse Cunningham appaiono altri studiosi, in particolare M. Taylor, già alla metà del secolo, poi R.B. Foote (che dette l'avvio agli studi sul Paleolitico), A. Rea e H. Cousens. Gli ultimi tre decenni del secolo videro il maturarsi da parte del governo britannico in India della consapevolezza di quanto importante potesse essere "politicamente" una gestione programmata delle antichità. Nel 1902 venne nominato direttore generale del ricostituito ASI J. Marshall, uomo di cultura classica, che ‒ sulla spinta del governatore generale lord Curzon, abilissimo manipolatore di cultura ‒ diede rapidamente al Paese (1904) quell'Ancient Monuments Preservation Act che è ancora alla base delle vigenti legislazioni di tutela e affrontò una serie di imprese di scavo. Queste imprese furono soprattutto intese a mettere in luce il periodo buddhistico (considerato come il più felice della storia dell'India, in qualche modo assimilabile a quello britannico) e poi quello protostorico, in seguito alla scoperta della civiltà di Mohenjo Daro e di Harappa. Scavi come quello di Taxila sono ancora oggi fondamentali e, sebbene il rozzo metodo stratigrafico introdotto da Marshall abbia dato luogo a critiche numerose e fondate (Marshall partiva dal presupposto che gli strati fossero sempre orizzontali), resta il fatto che le cronologie da lui proposte sono da correggere, quasi mai da rigettare. Restarono invece piuttosto nell'ombra il periodo medievale e quello islamico. Dovendo limitare il discorso alle variazioni di carattere metodologico e di impostazione generale della ricerca, possiamo dire che gli anni di Marshall non portarono ad una organizzazione veramente efficiente dell'Archaeological Survey, ma restano tuttavia memorabili per l'acquisizione di interi complessi monumentali e urbani che rappresentano ancora oggi l'impalcatura delle nostre conoscenze sull'India protostorica e storica preislamica. Non si dimentichi che alle imprese di Marshall si aggiunsero quelle di A.H. Longhurst a Nagarjunakonda (1927-28), di K.N. Dikshit a Mahasthan (1928-29) e numerose altre, fino a quella di Ahichchhatra (1940-44), sulla quale abbiamo incompleta documentazione, ma che ha dato luogo a quello che viene giudicato il primo studio sistematico e rigoroso della ceramica in India (A. Ghosh - K.C. Panigrahi, in Ancient India, 1, 1946). Importantissima è anche l'attività editoriale dell'ASI: la nuova serie degli Annual Reports (1902-1903 e 1935-36), i Memoirs (collana ancora oggi attiva), Epigraphia Indica, Epigraphia Indo- Moslemica (dal 1907), ecc. Gli Annual Reports furono poi sostituiti, dopo la seconda guerra mondiale, da Ancient India (1946-66) e da Indian Archaeology: a Review (dal 1953-54); in Pakistan da Pakistan Archaeology (dal 1964); a Ceylon (Sri Lanka) si pubblicano Ancient Ceylon e Epigraphia Zeylanica. Numerose furono poi, prima dell'indipendenza, le serie regionali di rapporti annuali. A Marshall succedette H. Hargreaves (1928) e a questi D.R. Sahni (1931), il primo indiano che ricoprisse la carica di direttore generale dell'Archaeological Survey. Una svolta si ebbe con la direzione (1944-48) di sir Mortimer Wheeler (dopo che un'ispezione di sir Leonard Woolley aveva mostrato le carenze ‒ vere o presunte ‒ del Survey). Questi definì in termini rigorosi il metodo e la prassi dello scavo stratigrafico, trasferendo sul piano della routine quei principi che alcuni pionieri avevano già di tanto in tanto ‒ ma non così rigorosamente ‒ applicato: una vera scuola teorico-pratica (Taxila, Pondicherry) valse a creare un'intera generazione di archeologi militanti. L'insegnamento di Wheeler garantì per molti anni un buon livello qualitativo nelle imprese archeologiche gestite dalle strutture pubbliche, così in India come in Pakistan. Forse è da lamentare ‒ nel corso del secondo mezzo secolo ‒ il numero proporzionalmente troppo grande di scavi "verticali", che alla fine non avevano altra funzione che quella di rivisitare sequenze stratigrafiche già note, perdendosi invece di vista l'articolazione funzionale ("orizzontale") degli insediamenti. Oggi le nuove metodologie di scavo (per non dire delle elaborazioni dei dati tratti dalle campionature sistematiche di superficie) si vanno affermando anche in India e in Pakistan, sebbene si debbano al contempo lamentare numerosi casi di scavi condotti con metodi prescientifici. Un contributo non indifferente è stato dato da numerose missioni archeologiche straniere, da quella italiana nello Swat (dal 1957) a quella francese in Pakistan (dal 1959), oggi attiva in particolare nel Baluchistan (a Mehrgarh dal 1974), a quella tedesca a Mathura (1966-74), ancora a quella italiana nel Nepal (dal 1984, Harigaon), ad altre numerose in vari siti del Subcontinente indiano e a Sri Lanka. Un tentativo di riassumere in poche righe i risultati delle maggiori imprese archeologiche condotte nel Subcontinente sarebbe sicuramente destinato al fallimento, tale è la vastità del campo di ricerca interessato. Per limitarci alle imprese più recenti e cospicue ‒ ed esemplari delle attuali tendenze ‒ in India, dovremo certamente ricordare il progetto internazionale di Vijayanagara, città del Karnataka (XIV-XVI sec. d.C.) che viene indagata nei suoi aspetti architettonici, urbanistici, di cultura materiale, storico-religiosi, ecc., con risultati che sono indubbiamente di grandissimo rilievo. Una sistematica analisi del territorio in tutti i suoi aspetti è stata affrontata da un gruppo di lavoro del CNRS francese a Chanderi (Madhya Pradesh): una iniziativa che trova precedenti e riscontri nel lavoro di studiosi tedeschi a Kathmandu, nonché nello stesso progetto di Vijayanagara. Per il resto, si può certamente dire che la massima attenzione viene posta ai problemi connessi con il sorgere delle culture agricole e alle caratteristiche delle culture calcolitiche, nello sforzo di mettere a punto preziosi indicatori cronologici e culturali, come le classi ceramiche definite Ochre-Coloured Pottery e Black-and-Red Ware. Un forte impulso è stato dato alle ricognizioni dei monumenti architettonici: da ricordare soprattutto l'Archaeological Survey of Temples, a cura dell'Archaeological Survey of India, la Encyclopaedia of Indian Temple Architecture, sostenuta dall'American Institute of Indian Studies, nonché alcune iniziative di singole università; fra queste ultime sono da segnalare le ricognizioni curate dall'Università di Nagpur (Maharashtra), alla quale si debbono anche imprese di scavo di particolare impegno (Pauni, Bhokardan, ecc.). Non si può infine ignorare l'uso spregiudicato di presunti dati archeologici fatto da gruppi politici ipernazionalisti, spesso con l'avallo di archeologi qualificati, ad esempio in occasione della cosiddetta Babri Masjid- Ramjanmabhumi Issue; in particolar modo, forzature ideologiche di stampo nazionalistico hindu emergono non di rado nella letteratura specialistica relativa alla civiltà di Harappa e al ruolo delle popolazioni "vediche". Le varie missioni straniere che si sono succedute in Nepal (indiane, giapponesi, italiane) hanno contribuito a liberare i programmi di ricerca di quel Paese dall'obiettivo precostituito di trovare le prove della presenza del Buddha, spesso in concorrenza con analoghe e contrapposte rivendicazioni indiane, e a ricondurre l'attività archeologica a più concreti obiettivi di inquadramento dell'antica cultura nepalese nel più ampio contesto gangetico. In Pakistan, attività intese ad una lettura funzionale delle strutture sono state intraprese a Mohenjo Daro (Università di Aachen). Per quanto riguarda la preistoria e la protostoria, si dovrà rammentare il lavoro condotto dalla già citata missione francese a Mehrgarh, che ha consentito di individuare una successione culturale dal VI-V millennio a.C. alla metà del III millennio a.C., cioè a partire dal Neolitico fino a ricongiungersi con Mundigak IV, Shahr-i Sokhta II e Kot- Diji, dando cioè consistenza alle nostre cognizioni relative alla regione in età preharappana. La cosiddetta Swat Grave Culture o Gandhara Grave Culture (II-I millennio a.C.) è stata portata alla luce dapprima dalla Missione Archeologica Italiana, poi anche da scavi dell'Università di Peshawar. Infine si dovrà sottolineare lo sforzo congiunto della missione italiana e delle istituzioni pakistane nel recupero di una massa davvero imponente di strutture architettoniche buddhistiche e di sculture del Gandhara, dal cui studio si attendono ancora risultati definitivi. Ad esso si affiancano ricerche di archivio intese a ricostruire le provenienze dei rilievi collezionati nel corso di scavi di epoca britannica, oggi conservati in musei europei (soprattutto inglesi) e del Subcontinente indiano. Il recupero e lo studio di resti del primo periodo islamico (Bhanbore, Mansura) nel territorio dell'attuale Pakistan è naturalmente uno degli obiettivi dell'archeologia militante pakistana, sebbene sia anche palese il tentativo ‒ non del tutto immotivato ‒ di riconoscere caratteri culturali propri della regione che valgano a distinguere anche il suo passato remoto dal passato della vicina India. Quasi per intero affidata a missioni straniere è stata la ricerca archeologica in Afghanistan: la Délégation Archéologique Française (1922-82) ne ebbe l'esclusiva fino agli anni Cinquanta e affrontò un numero considerevole di ricognizioni e di scavi, questi ultimi non sempre condotti con criteri scientifici: Hadda, Begram, ecc. Ben più rigorosi furono gli scavi del dopoguerra, fra i quali spicca quello della città greca di Ai Khanum. I risultati furono (e sono tuttora) pubblicati nella serie dei Mémoires. Altre missioni straniere furono quella italiana (dal 1958) a Ghazni (santuario buddhistico di Tapa Sardar; palazzo di Masud III), poi quelle americana, giapponese (Tapa Skandar), inglese (Kandahar), sovietica (Dilberjin, Tillya Tepe) e tedesca. Un programma di ricerche sul terreno era stato avviato anche dall'Istituto Afghano di Archeologia, a partire dal 1966: di particolare rilievo furono i risultati degli scavi a Hadda, condotti dal 1974 da Z. Tarzi. Gli eventi politici e militari dal 1978 in poi hanno reso prima difficile, poi impossibile, qualsiasi attività archeologica; inoltre, la distruzione del Museo di Kabul e di molti monumenti archeologici è forse il dramma più doloroso nella storia dell'archeologia dalla seconda guerra mondiale ad oggi. La costituzione, nel 1970, di una Association for the Promotion of South Asian Archaeology in Western Europe (oggi European Association of South Asian Archaeologists) ha dato l'avvio ad una serie di convegni con cadenza biennale (il quattordicesimo si è tenuto a Roma nel 1997), i cui atti ‒ pubblicati con il titolo di South Asian Archaeology ‒ offrono una ricca documentazione dell'attività svolta, soprattutto di quella dovuta a missioni straniere.
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