India. Revisionismo storico e fondamentalismo religioso
L’emergere di una storiografia revisionista in India rappresenta un fenomeno che, travalicando i confini della riflessione scientifica sul passato, si pone in stretta relazione con l’evoluzione del sistema politico e della coscienza pubblica del Paese negli ultimi 25 anni. Tale corrente storiografica si fonda sull’assioma dell’ininterrotta continuità della «tradizione vedico-indù», la quale, legata inscindibilmente e «da tempo immemore» al territorio indiano, costituirebbe l’elemento fondante dell’identità storica dell’India, fonte primigenia di ispirazione di ogni espressione culturale e politica delle sue genti. Ogni apporto giunto dall’esterno nel corso dei secoli viene considerato alla stregua di una diminuzione del suo spazio vitale. Questa tesi si è accompagnata a un progetto politico incardinato sull’ideologia dell’hindutva («induità»), secondo cui lo Stato-nazione in India dovrebbe riflettere la natura essenzialmente indù del suo passato (hindu rashtra) e di conseguenza soltanto coloro per i quali l’India è terra dei padri (pitri bhumi) e di sacra virtù (punya bhumi) vi avrebbero diritto di cittadinanza.
La visione storica dell’hindutva va ricollegata ai tentativi, operati dal nazionalismo indiano sin dalla fine dell’Ottocento, di prefigurare la futura indipendenza politica mediante l’istituzione di uno spazio culturale inviolabile in cui la «tradizione» era la sola autorità ammessa. Alla costruzione di quest’area identitaria nella coscienza collettiva lavorarono, a partire dal 1925, i centri di addestramento del Rashtriya swayamsevak sangh (RSS, Comunità dei volontari nazionali). Nonostante gli iniziali successi, i propugnatori dell’hindutva rimasero a lungo ai margini della vita pubblica, fin quando, sul finire degli anni Sessanta, il laicismo dello Stato indiano cominciò ad arretrare dinanzi a una serie di problematiche sociali, economiche e giuridiche irrisolte. Già durante la breve esperienza del governo Janata (1977-79) si ebbero avvisaglie di un riorientamento della politica culturale, giunto a piena maturazione nella seconda metà degli anni Ottanta con l’ascesa del Bharatiya janata party (BJP), un partito strettamente legato all’RSS che, proprio grazie all’insistenza sulle tematiche comunitaristiche, riuscì a conquistare un ampio consenso popolare e a formare governi dapprima in alcuni Stati federati e poi, nel 1998-2003, a livello centrale.
Uno dei primi provvedimenti adottati dal governo del BJP fu la rimozione dei direttori di importanti istituti di ricerca, fra cui l’Indian council for historical research, l’Archaeological survey of India e il National council for education research and training, responsabile quest’ultimo della compilazione dei manuali adottati nelle scuole statali. Studiosi di consolidata reputazione internazionale come R. Thapar, K.N. Panikkar e S. Sarkar vennero fatti oggetto di infamanti accuse e un’intera produzione storiografica fu bollata come il prodotto di un’oligarchia di pseudointellettuali asserviti a una cultura antinazionale.
La tesi revisionista è stata portata avanti, in aperta polemica con l’accademia, da non specialisti (giornalisti come A. Shourie, docenti di ingegneria come N.S. Rajaram, storici free lance come S. Goel, indofili occidentali come il belga K. Elst e l’americano D. Frawley) e sostenuta da un’efficiente rete mediatica (case editrici come Voice of India e Aditya Prakashan, programmi televisivi e siti Internet come www.bharatvani.org).
Uno dei punti cruciali su cui si è concentrata questa riscrittura del passato riguarda la civiltà dell’Indo, la più antica formazione culturale evoluta del subcontinente. La sua datazione, che gli studiosi unanimemente assegnano a un periodo precedente l’arrivo in Asia meridionale di tribù seminomadi di lingua indo-aria, poneva un duplice problema: da un lato metteva in luce l’esistenza di un nucleo storico indigeno estraneo al mondo vedico, e di questo più antico; dall’altro, ribadiva le origini straniere dei supposti «padri» dell’India di oggi. Per rimediare a queste evidenti aporie si è tentato di negare validità alla «invenzione colonial-missionaria» dell’origine extraindiana degli arya, e di collegare il mondo vedico ai ritrovamenti archeologici dei siti della valle dell’Indo. A tal fine è stata operata una «decifrazione» dei segni pittografici presenti sui celebri sigilli, la quale ha consentito di ricostruire le iscrizioni come testi in «lingua vedica», parte integrante del grande tesoro letterario dell’India antica. In realtà, il metodo e gli esiti di questa operazione non hanno in alcun modo convinto gli addetti ai lavori: l’attribuzione, da parte di autori come Rajaram, di suoni e funzioni logiche ai singoli segni è apparsa talmente libera ed elastica da risultare arbitraria, frutto della volontà di leggere le iscrizioni in base a una tesi interpretativa predeterminata.
Alla manipolazione delle iscrizioni si è poi accompagnata quella dell’iconografia, in particolare con il tentativo di ricostruire, mediante «miglioramenti computerizzati», figure equine sulla base di frammenti che, al di là di ogni ragionevole dubbio, mostravano invece bufali unicorni. In questo caso, si trattava di superare le difficoltà legate all’identificazione fra due civiltà dal profilo nettamente distinto come quella dell’Indo (agricoltura sedentaria, grandi centri urbani, metallurgia avanzata, commerci a lunga distanza) e quella vedica (agricoltura e metallurgia rudimentali, allevamento, gruppi in costante migrazione). I numerosi riferimenti al cavallo, in particolare, rimandano nei veda più antichi alle regioni dell’Asia occidentale e alle steppe caucasiche, e a un’epoca che certamente predata la diffusione di elementi di quelle culture nel Nord-Ovest indiano. Era perciò indispensabile, per gli storici revisionisti, provare la presenza e l’impiego di fauna equina nel bacino dell’Indo fin dai tempi più remoti. La rilettura vedica della civiltà vallinda finisce così per attribuire i veda più antichi (fine del 2° millennio) alla metà del 5°, e trasformare gruppi linguisticamente affini, migranti in direzioni disparate tra l’Asia occidentale e l’altopiano iranico, nel sedentario popolo indiano degli arya.
Procedimenti analoghi sono stati poi utilizzati per dimostrare che la civiltà vedica dell’Indo è rimasta sostanzialmente immutata fino a oggi: essa si identificherebbe con l’induismo e fin dai primordi si sarebbe dotata di strutture sociali, come il sistema castale, e di credenze e idee religiose attestate soltanto in epoca assai più recente.
Messa a sistema l’India antica, è stato possibile procedere alla rilettura delle epoche successive soprattutto nei manuali di storia delle scuole elementari e medie, nell’intento di inculcare nelle menti dei futuri cittadini indiani un atteggiamento ostile nei confronti delle religioni «non indiane». Vi si racconta, per es., del lungo calvario di sofferenze e oppressione subito dal popolo indù per mano degli invasori stranieri e della valorosa resistenza offerta dai generali «indiani» contro le armate turche, afghane e mongole al fine di preservare il sacro territorio dell’India e il dharma indù dalla dissacrazione islamica. Viene in tal modo retrodatata di parecchi secoli l’idea tardo ottocentesca dell’unità nazionale indiana nella lotta contro lo straniero, così come la stessa contrapposizione postilluminista fra identità socio-religiose. Spesso i «fatti storici» compaiono alterati in modo funzionale alla condanna morale dei personaggi musulmani e all’esaltazione di quelli indù: per es., si parla di un totale di ca. 30.000 templi indù (fra cui quelli di Rama ad Ayodhya e di Somnath in Gujarat) distrutti da conquistatori musulmani per far posto ad altrettante moschee, mentre le fonti consentono di individuarne soltanto 80 ca.; o ancora, si afferma che il sovrano rajput Prithviraj Chauhan, sconfitto e giustiziato da Muhammad Ghuri a Tarain nel 1192, venne in realtà condotto prigioniero a Ghazna dove avrebbe a sua volta ucciso l’empio Muhammad.
La legittimazione in seno all’opinione pubblica di queste grossolane distorsioni della realtà storica è stata facilitata dal sostegno «ufficiale» di politici e istituzioni statali, che ha contribuito a creare un’atmosfera di intolleranza, e a volte di aperta violenza, nei confronti di studiosi, artisti, registi e scrittori colpevoli di aver messo in evidenza aspetti poco «edificanti» della storia indiana al solo scopo di diffamare il popolo indù e offenderne la sensibilità religiosa. A farne le spese è stato, fra l’altro, lo stesso patrimonio culturale indiano. Nel gennaio 2004 il prestigioso Bhandarkar oriental research institute di Pune venne assaltato da un gruppo di ca. 200 attivisti in risposta all’«oltraggio» perpetrato dallo storico americano J.W. Laine nel riportare una tradizione orale secondo cui il condottiero maratha Shivaji, glorificato dagli storici dell’hindutva come campione dell’India indù nella resistenza contro l’imperatore mughal Aurangzeb, non era figlio naturale di Shahji Bhonsle. Nell’assalto vennero distrutti o danneggiati circa 18.000 volumi, oltre a un manoscritto del Mahabharata risalente al 1° sec. d.C. e a un’antica copia del Ṛg-Veda. Laine, che aveva frequentato l’istituto nel corso delle sue ricerche, fu costretto a pubblicare una dichiarazione di scuse e il suo libro fu ritirato dal commercio.
Al revisionismo storico si è affiancata la campagna di normalizzazione e nazionalizzazione delle tradizioni religiose regionali condotta dall’Akhil Bharat itihas sankalan yojana (Programma per la compilazione della storia panindiana), il quale ha organizzato un censimento delle tradizioni religiose e devozionali nelle diverse regioni dell’India con l’obiettivo di stabilire una corrispondenza fra le singole tradizioni locali e gli elementi del grande induismo universale: e ciò anche forzando identificazioni originariamente non presenti nella coscienza religiosa degli intervistati.
si veda anche India