A poco più di vent’anni dal varo di riforme neo-liberiste sotto la direzione dell’allora ministro delle Finanze (oggi primo ministro) Manmohan Singh, l’India attraversa una fase di rifondazione percepibile nell’aspetto delle sue città come nello sviluppo delle sue campagne, nel rapporto fra cittadini e stato come nel grado di integrazione con la vita economica e politica internazionale, nel profilo demografico della sua popolazione come nelle tendenze culturali. Questi mutamenti, molti dei quali non ancora giunti a maturazione, si sono verificati all’interno di un quadro politico-istituzionale caratterizzato da una fondamentale stabilità, il che ha comportato situazioni sia positive che negative. Negli ultimissimi tempi, d’altronde, si percepisce con evidenza l’impatto che la liberalizzazione economica comincia ad avere anche sulla vita politica del paese e, di conseguenza, sulle prospettive di sviluppo e affermazione internazionale che si apriranno nei prossimi anni.
Nella vita politica dell’ultimo ventennio si osservano numerosi elementi di continuità, tali da presentarsi come caratterizzanti del sistema politico indiano. Questi si possono così riassumere: la contrapposizione radicale fra due partiti panindiani, l’Indian National Congress e il Bharatiya Janata Party (Bjp); l’incapacità di entrambi di formare, da soli, maggioranze stabili nel Parlamento centrale, e la necessità di dar vita ad alleanze elettorali con partiti regionali, da costruire e articolare di volta in volta (l’Upa, ovvero la United Progressive Alliance, vincitrice alle ultime elezioni, era formata dal Congress, dal Dravida Munnetra Kazhagam, dal Jharkhand Mukti Morcha, dalla Jammu & Kashmir National Conference, dalla Indian Union Muslim League e da altri partiti minori); la conseguente importanza, anche a livello centrale, del sostegno dei partiti minori ai governi di coalizione; la debolezza dei governi e il cosiddetto anti-incumbency factor, ossia la tendenza dell’elettorato a punire un governo uscente inefficiente, e in particolare il principale partito della coalizione.
Se la politica indiana di oggi non appare troppo diversa, nei suoi elementi strutturali, da quella di due decenni fa, nel 2012 si sono però evidenziate alcune linee di cambiamento i cui sviluppi potrebbero portare a un nuovo equilibrio nel giro di pochi anni (le prossime elezioni generali sono previste nel 2014, sempre che la legislatura arrivi a completare il quinquennio). Si tratta, in sostanza, dell’ulteriore indebolimento di entrambi i partiti panindiani. Il Congress certamente sconta un anti-incumbency factor di ben due mandati consecutivi (ricevuti nel 2004 e nel 2009) e, a fronte di una serie di scandali venuti alla luce di recente (il più grave, denominato Coalgate, riguarda l’attribuzione di concessioni minerarie a società private a prezzi considerati di favore), ha dimostrato scarso dinamismo nella gestione di un’economia che, anziché continuare il percorso di crescita degli anni passati, ha segnato un preoccupante rallentamento. Il Bharatiya Janata Party, dal canto suo, ha incarnato un’opposizione sterilmente ostruzionista, bloccando di fatto la vita parlamentare per mesi interi, mentre il paese aveva bisogno di urgenti riforme. Inoltre, sotto il profilo ideologico e programmatico, il partito sembra aver diluito la propria identità: da un lato ha allentato i suoi legami con il neo-induismo radicale, e dall’altro ha smentito la linea neo-liberista che aveva adottato negli anni di governo (1998-2004) opponendosi a tutte le misure di politica economica dell’Upa, anche quelle in linea con il proprio programma.
Entrambe le formazioni, poi, sono oggi alla ricerca di un nuovo leader capace di rilanciarne le sorti. Rahul Gandhi, figlio ed erede politico di Rajiv e Sonia Gandhi, appare a molti osservatori ancora politicamente immaturo per ambire alla guida del paese. La campagna elettorale da lui condotta tra febbraio e marzo 2012 nel popoloso stato dell’Uttar Pradesh ha avuto un esito disastroso: il Congress ha raccolto soltanto 28 dei 403 seggi della locale assemblea legislativa. Nel rimpasto di governo deciso a ottobre, Manmohan Singh (ottantenne, prossimo al ritiro dalla vita politica) gli aveva offerto un incarico ministeriale, ma Rahul ha rifiutato, forse in attesa di tempi migliori. Nel Bjp, intanto, con Atal Bihari Vajpayee in pensione e Lal Krishna Advani ormai ottantacinquenne, l’unica personalità con un ampio sostegno popolare è il capo del governo del Gujarat, Narendra Modi, ma la sua è una figura controversa. Le sue responsabilità nel pogrom antimusulmano del 2002 gli hanno infatti alienato le simpatie persino di una parte della leadership del partito.
Se uno di questi due giganti malati dovesse perdere ulteriormente terreno nei prossimi mesi, potrebbero ripresentarsi le condizioni favorevoli al predominio (magari per un breve periodo) di un solo grande partito panindiano; mentre un indebolimento di entrambi aprirebbe le porte a nuovi soggetti e movimenti politici.
Quest’ultima ipotesi, apparentemente del tutto astratta, acquista contorni più concreti quando si consideri quanto le condizioni socio-economiche determinate da oltre venti anni di politica economica neo-liberista stiano mutando la natura del rapporto tra società civile e sfera politica. La leadership politica indiana, nel suo complesso, soffre di senilità (l’età media del governo, ad esempio, è di circa 64 anni; quella della popolazione indiana di 25), e un ricambio si fa sempre più urgente mentre da più parti si lamenta la crescente distanza fra governanti e governati: i primi arroccati sui propri privilegi, i secondi portatori di istanze di rinnovamento.
Il 2012 è stato, in questo senso, un anno fondamentale. Apertosi con il movimento anticorruzione di Anna Hazare, si è chiuso con le vibranti manifestazioni di protesta contro le violenze subite dalle donne.
Il fenomeno della corruzione dell’élite al potere è un dato costante della politica indiana, da molti decenni a questa parte. Il suo perdurare non sorprende, dato il forte carattere personale della cultura politica indiana pre-moderna, che in buona misura è sopravvissuto alle filosofie politiche di derivazione occidentale e ad esse si è anzi unito in vitale simbiosi. Pur costituendo l’argomento preferito nella propaganda politica delle opposizioni, specie nell’imminenza di tornate elettorali, le possibilità che la classe dirigente, presa nel suo complesso, voglia e riesca a risolvere il problema in breve tempo appaiono assai scarse.
Eppure, proprio attraverso le recenti manifestazioni di denuncia della corruzione si può scorgere un chiaro segno di cambiamento nel rapporto fra cittadini e stato. Questa volta non sono i leader politici a mobilitare gruppi di sostenitori, nelle campagne come nelle città: è la stessa società civile che prende la parola contro un mondo politico visto come lontano, ostile e dedito ai propri interessi materiali. La protesta ‘antipolitica’ ha un carattere tipicamente urbano e si diffonde per lo più tra le classi medie delle grandi città (circa 180 milioni di persone vivono nei 100 centri urbani maggiori) mediante i nuovi strumenti tecnologici resi disponibili dalla liberalizzazione economica, ossia i media elettronici (in India operano 360 tv satellitari) e i social network (oltre 120 milioni di indiani, quasi tutti residenti in centri urbani, sono connessi a internet; 900 milioni sono gli abbonamenti di telefonia mobile, di cui solo un terzo servono i circa 740 milioni di abitanti delle zone rurali).
Nella seconda parte del 2011, i raduni, i cortei e i digiuni di ‘Anna’ Kisan Baburao Hazare (un sociologo già impegnato nell’assistenza ai villaggi) contro la corruzione hanno per mesi catturato, mediante lunghe dirette televisive e dettagliati reportage, l’attenzione del pubblico che da diverse regioni dell’India è accorso a dare il proprio sostegno al movimento. Nel suo confronto con l’establishment, Hazare ha operato continui richiami all’immagine e al messaggio del Mahātmā Gandhi, simbolo di una visione alternativa della politica e dello stato. I manifestanti da lui guidati hanno scandito gli antichi slogan del movimento indipendentista, Vande Mātaram (Salute, o Madre) e Inqilāb zindābād (Lunga vita alla rivoluzione), quasi a proclamare la volontà di rifondare lo stato indiano e liberare il popolo da una nuova genia di oppressori. Come primo obiettivo Hazare ha proposto l’approvazione immediata di un disegno di legge, pendente in parlamento dal 1968, volto alla creazione di un Lokpāl, una sorta di autorità indipendente con il compito di controllare i bilanci e i movimenti di denaro di tutti i soggetti politici e istituzionali indiani.
Nel corso del 2012, però, Hazare ha gradualmente perso gran parte della popolarità acquisita. Tra lui e i suoi collaboratori più in vista sono infatti sorte divergenze, di metodo e di contenuti. In particolare, ad ottobre Arvind Kejriwal (già attivista nel movimento civile anticorruzione sfociato nell’approvazione della legge sul diritto all’informazione) ha fondato un proprio partito, chiamato Aam Aadmi (‘Gente comune’), scegliendo di proseguire la battaglia sul terreno politico. A novembre, dopo il sostanziale fallimento di un altro digiuno, Hazare stesso ha annunciato l’intenzione di combattere per il Lokpāl entrando in politica con una nuova formazione. Le contraddizioni in cui Hazare sembra essere incorso, le sue simpatie per la destra neo-indù e il linguaggio non sempre accettabile di manifesti e altri mezzi di propaganda utilizzati dai suoi seguaci (tra l’altro, Hazare si dice favorevole alla pena di morte per i politici corrotti), hanno ulteriormente contribuito all’offuscamento della sua immagine di difensore ‘gandhiano’ della moralità pubblica. Inoltre, l’istituzione del Lokpāl viene da molti considerata un’inutile duplicazione di enti e soggetti inquirenti già da anni impegnati nella lotta contro la corruzione.
Ma proprio sul finire dell’anno è scoppiata un’altra vibrante protesta popolare, in seguito allo stupro di gruppo subito da una studentessa nella periferia sud di New Delhi. Tornando a casa dopo una serata al cinema, era salita, insieme a un amico, su un autobus dove sedevano quattro passeggeri uomini, oltre all’autista e un inserviente. Le sevizie da questi inflitte alla giovane, particolarmente efferate, hanno portato alla sua morte. Appena la notizia si è diffusa, giungendo virtualmente in ogni angolo dell’India, anche nei centri più remoti, si è levata una protesta spontanea che si è riversata sulle strade e nelle piazze, nonché sui canali televisivi e sui social forum. Nella capitale i cortei sulla via di Jan Path (quella delle grandi parate militari al cospetto dei palazzi del governo centrale) hanno assunto un tono talmente minaccioso che la polizia è intervenuta con i gas lacrimogeni.
Se può, a prima vista, apparire curioso che il governo venga accusato di un crimine dovuto piuttosto a una distorsione mentale e culturale di alcuni individui, va ricordato come diversi esponenti delle istituzioni abbiano tentato di ridimensionare la gravità dell’accaduto, a volte aggiungendo un accenno di biasimo per l’eccessiva disinvoltura delle giovani donne indiane di città. Così facendo hanno dimostrato completa insensibilità nei confronti di un’opinione pubblica sconvolta. A loro hanno fatto eco portavoce del neo-tradizionalismo indù, convinti che simili episodi non siano altro che la naturale conseguenza del rilassamento dei costumi e dell’occidentalizzazione delle donne indiane. Altri politici, invece, hanno additato come soluzione al problema della incompleta emancipazione femminile il varo definitivo delle cosiddette quote rosa in parlamento, eventualmente affiancato da pene più severe per gli stupratori (fino all’impiccagione).
La colpevole inazione di polizia e magistratura di fronte a un fenomeno di vasta portata e capillare diffusione come quello della violenza sulle donne compare certamente fra gli argomenti sollevati da manifestanti e commentatori. La protesta, però, conteneva in sé anche un altro tipo di accusa ai governanti indiani: a causa di una concezione patriarcale, arrogante e retrogada del potere si ritiene che essi impediscano al paese di spiccare il volo definitivo verso l’adeguamento ai modi di vita del mondo ‘avanzato’. I circuiti sociali creati dalla liberalizzazione, alimentati da nuove e ingenti risorse e informazioni, sono perciò pervasi da un crescente sentimento di alienazione nei confronti delle pesanti logiche della politica e di tutto quanto minaccia di ancorare l’India a un passato che non passa.
Ed è qui che si innesta una nuova disparità fra gli ambienti urbani, in vertiginosa trasformazione e proiettati verso una dimensione ‘globale’ che, facilmente accessibile sul web e sui media, nella realtà sociale resta tuttavia irraggiungibile; e quelli rurali, dove persino le ‘vecchie’ politiche di welfare stentano ad arrivare e una semplice lampadina accesa può rappresentare un traguardo.
Nelle città la politica si trova dunque a fare i conti con una nuova realtà sociale, economica e culturale e con un nuovo atteggiamento dell’uomo comune verso la politica, in cui l’adesione alle ideologie viene sostituita dal culto del leader-manager alla guida di una squadra compatta ed efficiente, e dall’aspettativa che i governi riescano a gestire gli interessi della società con la professionalità e la concretezza di tecnici esperti.
Tutto questo ha iniziato a creare una domanda di nuove leadership che ancora sembra rimanere insoddisfatta, ma che a medio e lungo termine potrebbe determinare un cambiamento radicale della natura stessa dell’impegno politico.
Come detto, la situazione è assai diversa nelle campagne, dove vivono ancora i due terzi delle famiglie indiane. Qui la politica si innesta sulle relazioni sociali, le identità comunitarie e l’influenza personale. La rilevanza politica delle caste, che tende a scomparire nelle città, è ancora grande nelle campagne, e lo stesso profilo demografico della popolazione indiana fa sì che, nel complesso, le elezioni si decidano nelle popolose regioni rurali. Qui le condizioni economiche arretrate forniscono un’arma ai politici, che promettono di fornire sussidi e sostegno economico ai settori più svantaggiati, solitamente identificati in base alla comunità. Lo stato è perciò visto come un ambito di gestione delle risorse a cui occorre partecipare di persona, mediante rappresentanti della propria comunità in grado di attingere ai fondi e alle opportunità messe a disposizione dai programmi di sviluppo e dai budget a livello sia centrale che locale. Cosa non meno importante, la conquista degli spazi e dei ruoli istituzionali diventa fattore di prestigio e influenza, fonte di riscatto per i settori a lungo rimasti emarginati dai centri del potere, e può diventare un fine a se stessa.
È naturalmente sempre possibile che un governo locale ecceda nel distribuire favori a una particolare comunità a scapito di altre, cosicché a fine mandato parti anche consistenti dei propri sostenitori iniziali decidono di votare per l’opposizione. È quanto è avvenuto nel 2012 in occasione delle elezioni all’assemblea legislativa dell’Uttar Pradesh. Un blocco ben definito di elettori ha spostato la propria preferenza dal Banujan Samaj Party di Mayawati, portavoce degli interessi delle caste inferiori, al Samajwadi Party di Mulayam Singh Yadav, di profilo sociale simile. Il primo partito è così sceso dai 206 seggi conquistati nel 2007 a 80 (su un totale di 403), mentre il secondo ha ottenuto la maggioranza assoluta, salendo da 97 a 224 seggi.
Questa logica, ovviamente, è maggiormente attiva a livello di stati confederati, dove i governi mantengono un rapporto personale con l’elettorato. A livello centrale, invece, l’appello delle leadership tende a essere assai più inclusivo, e fattore determinante per l’esito elettorale risulta la capacità di attrarre il maggior numero di componenti sociali.
Un corollario di questo complesso sistema è che non sempre un partito al potere in uno stato confederato ottiene il maggior numero di deputati di quello stesso stato nel parlamento centrale. Inoltre, mentre a livello centrale l’azione di governo richiede sempre più le competenze tecniche e il dinamismo manageriale necessari a una nazione che aspira a collocarsi fra le grandi potenze mondiali, nel complesso la vita politica indiana, la sua dialettica interna, il suo linguaggio riflettono quelle realtà locali dove la modernità ipertecnologica non ha ancora mutato i tratti fondamentali del vivere.
Il divario politico e culturale fra campagne e città, che come si è detto è anche un divario digitale, ha naturalmente un rilevante versante economico. L’agricoltura, che negli anni Cinquanta rappresentava circa metà della ricchezza nazionale, si attesta ora a meno del 20% del pil. Quasi il 60% deriva ormai dal terziario, mentre le grandi città, che raccolgono il 16% della popolazione, da sole contribuiscono al pil per il 43%. Dato che, come detto, i due terzi della popolazione abitano attualmente nei villaggi, si può prevedere negli anni a venire un notevole afflusso demografico verso le città, e c’è persino chi prospetta la nascita di enormi conurbamenti da 60-70 milioni di abitanti in zone strategiche (come la regione della capitale New Delhi, o la costa occidentale intorno a Mumbai), per i quali si porrà con urgenza la necessità di adeguate infrastrutture, soprattutto in relazione all’acqua potabile, all’energia elettrica, al trasporto pubblico e ai servizi igienici (oltre metà delle case indiane non dispone di latrine interne). Si acuirà inoltre l’attuale carenza di personale tecnico competente nella gestione delle aree urbane. Uno studio ha infatti evidenziato come le città indiane richiedano oggi 4 milioni di ingegneri civili e 366.000 architetti, mentre quelli realmente disponibili sono, rispettivamente, 500.000 e 45.000 circa. Nel giro di 10 anni si prevede dunque un deficit di diverse decine di milioni di professionisti del settore.
Nell’affrontare questi problemi il governo Singh ha adottato la duplice strategia di aumentare gli investimenti nella formazione superiore, specialmente nei settori tecnologici, e di portare risorse e opportunità alla popolazione rurale, scoraggiando così il trasferimento nelle città. Si tratta di misure che possono dare risultati apprezzabili solo se mantenute per lunghi periodi. Più in generale, la classe politica indiana dovrà individuare politiche capaci di ridurre progressivamente il divario che oggi separa campagne e città, e che minaccia di dividere in due la coscienza stessa del paese.
L’economia indiana, che nei primi anni del 21° secolo sembrava avviata su un percorso di crescita impressionante, ha sensibilmente rallentato negli ultimi tempi, tanto da far parlare alcuni analisti del possibile ritorno ai ‘tassi di crescita indù’, ossia a quel 3,5% che aveva caratterizzato la media degli anni precedenti la liberalizzazione. Per un paese delle dimensioni dell’India, questo equivarrebbe alla stagnazione. Se nel 2004-05 il pil cresceva di 9-10 punti percentuali, nel 2012 si prospetta una cifra inferiore al 6%.
Il governo Singh, limitato nelle scelte di politica economica dalle pressioni di alleati politicamente importanti come il Trinamool Congress, guidato da Mamata Banerjee, capo del governo del Paschim Banga, nonché dalle esigenze dell’imminente fase pre-elettorale, ha a lungo rimandato l’attuazione di riforme economico-finanziarie reclamate a gran voce da operatori e analisti nazionali e internazionali. Soltanto a fine anno, dinanzi allo spettro di una crescita al 5%, è stato varato un pacchetto di misure, molte delle quali assai impopolari (come la drastica riduzione dei sussidi al combustibile domestico), volte a ridurre la spesa pubblica e favorire gli investimenti esteri (in particolare, in riguardo all’apertura di catene di distribuzione al dettaglio). Come ci si aspettava, Mamata Banerjee ha ritirato l’appoggio al governo, e Manmohan Singh si è rivolto al Samajwadi Party per ottenere un sostegno esterno che consenta di proseguire l’opera. È però evidente che l’edificio del governo ha perso una delle sue pietre angolari.
Il rallentamento dell’economia indiana è dovuto a una serie di fattori che, interagendo fra loro, hanno determinato una spirale negativa da cui diventa sempre più arduo uscire. Un primo, fondamentale problema è il dilagare della corruzione, giunta a livelli senza precedenti in virtù dell’enorme flusso di risorse messe in circolo dalla liberalizzazione economica. Quest’ultima ha comportato, fra le misure più rivoluzionarie, la fine del sistema delle licenze mediante il quale lo stato, soggetto dominante in tutti i settori di un’economia pianificata, controllava di fatto anche la libera impresa. Assicurata piena libertà di investimento ai capitali privati, si è verificato un grande balzo iniziale, ma questo non è avvenuto senza che politica e burocrazia abbiano tentato, riuscendoci perfettamente, di intercettare parte delle ricchezze circolanti. L’effetto è stato un minore beneficio in termini di sviluppo e di incentivi, soprattutto agli investitori stranieri.
Un ulteriore deterrente per questi ultimi è rappresentato dal crescente debito pubblico, che viaggia ormai al di sopra del 60% del pil, accompagnato da un deficit di bilancio prossimo al 10%. Il problema fondamentale sta nel fatto che la grande maggioranza delle spese dello stato, anche al di là degli interessi sul debito, sono improduttive: sussidi alla distribuzione di generi alimentari presso le fasce più povere, programmi di sostegno alla società rurale (come quello che assicura agli abitanti dei villaggi disoccupati cento giorni l’anno di lavoro retribuito), aiuti finanziari a industrie e compagnie di stato in crisi, come l’Air India.
Una spinta agli investimenti sarebbe potuta derivare da un taglio del tasso di sconto da parte della Banca centrale indiana, ma il governo Singh ha visto deluse le sue speranze. Il governatore D. Subbarao ha infatti posto come prioritaria la lotta all’inflazione, che per tutto il 2011 era rimasta ben al di sopra del 9%; nel corso del secondo semestre, il tasso di sconto era stato perciò innalzato dal 6,5 all’8,5%. I risultati di questa politica draconiana si sono avuti già a partire dai primi mesi del 2012, ma per tutto l’anno l’inflazione si è attestata intorno al 7,5%. Soltanto a marzo si è registrato un taglio del tasso di interesse di mezzo punto (8%). Le condizioni sono dunque rimaste proibitive per gli investitori.
Tutto questo avveniva mentre nel paese, sui giornali, nelle manifestazioni pubbliche, nelle denunce delle Ong, la lotta alla corruzione era diventata un argomento centrale di critica al governo, grazie anche a una recente legge sulla trasparenza e il diritto dei cittadini a ottenere dettagliate informazioni sull’operato della pubblica amministrazione. Anche le agenzie preposte alla revisione dei conti degli enti di stato hanno contribuito a sollevare il velo su numerosi episodi di malversazione, appropriazione indebita e abuso d’ufficio. Negli uffici responsabili delle procedure di appalto e concessione dello stato a privati si è diffuso così il terrore: i funzionari rifiutano di rendere operativi piani di investimento già approvati, anche se ‘puliti’, per timore di possibili campagne stampa e denunce penali.
Lo stallo ha naturalmente soffocato gli investimenti e, con essi, una buona fetta di crescita del pil. Mentre le riforme già attuate sembrano aver esaurito il loro effetto propulsivo, si discute dell’opportunità non solo di operare nuove privatizzazioni in settori strategici, come le comunicazioni e l’energia, ma anche di rimuovere limiti e divieti che diminuiscono il potere di attrazione di capitali esteri, come la possibilità di acquisire terreni per fini industriali.
Si tratta di riforme che potrebbero rilanciare la crescita, ma che richiedono una determinazione e una stabilità politica maggiori di quelle attuali. A medio termine, il compito per la classe dirigente indiana appare particolarmente arduo. Si avverte infatti la necessità di alterare la struttura di fondo dell’economia indiana, oggi sbilanciata sui servizi e priva di un’industria vitale, trainata dalla ricerca di base e dall’innovazione tecnologica (l’India è fuori dalle classifiche dei principali produttori di brevetti internazionali). In tal senso, persino la diaspora potrebbe rivelarsi una risorsa da sfruttare in modo più efficace a vantaggio dell’economia indiana nel suo complesso.
Fra le opportunità di sviluppo che l’India ha fino ad oggi colto solo in parte vi è quella degli scambi commerciali con i paesi confinanti. Qui l’operato dei governi, negli anni passati, ha dovuto scontare una situazione geo-politica complessa, dove l’incrociarsi degli interessi di superpotenze come Stati Uniti e Cina ha fatto da contesto a rapporti bilaterali spesso difficili.
La forza economica acquisita negli ultimi dieci anni ha naturalmente assegnato all’India quel ruolo di potenza regionale che in precedenza la diplomazia e la politica estera avevano stentato a conquistare. Il 2012, inoltre, ha visto alcuni sviluppi positivi nella regione, tali da indurre l’India ad abbandonare la tradizionale cautela nei confronti dei vicini e operare con maggiore dinamismo. Il deteriorarsi delle relazioni fra Pakistan e Stati Uniti ha infatti reso più appetibile, per Islamabad, rinnovare il dialogo con New Delhi. L’apertura, nei primi mesi del 2012, di nuove postazioni di frontiera per il passaggio delle merci e la parziale rimozione dei vincoli alle esportazioni hanno segnato un primo passo verso un’intesa che potrebbe portare grandi benefici a entrambi i paesi. E, come nel caso della Cina, un costante flusso di scambi commerciali potrebbe di fatto congelare e neutralizzare i pluridecennali contenziosi legati ai territori di frontiera (ossia, nel caso del Pakistan, il Kashmir).
Per l’India, un rapporto privilegiato con il Pakistan potrebbe inoltre rivelarsi un’utile carta da giocare nei confronti dell’amministrazione Obama, che a più riprese ha mostrato interesse ad avviare una collaborazione economica e politica con l’India, anche allo scopo di limitare l’espansione dell’influenza cinese nell’Asia sud-orientale. In questo contesto va inquadrata la visita di Manmohan Singh in Myanmar, nel maggio 2012, e l’offerta di aiuti, sotto forma di prestito agevolato, per 500 milioni di dollari. La giunta militare che aveva governato il paese fino al 2011 aveva intrattenuto cordiali rapporti con la Cina, interessata a collaborare con uno stato confinante con la regione interna dello Yünnan, a maggioranza musulmana, in vista di un possibile sbocco sull’Oceano Indiano (quest’ultimo costituisce la nuova area di confronto strategico fra India e Cina). Con il ritorno della democrazia, e visto il legame personale di Aung San Suu Kyi con l’India, quest’ultima ha l’opportunità di avviare una nuova fase nei rapporti bilaterali, con evidenti ricadute positive sia geopolitiche che economico-commerciali.
Un caso a parte, nella politica estera indiana, è rappresentato dallo Sri Lanka, legato alla Cina da rapporti amichevoli di collaborazione, e reduce da una sanguinosa guerra civile culminata, nel 2009, nella definitiva sconfitta dei ribelli tamil dell’Ltte e nell’uccisione del loro capo Velupillai Prabhakaran. La componente cingalese del paese, di cui è espressione l’attuale capo del governo Mahinda Rajapaksa, non ha compiuto gli attesi passi verso una pacificazione nazionale. Dato lo stretto legame etnico fra la regione nord-orientale dell’isola e lo stato indiano del Tamil Nadu, il governo indiano ha spesso preso le difese dei tamil dello Sri Lanka, pur tentando di conservare le relazioni su un piano di amicizia. Nella seduta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, tenutasi nel marzo 2012, Manmohan Singh era inizialmente incline a non appoggiare la richiesta americana di un’indagine sui crimini subiti dai tamil ad opera dei cingalesi all’indomani della fine della guerra civile, ritenendo utile salvaguardare anzitutto i rapporti di buon vicinato con lo Sri Lanka. Ma le pressioni ricevute, poco prima del voto, da parte di esponenti provenienti dal Tamil Nadu, stato guidato da un personaggio forte e possibile alleato elettorale come Jayaram Jayalalithaa, lo hanno poi indotto a votare a favore della mozione (anche se in una nuova formulazione più moderata). Gli altri paesi presenti hanno seguito la scelta dell’India, e la mozione è stata approvata. Se non altro, l’episodio ha mostrato come l’India sia ormai considerata come lo stato di riferimento per le questioni inerenti l’Asia meridionale.
Anche nei confronti del Bangladesh l’India continua ad adottare una politica di estrema cautela. Il Bangladesh occupa una posizione di rilievo nello scacchiere geopolitico della regione, visto l’interesse cinese per Chittagong, base portuale sul Golfo del Bengala. Con l’India, principale partner commerciale, ha diversi contenziosi aperti, relativi allo sfruttamento di bacini fluviali, al controllo dei flussi di migranti illegali, e all’appoggio fornito in anni passati a basi di addestramento terroristiche islamiste. Proprio in considerazione dei risultati ottenuti dall’attuale governo di Sheikh Hasina nello smantellamento delle cellule terroristiche in territorio bangladeshi, New Delhi ha conservato un atteggiamento di non ingerenza nei confronti della politica interna del piccolo ma popoloso paese, nel quale è in corso una virulenta campagna contro ogni forma di opposizione al governo (ne è rimasto coinvolto anche Muhammad Yunus: la sua celebre Grameen Bank, la cui creazione gli valse il premio Nobel per la pace nel 2006, rischia ora la chiusura forzata). Vista l’imprevedibilità della vita politica del Bangladesh, e i rischi legati a un possibile periodo di instabilità interna, resta sempre possibile un mutamento di politica da parte dell’India. Data la posizione egemone che l’India ricopre nella regione, molti osservatori internazionali ritengono auspicabile un coinvolgimento politico diretto di New Delhi.
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M. Torri, N. Mocci (2012) (a cura di) L’Asia nel triangolo delle crisi giapponese, araba ed europea, Bologna.
Nato nel 1950 in una famiglia di bassa casta di Vadnagar, un paesino dell’entroterra gujarati, Narendra Modi è membro fin dagli anni giovanili del Rastriya Swayamsevak Sangh, un’organizzazione per la propaganda del patriottismo neo-indù. Divenuto personaggio di spicco del Bharatiya Janata Party nel 1998, dal 2001 è capo del governo del Gujarat, essendo uscito vincitore in quattro tornate elettorali consecutive. Modi si è assicurato un forte sostegno personale in Gujarat grazie ai successi ottenuti nel rilancio dell’economia locale (il pil supera i 100 miliardi di dollari, pari a oltre 1700 dollari pro capite; nell’ultimo decennio la crescita si è attestata al 10%) e a un decisionismo manageriale tendenzialmente autocratico. Ha, fra l’altro, ripulito e riorganizzato l’intera città di Surat, facendone una sorta di modello urbano grazie anche alla fattiva collaborazione dell’industria privata locale: con un costante aumento annuale della popolazione del 5%, Surat è diventata una delle città in più rapida crescita al mondo. A questi risultati positivi corrisponde però un fondamentale disinteresse per le sorti delle fasce più povere e delle minoranze religiose, come pure per le tematiche ambientali. Nel 2002 Modi è stato accusato di non aver impedito l’eccidio di oltre 1000 musulmani in diverse città del Gujarat, seguito a un incendio appiccato a un treno carico di pellegrini indù. Da molti considerato un fanatico indù nazionalista, Narendra Modi è persona non grata in molti paesi. Dopo la vittoria elettorale di dicembre 2012, si è detto pronto a candidarsi alla carica di primo ministro dell’India.
Nella storia recente dell’Asia meridionale non mancano esempi di donne appartenenti a famiglie impegnate in politica, arrivate alla guida dei governi delle rispettive nazioni: Benazir Bhutto in Pakistan, Khaleda Zia e Sheikh Hasina in Bangladesh, Sirimavo Bandaranaike e Chandrika Kumaratunga nello Sri Lanka, Indira Gandhi in India. Si tratta naturalmente di illustri eccezioni che non riflettono la realtà delle classi medie e inferiori, soprattutto nell’India rurale. Qui, nonostante l’adozione del suffragio femminile già all’indomani dell’indipendenza, la partecipazione femminile alla politica attiva è stata pressocché nulla fino al varo di leggi che hanno riservato alle donne dapprima il 33% (2009) e poi il 50% (2011) dei seggi ordinari e degli incarichi di presidenza dei comitati di autogoverno nelle zone rurali (detti Pañcha¯yat). Nelle assemblee legislative confederate e nel parlamento centrale, invece, la presenza delle donne è tuttora modesta, e si attesta intorno al 10%. Disegni di legge per introdurre una ‘quota rosa’ (un terzo dei seggi) in tutti i parlamenti indiani sono stati presentati da vari governi fin dal 1996, ma solo nel marzo 2010 la Ra¯jya Sabha¯, la camera alta a New Delhi, ha per la prima volta approvato un apposito disegno di legge, che da allora attende una discussione nella Lok Sabha¯, la camera bassa. Fra gli oppositori vi sono partiti come il Samajwadi Party, i quali ritengono che i seggi riservati alle donne finirebbero per penalizzare le caste inferiori. A tal proposito, esponenti del Bharatiya Janata Party come Uma Bharati hanno proposto una ulteriore suddivisione in quote, su base castale, delle quote rosa.
Il welfare in India ha costi altissimi, e spesso risultati deludenti. Fin dagli anni Sessanta lo stato utilizza il cosiddetto sistema pubblico di distribuzione, che fornisce beni di prima necessità alle fasce disagiate. Il sistema prevede, in sostanza, che il governo acquisti granaglie, carburante e altre merci a prezzi di mercato, e li rivenda a prezzi notevolmente inferiori ai titolari di speciali tessere, nei villaggi di residenza, al termine di una lunga catena di trasportatori, intermediari, politici e burocrati. Oltre all’onerosità strutturale, si calcola che soltanto nelle operazioni di trasporto quasi la metà delle derrate alimentari vada perduta; innumerevoli sono i casi di assegnazione di tessere a nominativi fittizi o a personaggi amici in cambio di favori (mentre molti dei nominativi che figurano negli elenchi ufficiali, basati su indicatori socio-economici, non hanno mai ricevuto la tessera), e la corruzione prospera a tutti i livelli del sistema.
Per tentare di azzerare gli sprechi e ridurre i costi, il governo Singh ha varato un nuovo strumento di welfare che prevede il trasferimento non di beni in natura ma di denaro, versato direttamente su conti correnti intestati ai beneficiari. Il progetto si collega alla realizzazione attualmente in corso, nell’ambito di programmi denominati ‘Registro della popolazione nazionale e identità unica’, di una sorta di censimento biometrico di tutti i cittadini (l’India non dispone di un’anagrafe civile). In tal modo si spera di impedire truffe e furti di identità e colpire alla radice la piaga della corruzione, in questa come in altre iniziative di assistenza alle fasce disagiate. A maggio 2012 l’archivio biometrico contava 170 milioni di identità; si punta a coprire almeno metà della popolazione entro il 2014.
Grande laboratorio della politica, l’India ha eletto domenica 22 luglio 2012 il suo tredicesimo presidente, il settantaseienne bengalese Pranab Mukherjee. Figlio di un combattente per l’Indipendenza dal dominio britannico, Mukherjee, che si è insediato il 25 luglio, iniziò la propria carriera politica nel Congress Party alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Stimato da Indira Gandhi, ne divenne già nel 1973 ministro delle finanze occupando nel decennio che seguì, e fino all’assassinio della figlia di Nehru nel 1984, ruoli di prima evidenza. Durante il governo di Rajiv Gandhi, Mukherjee, che covava ambizioni di leadership, si ritrovò messo ai margini e finì col fondare un proprio partito, che ebbe vita breve (1986-89), il Rashtriya Samajwadi Congress (‘National Socialist Congress’), suo primo e di fatto ultimo fallimento. Dopo la morte violenta di Rajiv Gandhi, il suo astro tornò a brillare in una fase dominata dal governo liberalizzatore di Narasimha Rao e soprattutto del ministro delle Finanze Manmohan Singh (l’attuale premier), che va considerato il vero artefice del boom economico del subcontinente. Mukherjee fu delegato nella Planning Commission, uno degli elementi cardine del sistema indiano, e divenne titolare di dicasteri essenziali come quello degli affari Esteri dal 1995 al 1996. Ma egli divenne soprattutto l’inventore della carriera politica di Sonia Gandhi, che dopo aver rifiutato, alla morte del marito, ogni ruolo politico, finì per riproporsi meno di un decennio più tardi, assumendo la guida del Congress e divenendo, dopo la rinuncia alla guida del governo in seguito alla clamorosa e da molti inaspettata vittoria elettorale del suo partito nel 2004, la regista principale della politica indiana (Sonia dovette rinunciare per le polemiche sulla sua origine italiana animate dalla destra sconfitta). Da quell’anno Mukherjee è stato ininterrottamente ministro: della Difesa (2004-06), degli Esteri (2006-09), delle Finanze (dal 2009 alla nomina presidenziale).
La sua esperienza politica, il suo prestigio e le sue doti di equilibrio sono stati essenziali nel 2011 perché il Congress, in difficoltà per la campagna anticorruzione condotta dall’attivista Anna Hazare, potesse far fronte all’ondata nazionale di protesta in un momento in cui Sonia si trovava peraltro negli Usa per curarsi da una grave malattia. Mukherjee seppe porre da solo un argine alla rabbia antipolitica e al disorientamento del governo e del suo partito, compensando l’incapacità dimostrata nell’occasione da Rahul Gandhi, rampollo della dinastia ‘regnante’ sull’India quasi ininterrottamente dal 1947 e fino ad ora promessa mancata della politica indiana. Su questo soprattutto si è costruita la sua candidatura.
Il presidente della Federazione Indiana non ha un ruolo direttamente esecutivo, ma il suo operato può risultare in taluni momenti essenziale, un po’ come accade in Italia. Soprattutto il presidente, dalla sua magnifica residenza coloniale di Delhi, deve sforzarsi di porsi come punto di riferimento aggregante in una realtà così diversificata e complessa come l’India. L’elezione di Mukherjee, proprio in un clima generale caratterizzato dalla sfiducia verso il sistema dei partiti e i suoi uomini, segna un cambio di passo significativo. Le ultime nomine di presidenti hanno tutte avuto un forte significato simbolico. Nel 1997 e fino al 2002 presidente è stato un ‘intoccabile’, Kocheri R. Narayanan; fino al 2007 uno scienziato musulmano senza esperienza in politica, Abdul Kalam, divenuto amatissimo (ritornato poi all’insegnamento universitario chiuso il proprio mandato), cui è subentrata una donna, Pratibha Patil, personalità politica non di primo piano e creatura di Sonia Gandhi, il cui periodo è stato però giudicato in termini non proprio positivi.
In un momento, come accennato, difficile per la politica indiana, con il rallentare della crescita e con una crisi di fiducia nel sistema non dissimile da quella che vive l’Italia, l’India (ossia la sua maggioranza politica: il presidente viene eletto con un complicato sistema in primo luogo dai membri del parlamento centrale e da quelli delle assemblee degli stati federati), ha scelto per il ruolo più alto il più politico tra i politici di cui dispone. E il consenso straordinario di cui Mukherjee ha potuto godere (tre quarti dei consensi, in ciò anche favorito dalla crisi profonda di leadership nella destra indiana) dimostra una decisa volontà di affidarsi, per evitare guai peggiori, ad un efficace tecnico della politica. Le forze emergenti e, in qualche fase recente, addirittura dirompenti della scena indiana (Anna Hazare e soprattutto il suo ex consigliere Arvind Kejriwal, nuova stella del fronte anticorruzione e fondatore nel novembre 2012 dell’Aam Aadmi Party) hanno – verrebbe da dire immancabilmente – contestato la nomina, associando al nuovo presidente un supposto passato di corruzione.
Nel prossimo futuro Pranab Mukherjee dovrà gestire una situazione complessa, anzitutto caratterizzata dalla lunga campagna elettorale che culminerà nelle consultazioni generali del 2014. Le sue doti di navigatore potrebbero risultare fondamentali per far fronte ad un clima politico che è già oggi rovente.
Dal censimento del 2011 si ricavano dati significativi sul ritmo di urbanizzazione degli ultimi 10 anni. Mentre la popolazione totale è aumentata del 17,64% rispetto al 2001 (più del triplo della Cina: si ritiene che il sorpasso avverrà nel corso di questo decennio), i centri urbani, soprattutto quelli minori equamente distribuiti sul territorio, hanno fatto segnare una crescita del 31,16% (le campagne soltanto poco più del 12%). Delle quasi 8000 città, 468 sono i centri urbani con più di 100.000 abitanti (erano 394 nel 2001), 53 superano il milione (erano 35 nel 2001), e 3 ne contano più di 10 milioni (Mumbai 18,4 milioni, Delhi 16,3, Kolkata 14,1). Nonostante le vaste dimensioni, l’India è un paese ad alta densità di popolazione (382 abitanti per km2), con diversi stati confederati al di sopra dei 100 milioni di residenti (il più popoloso è l’Uttar Pradesh con quasi 200 milioni).
Negli ultimi anni, la diaspora si è affermata come uno dei temi di maggior rilievo nell’agenda politica indiana, fino alla creazione di un apposito ministero (Moia, Ministry of Overseas Indian Affairs) nel 2004. Il fenomeno dell’emigrazione dall’India, nelle sue forme moderne, si è peraltro sviluppato da quasi due secoli, affiancandosi a una costante penetrazione nei paesi del subcontinente e dell’Asia sudorientale. Dopo l’abolizione della schiavitù, un gran numero di lavoratori a contratto (indentured) cominciò a essere reclutato in India per sopperire al bisogno di manodopera nelle piantagioni coloniali, soprattutto britanniche, nei Caraibi, nell’Oceano Indiano, in Asia, Africa e nel Pacifico. Questo flusso migratorio si è affievolito solo nei primi decenni del 20° secolo, per essere sostituito da una nuova ondata nel secondo dopoguerra, quando, sospinto da cause interne e internazionali, un numero consistente di indiani si è trasferito nei centri metropolitani del Nord America e di vari paesi del Commonwealth. Carattere più recente hanno due nuovi fenomeni diasporici. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, un rilevante canale di migrazione si è aperto verso i paesi del Golfo Persico, in seguito al vertiginoso sviluppo della produzione petrolifera e del settore delle costruzioni. Questo flusso migratorio, che prosegue ancor oggi con numeri di rilievo, è costituito prevalentemente da lavoratori non specializzati e da manodopera domestica, e si caratterizza per condizioni spesso disagiate di sussistenza e per la remissione alle famiglie d’origine di gran parte dei risparmi accumulati. L’ultima ondata migratoria dall’India è iniziata negli anni Novanta del secolo scorso e riguarda lavoratori più qualificati e professionisti talora in possesso di elevate competenze tecnologiche. È diretta prevalentemente verso i paesi anglofoni, ma molti altri paesi europei, asiatici e africani ne sono oggi interessati. In numeri assoluti, il maggior numero di cittadini indiani (Nri, Non Resident Indians) o di origine indiana (Pio, Persons of Indian Origin) all’estero si trova, nell’ordine, in Nepal, negli Usa, in Malaysia, in Myanmar e nei paesi del Golfo; ma in percentuale, sono alcuni paesi caraibici e dell’Oceano Indiano e Pacifico a ospitare il maggior numero di Nri e Pio. Costoro rappresentano infatti il 38% della popolazione nelle Isole Fiji, il 40% in Trinidad e Tobago e addirittura il 68% a Mauritius.
Se da un lato si può affermare che l’India, nel suo complesso, manchi tuttora di un definito quadro politico e istituzionale per la regolazione degli interventi in tema di diaspora, dall’altro, tra le varie misure prese, è nondimeno possibile identificare alcuni obiettivi ben definiti. Emergono quattro principali direttrici di intervento: (1) rimesse e investimenti; (2) legami col paese d’origine e identità diasporica; (3) protezione degli interessi e dei diritti degli emigranti; e (4) sostegno alle dinamiche imprenditoriali e al ritorno dei migranti più qualificati. Le politiche miranti a incoraggiare la partecipazione della diaspora indiana all’economia del paese si sono concretizzate, sin dagli anni Settanta del secolo scorso, in una serie di provvedimenti volti a facilitare il deposito e la gestione delle rimesse da parte dei migranti negli istituti di credito indiani, e a semplificare la posizione fiscale dei Nri. Molte di queste misure furono concepite in modo particolare per venire incontro alle esigenze della diaspora indiana nei paesi del Golfo, le cui rimesse rappresentano ancor oggi un fattore economico di notevole rilievo, non solo per le famiglie e le comunità dei migranti, ma anche, più in generale, per la bilancia nazionale dei pagamenti. Le politiche per la creazione di un’identità diasporica indiana e per il rafforzamento dei legami con la terra d’origine hanno avuto origine anch’esse negli anni Settanta del 20° secolo, quando all’Indian Council for Cultural Relations, sulla base delle precedenti direttive nehruviane, venne assegnato l’obiettivo di facilitare l’integrazione dei migranti indiani nei paesi di destinazione attraverso il dialogo culturale. Nel 2003 sono stati istituiti un premio (il Pravasi Bharatiya Samman) e una giornata destinati a celebrare le più insigni personalità indiane all’estero. Ai nostri giorni, alle iniziative governative si associano anche fenomeni di respiro più ampio e popolare, come la produzione di film destinati prevalentemente alla diaspora che esaltano i valori tradizionali e l’identità di villaggio. Nel campo delle misure a difesa dei migranti, vanno segnalate in particolar modo l’istituzione di controlli nei confronti delle agenzie che reclutano migranti (specie verso i paesi del Golfo) e l’attivazione di strutture del Moia per l’assistenza ai migranti in caso di abusi da parte dei datori di lavoro stranieri. Negli ultimi tempi, infine, anche per il mutato contesto economico globale, si sono moltiplicate le iniziative governative miranti a favorire il ritorno dei professionisti e dei lavoratori indiani più qualificati, considerato estremamente benefico in termini di trasferimento di competenze e di creazione di ricchezza e opportunità lavorative. Sebbene si giudichi concordemente che il successo delle politiche di ritorno dipenda largamente dal contesto politico, sociale ed economico dei paesi di destinazione, il governo indiano ha comunque posto in atto una serie di misure volte a facilitare gli investimenti dei Nri e semplificare le formalità amministrative. A ciò si aggiunge l’istituzione di parchi tecnologici e di centri di ricerca specializzati, con l’obiettivo di favorire il rientro del personale più specializzato. Emerge tuttavia che le nuove generazioni di professionisti indiani non considerano l’eventuale ritorno al paese d’origine come una scelta definitiva, ma piuttosto come una fase del loro percorso professionale complessivo.
Accanto alle politiche governative, importanti fenomeni globali condizionano ai nostri giorni la realtà della diaspora indiana. Tra questi vanno menzionati la disponibilità di mezzi di trasporto e di comunicazione efficienti ed economici, che favoriscono i legami col paese d’origine e tra le diverse componenti della diaspora mondiale; l’affermarsi su scala globale di forme di migrazione temporanea e/o circolare, e – di particolare rilievo – l’affermarsi di reti di attività e imprenditoria transnazionali, risultato della mondializzazione dell’economia e della liberalizzazione economica indiana, che rendono possibili nuove forme di organizzazione economica tra paese d’origine e paesi di destinazione – un fenomeno, quest’ultimo, che, affiancandosi alle iniziative delle istituzioni indiane, contribuisce a rafforzare la competitività dell’India nell’economia mondiale e la sua influenza globale.