India
– Il nome I. è oggi comunemente usato per indicare la vasta regione che è limitata a N dalla catena imalaiana e che si protende a S nell'Oceano Indiano, a guisa di penisola triangolare.
Ai tempi di D. la regione, che era praticamente tutta sotto il dominio degli Arabi, era molto poco conosciuta dagli Europei. I prodotti dell'Asia tropicale, e tra questi alcuni provenienti dall'I., erano acquistabili nei porti di Siria (Davidsohn, Storia IV II 753-754) e di Egitto, ma a prezzi tali da sollecitare la ricerca, da parte di naviganti europei, della via marittima alle Indie; ricerca che sarà coronata da successo soltanto sul finire del sec. XV. D., suppone il Revelli (Italia 39), ebbe forse notizia del tentativo operato nel 1291 dai Vivaldi; ma egli aveva, di certo, conoscenze vaghe dell'I., come del resto di tutta l'Asia (v.): quelle proprie della cultura a lui contemporanea e quelle che, eventualmente, poté apprendere dall'osservazione di carte del suo tempo. Egli fu convinto del fatto che la foce del Gange fosse uno dei punti estremi, il più orientale, della terra emersa (e ribadisce il concetto in Pd XXIX 101; v. INDO, " abitante dell'India "): tale, del resto, era considerata, sulla scorta dei classici, dai geografi medievali (v. anche GERUSALEMME).
Nel planisfero del Vesconte compaiono i luoghi India, limitata a oriente dall'Indo, e India major orlata a levante da un fiume (finis Indiae) che il Revelli (Italia 52) crede un fiume dell'Indocina; si sposta così verso oriente il limite della terra emersa. È questo, infatti, sempre secondo il Revelli (p. 50), l'unico luogo per il quale il planisfero del Vesconte non concorda con le principali concezioni geografiche di Dante.
D. mostra di avere altre notizie dell'I.: che è regione tra le più calde della terra, come convenzionalmente si credeva (Pg XXVI 20-21), che vi crescono alberi altissimi (XXXII 41-42), che è terra non evangelizzata (Pd XIX 71; v. INDO, " fiume "). Cita direttamente l'I. in un solo luogo (If XIV 32), ove ricorda una pioggia di fuoco caduta sull'esercito di Alessandro: Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l süo stuolo / fiamme cadere infimo a terra salde... L'episodio deriva da una relazione inviata da Alessandro ad Aristotele: ma giunge a D. probabilmente per il tramite di Alberto Magno (Meteor. I IV 8; v. ALESSANDRO MAGNO).
Fortuna di D. in India. - Con l'insediarsi, verso la metà dell'Ottocento, della lingua inglese come lingua ufficiale dell'impero britannico, e con la fondazione delle prime tre università di tipo inglese nelle tre più grandi città indiane - Bombay, Calcutta e Madras - la conoscenza della storia e della letteratura inglese si diffuse assai presto tra la classe colta e istruita. La padronanza della lingua inglese e l'approfondimento dei suoi classici e delle varie correnti e influenze letterarie e culturali misero gli studiosi indiani anche in contatto con i massimi rappresentanti delle letterature europee - antiche e moderne, e soprattutto moderne - e con D. prima di tutti. Un tale contatto naturalmente non poteva che essere assai superficiale in genere, basato in qualche modo sulle traduzioni disponibili. Tuttavia non mancò chi si diede allo studio dell'italiano con lo scopo principale di poter studiare D. nella lingua originale. Gli esempi più illustri sono Michael Madhûsudan Datta, Hemachandra Vandyopòdhyàya, Rabindranath Tagore e, verso il finire del secolo scorso, i poeti Sarogini Naidu e Toru Dutt.
Per quanto superficiale o elementare, nessuna interpretazione o valutazione della poesia di uno Spenser, di un Milton, di uno Shelley o di un Byron e in effetti di tutta la poesia e il teatro elisabettiano e di tutta la letteratura romantica - la quale appassionò immediatamente gl'Indiani - poteva fare a meno di notare la vitalità e l'organicità del legame che corre fra essa e la letteratura italiana: D., Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso e Machiavelli. E poi, per mera coincidenza, l'uomo che in veste di esperto consigliò alla East India Company, nel suo famoso documento sull'istruzione in I. nel 1834, non solo l'uso della lingua inglese come mezzo di espressione negli uffici, nei tribunali e nelle scuole, ma anche l'insegnamento della scienza, della filosofia, della medicina, e dell'economia politica europee, e cioè Lord Macaulay, era un appassionato ammiratore della poesia di D., e quindi è molto improbabile che non solo il suo saggio sul poeta (in Criticism on the principal Italian writers, 1824) ma anche il suo celebre confronto fra D. e Milton (pubbl. nell'agosto 1825 nella " Edimburg Review "), fossero sfuggiti agli studiosi indiani di letteratura inglese, e che questo stesso saggio non costituisse una delle prime letture critiche, se non proprio la prima lettura, su D. per un principiante di letteratura italiana, e non solo per un principiante. L'importanza e l'autorità di Macaulay, quindi, come rappresentante del governo inglese presso la East India Company nel campo dell'istruzione pubblica, più che la sua figura di storico e di critico, avrebbero certo persuaso gl'Indiani a considerarlo un'autorità anche nel campo della critica dantesca.
È certo significativo che il primo poeta e studioso indiano, Michael Madhûsudan Datta (1824-1873) - che si diede allo studio della letteratura italiana in lingua originale, come pure a quello delle altre letterature europee (moderne e antiche), e che rinnovò la letteratura della propria lingua, il bengalese, sotto l'influenza di D., creando, per la prima volta, il genere del poema ‛ epico ' - dovesse esprimere la propria ammirazione per la poesia e per il genio di D. in un sonetto petrarchesco intitolato Dante, il poeta dei poeti.
Questo tributo poetico di Madhûsudan Datta non era semplicemente un indice della sua ammirazione per la poesia di D., ma qualcosa legato al suo senso di debito verso il poeta italiano. Nel suo poema epico Meghanad-Badh (1861-62), il primo poema epico in lingua bengalese, si nota l'influenza di poeti indiani e occidentali quali Vyasa, Valmiki e Kalidas da una parte, Omero, Virgilio, D., Tasso e Milton dall'altra. Fra questi poeti D. e Milton sono quelli ai quali si è maggiormente ispirato. L'influenza di D. si verifica soprattutto nella concezione dell'Inferno e nell'attuazione di questa concezione in termini descrittivi, geografici e topografici. Per esempio nell'ottavo canto del poema la descrizione della porta dell'Inferno (" attraverso questa via il peccatore entra nelle regioni di dolori e di pene eterni ") sembra una semplice parafrasi della celebre terzina iniziale di If III. Ma assimilare ciò che si trova in poeti come D. e Milton e ciò che gli conveniva come autore del Meghanad-Bad non voleva dire per Madhûsudan Datta imitare i grandi poeti; ma dimostrare che la lingua bengalese era abbastanza capace di raggiungere gli stessi effetti poetici dell'inglese e dell'italiano. " La lingua bengalese " - egli disse - " è la figlia del sanscrito e come figlia di tale madre niente le è impossibile ".
Il poeta più noto tra Madhûsudan Datta e Tagore è Hemachandra Vanyopadhyaya. Anch'egli, come questi poeti, e per alcuni versi ancora più di loro, ha assorbito lo spirito della letteratura europea, trasformandolo e intessendolo nella propria opera. Le sue due opere più famose sono Britra-sambar, un poema epico, e Chhayamayi, un poema di riflessione filosofica ispirato alla Commedia. " In molti casi " - Hemachandra stesso ha precisato - " io sono stato in debito a Dante non solo per quanto riguarda la maniera ma anche la materia ".
Anche la divisione strutturalistica del poema di Hemachandra segue il piano dell'Inferno, collocando i vari peccatori nelle varie sfere secondo i loro peccati. I peccatori appartengono sia al mondo occidentale sia all'I. (Sirajudowla, Cleopatra, Vidya, Tara) e rappresentano le tre principali religioni: hindu, cristiana, e musulmana. Ma il concetto etico-filosofico-metafisico dell'Inferno di Hemachandra si distingue nettamente da quello di D., in quanto esso non è basato sull'idea della dannazione eterna, ma si accosta a quello dei Purana, secondo il quale il peccato e anche la penitenza hanno il loro termine.
Avendo dietro di sé, nella propria lingua, una tradizione poetica così arricchita di recente da illustri poeti quali Madhûsudan Datta e Hemachandra - arricchita attraverso lo studio dei poeti come Omero, Virgilio, D., Tasso e Milton -, era naturale che anche Rabindranath Tagore (1861-1941) si avviasse sulla stessa strada dell'assimilazione della poesia delle altre lingue, oltre a quella della propria lingua e del sanscrito. " L'originalità della letteratura ", Tagore disse, " giace nella sua capacità di assimilare quello che è di universale in tutte le letterature e le arti e di dare a ciò un'espressione unica caratteristica del proprio genio particolare e della propria tradizione ". E così troviamo due articoli di Tagore - uno su D. e uno su Petrarca - pubblicati nel 1877 sulla rivista " Bharati ". Sarebbe quasi impossibile stabilire fino a che punto la poesia di D. abbia esercitato un'influenza sulla poesia di Tagore. Tuttavia non mancano indizi di una possibile influenza; come, per fare un esempio, nel verso di una delle preghiere di Tagore (" Dammi la forza di arrendere la mia forza alla tua volontà con amore "), che è quasi una trascrizione nella propria lingua poetica del celebre verso dantesco E 'n la sua volontade è nostra pace (Pd III 85). Anche l'amicizia con Ezra Pound, negli anni successivi, sarebbe stata per Tagore un motivo di speciale attrazione per la conoscenza di Dante.
Ma la miglior conoscenza della poesia di D., la più autentica e più autorevole interpretazione dell'arte e del significato della Commedia nei suoi molteplici aspetti e livelli, e la scala più vasta di criteri e di confronti secondo la quale questa poesia venne giudicata e valutata, si realizzarono nella critica e negli scritti di Sri Aurobindo (1872-1950), il massimo poeta, filosofo e mistico dell'I. contemporanea. La base stessa della sua erudizione e della sua formazione culturale e intellettuale - egli si recò in Inghilterra all'età di sette anni e studiò le letterature classiche all'università di Cambridge, non trascurando per conto suo anche un'appassionata lettura dei classici delle letterature europee moderne - fece sì che D. fosse uno dei suoi testi basilari. Nel 1893 tornò in patria, dove approfondì parimenti la conoscenza del sanscrito e della letteratura e della filosofia indiana antica e moderna. E così egli fu in grado - come lo sono stati pochissimi, anzi nessuno - di vedere D. nell'ambito di valori e di criteri di una letteratura mondiale. Assieme a questa cultura letteraria, Aurobindo recò nel suo studio di D. anche una vasta cultura filosofica e mistica, la quale gli servì indubbiamente d'inestimabile sussidio all'interpretazione e alla valutazione critica della filosofia e della mistica della Commedia.
Nel terzo volume delle sue lettere, il cui principale argomento è la poesia e la letteratura, Aurobindo discute la poesia di D. assieme a quella dei massimi poeti del mondo. Una delle numerose attività creative del centro culturale fondato da Aurobindo a Pondichéry, dove egli si ritirò abbandonando la vita politica nel 1910, era quella che nelle università americane viene oggi chiamata ‛ creative writing ', e cioè insegnare ai giovani come si scrive e si compone nel modo e sul piano creativo. Alcuni discepoli di Aurobindo componevano versi sia in inglese sia in bengalese, seguendo modelli quali D., Milton e Goethe.
Criticando uno dei suoi discepoli, perché nella sua composizione si era spinto verso l'eloquenza più di quanto avesse fatto D., " il quale era troppo succinto per essere eloquente ", e aveva anche fatto uso di un'espressione mistica che non è affatto caratteristica di D., Aurobindo osserva che egli tuttavia ha qualcosa dello spirito del linguaggio dantesco, qualcosa " della concentrata forza espressiva di Dante ".
In un'altra lettera Aurobindo cita il verso E 'n la sua volontade è nostra pace come esempio di grande poesia scritta in linguaggio semplice e comune, in quanto questo verso " è uno dei più grandi in tutta la letteratura poetica ". Ma lo spirito e il tono generale della poesia di D. è quello epico; anche se in D. manca l'élan e la velocità epica. Tuttavia, secondo Aurobindo, il poeta ha raggiunto la stessa altezza di Shakespeare malgrado i diversi modi in cui il loro genio si è sviluppato e manifestato. Sulla scala mondiale dei supremi geni poetici Aurobindo mette Omero, Shakespeare e Valmiki in prima fila, D., Kalidasa, Eschilo, Virgilio, e Milton in seconda, Goethe in terza. Ognuno, dice Aurobindo, " è una sorta di demiurgo poetico che ha creato un mondo proprio. Il triplice mondo dell'aldilà che troviamo in Dante sembra costruito più da una mente poetica veggente che da un genere di potere demiurgico elementare - se non fosse per questo, Dante si troverebbe accanto a loro [Omero, Shakespeare, Valmiki]; lo stesso vale per Kalidasa. Quanto a Eschilo, è un veggente e un creatore, ma su una scala molto più piccola ".
Che Aurobindo avesse un'intima conoscenza dello spirito della poesia dantesca - conoscenza operante sulla base criticostilistica del linguaggio di D. - viene dimostrato dalla sua analitica valutazione di una poesia intitolata " Il trionfo di Dante " (The Triumph of Dante), composta da uno dei suoi discepoli.
Sempre a proposito di D. lo stesso o un. altro discepolo aveva rivolto una domanda ad Aurobindo: " Mi sento attirato verso Dante soprattutto dal suo modo di concepire Beatrice, il che gli conferisce la sua eccellenza d'artista. In che modo potrebbe lei definire questa concezione? ".
" Parlando in senso esterno ", rispose Aurobindo, " Si trattava di un'idealizzazione, probabilmente dovuta a un legame psichico col passato che non si poteva realizzare in questa vita. Ma non vedo in che modo la concezione di Beatrice conferisca a Dante la sua eccellenza - in quanto questa concezione fu solo un elemento in una natura assai potente e complessa ". Un'altra domanda riguardava D. e Milton come poeti mistici. " Si può chiamare Dante un poeta mistico? Come si potrebbe definire la base normale della sua ispirazione? E cosa ne pensa di Milton? Entrambi, Milton e Dante, hanno uno sfondo metafisico e un forte fervore religioso ". " Non credo ", disse Aurobindo, " che alcuno di questi poeti possa essere chiamato mistico - e certamente non Milton. Un fervore religioso o uno sfondo metafisico appartengono alla mente, e quindi non sono vitali alla consapevolezza mistica. Dante scrive sulla base dell'intelligenza poetica che ha dietro di sé una forte spinta intuitiva ".
Ancora una domanda sullo stile di D.: " Lei ", chiese un discepolo, " ha suddiviso lo stile poetico in cinque tipi: l'adatto, l'efficace, l'illuminato, l'ispirato, l'inevitabile. I primi quattro possono avere la propria inevitabilità, ma il quinto vuol dire una pura inevitabilità, qualcosa d'indefinibile. Come classificherebbe lo stile di Dante? Esso possiede una certa semplicità unita a un potere che suggerisce ciò che io potrei chiamare qualcosa di ‛ forte e adatto ' - naturalmente a un alto grado d'inevitabilità. O si tratta di una combinazione dell'adatto e dell'efficace? Un verso come e venni dal martiro a questa pace [Pd XV 148] è evidentemente adatto: ma ha lo stesso stile dei versi: sì come quando Marsïa traesti / de la vagina de le membra sue? " [Pd 120-121].
" La descrizione ‛ forte e adatto ' potrebbe essere valida per la maggior parte di ciò che Dante ha scritto, ma una gran parte di tutto il resto è ‛ puro inevitabile '. Talvolta si tratta dello stile ispirato, come negli ultimi versi citati. Io non considererei l'altro verso solamente adatto; ha qualcosa di più. La semplicità di Dante deriva da una penetrante franchezza della visione poetica; non è solo la semplicità di uno stile adatto ".
In un altro componimento poetico di un suo allievo, Amore e morte, Aurobindo trova " il lento incantesimo dello stile " che caratterizza la poesia di Virgilio, D., Kalidasa, Shakespeare, Milton, Keats - poeti che Aurobindo considerava, sulla base di uno studio approfondito nelle loro rispettive lingue, padroni dello stile poetico per eccellenza.
Ma l'ammirazione per lo stile e il genio poetico di D., e un'accurata conoscenza della Commedia, se risultano in alcuni versi di Aurobindo sotto forma di echi verbali, non interferiscono mai con la sua indipendenza e originalità di pensiero, che è a volte in contrasto con il pensiero e la fede di Dante. Ecco per esempio uno degli aforismi di Aurobindo che è in netta e radicale contraddizione con lo spirito della Commedia: " Se Dio mi assegna il mio posto all'Inferno, non vedo perché dovrei aspirare al Paradiso. Egli è il miglior giudice di ciò che è per il mio bene ". Un altro aforisma che riguarda D. è questo: " Dante, quando disse che a creare l'eterno Inferno è stato il perfetto amore di Dio, scrisse qualcosa di più profondo e più saggio di quanto egli stesso si rendesse conto, perché aiutato da intuizioni casuali e incoerenti; ho talvolta pensato che ci sia un Inferno dove le nostre anime soffrono eternità di estasi intollerabile e guazzano, come fosse per sempre, nell'assoluto abbraccio del Rudra il gentile e assieme il terribile ".
Non solo Sri Aurobindo, ma anche suo fratello Manmohan Ghose (1867-1924) era conoscitore di letteratura europea antica e moderna e, come lui, venne in contatto con essa fin da bambino, quando frequentò la scuola in Inghilterra, e più tardi l'università di Oxford dove si laureò in letterature classiche e dove la sua passione per la poesia elisabettiana si fondeva con la profonda ammirazione per la poesia greca, e soprattutto per quella di Teocrito, Meleagro e Simonide. Come compagno di scuola, Manmohan Ghose aveva, per combinazione, uno dei migliori traduttori di D. in lingua inglese, Laurence Binyon (1869-1943), ed è quindi assai probabile che assieme a Binyon anche Manmohan Ghose abbia scoperto la poesia di D. proprio durante la sua carriera scolastica, e cioè ancora prima di andare a Oxford. Altri amici e compagni di scuola o di università di Manmohan Ghose erano il poeta Ernest Dowson, il poeta e lo studioso Lionel Johnson, e il poeta Stephen Phillips, il quale ha scritto dei drammi in versi compreso quello sul tema dantesco di Francesca da Rimini. Nella sua prefazione alle poesie di Manmohan Songs of Love and Death Laurence Binyon parla del ritorno di Manmohan in I. - di " un giovane indiano che tornava a una patria sconosciuta, e per il quale la scogliera inglese, il fracasso di Londra, e tutto il ritmo febbrile della vita occidentale doveva inestricabilmente mescolarsi nel ricordo con la gloria dei classici dell'Europa ". E non c'è dubbio che come nel caso del fratello Aurobindo, così anche nel caso suo, D. fosse uno di questi classici.
Anche Toru Dutt, la poetessa indiana che da fanciulla si trasferì in Inghilterra e la cui educazione fu compiuta in quel paese e anche in Francia, e che morì giovane nel 1876, lasciando alcune poesie e prose di considerevole merito e di ancor maggior promessa, non solo conosceva la poesia di D. ma la conosceva abbastanza bene per poter fare un commento critico sulla traduzione francese della Commedia opera di Antonio Deschamps.
La sua traduzione, dice Toru Dutt, " nella quale egli ha voluto dare, secondo le sue parole, ‛ un'idea del tono e della maniera di Dante ' è una nobile opera, un modello per tutti quelli che vogliano intraprendere il mestiere di tradurre. Egli si astiene da tutte le note e i commenti, e cerca di produrre, con una fedeltà religiosa, ‛ il colore e specialmente l'accento ' della poesia del grande maestro; e ci riesce in modo meraviglioso ".
La tradizione della sintesi culturale e della cattolicità d'ispirazione letteraria che la poesia bengalese ha così riccamente assorbita e così nobilmente illusrtata trova un'altra sua esemplificazione nella figura e nell'opera del poeta e studioso Dinseh Chandra Datta, conoscitore di tutte le principali lingue moderne e classiche dell'I., dell'Europa e del Medio Oriente. Quanto al suo interesse per la poesia di D., esso si palesa non solo in un sonetto dedicato al poeta, ma anche nell'uso della terza rima nella sua traduzione della Bhagavata Gita - un uso caratterizzato da estrema destrezza e delicatezza. Nel suo sonetto A Dante, Datta esprime non solo la sua ammirazione per la poesia di D., ma anche il suo giudizio personale su quello che egli considera storico e attuale in essa: " Nessun mortale può contestare la tua musa divina, / genio supremo ! Hai esplorato le regioni più remote / della fantasia. Mai la ragione al servizio della fede / avrebbe potuto racchiudere tali meraviglie in rima celeste. / Il tuo secolo aveva bisogno di te, ma tu / sei sempre rimasto al di sopra della sua folla / impazzita. Anche il tempo era maturo per te, / quando sapienza, fede, amore divino combatterono / per la supremazia e indicarono la via / per la pace. Ma il tuo tema maggior non era / la vita umana. Il tuo inferno solenne rivela / il dominio dell'ortodossia immersa nel sogno. La tua poesia è una reliquia del passato, / perché la poesia moderna vanta altri diletti ".
Così, attraverso questi poeti, filosofi, studiosi e traduttori indiani, come attraverso lo studio della lingua e letteratura inglese, la conoscenza di D. fra la classe colta nell'I. di oggi è diventata una cosa altrettanto comune e normale come la conoscenza di un Milton o di un Tennyson. In un certo senso si può dire che in I., come in pochi altri paesi, l'interesse per la poesia di D. si basa e si concentra quasi esclusivamente sui fattori e sugli elementi poetici e artistici, senza essere distratto e deviato da questioni teologiche, filosofiche e filologiche. Così, si può anche dire che la conoscenza dell'I, da parte di D. - e quei pochi accenni all'I., al Gange, al clima indiano nella Commedia ne sono la prova - è stata in un certo senso ricambiata da parte dell'I. quando scoprì la poesia di D. attraverso e quindi quasi assieme a quella di Shakespeare e di Milton circa duecento anni fa.