INDIA (A. T., 93-94)
L'India Anteriore o India in senso stretto è il vasto paese dell'Asia meridionale, steso fra l'Oceano Indiano e il crinale di un grande arco montuoso, che, culminando nelle grandiose catene del Himālaya, affaccia le sue ultime propaggini, da una parte, al Mare Arabico, alla destra del bacino dell'Indo, e, dall'altra, sulla costa orientale del Golfo del Bengala. Politicamente il nome va riferito a un territorio ancor più vasto, di cui il re d'Inghilterra porta il titolo d'imperatore. L'Impero Indiano comprende infatti anche, a occidente, il paese dei Beluci (v. belūcistān), a oriente la Birmania, mentre a nord-ovest si addentra col Kashmir nell'Asia centrale. Resta esclusa dall'Impero l'isola di Ceylon, diretta dipendenza della Corona Britannica, strettamente legata sotto l'aspetto fisico alla Penisola Indiana.
Sommario. - Geografia: Confini (p. 1); Esplorazioni (p. 1); Struttura e rilievo (p. 2); Geologia (p. 3); Idrografia (p. 5); Clima (p. 6); Flora e vegetazione (p. 8); Fauna (p. 9); Suddivisioni naturali e tradizionali (p. 9); Suddivisioni politiche e amministrative (p. 10); Antrop0logia (p. 10); Etnologia (p. 14); Religioni (p. 19); Dati statistici sulla popolazione (p. 22); Distribuzione della popolazione (p. 23); Centri abitati (p. 23); Movimenti migratorî (p. 25); Agricoltura (p. 25); Allevamento del bestiame (p. 28); Foreste (p. 29); Risorse minerarie (p. 29); Industrie (p. 30); Traffico e comunicazioni (p. 31); Commercio estero (p. 33); - Ordinamento dello stato: Ordinamento politico-amministrativo (p. 34); Forze armate (p. 35); Finanze (p. 36). - Preistoria (p. 36). - Storia (p. 37). - Lingue (p. 45). - Letteratura (p. 53). - Arti figurative (p. 71). - Musica (p. 80). - Diritto (p. 81).
Geografia.
Confini. - I confini terrestri, appoggiati generalmente a forti ostacoli fisici quali sono offerti dal rilievo, dividono l'impero, a occidente dalla Persia e dall'Afghānistān, a nord (trascurando la dubbia indipendenza dei due stati prehimalayani del Nepal e del Bhutan) dal Tibet, a oriente per breve tratto dall'Indocina Francese, indi dal Siam. I punti estremi sono a nord al Passo di Kilik, nel Kashmir, a 37° lat. N., a sud al Capo Comorin, circa 8° lat. N., a occidente al Kuh-i-Malik Siyah, a 61° 30′ long. E., e a oriente sul Mekong a 101° long. E. La rispettiva distanza dei punti estremi opposti indica per l'India Britannica una lunghezza massima in senso E.-O. di 4000 km. e una larghezza da N. a S. di 3200 km.
Il territorio compreso fra questi limiti si stende per 4.675.616 kmq., non tenendo conto dei piccoli e sparsi possedimenti portoghesi (Goa, Damão, isola Diu) e francesi (Pondichéry, Karikal, Mahé, Yanaon, Chandernagor) che vi restano fisicamente inclusi.
Esplorazioni. - A notizia documentata il mondo occidentale ebbe le prime conoscenze sull'India per riflesso, durante i primi contatti dei Greci con gl'Imperi dell'Oriente classico. Così Erodoto ha più volte occasione di accennare ai popoli indiani. È certo a ogni modo che i Greci non poterono avere diretta notizia dell'India prima dell'impresa di Alessandro, il quale si spinse sino all'Ifasi (Beas), quindi non oltre il Panjab 327-326 a. C.). Della spedizione facevano parte alcuni geografi, nelle cui relazioni s'incontrano i primi accenni sull'Afghānistān, sulle valli dell'Indo e del Gange e sulla via marittima dalle foci dell'Indo al Golfo Persico. Nei secoli successivi Greci ed ellenizzanti, Romani e romanizzati ebbero, sia pur saltuariamente, diretti rapporti coi popoli del bacino dell'Indo e della penisola. È però da credere che la conoscenza de visu del paese si limitasse alla costa occidentale. In questi porti tuttavia convenivano anche mercanti delle regioni interne e da essi probabilmente derivarono quelle cognizioni geografiche, che Tolomeo poté poi raccogliere e trascrivere. L'affermarsi di robuste dinastie in Persia e la decadenza economica e politica del mondo romano attenuarono e infine interruppero questi rapporti.
Ben presto tuttavia un nuovo periodo s'inizia, nel quale prendono il primo luogo, come viaggiatori e illustratori dell'India, gli Arabi e i Cinesi. Ancora nel sec. II e nel III si ha notizia di mercanti arabi, che commerciavano fra il Mediterraneo, il Mar Rosso e Ceylon. Dal sec. IV all'VIII si svolse la principale attività dei viaggiatori cinesi, per i quali l'India diveniva nota e illustrata anche al mondo orientale. La prima relazione importante è lasciata da Fa Hien (sec. V), il quale percorse l'India in lungo e in largo per ben dieci anni. Un secolo dopo, dal 518 al 521, è da ricordare la missione religiosa di Hoei Sing e Sung Yun. Dal 629 al 646 si svolse quella assai più importante di Hiuen Tsang, il quale per il deserto di Gobi e la valle del Tarim si diresse su Peshawar, donde passò nella pianura gangetica e di qui in quasi tutti i reami indiani del tempo. Il movimento missionario dovette essere imponente, se Y Tsing ne lascia un racconto, in cui sono menzionati ben 56 viaggiatori cinesi recatisi in India fra il 650 e il 700, sempre per via terrestre.
L'Occidente intanto riprendeva conoscenza del mondo indiano per il tramite degli Arabi. Fra loro erano grandi viaggiatori, i quali lasciarono memoria dei loro itinerarî e delle cose viste. Abul Kassim fra l'854 e l'874 compose un itinerario delle poste dalle foci del Tigri all'India e alla Cina. Primeggia fra tutti al-Masudi di Baghdād (sec. X), che visitò la Persia, l'India (circa 916), Ceylon, l'Asia centrale e forse anche la Cina.
Ma la gloria di rivelare appieno e direttamente all'Occidente l'India spetta ancora ai Polo veneziani. Costoro, e fra essi il giovane Marco, nel loro ultimo e più famoso viaggio fecero ritorno dall'Estremo Oriente per la via di mare, toccando varie isole dei mari gialli e malesi e infine molti porti di quell'India, che Marco illustrò diffusamente, con le sue genti e i suoi costumi, nel Milione.
In quel torno la Chiesa romana, cui i Musulmani avevano sino allora inesorabilmente vietato le porte del vicino Oriente, poteva, per la tolleranza dei Mongoli e dei Persiani, spingere la sua opera di proselitismo nell'Asia orientale e meridionale. La via dei Polo fu seguita a ritroso dai missionarî francescani. Il più illustre di essi è fra Odorico da Pordenone, il quale viaggiò per sedici anni in Persia, in India, a Sumatra, Giava, ecc. (1314-1328), lasciando diffusa e interessante relazione. Altro benemerito della conoscenza dell'India fu il francescano Giovanni Marignolli, che vi fece lunghe soste. Ancora in quel secolo il domenicano francese Giordano de Sévérac, fatto vescovo di Quillon (circa 1350), consegnava la sua vasta esperienza del mondo indiano nell'opera intitolata Mirabilia. Contemporaneamente ai missionarî si spingevano nell'India mercanti e avventurieri italiani, francesi, spagnoli. Ed è ancora della prima metà di questo sec. XIV l'illustre viaggiatore arabo Ibn Batuta, che per un decennio percorse l'India al servizio del sultano di Delhi, lasciando pure preziose relazioni. Posteriore di circa un secolo è infine il mercante veneziano Niccolò de' Conti (1430-1441?), il quale compì in India due viaggi e lasciò, dettata a Poggio Bracciolini, la relazione più esauriente del tempo sulle cose indiane. Fra il 1502 e il 1508 fu qui frate Ludovico di Varthema, cui si deve un altro prezioso Itinerario.
Alla fine del sec. XV Vasco da Gama doppiò il Capo di Buona Speranza e giunse per la prima volta direttamente dall'Europa alle coste indiane (1498). A lui seguirono innumerevoli spedizioni commerciali portoghesi, poi anche olandesi che fissarono lungo la costa fattorie, ben presto presidiate militarmente. La costa fu a poco a poco riconosciuta in tutto il suo giro. I contatti con l'interno furono però tentati e perseguiti ancora soltanto per l'ardire di missionarî, come Benedetto Goes e Antonio de Andrade.
Più ampia e metodica si fa l'azione degli Europei col sopravvenire dei Francesi e degl'Inglesi. Questi penetrano nell'interno e organizzano stabilmente possessi più vasti, permettendo a missionari e curiosi un più attento e paziente studio delle popolazioni. Le frequenti ambasciate presso i potentati indigeni permettono la raccolta di notizie e la pubblicazione di relazioni sempre più ponderate e approfondite. In quest'opera si segnalano anche missionarî italiani e insieme il mercante fiorentino Filippo Sassetti, cui si debbono classiche Lettere (1584-1588).
Importanti sono, nel sec. XVII, i viaggi in India di J. B. Tavernier (compiuti fra il 1631 e il 1668) e quelli di F. Bernier (1658-1667), soprattutto per le descrizioni che egli lasciò di Agra, di Delhi e del Kashmir. Nel secolo XVIII si hanno i primi inizî di studî improntati a severo criterio scientifico. Nel 1784 si fonda a tal fine la Società Asiatica di Calcutta. Nel 1793 G. Forster compie l'intera traversata dell'India settentrionale, dal Bengala a Kabul. In quegli anni lavora il Rennel, "il padre della geografia indiana", che eseguisce i primi rilievi topografici nella pianura gangetica e pubblica il Bengal Atlas e le prime carte originali moderne dell'India, con una memoria, la quale rappresenta la prima sintesi scientifica del mondo indiano (1793).
Con l'aprirsi del secolo XIX le indagini vanno diffondendosi e specializzandosi, talché è impossibile seguirne tutti gli sviluppi. Fra il 1802 e il 1805 si conducono le prime triangolazioni, nel 1818 si cominciarono le misure delle più alte vette del Himālaya. Colin Mackenzie aveva intanto dettato la prima completa monografia di una regione indiana, il Mysore, del cui rilevamento topografico era stato incaricato. Il Hodgson scoprì la regione sorgentizia del Gange ed esplorò il Nepal. Nel 1820 il Hamilton redigeva un'opera sistematica, che segna una tappa nello sviluppo degli studî indiani. Poi la specializzazione prese di nuovo il sopravvento, anche per la costituzione di appositi uffici e servizî scientifici governativi. Dei viaggiatori ricordiamo solo gl'italiani Lazzaro Papi (1829), A. de Gubernatis (1886-1887), O. Roero (1880), Paolo Mantegazza (1884).
Pressoché impenetrabili rimasero ancora a lungo i paesi della frontiera settentrionale, dove gli stati indigeni Nepal e Bhutan, col confinante Tibet, non permettevano, per fanatismo religioso, l'ingresso degli Europei.
L'alto Kashmir e le più alte vette del Himālaya offrirono e offrono ancora gli ultimi più attraenti quesiti agli esploratori. Nel Kashmir e ai suoi confini hanno fatto lor prove ardite e metodiche spedizioni italiane: spedizione di S. A. R. il duca degli Abruzzi (1909); spedizione De Filippi (1913-14); spedizione Calciati-Piacenza (1913); spedizione di S. A. R. il duca di Spoleto (1929); spedizione di G. Dainelli (1930; v. himālaya; karakorum; kashmir; tibet). Alle alte vette del Himālaya si sono spinte alcune spedizioni, fra le quali sono da ricordare quella (1921-24) di Mallory e Irvine all'Everest (sulle cui pareti, a oltre 8200 m. s. m., lasciavano la vita) e quella internazionale al Kinchinjunga e al Picco Jonsong, raggiunto questo sino in cima (7420 m.) il 3 giugno 1930. Il 3 aprile 1933 l'Everest fu sorvolato da due aeroplani inglesi pilotati dal marchese Clydesdale e dal capitano Mac Intyre.
Struttura e rilievo. - Classico è il confronto fra l'India e l'Italia, al quale si prestano la posizione fra le due grandi penisole meridionali dell'Asia, l'arco montuoso che la separa dall'interno, la grande pianura che unisce il versante di questo alla sporgenza peninsulare. Strutturalmente tuttavia è fra Italia e India una fondamentale diversità per il fatto che questa consta dell'unione di due membri per età, origine e forma in vivacissima opposizione fra loro, saldati soltanto in tempi geologicamente recenti dal colmarsi dell'intermedia soluzione: da una parte cioè sta il Deccan o Penisola, dall'altra quella che gli studiosi anglo-indiani hanno chiamato col nome comprensivo di extra-penisola.
Il Deccan è paese di alte terre, massa residua di un antichissimo continente australe in cui esso si trovava unito all'Australia, all'Africa e ai massicci dell'America Meridionale. Esso si prolunga dal triangolo peninsulare propriamente detto anche nell'interno, sino ai declivî che degradano da una parte verso il Thar, dall'altra sulla piana del Gange.
Il paesaggio è quello tipico delle masse continentali antiche; forme prevalenti le tabulari, le eminenze non dovute a costruzione orogenica, ma piuttosto residue di processi distruttivi operanti dall'esterno, le valli poco profonde ma ampie e con dolci declivî.
Gli assi del rilievo appaiono così costituiti, nella penisola, dai Ghati occidentali e orientali, più a nord dai M. Vindhya e Satpura, infine dagli Aravalli. I primi rappresentano forse l'orlo occidentale, rimaneggiato e arretrato dall'erosione, della massa emersa dopo lo smembramento del continente australe, e certo sono conseguenti al generale profilo d'erosione di questa. Pertanto assumono quell'aspetto di una continua catena dal taglio del Tapti ai colli, oltre i quali prendono, nell'estremo sud, il nome di M. dei Cardamomi; il loro declivio è assai ripido verso occidente, mentre a oriente esso scende più variato e in genere assai meno aspro sull'altipiano. Questo si stende con superficie pianeggianti, interrotte soltanto da sparsi relitti di circumdenudazione e dall'affondarsi delle maggiori vallate, sempre più ampie col procedere verso il Golfo del Bengala. Lungo questa costa restano prominenti, fra una valle e l'altra, le dorsali collinose, cui si dà il nome d'insieme di Ghati orientali.
Al NE. la massa antica presenta alcune grandi fratture nel senso dei paralleli, gli orli delle quali costituiscono appunto i Vindhya e i Satpura. Verso oriente, tuttavia, come verso nord, la massa del Deccan si prosegue con una serie di altipiani distinti tra loro piuttosto da pareti di faglia, da scarpa d'erosione, per le quali restano disposti come una grandiosa gradinata volta alla pianura del Gange. Massimo è l'altipiano del Malwa, che si stende dai Vindhya a NO. fino agli Aravalli, residui questi probabilmente di una vera catena tettonica, con direzione da SO. a NE., che ebbe rilevanza assai maggiore nel Mesozoico.
L'extra-penisola è costituita, per contro, dalla porzione meridionale di un grandioso fascio di catene montuose, il quale partecipa di un sistema di corrugamento relativamente recente. La parte maggiore di codesta catena si sviluppa con direzione approssimativa di ESE. dal celeberrimo nucleo del Pamir, o, se si vuole, dal solco dell'Indo nel Kashmir a quello del Brahmaputra all'estremo E. dell'Assam, costituendo il sistema del Himālaya (v.). Appartengono alla regione indiana il versante meridionale del Grande Himālaya e le minori catene antistanti (Medio e Piccolo Himālaya, Siwalik), più sviluppate a occidente che a oriente, dove con grande rapidità si sale dalla piana bengalese alle massime vette del crinale.
A codesto sistema si accompagnano ai due estremi i baluardi del Salt Range (Monti del Sale), fra Indo e Jhelum, e del massiccio di Shillong; indi, quasi festoni di catene in direzione grosso modo meridiana, a occidente il Hindu-kush, i Suleiman, i Bugti e i Kirthar, a oriente, sulla sinistra del Brahmaputra, i monti dell'Assam e del Manipur e le catene birmane.
Il bassopiano indo-gangetico va distinto in due grandi sezioni, versanti rispettivamente al golfo del Bengala (Gange) e al Mare Arabico (Indo). Di quest'ultima fa parte l'area desertica del Thar, priva di diretto afflusso al mare. Si notano pure, con caratteri propri, un'alta pianura dell'Indo (Panjab), con caratteri affini propagantesi nella zona spartiacque e nella zona d'influenza fra Jumna e Gange (con i fiumi incassati fra i piani residui delle alluvioni più antiche, detti Doab), una media e bassa pianura, quest'ultima corrispondente, nell'un caso e nell'altro, alle amplissime aree deltizie. Le principali cime montuose dell'India sono le seguenti: Everest (m. 8882); Kinchinjunga (m. 8580); Dhavalagiri (m. 8200); Godwin Austen (m. 8620); Nanga Parbat (m. 8126); Nanda Devi (m. 7820); Guru Sikhar (m. 7121); Dodabetta (m. 6252).
Lo sviluppo costiero, in rapporto alla superficie, è scarso, il disegno delle coste in complesso assai semplice e uniforme, all'infuori della zona compresa fra il delta dell'Indo e Bombay, nella quale il mare s'insinua a isolare il Cutch e a formare la penisola del Kathiawar, fra questo e il golfo di Cambaya, poi negli estuarî del Narbada e del Tapti e nella baia di Bombay. La costa occidentale è in genere bassa e sabbiosa, orlata, particolarmente al sud di Bombay, di una serie di lagune e acquitrini. La mancanza di delta sta in rapporto con la violenza delle correnti generate dal monsone di SO., le quali inoltre s'insinuano negli estuarî.
La costa occidentale è costituita da una successione di tratti alti interrotti dalle ampie formazioni deltizie formate da fiumi di notevole sviluppo, in acque abbastanza basse e tranquille, sino a quella grandiosa del Gange e del Brahmaputra.
Geologia. - L'opposizione fra penisola ed extra-penisola riposa, come s'è visto, fondamentalmente su fatti di ordine geologico. Nell'una soltanto rocce delle più antiche età, o derivate da loro trasformazione in situ o da effusione magmatica, quindi non stratificate oppure disposte in letti orizzontali quasi indisturbati; nell'altra una lunghissima serie di formazioni, dalle più antiche alle più recenti, di varia origine, complicatamente dislocate tutte, a eccezione solo delle quaternarie.
All'infuori delle strisce litoranee in cui si notano locali e temporanee ingressioni, in tutta la estensione della massa peninsulare non s'incontrano fossili marini di sorta. Oltre la metà di essa presenta alla superficie rocce cristalline antiche, formatesi a grandi profondità e poste successivamente in luce da un lavoro di denudazione subaerea, i cui inizî si nascondono nei tempi anteriori al Paleozoico, continuandosi da allora pressoché non disturbato da altro che dai successivi espandimenti delle lave, le quali ricoprono oggi particolarmente la porzione NO. Conseguenza tuttavia di questo stesso lunghissimo lavoro distruttivo sono formazioni continentali, che qua e là nascondono la massa arcaica.
Riscontriamo dunque nella penisola tre tipi principali di rocce in affioramento: 1. l'arcaico: gneiss e scisti "primitivi" (rocce metamorfiche derivate a loro volta talora da masse ignee profonde, talora da originarie arenarie, ecc., ma ormai irriconoscibili); graniti, anortositi, charnockiti, noriti, pegmatiti (formazioni di un primo periodo d'intrusione ed effusione magmatica); quarziti e scisti fossili del sistema di Dharihar (formazioni particolarmente ricche di minerali utili, concepite grosso modo come parallele al Huronico: M. Aravalli, massiccio di Shillong, ecc.). 2. rocce sedimentarie: anzitutto le primitive non fossilifere, di dubbia origine, costituenti il gruppo detto Purana, corrispondente all'Algonkico. Queste si presentano distinte in un sistema inferiore, in cui sono frequenti diaspri ferruginosi e porcellaniti con inclusioni di lave basiche, e uno superiore formato in prevalenza di arenarie, marne e calcari. Il primo gruppo è rappresentato in modo cospicuo nel distretto di Cuddapah e nello stato di Gwalior; il secondo particolarmente dal sistema vindhyano (in prevalenza arenarie), poi da quelli di Bhima e di Kurnool e dal Cuddapah superiore. Fossilifere si fanno soltanto le formazioni successive decisameme di origine continentale, fra le quali, nella penisola, nondimeno sono classificabili per prime solo quelle del grande sistema di Gondwana, corrispondente per età ai tempi dal Permico al Giurassico inclusi. Di età ancor più recente sono formazioni intermedie (di scarso sviluppo, perché nella massima parte asportate) e infine le alluvioni antiche e attuali dei maggiori fiumi e le sabbie continentali, fra le quali va annoverato il grande mantello che ricopre il Thar, nascondendo la zona di trapasso dal Deccan alla piana dell'Indo; 3. le rocce di origine effusiva (Deccan trap), il cui espandimento risale alla fine del Mesozoico e agl'inizî del Cenozoico. Sono in prevalenza lave basiche, le quali vennero a coprire non meno di 500.000 kmq., empiendo le antiche valli e livellando tutta la superficie, in cui l'erosione successiva ha intagliato un rilievo a tavole e terrazzi. L'età ne è stata definita particolarmente tenendo conto di formazioni lacustri alla base (serie di Lameta) e di formazioni nummulitiche sovrappostevi in zone marginali (Surat, Cutch, Rajputana).
Nell'extra-penisola le formazioni più antiche, non fossilifere, sono state associate - pur con qualche disparere - in parte all'arcaico (gneiss centrali dei Himālaya, Birmania, Assam, Belūcistān) in parte al Purana (serie di Attock, di Baxa e altre del Himālaya centrale). A questo proposito convien notare la grande difficoltà che si incontra nei tentativi di coordinare le formazioni della penisola con quelle dell'extra-penisola e quindi con la classificazione abituale europea. Il lungo periodo in cui l'evoluzione del Deccan si è svolta in ambiente affatto diverso e distinto da quello dell'extra-penisola rende assai dubbiosi nell'attribuire un'età alle formazioni. La mente ricorre all'esempio dell'Australia, ove l'isolamento ha contribuito a conservare tutt'oggi caratteri biogeografici non molto dissimili da quelli del Mesozoico europeo.
Il primo esteso gruppo dell'extra-penisola prende il nome di Dravidico, per età corrispondente al Cambrico, Devonico e Carbonico, rappresentato particolarmente nel Kashmir e nella valle dello Spiti (a NE. del Panjab), ma anche in qualche plaga dei Himālaya centrali.
Gli strati fossiliferi più antichi dell'India si riscontrano nel Salt Range ed è notevole che tutte queste formazioni prime si riscontrano non già nelle catene centrali, ma in quelle immediatamente sottostanti (Medio Himālaya) o addirittura in avamposti prehimalayani, come appunto il Salt Range.
Alla fine del Carbonico appare la formazione della grandiosa geosinclinale attraverso l'odierna Eurasia, la quale fu detta dai geologi Teti.
La serie completa delle formazioni depositatesi nel suo seno e poi corrugate a formare il più grande sistema montuoso del mondo si presenta con un enorme spessore dai conglomerati permici di base ai più alti flysch cretacei del Sikkim.
Si dà a queste formazioni il nome comprensivo di gruppo ariano, il quale s'inizia con le formazioni Gondwana del Kashmir e col Permico del Kashmir e del Himālaya centrale e si considera, secondo molti autori, continuo sino all'alluvium attuale.
Alla fine del Cretacico e al principio del Terziario si pone l'inizio delle formidabili dislocazioni geotettoniche, per le quali il continente di Gondwana venne a smembrarsi, mentre dal seno della Teti si estroflettevano i corrugamenti dei sistemi alpini-himalayani, associandovisi probabilmente l'accennata intensa ripresa dell'attività magmatica, la quale portava all'effusione lavica sul Deccan e all'intrusione dei graniti himalayani.
I sedimenti terziarî furono più o meno coinvolti - secondo i luoghi - dal continuarsi del corrugamento. Così ampiamente si trovano terreni terziarî nel Belūcistān, nel Sind, in Birmania, come in tutti i rilievi subhimalayani dal Kashmir all'Assam. Terziarî sono nella massima parte i Siwalik, i quali hanno dato il nome a un sistema caratteristico (Miocene medio e inferiore, Pliocene) di origine fluviale, simile per molti aspetti alle formazioni attuali del bassopiano.
Si passa così alle alluvioni pleistoceniche e alle quaternarie, nelle quali il materiale prevalente è costituito da un'argilla sabbiosa micacea e calcarea.
Il glacialismo interessò indubbiamente tutto il sistema himalayano: tuttavia la progressione delle varie espansioni si arrestò sugli attuali 1500-1800 m. s. m., onde gli effetti, se ne furono rilevanti nella plastica degli alti bacini, vi si sono limitati, di modo che anche le formazioni moreniche, pure in qualche caso vistose, si presentano assai sparse epperciò d'importanza locale.
L'attività endogena nei tempi storici si manifesta particolarmente con la frequenza dei terremoti tettonici specie nella zona subhimalayana (Kashmir, Bengala, Assam) e con bradisismi vistosi lungo la costa occidentale (Cutch): fenomeni vulcanici invece si trovano solo nei paesi marginali dell'Impero (Belūcistān, Birmania, isole Barren e Narcondam).
Idrografia. - Lo sviluppo e i caratteri dei reticoli idrografici stanno in stretto rapporto coi caratteri strutturali che differenziano la penisola dal resto dell'India. Nella prima questo sviluppo risale a un'età antichissima: il processo ha ormai raggiunto uno stadio di avanzata senilità, non essendo stato turbato, in genere, da successivi cambiamenti di livello o dislocazioni delle superficie intaccate. Le vallate sono larghe e poco profonde, secondo il tipo caratteristico delle regioni nelle quali l'erosione ha cessato di operare nel senso verticale e assai più corrode lateralmente i versanti, collaborandovi disgregazione meteorica (v. Clima), venti, piogge e acque correnti. In conseguenza del piccolo gradiente, l'acqua ha una scarsa forza di trasporto dei materiali sospesi o rotolati, salvo che nei periodi di piena.
La curva di erosione ha in questi fiumi raggiunto il suo profilo di equilibrio e si svolge dalle sorgenti alla foce con pressoché geometrica regolarità. Questa tuttavia è in qualche raro caso turbata, come p. es. nelle cascate del Narbada a Jubbulpore. Di ciò non si può avere spiegazione soddisfacente se non ammettendo perturbazioni tettoniche locali (faglie, oscillazioni a bilanciere e simili).
Altro carattere particolare dell'idrografia della penisola è costituito dalla grande estensione del versante orientale nei confronti di quello occidentale, ridotto - salvo che al nord, per i bacini del Narbada e del Tapti - quasi per tutta la sua lunghezza a un sottile orlo litoraneo, inciso dai rovinosi torrenti, che riconducono al Mare Arabico le abbondanti acque di precipitazione rovesciate dal monsone contro l'ostacolo dei Ghati. Questi segnano quindi per il maggior tratto lo spartiacque, di modo che i corsi tributarî del Golfo di Bengala hanno le loro sorgenti a poca distanza dall'altra costa.
In contrasto con questo generale andamento, stanno i due corsi del Narbada e del Tapti, insediati nelle fratture parallele ai Vindhya. Altra caratteristica infine dei fiumi peninsulari è lo stretto rapporto fra le loro portate e le piogge, onde traggono esclusivamente la loro alimentazione: così p. es. il Mahanadi all'inizio del suo delta ha una portata di piena sino a 50.000 mc. al secondo e non più di una ventina di mc. in magra.
I principali fiumi del versante occidentale sono i due detti Narbada e Tapti; dell'orientale il Mahanadi, il Godavari, il Kistna, il Cauvery.
Il sistema idrografico dell'extra-penisola, trovandosi in rapporto con movimenti orogenici recenti, si presenta in uno stadio di sviluppo assai arretrato, giovanile. Nei lineamenti generali del suo disegno esso tuttavia non è conseguente all'attuale aspetto del rilievo, ma piuttosto antecedente: l'impostazione dei maggiori corsi d'acqua o dei loro tratti costituenti principali risale cioè a un'età anteriore a quella nella quale si sono svolti i moti definitivi formatori dell'assetto odierno del rilievo. In tal guisa si spiega come i grandi corsi d'acqua dell'India abbiano le loro valli superiori al di là delle maggiori catene, con estesi bacini nelle terre alte del Tibet. In queste regioni settentrionali l'idrografia si presenta con una serie di corsi a un dipresso paralleli svolgentisi in senso longitudinale, ma ciascuno d'essi prima o poi piega decisamente a sud, tagliando attraverso le catene principali per raggiungere le pianure indiane. Lo spartiacque è quindi spostato molto a nord dei limiti naturali della regione indiana. In qualche caso tuttavia, specialmente quando si tratta di corsi d'acqua minori, è lecito pensare che le gole transverse siano dovute alla regressione della testa di una valle e quindi alla diversione e cattura di un fiume preesistente oltre il crinale inciso. Simili fenomeni di cattura contribuiscono a complicare il reticolo idrografico della regione himalayana, già tanto indipendente dalla tettonica e dalla plastica. I più imponenti esempî ne sono stati studiati lungo l'Indo nel Kashmir, lungo il Tista e il Gange.
I maggiori fiumi della regione sono l'Indo, tributario del Mare Arabico; il Gange e il Brahmaputra, che tributano, unendosi in unico delta, al Golfo del Bengala; il Godavari; il Narbada con 1300 km. di lunghezza e 95.000 kmq. di bacino; il Kistna; il Mahanadi; il Cauvery con 700 km. di lunghezza e 83.000 kmq. di bacino; il Tapti con 700 chilometri di lunghezza e 65.000 kmq. di bacino. L'alimentazione dei primi tre è assicurata, oltre che dalle abbondanti precipitazioni monsoniche, anche da ghiacciai. Spesso tuttavia, nel corso inferiore, particolarmente l'Indo, essi perdono notevole quantità delle loro acque, sia per l'abbondante evaporazione delle vaste e lente loro masse, sia per la larga sottrazione che ne vien fatta con canali d'irrigazione.
Scarsa importanza nell'idrografia indiana hanno i laghi, se se ne eccettuano, come è giusto, quelli che pur appartenendo a questo sistema si trovano al di là del crinale himalayano. Alcuni laghi interessanti si trovano soltanto nel Kashmir (Pang Kong, Tsomoriri, Wular, ecc.), residui di antiche superficie lacustri ben maggiori. Piccoli laghi si notano anche nel Kumaon. Nella penisola il loro numero è ancora più scarso, tuttavia essi presentano particolare interesse in quanto costituiscono un piccolo gruppo di quattro o cinque laghi salati nel paese dei Rājputi, laghi inariditi nella stagione secca (massimo il L. di Sambhar, steso durante le piogge sino a 230 kmq.), nonché il laghetto craterico di Lonar, nel Berar.
Poderosi invece i ghiacciai himalayani fra i quali primeggiano, nel Kashmir il Biafo (lungo 63 km.) e il Baltoro (58 km.), il Hispar e il Siacen, che scendono con le loro fronti sino a 2100-2400 m. s. m., mentre quelli del Kinchinjunga nel Sikkim non si affacciano a livelli molto inferiori ai 4000 m. s. m.
Clima. - Il Tropico del Cancro divide l'India in due parti pressoché eguali, e tuttavia anche la settentrionale, che rientrerebbe nella zona temperata boreale, è sì difesa dalle influenze climatiche delle alte terre dell'Asia centrale per il frapporsi del formidabile baluardo himalayano che nel suo complesso il territorio tutto intero può dirsi soggetto a un comune tipo di clima. E non solo dal clima, ma la vita stessa dell'India è dominata da un fatto fondamentale: il regime monsonico della circolazione atmosferica.
Relativamente indipendenti da questo restano le temperature, le quali variano secondo latitudine, altitudine e distanza dal mare e dalle alte terre dell'Asia centrale. La temperatura media - sinché non si cominci a salire il versante himalayano o le alte terre del NO. - poco muta ovunque, contenendosi fra i 25° e i 28°. Il divario fra massime e minime è tuttavia notevole nelle plaghe interne, particolarmente nell'India centrale, nelle plaghe più settentrionali della pianura e nel Sind: a Delhi la media del mese più caldo (giugno) è di 33°,4, quella del mese più fresco (gennaio) di 14°,4 e i massimi assoluti giornalieri arrivano sino a 43°-48°. Nel Sind si sono registrate massime eccezionali di oltre 50° e minime sotto lo zero. Nell'India centrale, p. es. a Nagpur, le estreme mensili stanno fra poco meno di 20° e circa 34°,5. Per contro minimo divario si riscontra sulle coste occidentali del Deccan (Bombay nel mese più caldo 29°, nel più freddo 23°,5; Mangalore 25°-28°,8); poco più alta la media annua e poco più pronunciata l'escursione sulla costa occidentale (Madras 24°-31°,5). La stagione più calda si svolge da marzo al principio di giugno, ed è oltremodo deprimente, specie nelle zone piane più settentrionali e nell'interno del Deccan. Il lavoro diviene quasi impossibile anche per l'indigeno, e l'europeo cerca di fuggire verso i luoghi alti del versante himalayano, dove si sussegue tutta una serie di centri estivi (sanatoria), da Darjeeling, lontana gemmazione di Calcutta, a Simla, capitale estiva dell'impero, e oltre.
Ma anche il periodo delle stagioni più che non in rapporto col susseguirsi di quelle astronomiche, si svolge, nell'India, in rapporto coi monsoni: si ha, cioè, una stagione relativamente fresca e secca, da dicembre a febbraio; una secca e torrida, da marzo a maggio; una piovosa da giugno a novembre, alla quale in senso locale si collega più propriamente il nome di monsone, suddivisa in due, da giugno a settembre (avanzata del monsone) e da ottobre a dicembre (ritiro del monsone).
S'intendono per monsoni le grandi correnti atmosferiche periodiche, che si sviluppano nell'atmosfera sovrastante grandi masse acquee e grandi masse continentali in contiguità, sostituendovisi al regime costante degli alisei, che domina negli aperti oceani. Il meccanismo dei monsoni indiani (i più imponenti e meglio noti) appare nelle sue grandi linee abbastanza semplice. Sulle grandi superficie continentali dell'India e dei paesi vicini in marzo, aprile, maggio l'aria si riscalda molto più rapidamente che non sull'adiacente superficie oceanica: si forma così uno squilibrio barometrico, che determina il fluire di una corrente atmosferica dal S. al N., e più particolarmente dal SO. al NE. A rafforzare il monsone e ad aumentare il carico di vapor d'acqua concorre l'aliseo spirante sull'Oceano Indiano a S. dell'Equatore. Esso muove - per essere nell'altro emisfero - da SE., ma, attratto dalla vivace circolazione formatasi oltre l'Equatore, lo sorpassa e, mutando direzione, si accompagna al monsone. Fattori tuttora molto oscuri determinano una notevole variabilità nella forza del monsone e nel contributo dell'aliseo: tale variabilità si riflette sull'apporto delle precipitazioni che l'India ne attende e che può variare di anno in anno in modo talora imponente, con gravissime conseguenze economiche (carestie). Per questo il formarsi e il progredire del monsone sono seguiti con attenta cura mediante una rete di osservatorî meteorologici che il governo imperiale ha stabilito alle Maurizio, a Zanzibar, nell'Africa orientale, alle Seicelle. Si deve anche aver presente che il monsone non si manifesta come un vento violento, ché, anzi, prima ancora che se ne avverta il giungere, con subita violenza scroscia quella che è, scientificamente parlando, la manifestazione accessoria, cioè la pioggia. Entro l'India il cammino del monsone viene poi variato nella sua intensità e nei suoi effetti dalla disposizione delle superficie e del rilievo. Col progredire dell'anno, le temperature sul continente vanno poi diminuendo, e accentuatamente nelle alte terre centrali, dove vengono a formarsi zone di alta pressione. Il monsone quindi si ritira, infine s'inverte. Nell'India il movimento è governato dall'area ciclonica insediata sull'alto Panjab. Scendono le correnti da un lato lungo l'Indo e sull'India centrale, dall'altro lungo il Gange. Direttamente al Mare Arabico fluiscono altre di sull''altopiano peninsulare: tutte tendono ad assumere direzione di NE. Essendo d'origine continentale, tali correnti sono secche, e, per la loro direzione, allontanano l'umidità di origine oceanica, tranne che sulla costa del Coromandel e di Ceylon settentrionale, alla quale giungono dopo aver attraversato il Golfo del Bengala. Nel periodo in cui l'inversione ha luogo possono verificarsi anche violente perturbazioni: centri ciclonici locali si formano presso le Laccadive e Maldive e presso le Andamane e talvolta possono farsi assai minacciosi per la navigazione o abbattersi disastrosi sulle coste del Golfo del Bengala.
La distribuzione della piovosità, come si è accennato, è assai varia, restando in rapporto con la disposizione del rilievo. Perciò, nel quadro generale del clima indiano, si possono distinguere varî tipi regionali:
1. tipo oceanico del Malabar o della costa peninsulare occidentale: piovosità massima, oltre 2500 mm., pur essendone la precipitazione ristretta quasi esclusivamente al periodo del monsone di SO.; temperatura mai inferiore ai 24°-27° nei mesi freschi, né tuttavia superiore ai 29° nei mesi caldi;
2. tipo continentale d'altipiano nel Deccan: piovosità decrescente dall'esterno verso l'interno, sino a meno che 500 millimetri a ridosso dei Ghati occidentali, sette od otto mesi senza precipitazioni; temperatura minima nel novembre fra 24°-27°, massima in maggio sopra i 35°; escursione annua e diurna notevole; variabilità grandissima delle precipitazioni di anno in anno; frequenza quindi di carestie;
3. tipo marittimo del Coromandel o della costa O. del Deccan: piovosità fra 1000 e 1500 mm., distribuita in prevalenza durante il monsone di NE., non scarsa tuttavia anche durante quello di SO.; temperature nelle medie annue come nelle mensili leggermente più elevate che nel Malabar; escursione modesta;
4. tipi della pianura gangetica: piovosità prevalente nel periodo del monsone di SO., modesta nella stagione fresca, gradualmente decrescente come quantità dal Bengala ad O., dai quasi 2000 mm. del delta ai 500 mm., che si riscontrano al piede occidentale degli Aravalli e nella zona spartiacque fra Gange e Sutlej; temperature sensibilmente collegate con la latitudine, specialmente nei mesi freschi (fra 18° e 24°); e piuttosto da SE. a NO. in quelli caldi (Dacca: mese più fresco 19°, mese più caldo 28°,3; Delhi: 14°,5-33°,5); variabilità della quantità delle precipitazioni sempre più accentuata verso O. con relativa estensione della frequenza di carestie;
5. tipo desertico del basso Indo e del Thar: il monsone di SO. sorpassa queste terre basse e piane senza dar luogo a precipitazioni; la temperatura varia entro limiti notevolmente ampî, specie all'interno (Jacobabad 14°-36°,5);
6. tipi himalayani, caratterizzati in genere da temperatura piuttosto fresca e da notevole piovosità, non sempre ristretta al periodo del monsone di SO. Vi si distinguono quelli: a) dell'Assam, con le massime piovosità non solo nell'India, ma nel mondo (Cherrapundji quasi 12.000 millimetri e tuttavia in dicembre meno di 10); b) delle valli centrali, nelle quali l'esposizione a sud e l'immediata apertura sulla piana permettono di raggiungere temperature miti e quasi costanti a grandi altezze, una magnifica limpidità dell'aria, piogge tuttavia abbondantissime; c) pedemontano occidentale, a carattere squisitamente continentale: le temperature superano tuttavia di poco, al massimo, i 32° (Simla, maggio); piovosità abbondante, sui 1000 mm. in media; d) del Kashmir e degli altri bacini d'alta montagna, fattore climatico dominante l'altitudine: piogge non molto abbondanti, ma abbondanti nevi, estate calda nei fondi valle; influenze climatiche varie nei ghiacciai; f) delle nevi perpetue.
Flora e vegetazione. - Secondo A. Engler la flora dell'India deve riferirsi a due distinti regni floristici: il boreale o settentrionale extratropicale (per la parte alpina e subalpina del Himālaya) e il paleotropicale (per quanto si riferisce ai dominî floristici dell'India anteriore e della regione dei monsoni).
La vastità della regione e il suo grande svil uppo in latitudine fanno sì che la sua flora e la sua vegetazione presentino aspetti diversissimi. La grande e potente catena del Himālaya apporta alla flora dell'India una grande quantità di elementi boreali. Il versante settentrionale fa parte dell'Asia anteriore e solo un quinto della massa totale della catena fa parte della flora indiana: nel Nepal stesso la flora può essere distinta in due zone: una per il NO. e l'altra per l'E. Alcuni autori distinguono il Himālava occidentale dall'orientale: nella prima zona predominano Graminacee, Leguminose, Ciperacee, Labiate, Ranunculacee, Orchidacee, Crucifere, Scrofulariacee e Rosacee. Nella parte meridionale troviamo piante legnose subtropicali (Boswellia, Holoptelia), alcune querce, Pinus longifolia e excelsa, Cedrus deodara, Abies pindrow, Cupressus torulosa, Juniperus macropoda e nelle località secche Pinus Gerardiana.
Nella regione orientale invece vi sono molte forme tropicali e si osservano stretti rapporti con la flora cinese. Predominano le Orchidacee, e troviamo anche abbondanti Graminacee, Leguminose, Composte, Ciperacee, Urticacee, Scrofulariacee, Rosacee, Rubiacee ed Euforbiacee; vi sono molte querce e Castanopsis; parecchi rododendri e specie di Primula e Meconopsis. Fra le Conifere troviamo: Abies Webbiana, Picea morinda, Larix Griffithii, Tsuga Brunoniana e due specie di ginepro. Vi sono anche magnolie e numerose specie di Impatiens.
Secondo Brandis la distribuzione altitudinale della vegetazione del NO. del Himālaya è la seguente:
A 900 m. s. m. vi è il limite delle foreste tropicali: Dalbergia sissoo, le sue formazioni salgono fino a 1500 m. dall'Indo all'Assam; Acacia catechu, sale fino a 900 m.; nella regione orientale comincia il Calamus rotang; Bambù: Dendrocalamus stricta; Palme: Phoenix acaulis e più raramente Ph. silvestris; Combretacee, Meliacee; Shorea robusta va fino all'Assam (si trova anche nel Bengala, nel Bihar, nel Barar) e sale fino a 900 m.
A 2100 m. s. m., riconosciamo il limite delle foreste subtropicali. È questa la regione forestale media subtropicale. Quercus incana a foglie grigiastre e persistenti, da 900 a 2400 m.; Grewia oppositifolia, Celtis australis, Olea cuspidata (affine all'O. europaea); Albizzia julibrissin (lungo i torrenti); Rosa moschata (è la rosa rampicante del Himālaya); Rhus cotinus (si trova fino in Dalmazia e in Bosnia), R. semialata, R. succedanea (si ritrova nell'Asia orientale); il Pinus longifolia sale fino a 2100 m. s. m.
A 3660 m. s. m. vi è il limite superiore delle foreste. Regione forestale superiore temperata. Betula bhojpattra sale 150 m. più in su degli Abies, si trova nel Tibet, Sikkim, Bhutan, e nell'Asia orientale; Abies pindrow (A. Webbiana), Rhododendron campanulatum, Picea morinda (Abies Smithiana), Quercus semecarpifolia e Q. dilatata, specie a foglie persistenti a lento accrescimento e coperte di licheni fruticolosi; Juglans regia, Corylus colurna, Pinus excelsa (questa specie di pino corrisponde al P. peuce balcanico) sale a circa 3000 m.; Cedrus deodara fra 1800 e 3000 m. è il cedro del Himālaya; Trachycarpus Martiana fra 2000 e 2400 m., affine a Chamaerops; Rhododendrum arboreum.
A 3900 m. s. m. troviamo il limite delle nevi: Rhododendron anthopogon e lepidotum (diffusi dal Kashmir al Sikkim); specie erbacee vivaci boreali dei generi Ranunculus, Anemone, Delphinium, Aconitum, Primula, Parnassia, Pedicularis, Astragalus, Nardostachys.
La regione della pianura dell'Indo ha scarse piogge, quindi vi sono alberi radi e poco sviluppati e la vegetazione è prevalentemente erbacea. Predominano Graminacee, Leguminose, Composte, Ciperacee, Scrofulariacee, Lamiacee, Borraginacee, Malvacee, Euforbiacee e Convolvulacee; fra gli arbusti e i frutici sono caratteristici: Fagonia arabica, Capparis, Zizyphus e Calotropis che sono elementi occidentali. Sono indigene le palme Phoenix silvestris e Nanorrhops Ritcheana e il bambù Dendrocalamus stricta.
La regione della pianura del Gange va dai monti Aravalli al golfo del Bengala, presenta varî aspetti, ma è molto più umida della precedente; vi abbondano Graminacee, Leguminose, Ciperacee, Composte, Scrofulariacee, Malvacee, Acantacee, Euforbiacee, Convolvulacee e Labiate. Il delta del Gange e del Brahmaputra consta di numerose isole coperte da foreste sempreverdi d'alberi e d'arbusti e qui vediamo che predominano le mangrovie. La Shorea robusta (sal) pregiato albero d'alto fusto è all'incirca confinata in questa regione.
La regione del Malabar si spinge fino a 2700 m. d'altezza; ha una vegetazione lussureggiante e sempreverde che presenta punti di contatto con quella malese. Dense foreste di canne (Calamus) e bambù, praterie di graminacee; fino a 600 m. troviamo Tectona grandis e Dalbergia, Pterocarpus, Terminalia, Lagerstroemia e Bambusa arundinacea.
Nelle foreste di moderata elevazione vi sono Anonacee, Garcinia, Dipterocarpacee, Mesua ferrea, Calophyllum, Cullenia, alberi, arbusti ed erbe delle Rubiacee, Euforbiacee, Ficus, Artocarpus e Zingiberacee, la conifera Podocarpus latifolia, numerose palme e felci, Pandanus e molte Aracee. Nei luoghi più elevati vivono arbusti delle Acantacee (specialmente Strobilanthes), Eleocarpus, Eugenia, una Composta arborea (la Vernonia monosis), molte Orchidee epifite e Felci arborescenti. Al disopra dei 1800 m. si trovano numerose erbe e frutici del genere Impatiens, Leguminose, Ombrellifere, Rubiacee, Composte, Orchidee terrestri, Gigliacee, Commelinacee e felci.
Nella regione del Deccan, fatta eccezione di una cintura di vegetazione xerofila sempreverde, la giungla bassa lungo la costa orientale è caratterizzata da specie di Capparis, Pterospermum, Eugenia, Ixora, Mimusops, Diospyros, e Strychnos con foglie decidue e spinescenti. Vi sono molte Leguminose, Graminacee, Tiliacee, Ramnacee, Asclepiadacee, Convolvulacee, Euforbiacee e vaste zone sono esclusivamente rivestite di bambù (Bambusa arundinacea e Dendrocalamus stricta). Sulle colline rocciose crescono: Givotia rottleriana, Sterculia urens, Gyrocarpus Jacquinii, Cochlospermum gossypium, Cassia fistula, Euphorbia antiquorum. Lungo la costa nel semideserto sabbioso dell'estremo S. la palma di Palmira (Borassus flabelliformis) forma vasti ammassi, nell'interno vi sono formazioni simili di Phoenix silvestris; il Santalum album si trova nella parte meridionale centrale della regione.
Fauna. - Nella fauna indiana i Mammiferi sono assai riccamente rappresentati. Fra i Primati l'Hylobates, varî macachi, tra i quali il bunder (Macacus rhesus) che vive fino ai 2500 m. di altezza, il sileno (M. silenus) della costa del Malabar, il M. sinicus, ecc., il semnopiteco himalayano e l'entello (S. entellus). I Lemuri vi sono rappresentati dal Lori gracile, dal Lori tardigrado. Fra i Chirotteri notiamo la rossetta (Pteropus edulis) il più grande dei pipistrelli attuali, il Vespertilio muricola del nord dell'India, la Cerivoula picta, il Nyctinomus plicatus e il Megaderma lyra. Fra gl'Insettivori va notato il galeopiteco volante col suo caratteristico paracadute, costituito da una membrana distesa fra il corpo, gli arti anteriori e posteriori e la coda, la Gymnura suilla simile a un riccio ma priva di aculei, il riccio indiano, la tupaia malese simile a uno scoiattolo, alcune specie di crocidure. I Carnivori sono rappresentati da numerosissime specie: la tigre, il leopardo, il gatto viverrino, il gatto del Bengala, il gatto dorato, il marmorato, il ghepardo, molte specie di viverre tra cui la viverra indiana, il Linsanga, molte martore (Paradoxurus niger, Arctogale leucotis, Mustela flavigula Helictis), alcune specie di tassi, di lontre, il lupo indiano (Canis pallipes), la volpe indiana, il cane selvatico, le manguste, tra le quali il mungo (Herpestes mungo), l'urva con la caratteristica ghiandola anale dalla quale emette un liquido di odore disgustoso, alcuni orsi, il procione orientale.
I Rosicanti sono assai notevolmente rappresentati nella fauna indiana. Notiamo lo scoiattolo indiano, lo scoiattolo delle palme, lo scoiattolo volante, la marmotta del Himālaya, varî topi, ratti e arvicole, varie lepri tra cui la lepre indiana, molti istrici. Fra i Ruminanti il gauro, il bufalo indiano, la capra del Himālaya, il genere Hemitragus esclusivamente indiano, molte antilopi (l'antilope a quattro corna, l'antilope nera, la gazzella indiana, l'antilope nilgau caratteristica dell'India); varî cervi si trovano anche nell'India e fra questi il cervo indiano, il sambar, il cervo porcino, il muntjac, il cinghiale indiano. Il cinghiale nano, il rinoceronte indiano, il tapiro indiano rappresentano gli altri tipi di Artiodattili. L'elefante indiano vivente a branchi nei boschi dell'India rappresenta i Proboscidati nella regione.
I fiumi dell'India hanno anche rappresentanti del gruppo dei Cetacei quali il delfino del Gange. Infine varî Sdentati (Manis) completano il quadro della fauna mammologica indiana.
L'avifauna indiana è ricca di un numero rilevante di specie di uccelli, le quali sono in parte comprese in generi e famiglie rappresentate nella regione oloartica, mediterranea e sonorana, ma in gran parte sono esclusive della regione. Scarse sono invece le forme caratteristiche di Rettili dell'India. Notiamo varie testuggini, varani, gechi, molti ofidî e coccodrilli. Gli Anfibî non offrono peculiarità interessanti. Sono da citare la rana tigrina, il rospo indiano.
I Pesci sono rappresentati da un discreto numero di generi delle famiglie Nandidae, Ophiocephalidae, ecc., e organizzati in maniera da poter vivere fuori acqua e ciò in relazione con l'impetuosità e con la grande variabilità delle acque dei fiumi, per cui a volte un corso ricco di acqua nella stagione delle piogge, resta interamente all'asciutto durante il periodo di siccità; i pesci allora si nascondono nella melma che finisce poi per diventare anch'essa asciutta e qui trascorrono una fase di letargo.
Gli Artropodi sono molto rappresentati specie dagl'Insetti, notevoli per ricchezza di forme e varietà di colori. Tra i Coleotteri citeremo i Chalcosoma di mole considerevole e le cetonie dei generi Macronota e Heterorhina dai colori smaglianti. Fra gli Ortotteri interessanti i fasmidi del genere Phyllium. I Molluschi terrestri offrono notevoli forme di Cyclostomatidi particolari per la loro grandezza, forma e colore della conchiglia.
Suddivisioni naturali e tradizionali. - In rapporto con la riscontrata varietà di struttura, di rilievo, di clima, di rivestimento vegetale, di popolamento animale e umano, il grande paese può vedersi suddistinto in una serie di regioni naturali tipicamente differenziate, anche se i loro limiti rispettivi, in genere, restano compresi in zone di transizione più o meno larghe. La prima grande divisione si nota fra il versante himalayano (regione di montagna), il bassopiano indogangetico (regione di pianura) e la penisola (regione d'altopiano).
Genericamente corrisponde a questa la divisione tradizionale tra Hindostan (v.), o paese degl'Indiani in senso stretto, e Deccan: tuttavia quel primo termine spesso s'intende esteso oltre che alla pianura e alle colline prehimalayane, anche alle altre terre a N. del Narbada, come il secondo si restringe al triangolo a S. di tal fiume. La regione di montagna va suddivisa in cinque parti: 1, valle del Brahmaputra medio-inferiore, corrispondente alla regione storica dell'Assam (paesaggio forestale, umido, scarsamente popolato); 2, regione himalayana, ancora distinta in orientale (piovosa, quercia fra i 1500 m. s. m., conifere fino a 4000, poi zone alpine, nevi eterne, vette altissime) ed occidentale (col Kashmir in parte: rilievo più complesso, in più fasci di catene, minore umidità, conifere e ceduo misti dai 1500 m. s. m. in su); 3, regione subhimalayana, similmente distinta in orientale ed occidentale, dal piede dei rilievi sin verso i 1500 m. s. m. Una zona particolare è costituita dal Terai (v. Flora), che forma una robusta barriera fra le pianure e i paesi della montagna, in parte restati indipendenti (Nepal); 4, regione montuosa orientale, zona di passaggio dal Bengala e dall'Assam alla Birmania: catene e valli a stretto ventaglio, tendenti a direzione meridiana, notevole piovosità, foreste, scarsa popolazione; 5, regione collinosa-montagnosa del NO., corrispondente all'incirca alla provincia di frontiera di NO., zona di transizione dal paesaggio indiano a quello dell'Afghānistān.
La regione di pianura comprende: 6, la regione deltizia del Gange e Brahmaputra (appiattita, bassa, con intricata idrografia, umida, fittamente popolata salvo le Sunderbans costiere, fertile di riso e di iuta); 7, la regione del medio Gange o della pianura orientale (meno umida, pure assai fertile e popolosa). La precedente e la parte orientale di questa regione costituiscono il Bengala, più a monte seguono il Bihar e le Provincie Unite di Agra e Oudh; 8, la regione della pianura occidentale, comprendente il Panjab e il paese adiacente, circa sino a Delhi (paesi sempre più aridi, sovvenuti dall'irrigazione portata nei doab); 9, le terre alte dei Rājputi, con gli Aravalli, il Malwa e i Vindhya; 10, la regione arida di NO. (Sind, Thar o Deserto Indiano, Panjab meridionale); 11, il Kathiawar e il Gugerat transizione dalla precedente alla piovosa costa orientale.
Il Deccan infine si suddivide in due zone costiere (molto piovose e densamente popolate, specie al sud) e sei interne: 12, regione costiera occidentale, a nord Konkan e Kanara, a sud il Malabar proprio; 13, regione costiera occidentale (Coromandel): Carnatic o paese Tamil a sud, Circar e Orissa a nord; 14, Deccan lavico di NO. (piuttosto secco, ma con fertili terre nere da cotone, medio addensamento della popolazione); 15, Deccan centro-meridionale o Deccan proprio, coi territorî degli stati di Mysore e, in parte, di Haiderabad (poco piovoso, modesta irrigazione indigena, popolazione piuttosto rada); 16, Pianure alte del Berar e di Nagpur; 17, alte terre centrali (India Centrale in senso corrente, altipiano del Chota Nagpur); 18, piano del Chattisgarh e valle del Mahanadi (foresta rada, cultura e addensamento della popolazione nei fondi valle); 19, alte terre del Baster e Orissa e Ghati orientali settentrionali (foresta rada, scarsa popolazione).
Fisicamente si dovrebbe comprendere nell'India una 20ª regione costituita dall'isola di Ceylon, mentre politicamente restano unite all'impero indiano le regioni distinte del Belūcistān e della Birmania, oltre che tratti delle alte terre dell'Asia centrale nel NO.
Suddivisioni politiche e amministrative. - Per il valore della distinzione fra provincie e stati indigeni v. il paragrafo: Ordinamento politico-amministrativo. Varia e complessa se ne presenta la distribuzione territoriale, la quale tuttavia obbedisce a certe norme. Infatti: 1) lungo i confini terrestri come lungo le coste si susseguono quasi unicamente territorî britannici (eccezioni il Kashmir, il Belūcistān meridionale, qualche stato del Cutch e Kathiawar e il Travancore); 2) le aree più popolose sono nelle provincie; 3) i maggiori stati indigeni non hanno confini comuni, ma sono separati da tratti di territorio britannico.
Antropologia. - L'India è un punto d'incrocio delle razze del mondo. Solo qui si riscontrano entro uno spazio ristretto rappresentanti dei tre maggiori gruppi somatici umani: Europidi a pelle chiara, Mongolidi a faccia piatta e pelle giallastra, e Negridi a pelle scura. Ma in nessun altro luogo la confusione tra razza e popolo, tra aspetto fisico e lingua, ha portato a maggiori equivoci.
Essi ebbero origine da una straordinaria sopravalutazione del sanscrito, prodotta dalla gioia della sua scoperta, che condusse a basare tutta la linguistica e l'etnologia dell'India esclusivamente sul contrapposto tra gli Arî e i supposti autoctoni dell'India parlanti il dravidico. Onde anche il Risley, nel primo tentativo di una suddivisione scientifica dei gruppi zoologici umani in India, parlava di razze indoariche e dravidiche e dei loro incroci. Esistono certamente lingue ariane e lingue dravidiche, ma non esistono affatto tali razze, perché, per es., il territorio linguistico dravidico comprende tutti i tipi somatici presenti nell'India. E nonostante i successivi contributi di altri osservatori, rimanevano ancora aperti molti problemi sul posto da fare ai primitivi dell'India meridionale, sui confini da segnare tra questi e le razze superiori, e infine la questione, che sembra insolubile, dei rapporti delle singole razze con i diversi gruppi linguistici. Un contributo notevole alla soluzione di questi problemi fu portata dai risultati della spedizione germanica, condotta in India da E. von Eickstedt nel 1926-1929. È possibile ora circoscrivere, con limiti abbastanza precisi le aree di predominio dei diversi tipi e si è fatta qualche luce anche sulla storia delle razze della regione. Premettiamo un riassunto tabellare della nostra classificazione dei tipi e gruppi somatici dell'India.
I Veddidi. - Ciò che caratterizza in prima linea i Veddidi è la spiccata infantilità delle loro forme: la faccia da bambino liscia, rotonda con la fronte eretta, il naso camuso infantile, con le ali infantilmente rigonfiate, la bocca molle e piena, incurvata all'in basso, la parte facciale inferiore piccola, sfuggente e le proporzioni del corpo leggermente puerili, cioè un po' tarchiate, con mani e piedi delicati. Gli occhi sono grandi e aperti, spesso con uno sguardo molle e vellutato. Il colore della pelle è bruno, i capelli neri e ricciuti, la statura piccola. La testa presenta, come in tutte le principali razze indiane, forma stretta e lunga.
Da questo tipo fondamentale le singole sottorazze si distaccano in grado più o meno rilevante. Noi conosciamo sinora più esattamente i Senoidi nell'India citeriore e i Gondidi e Malidi in India. Di questi i Gondidi rappresentano il ramo occidentale progressivo, che entra in stretti rapporti con gl'Indidi. Qui la faccia è più lunga, la capigliatura più ricca, la parte inferiore del naso più stretta e il dorso nasale più alto. Ciò vale specialmente per gli uomini, mentre le donne presentano, come sempre, un tipo più primitivo. La statura è più alta, il colore della pelle un bruno mediochiaro. I capelli presentano già, per lo più, una forte tendenza al tipo liscio.
I Malidi invece sono molto primitivi. In molti individui la faccia è estremamente bassa; la fronte è perciò bassa, il mento appuntito, e, specie nelle donne, straordinariamente sfuggente. Il naso è molto largo e molto basso; la fronte eretta, sporgente molto all'infuori sugli occhi, non presenta però arcate. Le labbra sono abbastanza grosse, e spesso si trova anche un leggiero prognatismo, ciò che sottolinea un'espressione talora bestiale.
Specialmente degna di nota, oltre la bassa statura (v. sotto), la colorazione cutanea molto scura dei Malidi. Essi sono addirittura bruno-neri (Scala v. Luschan, n. 30). I capelli sono a riccioli stretti e possono essere in alcuni individui addirittura crespi. Tale fatto fa pensare a un antichissimo componente proto-negritoide.
La distribuzione dei Veddidi in India è oltremodo caratteristica. Essi si osservano in tutte le giungle mentre il terreno pianeggiante e aperto è in possesso degl'Indici. Ma spesso i due gruppi si sovrappongono e in vaste regioni dell'India le caste inferiori sono fortemente mescolate con sangue veddidico. I Gondidi si trovano soprattutto nelle regioni boscose nordiche del Deccan, nei monti Vindhya, nel Chota Nagpur, e nelle provincie centrali (Balga Bhulya, Oraon o Kurukh, Gond, Rhond). I Malidi si trovano invece nell'estremo sud donde si diramano sulle alture dei Ghati occidentali e dei Nallamalai (Kanikar, Kadr, Kurumbi e Pany). Gli Irula, Yanadi e Chenchu che vivono più al nord sono già mescolati fortemente col gruppo melanidico, e i famosi Vedda di Ceylon ne sono un ultimo piccolo ramo fortemente incrociato. Le tribù e le popolazioni prevalentemente veddidiche dell'India dovrebbero comprendere circa 25 milioni d'uomini.
I Melanidi. - I Melanidi sono caratterizzati da una eccezionale scurezza della pelle. I capelli sono ondulati, la faccia è rettangolare, e alquanto bassa, con mascella larga e molto sporgente sulla radice nasale. Quest'ultima è stretta, ma non alta, il dorso nasale è di media altezza e l'estremità nasale inferiore un po' larga. L'intelaiatura del naso presenta per ciò la medesima forma a triangolo degl'Indidi. Le labbra sono abbastanza piene, la statura medio-alta. In complesso il tipo degl'Indo-melanidi si accosta relativamente da vicino a quello degl'Indidi e con ciò ai Sud-europidi. Ma la forma dei capelli e delle labbra e specialmente la colorazione cutanea bruna-scura-cupa li avvicina al gruppo delle razze negridi. Abbiamo qui dunque dinanzi a noi un'antichissima forma di contatto, tra Sud-europei e Negridi orientali.
Per quanto concerne la distribuzione dei Melanidi si possono stabilire due gruppi nettamente distinti. Uno si trova nell'angolo nord-orientale del Deccan, l'altro nelle pianure sud-orientali della penisola. Il primo tipo, settentrionale, è fortemente influenzato dai circostanti Gondidi, e data la sua grande estensione tra i cosiddetti Kolarî, viene denominato tipo Kolida (o Nord-melanida). Si trova nella massima purezza fra i Santal e gli Ho, meno tra i Munda e i Sora. Da questi ultimi, che vivono nei Ghati orientali, una striscia di tipo melanida si estende verso sud e stabilisce con ciò ancora la congiunzione con la massa principale dei veri e proprî Melanidi nell'India meridionale, o Sud-Melanidi. Qui 18 milioni di Tamili dell'attuale provincia di Madras sono in prevalenza di razza melanidica. Da qui si estendono anche alla parte settentrionale di Ceylon.
Gl'Indidi. - Gl'Indidi appartengono ai gruppi sud-europidi a testa lunga, ma sono di corporatura più gracile delle razze consorelle. La statura è media, la capigliatura nera quasi liscia, il colorito della pelle un bruno chiaro, che assume talora tonalità giallo-frumentine. La faccia è di lunghezza media, la fronte eretta, stretta ed un po' prominente, le occhiaie sono grandi e le labbra di grossezza media. I lineamenti sono spesso caratterizzati da una certa mollezza. Il naso, stretto alla radice ed ingrossantesi regolarmente verso il basso, presenta una forma nettamente triangolare. Nelle donne si osservano talora caratteri leggermente primitivi, come bocca infantile e mento sfuggente.
Di fronte ai veri e proprî Indidi, piccoli di statura e gracili, stanno gl'Indidi del Nord quale forma distinta, ma imparentata. Qui la statura è notevolmente maggiore, l'intelaiatura ossea più rude, la capigliatura notevolmente abbondante, le labbra più grosse e la faccia più lunga. Del resto la tipica fisionomia degl'Indidi rimane inalterata. Oltre a ciò si riscontra negl'Indidi tutta una serie di tipi particolari a qualche tribù, alcuni dei quali debbono venir considerati come espressioni locali del tipo indida, così i Keralidi nel Malabar a faccia molto lunga, oppure il tipo montano a piccola statura dei Garhwalidi all'orlo meridionale del Himālaya, mentre altri hanno avuto origine da incroci come i Brachidi orientali, a testa corta, del Bengala, incrociati coi Mongolidi e gli abitanti a testa corta del Maharashtra (Presidenza di Bombay) incrociati con Turanidi.
Il territorio di distribuzione si estende dal medio Afghānistān e Belūcistān, attraverso i bacini dell'Indo e del Gange, profondamente anche nella penisola. Quasi sempre sono in loro possesso i fertili terreni agricoli. Nel Deccan gl'Indidi sono penetrati profondamente nei territorî dei primitivi ed inviano anche oggi continuamente nuove cellule colonizzatrici nei territorî boschivi. Gl'Indidi del Nord occupano anzitutto il Panjab, dove i Sikh rappresentano un gruppo caratteristico, poi il Rajputana ed alcuni territorî nell'Afghānistān. Nella regione del Gange essi si osservano specialmente tra le caste più alte e la casta dei guerrieri. Anche nel Deccan centrale si trovano diramazioni dei Nord-Indidi. Essi formano la congiunzione con una frazione che poté conservarsi quasi pura sui pascoli dell'alta montagna: i Toda dei Nilgiri. Anche Ceylon possiede, specialmente nei Singalesi di montagna, notevoli mescolanze nord-indidiche.
Riepilogando i fatti di distribuzione, notiamo che i gruppi a colorazione cutanea scura (Melanidi e Malidi) si presentano esclusivamente nell'estremità meridionale della penisola o nei suoi più remoti territorî di regresso; essi si rivelano con ciò come le forme maggiormente arcaiche. I gruppi primitivi (Gondidi e Malidi) si osservano esclusivamente nelle giungle folte e nelle foreste di montagna, alle quali sono legati dalla loro vita di cacciatori. Gl'Indidi si sono invece impadroniti dovunque dei terreni fertili. Essi vivono perciò prevalentemente lungo tutte le piane fluviali e i terreni alluvionali costieri, e oltre a ciò - specialmente i Nord-Indidi - spesso quali pastori nelle praterie del NO. e del centro.
La conformazione del terreno in India ci aiuta ora a intendere come si siano svolti gli avvenimenti principali di questa storia raziale. Anzitutto, l'unica porta d'accesso all'India è nel nord-ovest. Già i pastori nomadi arî presero questa via. Alessandro passò di qui, seguirono i Huna, i Turuska, gli Ephthaliti e altri popoli dell'Asia centrale e infine l'onda distruttrice islamica. E solamente per tale via possono essere immigrati gl'Indidi. La loro fiorente civiltà, molto anteriore all'epoca ariana, è dimostrata dai risultati degli scavi archeologici di Harappa, Nal, Mohenjo-Daro.
Ma anche l'altipiano, circondato da una folta corona di boschi e con esso tutto il sud della penisola, possiedono il loro più facile accesso nel nord-ovest, per le valli del Tapti e del Nerbada. Per tale via poterono facilmente penetrare i primitivi cacciatori che preferivano le savane arborate (quindi i Veddidi); da qui dovevano seguir loro forzatamente i popoli agricoltori (cioè gl'Indidi) alla ricerca di nuovi territorî.
Una volta penetrati dal NO. sull'altipiano del Deccan, in quella regione in cui - e ciò è veramente tipico - dovevano sorgere le magnifiche civiltà di Amraoti e Ajanta, l'ulteriore via era chiaramente segnata. Poiché la massa deccanica si abbassa dolcemente verso oriente, e perciò tutti i fiumi prendono tale direzione e inviano là le strisce di terreni coltivabili. E la stessa direzione dovettero prendere le successive razze immigrate.
I Melanidi devono essere sbocciati da un'antica radice indonegride sino ad oggi non meglio conosciuta né esattamente descrivibile. Perché nell'oriente e nell'occidente, nella Melanesia e nell'Africa, l'umanità meridionale negridica poté conservarsi nei grandi territorî boscosi, relativamente pura, e solamente alcuni gruppi più settentrionali furono trasformati, in conseguenza dell'urto con l'umanità nordica, in particolari forme di contatto (Neomelanesidi, Etiopidi); ma, nella tanto più piccola India poté mantenersi solamente la forma di contatto come tale. Che ciò sia stato anzi possibile è dovuto probabilmente al doppio vallo difensivo delle foreste del Deccan. Una rapida penetrazione degl'Indidi coltivatori ha poi indidizzato la regione, dando origine ai Melanidi. Nelle giungle furono però i Veddidi l'elemento più attivo, e ad essi si deve l'origine di una forma di contatto, i Malidi, e la cacciata di questi ultimi verso l'estremità della penisola.
Quale ultima onda penetrata in India dal nord-ovest, possiamo considerare i Nord-Indidi. Forse gli "Arî" erano in gran parte di razza nord-indidica. Ma noi siamo in queste più recenti epoche della storia delle razze tanto più incerti, in quanto col progredire della civiltà la dipendenza dal suolo diviene minore e le razze non si respingono, ma si sovrappongono.
Anche le relazioni tra razze e lingue divengono ora più chiare. Esse sono completamente diverse da quanto ci si figurava, verso la metà del secolo scorso, negli ambienti dei sanscritisti. Il dravidico era la lingua degl'Indidi di alta cultura, l'ariano si introdusse da nord-ovest solo in epoca recentissima della storia delle razze, nel secondo millennio avanti Cristo. Il dravidico fu da allora ricacciato solo tra gl'Indidi dei più lontani territorî, come il Malabar e il Telingana. Esso si diffuse però dal canto suo a tutti i popoli più antichi, sicché Malidi, Melanidi e Veddidi, parlano oggi quasi solo dravidico. Una razza dravidica perciò non esiste.
Oltre all'ariano e al dravidico c'è ancora solo un altro gruppo linguistico notevole, cioè il munda, nell'estremo nord-ovest del Deccan. Per le sue strette affinità con il Mon-Khmer dell'India posteriore, esso faceva supporre infiltrazione di genti mongoloidi. Tale supposizione fu confermata dalla spedizione germanica in India, che riuscì a constatare una notevole infiltrazione di razze mongoliche tra i Munda. Ma le infiltrazioni mongoliche si estendono anche fuori dell'attuale area munda e si può ammettere che i Munda avessero una volta posto sotto la loro signoria politica una gran parte dell'India, e che solo l'avanzante colonizzazione indidica guidata dagli Arî, nel suo procedere lungo la valle del Gange, li separasse dalla loro base facendo perdere loro ogni importanza. Le ricerche preistoriche di Heine-Geldern portano l'appoggio archeologico allo sviluppo di questi avvenimenti e persino alcuni elementi positivi sulla loro cronologia assoluta.
Quale razza straniera abbiamo in India un gruppo della cerchia mongolica, i Paleomongolidi; ma solo nei monti dell'Assam, che appartengono politicamente, non geograficamente, all'India, essi formano la maggioranza della popolazione. Dal punto di vista cronologico essi sono nella vera e propria India la più antica delle tre grandi infiltrazioni di razze straniere. La seconda incomincia a osservarsi appena un millennio dopo di essi, cioè con i popoli avanzatisi dall'Asia centrale. Essi, pur essendo, come tutti i nomadi, notevolmente mescolati, appaiono in prevalenza di razza turanica. Il loro influsso è molto notevole nell'India occidentale. Quale terza infiltrazione va considerata quella del tipo orientalide, penetrata in India con le irruzioni maomettane.
Ma essi si sono diffusi molto meno dei loro predecessori, perché, innalzandosi la cultura, si verificò un maggior distacco dei varî gruppi tra di loro. Esso portò alla formazione antropologica di cellule che furono notevolmente incapsulate tra di loro in seguito al sistema delle caste.
Etnologia. - Strati e provincie culturali. - Allo stato presente delle conoscenze, che vanno però rapidamente arricchendosi, è prematura un'analisi della compagine culturale dell'India che ponga in relazione i suoi molteplici e disparati elementi con i rinvenimenti preistorici, con i dati delle fonti storico-letterarie e con l'attuale distribuzione delle culture più o meno primitive anche fuori della regione. L'ideale sarebbe di poter stabilire un collegamento sicuro con le culture preistoriche mediterranee e africane, da un lato, e con le culture neolitiche attuali dell'Oceania dall'altro; l'India potrebbe essere in tal modo la chiave di vòlta nella ricostruzione della storia della civiltà, e fornire anche dati preziosi per la cronologia.
Un fenomeno analogo a quello che è intervenuto ad alterare nella penisola, i rapporti fra razze e lingue (v. sopra: Antropologia) è avvenuto, e in misura anche più rilevante, nella diffusione delle culture; gli elementi culturali più arcaici sono in uno stato di estrema frammentazione e quello che si potrebbe considerare come il patrimonio culturale indigeno di fronte all'induismo, patrimonio che è in continua riduzione e decadenza per i progressi di quello, si è accumulato di preferenza nelle aree di meno facile penetrazione, che sono poi quelle stesse dove persistono i tipi somatici più primitivi. Ma, appunto perché formato dal successivo rifluire nei territorî più isolati dei residui delle culture perdenti, tale patrimonio ha un carattere tutt'altro che omogeneo, spesso ben poco primitivo, e soprattutto non riferibile a un determinato gruppo etnolinguistico o a un dato tipo somatico.
La riduzione degli elementi culturali arcaici è avvenuta specialmente nelle forme dell'esistenza materiale e in certi prodotti tecnici. Il ferro, per es., ha sostituito presso tutte le genti della regione, anche fra le tribù più selvatiche della giungla, ogni altro materiale per le armi e gli utensili. Maggiore resistenza han mostrato di possedere gli elementi arcaici nella vita sociale e spirituale, e su gran parte del territorio indiano la cultura del popolo ne conserva forti tracce. La rappresentazione forse più approssimata della presente localizzazione delle culture inferiori può esser data dalla distribuzione degli "animisti" (v. cartina, p. 21) per quanto l'accertamento di questi nelle operazioni del censimento sia soggetto a riserve.
Questi, che sarebbero veramente gl'isolati di fronte all'induismo, risultano, quasi sempre, in numero assai minore delle rispettive unita etniche, rilevate per mezzo della lingua; ma la loro esatta localizzazione rimane molto imperfettamente nota.
Per questo, e per il fatto che le differenze regionali si presentano sempre in modo graduale, riesce difficile anche delineare, con limiti abbastanza definiti, le regioni culturali dell'India. Possiamo distinguere, all'incirca, una provincia indo-gangetica, tipicamente ariana, penetrante, per un tratto anche lungo la costa occidentale del Deccan; una zona sub-himalayana caratterizzata dalla presenza di culture miste indo-tibetane; e una provincia "peninsulare", in cui si mantiene quanto è rimasto degli idiomi pre-arî e appare dovunque più viva la reazione del vecchio composto culturale dravidico. Un posto a parte spetta, infine, alle cosiddette tribù della giungla, dei gruppi cioè che sono sfuggiti all'organizzazione sociale dell'induismo e mantengono il possesso delle aree più incolte e meno accessibili del Deccan, nel Chota Nagpur, in qualche tratto dei M. Vindhya e Aravalli, e nei distretti montuosi più elevati dei Ghati occidentali (Nilgiri). S'incontrano in questi luoghi alcune tribù molto primitive, e altre che lo sono assai meno, ma non meno interessanti per l'etnologo, che può trovare in esse, in migliore stato di conservazione, i residui di culture arcaiche, delle quali singoli elementi dissociati compaiono sporadicamente in tutta la penisola indiana. Nella stessa categoria si devono porre le tribù montanare dell'Assam (v. indocina).
Le culture primitive e i loro residui. - Alcune tribù dravidiche o soltanto dravidizzate dell'altipiano dei Nilgiri e dei distretti montuosi vicini - uno dei massicci culminanti del Deccan - vivono ancora esclusivamente della raccolta delle radici e dei frutti selvatici e della caccia, come i loro similari e più primitivi Vedda, i cacciatori della giungla di Ceylon. Sono principalmente i Paliyan, i Paniyan, qualche frazione dei Nayar e degl'Irulan montanari, i Kanikar (Kanikarar) del Travancore: in condizioni analoghe vivono nel nord forse soltanto i Kharia e i Birhor, tribù munda del Chota Nagpur.
Fuori di questi gruppi, anche le tribù culturalmente più povere dei Nilgiri e dei tratti più isolati delle Provincie Centrali e del Chota Nagpur ai prodotti naturali della foresta aggiungono quelli dell'agricoltura: in qualche zona si trovano ancora tracce di una primitiva coltivazione alla zappa, ma un aratro più o meno rozzo e semplice è usato ormai presso che dovunque e il termine sanscritico per l'aratro (langal), come quello del villaggio (para o palli), fa parte di quel notevole gruppo di vocaboli culturali che le ricerche paleo-linguistiche avrebbero identificato, nel sanscrito, come apporto degl'idiomi munda. I Munda sembrano dunque essere i portatori più genuini di questo tipo di economia nella penisola indiana e poiché le tracce dei loro linguaggi, secondo Sten Konow e Grierson, si trovano verso O. sino alle pendici himalayane del Panjab e tra i Bhil, si tende oggi a pensare che essi costituissero, all'arrivo degli Arî, la popolazione dominante della pianura indo-gangetica, mentre i Dravida tenevano già allora piuttosto il dominio del Deccan. Gli uni e gli altri, comunque, in possesso di una civiltà assai elevata, onde quei tratti più primitivi che sono caratteristici di molte loro tribù sono da considerare come il patrimonio di un più antico strato culturale, rappresentato allora da un gran numero di tribù viventi di caccia e di raccolta ai margini delle civiltà agricole.
Le tribù che hanno tuttora conservato alla caccia una funzione economica prevalente o importante presentano non pochi elementi culturali primitivi. Armi e utensili, insieme, di queste genti sono l'arco, di tipo semplice comune, con le frecce, talora avvelenate, e l'accetta di ferro: per la caccia agli uccelli varie tribù usano anche la fionda e un bastone piatto da getto molto simile al bumerang australiano (Paliyan, Gond, Koli, ecc.). L'abitazione, fuori di qualche rara occorrenza di capanne emisferiche o coniche, usate specialmente come dimora temporanea (Bhil, Birhor), è la capanna a pianta quadrangolare con tetto a spioventi, coperto di foglie o di paglia: le pareti, specie nel nord, sono coperte da uno strato di argilla. I Kanikar, per un antico uso derivato forse da ragioni di difesa, ne costruiscono anche sugli alberi. Case speciali per i celibi e, talvolta, anche per le fanciulle sono molto comuni.
Ancora al tempo dei primi contatti con gli Europei, persisteva in qualcuna di queste tribù l'abbigliamento originario, consistente in grembiuletti di erba o foglie oppure in copripudende di scorza di albero battuta o di fibre di palme intrecciate: oggi, salvo rare occasionali eccezioni (Paliyan, Kui, Juang), esso è sostituito dalla cotonata avvolta intorno al fianco, negli uomini, e dal sari di cotone assicurato sotto le ascelle, nelle donne. Gli ornamenti personali, costituiti da orecchini, anelli per le narici, armille, collane, fiori per le danze, come anche le deformazioni artificiali del corpo, appaiono, in complesso, poco sviluppate, forse in una fase di decadenza. Piccoli tatuaggi e anche cicatrici ornamentali (Oraon) si trovano però ancora comunemente e nei distretti montuosi del SO. è praticata la limatura dei denti in riti iniziatici.
L'ordinamento sociale, specialmente nei gruppi Munda, Gond e Bhil, si basa sulla divisione della tribù in clan esogamici totemistici: i totem sono per lo più animali o piante, talvolta anche oggetti inanimati, in ogni caso considerati sacri e tabù. La famiglia è a discendenza paterna. Il matrimonio si compie col ritiro o la fuga degli sposi nel bosco: la simulazione del ratto è pure frequente. Per la sposa è pagato generalmente un prezzo, che talora è sostituito da un periodo di servizio dello sposo nella casa di lei. Il matrimonio simbolico con un albero, passato con significati speciali anche nell'induismo, appare nelle cerimonie nuziali dei Munda come rito di fertilità. Prima del matrimonio, la vita sessuale è molto libera: le case dei celibi, fra gli Oraon e molte altre tribù, sono visitate di notte dalle zitelle, e varie feste, e soprattutto quelle connesse con i raccolti o con le vicende stagionali della vegetazione, si svolgono essenzialmente come riti orgiastici e sessuali. La danza vi ha, naturalmente, molta parte: ogni villaggio ha di solito per essa un apposito luogo, nel cui centro è confitto un paio decorato simbolicamente (Oraon). Fra i Gond, i Juang, i Paniyan sussistono anche danze mimetiche di animali (per la caccia) o di deità.
Alcuni di questi riti erano una volta contrassegnati perfino da sacrifizî umani (Gond, Khond), che non sono forse del tutto scomparsi: ma le vittime sono ormai piuttosto animali o figure di paglia o di legno. Il sacrifizio di un gallo, o di una capra o di un bufalo costituisce la parte essenziale, poi, dei numerosi riti propiziatorî o di scongiuro: numerosi, perché le idee religiose si aggirano intorno a un complesso e multiforme animismo che popola la vita dell'uomo e della tribù con una moltitudine di spiriti maligni da propiziare. Ogni villaggio ha i suoi e altri, vagabondi, hanno la loro sede in alberi, fiumi, pietre, sorgenti. Esistono anche spiriti tutelari e alcune deità superiori: la più venerata, specie fra le tribù Munda, è il Sole. Altre si identificano col Fuoco (Munda, Santal), la Luna, il "dio della Montagna", o la dea-madre terrestre. Tra gli Oraon e varie altre tribù, una specie di culto degli antenati si manifesta pure in tutti i riti natalizî, nuziali e funebri. I morti vengono inumati nel suolo, o seppelliti sotto cumuli di pietre, oppure cremati e le loro ceneri deposte sotto un basso dolmen (Ho): l'erezione di pietre confitte nel suolo (menhir), per quanto sempre più sostituita da quella di pali di legno scolpiti, è ancora praticata da varie tribù munda (Ho, Horo, Bhumij), analogamente a quel che si usa dalle tribù montanare dell'Assam.
Un posto a sé, fra le genti sfuggite all'influenza dell'induismo, spetta alle tribù pastorali dei Nilgiri: fra questi, i Toda, specialmente, hanno conservato, nell'isolamento offerto dalla montagna, molti tratti arcaici e genuini di una stirpe di pastori venuti dal nord con il loro bestiame e il culto divino della vacca da latte. Tratti singolari, che sono ormai minacciati, come tutti i residui delle culture primitive del SO., anche dall'azione disgregatrice e assorbente delle grandi piantagioni coloniali che sono diffuse nel Malabar.
I caratteri etnologici distintivi del territorio peninsulare, all'infuori delle tribù menzionate, sono dati principalmente dalla larga persistenza degl'idiomi dravidici (v. dravidiche, lingue), dall'attenuata influenza di tutte le correnti culturali più recenti e, per contro, dalla maggiore diffusione e intensità delle reazioni di culture pre-induistiche: onde nell'insieme, la regione presenta un aspetto culturale più arcaico, o, se si vuole, più barbarico che non sia nel nord. Tutto si svolge però entro all'ordinamento etnico-sociale della casta, imposto dall'induismo. Le caste, rigorosamente endogame, sono quasi sempre suddivise in gruppi e sottogruppi, gli ultimi dei quali (gotra, got, ecc.) si possono considerare come gruppi matrimoniali e sono rigorosamente esogamici. Ora, nelle Provincie centrali, nell'Orissa e fra i Dravida orientali, specie i Telugu, questi gruppi o sezioni sono chiaramente totemici, portano cioè il nome di un animale (più di rado di un altro oggetto) cui usano particolare rispetto e venerazione. Né queste sopravvivenze del totemismo sono esclusive delle caste inferiori, perché sono state rilevate anche fra caste assai elevate, come i Kumhar (vasai) dell'Orissa, i Chamar (cuoiai) gli Ahir (pastori), i Barai (falegnami) delle Provincie centrali, ecc.: l'utilità sociale ha determinato dunque la persistenza di un costume antico.
Meno facile a conciliare con l'induismo è l'esistenza della famiglia a discendenza materna, e di varî costumi più o meno direttamente connessi con essa, nell'India dravidica del SO. e specialmente nel Canara meridionale e nella zona costiera del Malabar. La discendenza "attraverso il figlio della sorella", detta in canarese aliya santana, implica, dove è in pieno vigore, la permanenza della sposa nella sua famiglia, che accoglie oppure ospita il marito: e se anche essa segue il marito in una nuova casa, i figli appartengono al clan della madre. La proprietà rimane indivisa alla grande famiglia matriarcale, composta di tutti i discendenti in linea femminile da un'antenata comune, che non abbiano abbandonata la casa materna. Si tratta dunque di quello che è stato chiamato il matriarcato libero, sebbene due caste Telugu, i Mukadora e i Tottiyan, mostrino tracce del più primitivo sistema matriarcale (esogamico) delle due classi, essendo ogni clan spartito in due generali fratrie. Con il matriarcato si sogliono collegare taluni riti iniziatici femminili e specialmente le feste per la prima mestruazione (Nayar), il culto segreto di Sakti, il costume della "covata", notato fra i Korava di Madras, i Pomla del Baroda, varie caste basse del Malabar, e la grande libertà sessuale delle donne dopo il matrimonio, il quale può essere in alcune caste molto facilmente sciolto. Taluni di questi costumi s'incontrano qua e là in tutta l'India dravidica e anche fuori di essa (Jat del Panjab).
Alcune caste matriarcali del Malabar (Nayar o Nair) e del Travancore (Mudavar) praticavano apertamente, sino a tempi recenti, un sistema di poliandria libera: più diffusa, e ancora in vigore, è la poliandria fraterna, sia fra alcune tribù montanare (Toda, Kurumba), sia fra le caste basse del Malabar. Anche dove non è legalmente sancita, l'appartenenza della sposa ai fratelli coabitanti del marito è ampiamente tollerata, e tale uso è stato osservato anche fra alcune tribù dell'India centrale (Oraon). È, questo, uno dei pochi indizî attestanti che anche le tribù Munda abbiano risentita l'influenza delle culture matriarcali delle quali l'India dravidica e quella mongoloide mostrano tuttora così fortemente l'impronta.
Nello stesso senso testimoniano le forme assunte dal brahmanesimo nel culto popolare, nel quale poco o nulla è passato del pensiero religioso e filosofico dei Veda, e risorge invece quasi intatto il multiforme patrimonio delle concezioni animistiche e mitologiche degl'indigeni prearî, con le divinità zoomorfiche o mostruose, il culto fallico, le coppie divine rappresentate nell'amplesso simboleggiante la creazione, la prostituzione sacra. La preponderanza delle deità femminili, quasi ignote ai Veda, era comune un tempo fra le popolazioni indigene dell'India, che sembrano aver avuto un culto generale della Gran Madre (Tucci).
Torna qui opportuno ricordare che i sacrifici umani, che si possono considerare come l'equivalente della caccia alle teste dell'Indocina e dell'Indonesia, erano anticamente un importante elemento rituale, consumato anche fuori delle tribù della giungla. Nel Malabar, nei secoli XVI e XVII, esisteva ancora il sacrificio rituale del re, effettuato ogni dodici anni, un costume che ha numerosi riscontri nell'Africa negra.
Alcuni di questi caratteri culturali arcaici si ripresentano al di là della pianura indo-gangetica, fra i popoli della cerchia montuosa settentrionale. Sui monti dell'Assam, le tribù Bodo dei Garo, dei Rabha, dei Pani Koch e il forte gruppo dei Khasi, hanno tuttora in piena efficienza la costituzione matriarcale della famiglia. Sul versante himalayano questa non si ritrova più: ma nelle tribù di origine birmana o tibetana si può dire dominante, dal Bhutan al Ladak, la poliandria fraterna. Anche dove la famiglia è monogamica o poligamica, però, la donna gode di notevole libertà e considerazione. La religione prevalente è qui il buddhismo, ma con una larga adozione di śivaismo e, soprattutto, con una larga persistenza di concezioni e superstizioni primitive.
La cultura materiale di queste popolazioni montanare riflette le particolari condizioni dell'ambiente, e presenta talora anche oggetti e costumi che richiamano la vita delle nostre popolazioni alpine: fra questi è l'abitazione di tipo alpino (largo uso di legname per il piano superiore, ballatoi, tetto a spioventi, ecc.) del versante meridionale del Himālaya, che pare si diffonda, forse con interruzioni, dal Kafiristan alla Cina. Le vallate più alte e il versante interno hanno invece la casa di pietra o di argilla a tetto piatto, più o meno influenzata da motivi architettonici indiani (verande) o tibetani. Si nota comunque, come avviene nelle nostre regioni montuose, la tendenza a raccogliere tutti gli ambienti sotto lo stesso tetto e a sviluppare la casa in altezza. I Dafla e gli Abor hanno case collettive. L'abbigliamento comprende tessuti di lana di fabbricazione locale, pelli di capra e di pecora, gambali, scarpe o sandali di pelo di capra, ecc. Il costume dei montanari indo-irani appare molto simile a quello dei pastori dell'Europa orientale o dell'antico Mediterraneo e proviene probabilmente, come la casa di tipo alpino, da un comune centro di diffusione. Nelle tribù tibetane le vesti sono più calde e ricche di colori e di ornamenti.
A mano a mano che si procede da E. a O., muta infatti, in questa zona montana, la composizione della popolazione. Le tribù più orientali del Himālaya, in territorio politicamente cinese (Mishmi, Abor, Miri, Dafla, Aka), parlano tibetano, ma presentano già talvolta fisionomia indiana: ciò si osserva più frequentemente fra i Bhutia e i Mech del Bhutan e fra i Lepcha del Sikkim. Il Nepal ha due strati distinti di popolazione, il tibetano e l'indiano e la cultura è notevolmente induizzata. Più ad O., nel Nepal occidentale e nel Kashmir, prevalgono gl'idiomi ariani e il tipo della popolazione e la cultura mostrano scarse tracce d'influssi tibetani, i quali si fanno gradatamente più sensibili soltanto nel bacino superiore dell'Indo (Baltì, Ladaki). Le regioni montane più occidentali hanno conservato anzi, in uno stato di notevole purezza, alcuni gruppi ariani e la loro originaria costituzione in tribù: sono i Shina, i Khowar, i Brokpa, riuniti per lo più sotto la designazione di Dardi, sui quali, dal sec. XV, si è diffuso l'islamismo.
Un'ulteriore prova dell'efficacia protettiva della montagna è offerta dall'esistenza di un idioma arcaico e isolato nelle vallate di Hunza e Nagyr (Burushaski o Kagiuna).
La cultura e la società indiana. - Lo strato superiore della civiltà indiana, quando si faccia astrazione da talune fattezze sociali e religiose, presenta un quadro non molto dissimile da quello offerto dalla cultura tradizionale dell'Asia Anteriore e dei paesi mediterranei. Non sappiamo quanto di tale affinità e somiglianza sia effettivamente dovuto alla diffusione degli Arî. Ad essa si attribuisce volentieri l'introduzione della grande famiglia pastorale e patriarcale, che d'altronde è, nell'Asia, patrimonio culturale tipico di molte genti anarie. È da tener presente, piuttosto, che l'India sembra entrare nella sfera d'influenza delle civiltà occidentali, sin da tempi preistorici, e che in nessun periodo, di poi, i contatti s'interrompono del tutto. Il periodo di maggiore isolamento, e quindi di stasi e decadenza culturale, si ebbe forse per l'India dalla fine del secolo XVII, che segna anche la fine dell'attività culturale islamica, a questi ultimi decennî, nei quali la cultura europea ha cominciato a esercitare un'influenza profonda, in gran parte distruttiva verso l'economia e la vita indigena, ma in parte indubbiamente anche riedificatrice. Gli elementi fondamentali della cultura indiana, nell'economia rurale (agricoltura all'aratro e cerealicoltura, irrigazione con cisterne e canali, allevamento), nello sviluppo dell'architettura rurale e cittadina, nell'abbigliamento, nella tecnica e nei prodotti delle comuni industrie (tessitura con telaio a pedale, ceramica al tornio, metallurgia), sono dunque quelli ben familiari nella cerchia delle civiltà dalle quali deriva anche la nostra. Soltanto, l'India, come zona periferica e marginale di quella cerchia, ha dovuto seguirne in ritardo l'evoluzione e molti elementi della vita materiale come della spirituale, presentano forme antiquate.
Le abitazioni dei coltivatori, che costituiscono forse il 70% dell'intera popolazione, sono di solito raccolte in villaggi, di forma irregolare, che in taluni distretti più tormentati, in passato, dalla guerra, sono ancora cinti dall'antica fortificazione. I villaggi indù sono inoltre suddivisi nei quartieri addetti alle varie caste o gruppi di caste. Solo in pochi luoghi (delta del Gange, Malabar), le fattorie sono isolate fra campi e giardini. È anche rara l'abitazione costituita da un'unica costruzione, salvo i tratti più poveri della zona montana del nord e qualche distretto peninsulare: il tipo dominante è invece quello della "corte", riunione di varî edifici o capanne (abitazione, tempietto, cucina, stalle) intorno a uno spazio chiuso da un muro più alto nelle case musulmane, nel quale sono tenuti anche i raccolti e gli animali. Il numero e l'importanza delle costruzioni varia con la condizione economica: una masseria di agricoltori abbastanza ricchi, nei quali il purdah (isolamento delle donne) sia più osservato, non manca mai di una seconda corte interna apposita per le donne e di una costruzione speciale, prossima all'ingresso della corte, per ricevere i visitatori e nella quale dormono i giovani. Dal Bengala e dal Panjab al Malabar, questa struttura si mantiene sostanzialmente immutata. Anche i materiali e le forme variano poco: nel nordovest, più arido, i tetti sono piatti, nelle provincie orientali e nel Deccan hanno due o quattro spioventi, e sono coperti di paglia, più raramente di embrici, ora in misura crescente anche di lamiera. Le pareti e i muri di cinta sono di graticcio, talora spalmato di fango, oppure interamente di fango seccato al sole.
L'agricoltura dell'India temperata del NO. sembra aver ricevuto dall'occidente tutti i suoi elementi: quella dei distretti peninsulari contiene invece molti elementi che sono, secondo ogni probabilità, autoctoni. La canna da zucchero (sanscr. śarkarā, pāli sakkarā), il cotone, il taro, e fra gli animali, l'elefante domestico. Ragguardevole contributo dell'India all'economia e alla civiltà mondiale, che diviene inestimabile se dobbiamo aggiungervi, sul parere di molti studiosi, la coltivazione del riso e la prima domesticazione dei bovini. È opportuno tener presente, a quest'ultimo riguardo, che la vacca, per gl'Indù, è sacra e che il latte ha una parte essenziale nelle offerte e nei sacrifici. Ogni cibo animale è del resto interdetto al credente induista, fatta eccezione per il latte e i suoi derivati. Il bue indiano è il gibbuto zebù, il cui parente selvatico si ha nel banteng dell'Insulindia. La cattura degli elefanti giovani, che si pratica con fosse o recinti e con l'aiuto degli animali già addomesticati, si fa su larga scala nelle foreste della penisola: in tre o quattro mesi la domesticazione è ottenuta. Nell'India meridionale assumono grande importanza le palme coltivate (palmira, palme del cocco e del betel), che forniscono anche bevande inebrianti (toddy, vino di palma) e il betel, un narcotico da masticare.
L'abbigliamento possiede da un'antichità imprecisabile i tessuti di cotone, di complessità, ricchezza e dimensioni variabili con la condizione sociale e col clima. Nel sud, contadini e artigiani lo limitano a una fascia intorno ai fianchi e le donne, anche nelle caste più alte, possono talvolta portare il petto scoperto. Di solito, però, il sari gira intorno a una spalla, coprendo il petto, e lasciando scoperta l'altra spalla: nel nord e negli abiti di cerimonia esso avvolge anche la testa. La moda maschile per le caste alte (turbante, giubbe ricamate, soprabiti, pantaloni) si è mantenuta fedele, sino a tempi recenti, ai vecchi modelli persiani, sostituiti ormai da quelli europei: e in decadenza è anche l'arte indigena dei tessuti di seta e di lino, con fili d'oro e d'argento, ricercati ed esportati fin dall'antichità. Grande l'amore per gli ornamenti e specie per i gioielli (oro, perle), che le donne portano agli orecchi, alla narice, al collo, alle braccia, alle caviglie: la popolazione povera si accontenta di collane di semi o di conterie, e di oggetti di vetro o d'avorio e di metalli non preziosi. La lavorazione di tutti i metalli aveva raggiunto nell'India una notevole perfezione e per la lavorazione del ferro, i cui minerali sono abbondanti e di facile estrazione, l'India è tra i paesi che si possono disputare il vanto della prima invenzione. L'artigianato indiano, al quale erano affidate le industrie indigene, ha ricevuto un colpo mortale dall'importazione dei prodotti europei e, più ancora, dei procedimenti tecnici delle industrie meccaniche, rendendo così anche più grave il problema sociale delle caste. Lo stesso è avvenuto per i mezzi indigeni di trasporto: ancora si vedono, tuttavia, dovunque, i carri a due ruote tirati da buoi. Nella montagna il carico è portato a dorso d'uomo, e nel Himālaya orientale, assicurato con una fascia anche alla fronte, come nell'America andina. Un altro elemento comune a questa è la zattera di fasci di giunchi. L'India meridionale ha per la pesca e il commercio costiero le piroghe a bilanciere, tipiche delle culture maleo-polinesiane.
La società indiana è organizzata sulla base di principî etici e sociali, intimamente connessi con la religione induistica, dei quali è detto in altri luoghi (v. brahmanesimo; casta; induismo). Non è soltanto il sistema delle caste, ma tutta la vita familiare e sociale dell'individuo, dalla nascita alla morte, che viene regolata secondo i riti e la legge religiosa.
Le tendenze degl'intellettuali indiani sono, attualmente, dirette a sottrarre il popolo alle vessazioni quotidiane di quella legge: ma essa domina ancora incontrastata sull'enorme maggioranza della popolazione. Tracce ne restano anche nella parte del popolo che si è convertita all'islamismo, o è entrata in speciali sette dissidenti, come i Lingaiti (Lingayat, recanti l'emblema fallico di Siva) o gli Yogi: anche nella nuova fede o setta, la forza della tradizione sociale imposta dall'induismo si afferma sempre vittoriosa.
La grande famiglia patriarcale ariana, legata alla propria tribù dalla legge della vendetta, nella quale il padre o l'anziano è come il capo e l'amministratore di una corporazione, non è molto frequente, fuori dei gruppi del NO. La sua impronta si riconosce, però, nella generale subordinazione dei figli, nella posizione sottomessa della donna, nel gran conto in cui sono tenute la castità delle fanciulle e la fedeltà delle spose. Che la donna fosse considerata come una semplice proprietà del marito, è attestato dal costume della satī "donna fedele" (trascritta in inglese suttee), il sacrificio più o meno volontario delle vedove sul rogo funebre del marito defunto, costume tanto diffuso e radicato che il governo anglo-indiano trovò difficoltà notevoli nel sopprimerlo. Nelle caste elevate, non è, in generale, consentito alle vedove di rimaritarsi: in esse anche la poligamia è assai comune ed è uso corrente che la donna porti allo sposo una dote.
Un altro costume tipico di esse è quello della "ipergamia". Esso consiste in ciò: una casta X si compone, supponiamo, di tre gruppi disposti in una determinata gerarchia, a, b, c, ciascuno dei quali consiste di un certo numero di gotra esogamici. L'uomo può prender moglie anche in un gruppo più basso del suo, ma la donna no: vale a dire che l'uomo a può scegliere fra donne a b c: l'uomo b, fra donne b e c: ma l'uomo c solo fra le donne c che non appartengono al suo gotra. La donna a può sposare solo uomini a fuori del suo gotra, la donna b può avere uomini dal gruppo b e a, la donna c dai gruppi c, b e a. I tre gruppi si dicono quindi ipergamici. Conseguenze di questo sistema, dove esso era in pieno vigore, l'infanticidio femminile e la cessione dello sposo al miglior offerente: si pagava per questo anziché per la sposa (Hodson).
Nelle caste basse l'ipergamia è rara, limitata la poligamia, ammesso il matrimonio alle vedove e ancora, talvolta, pagata la sposa. Ma i costumi delle classi alte tendono, com'è noto, a diffondersi fra le basse: e ciò avviene anche nell'India. Un costume che è comune a tutte le caste e che è fra le maggiori cause del deperimento fisico e mentale della popolazione, è quello delle celebrazione del matrimonio in età infantile, anteriormente alla pubertà (infant-marriage). Nel 1911 il censimento indiano accertava l'esistenza di 2½ milioni di spose di età inferiore ai dieci anni e di oltre 300.000 vedove al disotto dei 15 anni. In molti casi si tratta di matrimonio puramente rituale, quello effettivo essendo praticato solo dopo la pubertà: ma la coabitazione non è sempre evitata ed è, comunque, quasi sempre troppo precoce. Varie caste e gruppi hanno preso ormai l'iniziativa contro tale costume, che è stato vietato da una legge recente.
Per quel che concerne le caste, si può aggiungere qui che è evidente, per la maggior parte di esse, l'origine da gruppi locali o territoriali; secondo alcuni, da antiche tribù totemiche nelle quali era avvenuta una notevole specializzazione della produzione (W. Schmidt). Nella prima categoria entrano molte delle caste alte indo-arie, come i Pathan, i Rājput, i Jat e i Sikh delle provincie nord-occidentali, i Gurkha del Nepal, gli Ahir delle Provincie Unite, i Maratti del Deccan, ma anche le caste anarie, come i Newar del Nepal, i Nayar e i Vellala del territorio dravidico, ecc. L'origine tribale è evidente anche nei Bhumjl, trasformatisi recentemente in una casta, e nei Pariayan (dai quali è venuto il termine "paria") di Madras. Una volta inquadrati in un sistema gerarchico, questi gruppi di provenienza diversa hanno poi prodotto per scissione o per migrazioni interne numerosissime altre caste e sottocaste. Attualmente, l'organizzazione sociale di ogni singola area naturale ha le sue fattezze particolari e la sua speciale gerarchia di caste, raggruppate nelle principali categorie: brahmani, altre caste di rango elevato, caste śūdra di rango superiore e inferiore (e già da queste ultime le precedenti non possono di solito prendere acqua o cibo) e gli "intoccabili", le caste che si cibano di carne e che sono addette ai mestieri degradanti.
Lo studio comparativo dei caratteri somatici delle diverse caste, nelle singole provincie, ha dimostrato che alla gerarchia sociale corrisponde quella fisica (indice nasale, colore, ecc.). Ciò significa che il sistema escogitato, come difesa delle schiatte superiori dai gruppi melanodermi indigeni, ha funzionato assai efficacemente. Ma non ha protetto le prime in modo assoluto, perché a mano a mano che si penetra nell'India meridionale, anche i caratteri delle caste più alte tendono verso quelli del tipo dravidico. L'isolamento dovette esserlo assai meno nei tempi dei primi contatti fra gl'invasori, scarsi probabilmente di donne, e i gruppi indigeni.
Religioni. - La fase più antica del pensiero religioso dell'India, quale ci è dato conoscere attraverso i documenti letterarî pervenutici (il più venerando dei quali è il Ṛgveda - II millennio a. C. - che per altro rappresenta un punto d'arrivo, palesandoci già in pieno sviluppo la speculazione sacerdotale), è un politeismo naturistico. Si hanno cioè in essa vere e proprie personificazioni delle forze della natura (dei del cielo, dell'atmosfera, della terra), le quali vengono esaltate, invocate o biasimate e respinte, secondo i loro rispettivi attributi benefici o malefici, nell'intento di ottenerne doni o di essere risparmiati da mali. Tuttavia, mentre alcune sono strettamente connesse con la forza che rappresentano, così da far tutt'uno con essa (Uṣas, Aurora, "Εως; Sūrya, Sole; Vāta, Vento; Agni, Fuoco; Soma, il liquore inebriante tratto dall'Asclepias acida), altre, pur in origine personificazioni di forze naturali, hanno assunto un carattere, una personalità propria (Varuna, dio del cielo, in cui "l'aspetto morale prevale sul fisico"; Indra, dio delle tempeste, ecc.); altre, finalmente, rivelano con le loro singole denominazioni, veri e proprî soprannomi (Savitar "lo stimolatore", Vivasvant "il risplendente" ipostasi del sole, ecc.; v. veda; vedismo; e appresso: Letteratura vedica).
Col tempo, quando gli dei avranno perduto le loro caratteristiche differenziatrici e verranno considerati tutti pressoché nella stessa guisa ed esaltati ciascuno - volta a volta - per il più benefico, il più potente, il più forte (enoteismo), acquisterà grandissimo valore il sacrificio, che da semplice atto propiziatorio diverrà un rito arcano e solenne, senza di cui nulla sarà possibile agli dei stessi: esso verrà identificato col più alto Signore e sarà, infine, considerato "l'anima di tutti gli esseri, l'anima di tutti gli dei" (Śatapatha-Brāhmaṇa, XIV, 3, 2, 1). Di qui una smisurata letteratura liturgica (v. brāhmaṇa; e appresso: Letteratura vedica) e la grande potenza del prete sacrificante, il brahmano, cui incombe d'istruire gli uomini e di guidarli alla salute suprema, che consacra i re, che punisce i delitti secondo criterî suoi, che determina la via morale, e - vera e propria divinità sulla terra - gode a sua volta di tutti i più grandi diritti, rappresentante e signore della più alta dignità di un regime castale che impererà ferreo, con tutte le sue conseguenze, nella quotidiana vita sociale e individuale, sull'India, attraverso i secoli (v. brahmanesimo).
Ma all'invadenza del potere sacerdotale si opporrà col tempo l'indagine filosofica, la quale, dopo essersi timidamente affacciata in antichi inni del Ṛgveda con dubbî, prima sulla potenza di Indra e degli altri dei, e poi sulla loro stessa esistenza, e con la tormentosa incertezza sull'origine del mondo, sul suo creatore, sulla coscienza in lui stesso della sua opera, finirà nel più largo panteismo, abbracciante in una vasta concezione tutto il creato e atto a riconoscere nel microcosmo lo specchio e l'immagine del macrocosmo (v. upaniṣad). In questo panteismo, sorto fuori della casta sacerdotale, ma presto da essa assimilato, secondo il quale il mondo fenomenico viene considerato come un'illusione (māyā "impermanenza", "transitorietà") e fine precipuo dell'uomo è il suo assorbimento nel Brahman - Ātman (l'Anima universale) - mentre a chi non ha raggiunta la suprema intuizione del vero è riserbato il peregrinare attraverso un indefinito numero di esistenze (saṃsāra) - appare chiaro il concetto dell'infelicità della vita.
Ora appunto sul concetto che la vita è dolore, e che è necessario all'uomo cercare i mezzi migliori per liberarsi da esso, si fonderanno quei sistemi filosofico-religiosi che la tradizione indiana classificherà nei sei sistemi ortodossi, sorti dalle scuole filosofiche fiorite in India dopo il 600 a. C., e gli altri dieci eterodossi che Mādhavācārya, il grande filosofo del sec. XIV, enumera coi primi nel suo Sarvadarśanasaṃgraha "Compendio di tutti i sistemi filosofici". Dai Cārvāka o edonisti, che nel piacere dei sensi vedono il miglior mezzo per lenire il dolore dell'esistenza, al Nyāya, che lo trova nella logica, a Pāṇini, il grande grammatico, che nel sec. IV a. C. prometterà la liberazione dal dolore a chi studierà la grammatica, tutti gli autori e i propugnatori di questi sistemi, mantengano essi fede nell'infallibilità del Veda, o la neghino: non vengano considerati, cioè, in contrasto con la dottrina brahmanica oppure siano dichiarati apertamente eretici, tutti hanno la chiara visione del dolore della vita e pongono ogni loro cura nella ricerca dei mezzi che distruggano tale dolore.
Fra questi sarà pure il Buddha, il quale nel sec. VI a. C. renderà la sua dottrina elemento di universale religione, diffondendola nel popolo e tutta incardinandola sulla via idonea ("l'ottuplice sentiero") a estirpare il desiderio (tṛṣṇā "sete"), causa di tale dolore (desiderio che, a sua volta, trae origine dall'ignoranza: avidyā), sui mezzi pratici, cioè, che il sospirato fine, designato col nome di nirvāṇa, possano attuare. Si tratterà, così, non più di un sistema filosofico, monopolio di uomini privilegiati, ma di una vera e propria concezione etica, con tutte le benefiche conseguenze che la sua essenza religiosa potrà produrre nei nuovi credenti (v. buddhismo).
Di poco anteriore e rivale nel suo sorgere del buddhismo, ma da esso differente, per minor diffusione e più limitate vicende storiche, si affermò pure nel Nord dell'India il jainismo, dottrina pur essa, come il buddhismo, sorta dalla casta dei guerrieri (kṣatriya), in opposìzione alla sacerdotale e al suo credo, ma di contenuto animistico, e il cui fine supremo è il riposo dell'anima in un mondo (al disopra dell'universo), "nel quale non si trovano vecchiezza, malattia, morte". Attualmente esso è sparso, in forma non troppo alterata, un po' per tutta l'India, pur meridionale, ma particolarmente nel Gugerat (Gujarat) e nel Rajputana (Rājputjna) (vedi jainismo e statistica qui sotto). Al buddhismo doveva invece, dopo circa dodici secoli, toccare una lotta, per cui col tempo sarebbe stato costretto a migrare non solo dalla sua terra d'origine, ma dall'India stessa (quasi interamente), per rimanere, nella sua forma meno lontana dall'originale (hīnayāna), soltanto nell'isola di Ceylon, in Birmania, Siam, Cambogia, Annam. Nella forma mahāyāna permane nel Nepal, nel Bhutan e nel Sikkim.
Il brahmanesimo, nel quale gran parte delle concezioni del buddhismo era penetrata, che mai era cessato e che si può dire l'unica religione dell'India (pur tra reazioni e riforme ed eresie sofferte), risorse col tempo più vigoroso ancora e trionfò, dal primo secolo dell'era volgare, e tuttora impera, in quella forma che gli Europei hanno denominato col termine di induismo, termine di difficile definizione, "risultato non dello sviluppo spirituale di un popolo, ma di una poderosa mescolanza di razze; sistema religioso-sociale indiano, autoctono, costituitosi dal brahmanesimo con progressive accettazioni di elementi originali non brahmanici e cui già sin dalla vittoria della controriforma sacerdotale compiutasi sul buddhismo, aderisce la grande maggioranza della popolazione dell'India moderna. Esso abbraccia tutti i riti, tutti gli usi religiosi e le concezioni, tradizioni e mitologie che hanno ricevuto la loro sanzione direttamente o indirettamente attraverso le sacre scritture e le prescrizioni dei Brahmani" (H. v. Glasenapp). Innumerevoli le sette, le divinità, i dogmi; sintesi grandiosa dell'esistenza, la concezione della divinità sotto il triplice aspetto di creatrice, continuatrice, riassorbitrice in sé della vita (Trimūrti "di tre corpi, trinità": Brahmā, Viṣṇu, Śiva; vedi induismo).
Oltre alle accennate religioni e a residui di culti primitivi (animistici) sparsi qua e là (Andamanesi, Kuki Lushai della Birmania superiore, Oraon di Chota Nagpur, Bengala) e a tracce di totemismo presso Dravidi di bassa cultura, Munda e Oraon, sono rappresentate nell'India moderna le seguenti religioni, di origine o di contaminazione straniera: il parsismo, il sikhismo, l'ebraismo, l'islamismo e il cristianesimo. Il parsismo è rappresentato da fedeli discendenti di Persiani zoroastriani emigrati in India, al N. di Bombay, circa 1300 anni or sono e oggi residentì particolarmente in Bombay e nelle vicinanze. Il sikhismo, connubio di induismo e di islamismo, con preponderanza attiva del primo sul secondo, conta i suoi seguaci quasi tutti nel Panjab. In Bombay, in Calcutta e nel Cochin risiedono comunità di Ebrei due delle quali, quella del Cochin e quella di Bombay, vantano un'antica origine.
L'islamismo è, tra le religioni straniere dell'India, quella che conta maggior numero di seguaci: vi è stato importato con la conquista musulmana nel sec. XI. È diffuso nel Kashmir e nel Panjab, nel Deccan (Haiderabad), nel Bengala orientale, nel Sylhet, nel Sind, e pur lievemente altrove.
Il cristianesimo. - Una tradizione, testimoniata dagli apocrifi Acta Thomae, attribuisce l'evangelizzazione dell'India a questo apostolo, che - secondo gl'indigeni - avrebbe subito il martirio presso Madras. Essa è ritenuta tuttavia leggendaria, anche perché un'altra tradizione (p. es., Origene, in Eusebio, Hist. eccl., III, 1, 1) limita l'azione dell'apostolo alla Persia; tuttavia, secondo J. N. Farquhar alcuni dati del racconto offrirebbero garanzie di storicità. Ma anch'essi si riferiscono al Panjab, non alla costa del Malabar, dove i Portoghesi trovarono i cosiddetti "cristiani di S. Tommaso" e dove già Cosma Indicopleuste - cui dobbiamo le prime notizie sicure - segnala l'esistenza di comunità cristiane, a Kalliana (Quilon) e a Malé (pure da collocare sulla costa del Malabar) coma anche a Socotra e a Taprobana (Ceylon).
Notevoli testimonianze dell'esistenza di chiese persiane-nestoriane si ricavano dalle croci, che portano incise iscrizioni pehleviche o siriache (in scrittura estranghelo, però, non nestoriana) trovate nel secolo XVI a Meilapor e a Kottayam e negli anni 1921 e 1925 a Katalanam e Mattuchira.
Con le conquiste portoghesi incominciarono le missioni cattoliche sistematiche che ebbero tuttavia precursori, come Giovanni da Montecorvino; il 31 gennaio 1533 veniva eretto il vescovato di Goa, suffraganeo di Madera; Paolo IV, il 4 febbraio 1558 lo eresse in arcivescovato; il numero dei suffraganei si accrebbe, appartenendo alla giurisdizione di Goa anche le sedi istituite in Cina e Giappone.
L'arcivescovo Alessio Menezes ottenne che i cristiani indigeni fossero sottoposti alla gerarchia di rito latino: un passo decisivo in questo senso fu compiuto nel sinodo di Diamper (Udayamperur, presso Cochin) del 1599. Questa unificazione del rito, qualche eccesso di severità e i sistemi oppressivi dei Portoghesi provocarono lagnanze, mentre (1653) scoppiava anche uno scisma, provocato dall'arcidiacono Tommaso Parambil. La missione carmelitana inviata da Alessandro VII riuscì in gran parte a comporlo, giungendosi così alla consacrazione di un vescovo indigeno, per il vicariato apostolico del Malabar (1659). Dopo varie vicende, nel corso dei secoli XVIII e XIX, si giunse alla costituzione definitiva della chiesa malabarese cattolica di rito caldeo, dalla quale tuttavia nel 1874 si staccarono alcuni elementi, tornati al nestorianismo e divisi oggi in due gruppi.
L'arcidiacono Parambil, volendo ottenere la consacrazione episcopale, dovette rivolgersi ai giacobiti, monofisiti, adottando il rito antiocheno e modificando completamente le tendenze teologiche tradizionali. Dei suoi seguaci, alcuni, nel secolo XIX, subirono l'influsso di missionarî anglicani, al punto da costituire ormai un vero e proprio ramo siro della chiesa anglicana (Anglo-syrian Christians). Si manifestarono anche altre scissioni e non mancarono tentativi di riunione con la chiesa di Roma; il solo attuato finora è quello del metropolita Mar Ivanios con il suo sufraganeo Mar Teofilo i quali ritornarono nel 1930, con un piccolo gruppo di fedeli, in seno alla Chiesa cattolica: sono i cosiddetti malankaresi, di rito antiocheno (Catholic syrian Christians).
A Goa operarono a lungo, con altri ordini religiosi, i gesuiti: basti qui menzionare il soggiorno che vi fece San Francesco Saverio. Un nuovo metodo di evangelizzazione, che consisteva sostanzialmente nell'adattare i modi e le vita dei missionarî alle tradizioni e alle idee degl'indigeni non contrastanti col dogma, fu introdotto a Madura, all'inizio del sec. XVII da Roberto de' Nobili. Ma i nuovi sistemi provocarono sospetti, e ne ebbe origine la lunga controversia intorno ai "riti malabarici", chiusa definitivamente con la costituzione Omnium sollicitudinum di Benedetto XIV (12 settembre 1744).
Intanto l'accresciuta attività missionaria e il decadere della potenza portoghese richiedevano nuovi provvedimenti: venivano così istituiti altri vicariati apostolici (Gran Mogol, 1637; Verapoly o del Malabar, 1659) e si verificarono conflitti di giurisdizione, più gravi quando nel 1720, espulso da Bombay (inglese dal 1661) il clero portoghese, vi fu istituito un nuovo vicariato apostolico, affidato ai carmelitani. Questa misura provocò la reazione dei sostenitori dei diritti di patronato della corona portoghese e di quelli metropolitani della sede di Goa. Il conflitto s'inasprì nel secolo XIX, nel corso del quale furono creati nuovi vicariati, tutti alle dipendenze della Congregazione di Propaganda Fide e la giurisdizione di Goa fu ridotta ai dominî portoghesi. L'annosa questione venne risolta nel 1886, allorché Leone XIII riorganizzò interamente la gerarchia: ordinamento che ha ricevuto da Pio XI, nel 1923, una definitiva sistemazione.
La prima missione protestante si ebbe a Tranquebar, sotto la protezione danese per opera dei luterani Ziegenbalg e Plutschau; la loro opera fu continuata da Christian Friedrich Schwartz (morto nel 1798); l'attività missionaria ebbe dapprima l'appoggio pecuniario delle inglesi Society for Promoting Christian Knowledge e Society for the Propagation of the Gospel, cui succedettero, nel secolo successivo, la London missionary society e la Church missionary society. Notevole fu l'attività esplicata dal battista W. Carey (morto nel 1834) che si dedicò soprattutto a traduzioni della Bibbia. L'opera missionaria - ostacolata dalla Compagnia inglese delle Indie che temeva di veder compromessi i proprî interessi commerciali e solo nel 1814 lasciò creare la sede episcopale anglicana di Calcutta - si svolse con maggior libertà e intensità dopo che l'India passò sotto il dominio diretto della corona inglese. Missioni furono inviate da quasi tutte le denominazioni riformate, e non solo inglesi; degna di menzione è anzi l'opera svolta dalla tedesca Gossnersche Missionsgesellschaft (dal 1845) e, recentemente, da missionari americani.
La gerarchia cattolica di rito latino comprende: la Delegazione apostolica delle Indie Orientali e, dipendenti da Propaganda Fide, le provincie di Agra (1° settembre 1886; suffraganei, Ajmer, 21 maggio 1913 e Allahabad, 1886); di Bombay (1886; suffraganei, Mangalore, Poona, Trichinopoly, 1886; Calicut, Tuticorin, entrambi del 12 giugno 1923); di Calcutta (1886; suffraganei Dacca, Krishnagar, entrambi dal 1886; Patna, 10 settembre 1919; Chittagong, Dinajpur, Ranchi, dal 25 maggio 1927); di Colombo (1886; suffraganei Jaffna, Kandy, dal 1886; Galle, Trincomalee, dal 16 agosto 1893); di Madras (1886; suffraganei Haiderabad, Visagapatam, dal 1886; Najpur, 11 luglio 1887; Nellore, 3 luglio 1928); di Pondichéry (1886; suffraganei Coimbatore, Mysore, dal 1886; Kumbakonam, 1° settembre 1899; Salem, 26 maggio 1930; inoltre, Malacca); di Simla (13 settembre 1910; suffraganeo Lahore, dal 1886, già suffraganeo di Agra); di Verapoly (1886; suffraganei Quilon, 1886; Kottar, 26 maggio 1930; Vijayapuram, 14 luglio 1930); e le prefetture apostoliche di Assam (15 dicembre 1889 residenza a Shillong, arcidiocesi di Calcutta) e di Kafiristan e Kashmir (6 luglio 1887, residenza a Rawalpindi, arcidiocesi di Simla). Dalla Congregazione orientale dipendono invece la gerarchia malabarese, riorganizzata il 21 dicembre 1923 con l'erezione della provincia ecclesiastica di Ernakulam, con suffraganei Changanacherry, Trichur e Kottayam; la gerarchia malankarese, con due ordinarî, aventi giurisdizione rispettivamente a nord e a sud del fiume Pampa. Infine, il patriarcato di Goa e Damâo (patriarcato dal 1886, cui dal 1° maggio 1928 è unito il titolo arcivescovile di Cranganor; suffraganei Coccino, 4 febbraio 1558; S. Tommaso di Meliapor, 9 gennaio 1606; inoltre, Macao). Gli anglicani hanno la sede metropolitana di Calcutta e vescovi a Ranchi (Chota Nagpur), Bombay, Madras, Lahore, Lucknow, Domakal, Kottayam (Travancore e Kochin), Palamcottah (Tinnevelly e Madura) Nagpur, Colombo.
Statistica dei culti. Dati secondo il censimento del 1921:
Dati statistici sulla popolazione. - Valutazioni statistiche sufficientemente attendibili non permettono di risalire, per il complesso della popolazione dell'Impero, oltre gli anni 1867-72. Dal 1881 in poi fu condotto un censimento regolare decennale. I dati si riassumono nella seguente tabella:
L'enorme incremento fra 1872 e 1881 è però soltanto apparente perché la prima rilevazione fu condotta con sistemi imperfetti e non comprese parecchi stati indigeni. Secondo calcoli ufficiali l'incremento stesso deve ridursi a 1,5%. In questo periodo si ebbe infatti la gravissima carestia del 1876-78, per la quale alcune zone della penisola, come il Mysore, perdettero sino a un quarto della popolazione. Anche gli altri dati sono comparabili solo con discrezione: nel 1881 infatti non erano ancora censiti gli abitanti del Kashmir, soltanto nel 1891 lo erano quelli dell'alta Birmania, prima indipendente, dal 1901 le Andamane, gli stati Shan e il Belūcistān, ecc. Perciò gl'incrementi sono stati corretti come segue: 1872-81: 1,5; 1881-91: 9,8; 1891-1901: 1,5, quest'ultima cifra risultando di un incremento del 3,9% nelle provincie e di un decremento del 6,6 negli stati indigeni (carestie del 1896-7 e del 1899, epidemie). Lo scarso aumento fra 1911 e 1921 è dovuto alle epidemie infierite durante la guerra, specie nel 1918 (spagnola).
Un carattere demografico particolare dell'India è costituito dalla prevalenza della popolazione maschile sulla femminile. Il rapporto, nei censimenti del secolo, è espresso dalle cifre seguenti (milioni):
Varie cause sono state prese in esame (minor resistenza al lavoro penoso, frequenza delle gravidanze, condizione d'inferiorità della donna nella vita sociale, ecc.), ma la fondamentale deve ritenersi la precocità dei matrimonî. Secondo il censimento del 1921 risultarono maritate 1 su 72 bimbe di non oltre cinque anni di età; 10 su 100 di quelle da 5 a 10 anni; più del 4% fra quelle da 10 a 15 anni. Un po' più tardi si sposano gli uomini: però il 4% dei fanciulli fra i 5 e i 10 anni è già ammogliato e il 13% di quelli fra 10 e 15. Siccome poi le vedove non possono contrarre nuovo matrimonio senza incorrere nel generale disprezzo, se ne incontravano, nel 1921, 2 milioni e mezzo di meno che 10 anni di età e 9 milioni sotto i 15 anni. Nell'età virile, intesa fra i 15 e i 40 anni, vi erano 9 milioni di vedovi e 26 milioni di vedove.
Indice di natalità (31,1 per 1000 nel decennio 1914-23, e 32,2 nel quinquennio 1926-30) e indice di mortalità (29,8 nel decennio e 24,2 nel quinquennio) sono parimenti elevati. Altissima la mortalità infantile: nel dopoguerra le percentuali sono state, per tutto l'Impero, di 182 morti nel 1921-25 e di 187 nel 1925-30 su 1000 bambini nel primo anno di vita. Le cause dell'alta natalità vanno particolarmente cercate nella sessualità esuberante, consacrata nelle credenze locali con miti e riti, spesso sconcertanti per noi occidentali; quelle dell'alta mortalità nelle basse condizioni sanitarie della popolazione, che, se non è più minata quanto prima dalle carestie, per le ampie provvidenze escogitate dall'amministrazione britannica, soffre però sempre per le epidemie e la miseria. Colera, vaiolo, dissenteria, malaria, influenza sono malattie largamente diffuse, ciascuna con il proprio habitat preferito, designato dalle condizioni di clima, di suolo, d'idrografia; e così largamente diffuse e mortali perché molto bassa è la capacità di resistenza, la vitalità della massima parte della popolazione indigena, in lotta continua con la miseria. Questo è mostrato anche dallo studio della composizione delle popolazioni per gruppi di età: nel 1921, ad. es., quasi il 40% della popolazione aveva meno di 15 anni, il 25% da 15 a 29, il 24% da 30 a 49 e l'11% oltre 50. La distribuzione degli abitanti fra le varie occupazioni risulta dai seguenti dati (del 1921): agricoltura e pesca: 72,3%; miniere e cave: o,3%; industrie: 11,2%; commercio: 5,9%; marina mercantile: 0,2%; trasporti e comunicazioni: 1,2%; esercito e marina: 0,3%; amministrazione pubblica: 1,1%; professioni liberali: 1,5%; servizî domestici: 1,8%; altre non specificate: 4,2%.
Distribuzione della popolazione. - Molto varia è la distribuzione di questa enorme massa di popolazione: il Bengala addensa una popolazione fitta non molto meno di quella delle contrade industriali d'Europa (234 ab. per kmq.), mentre il Belūcistān e alcuni stati del Raiputana segnano da 3 a 1 ab. per kmq.
Un primo contrasto che subito colpisce è quello che si verifica fra i dati complessivi riferentisi alle provincie e agli stati indigeni: da una parte 271 milioni di ab., dall'altra 81. Perciò, mentre l'area dell'impero solo per meno di tre quinti è occupata dalle provincie, la popolazione di queste comprende quasi quattro quinti della totale: nella densità media i due dati sono rispettivamente di 87 e 40 ab. per kmq.
Geograficamente la distribuzione della densità appare anzitutto legata alle condizioni di clima. La causa è nell'assoluta prevalenza dell'agricoltura sulle altre attività economiche: mancano infatti quei distretti dove l'addensamento è effetto di risorse minerarie o di industrie, se si toglie qualche rarissimo e recente caso. Quindi è che il confronto delle carte climatiche, specie delle piogge, con la carta della densità di popolazione presenta in gran parte della regione sovrapposizioni caratteristiche. Le zone di massima densità si allineano lungo le coste della penisola, dal Golfo di Kambayah al Travancore, di qui al delta gangetico, poi sul bassopiano lungo il Gange e sino al Sutlej. Qui la densità su ampie aree supera i 250 ab. per kmq. (nel Bengala, Bihar, Provincie Unite, ecc.), diminuendo col risalire il sacro fiume, dal massimo del distretto di Calcutta sino al Panjab di Lahore. Qualche zona di media densità (da 75 a 150) si allinea lungo l'Indo e si dissemina in nuclei sparsi nella penisola a contrassegnare le zone favorite dal regur o dall'accentrarsi degli abitanti intorno a un centro politico fortunato (Haiderabad, Nagpur, Jubbulpore, Bangalore). Bassa in genere è la densità in tutta la parte interna della massa peninsulare, salvo che nell'estremo sud, e nelle terre di transizione verso le piane settentrionali (Gugerat, Rajputana orientale, India Centrale, Orissa). Infine sono vere zone di dispersione fra l'Indo e la catena degli Aravalli il Thar e il Rajputana settentrionale, nel Deccan interno certe isole, come il Bastar, il Baghelkhand, ecc., e le fasce marginali dell'impero, montuose o desertiche: Belūcistān, provincie di NO., Kashmir, Nepal, Sikkim, Bhutan, Assam settentrionale, alta Birmania.
Centri abitati. - L'insediamento caratteristico della popolazione indiana è nel villaggio rurale. La statistica ne conta 730.000. Lo troviamo nelle regioni aride come nel Deccan o nell'ovest del Rajputana, ove sorge intorno ai dispersi pozzi. Presso le regioni umide del Terai la malaria spinge le popolazioni a concentrarsi in villaggi dislocati sui dossi collinari. Ma quelle che hanno prevalso nel far preferire questo tipo d'insediamento e nel determinarne la localizzazione, sono quasi sempre, ragioni storiche: la scarsa sicurezza della campagna aperta, il regime di tipo feudale, la forza dei legami di famiglia e di clan in paese di stirpi e religioni così frammiste ecc.
Meno comune la dispersione vera e propria, come la troviamo ad es. da noi nella Pianura Padana: la s'incontra nelle regioni agricole molto accidentate o molto umide, nelle zone della risaia (Bengala orientale, Malabar, ecc.), e in qualche distretto di altissima fertilità dove il contadino è tratto a restare sempre presso il suo campo.
Grandi agglomerati urbani, per quanto scarsi di numero, l'India ha sempre avuto sin dalla sua più lontana storia: città favolose sia per la vastità dell'area recinta dalle loro mura, sia per le grandi masse di popolazione concentrate. Ragioni principali del loro sorgere e affermarsi sono state, in genere, funzioni politiche (Delhi, Haiderabad, Lucknow, Calcutta, ecc.), religiose (Allahabad, Amritsar, Benares, Madura, Trichinopoly) o militari (Bareilly, Peshawar); meno frequentemente e con minore efficacia, in genere, funzioni commerciali (Srinagar, Poona, Patna), se se ne tolgono le grandi città portuali (Calcutta, Bombay, Madras, Karachi, Calicut), il cui sviluppo è tuttavia connesso a quello della conquista britannica.
Le città con oltre 100.000 ab. non erano, nel 1921, più di 35 e non trattenevano che il 2,6% della popolazione totale. Si considerano tuttavia città altri 2278 centri fra i quali 54 con popolazione fra i 50 e 100.000 abitanti e 199 con popolazione fra 20.000 e 50.000 abitanti.
L'aumento della popolazione nelle città è stato, fra il 1911 e il 1921, in complesso del 9%, particolarmente forte nelle due prime categorie (oltre 50.000 ab.) e precisamente del 16,5%. La massima attività economica urbana è ancora concentrata nel commercio marittimo; quindi è che tanto le maggiori cifre assolute, quanto i maggiori aumenti (pure assoluti), nel cinquantennio 1872-1921 toccano alle maggiori città portuali. Superano il milione di abitanti Calcutta e Bombay e segue terza, con oltre mezzo milione, Madras. Sono i tre capoluoghi delle vecchie presidenze della Compagnia, accentratori del traffico dell'occidente e dell'oriente peninsulare e del Bengala. Gli aumenti maggiori percentuali nel cinquantennio toccano però a due altre città di mare: Karachi, avamposto verso la Persia e il Golfo Persico, sbocco a un tempo della valle dell'Indo, che raggiungendo oltre 280.000 abitanti ha quasi triplicato la sua popolazione (aumento del 282,2%); e Rangoon, sbocco al mare della Birmania, il cui aumento nel periodo considerato è stato del 246,4%. All'interno gli aumenti maggiori sono quelli che si sono verificati nelle città di Madura, di Ajmer, di Sholapur, di Ahmadabad.
Nel 1931 (v. tabella alla pagina seguente) i centri che contavano oltre 100.000 abitanti raggiunsero il numero di 37. Gli aumenti più notevoli del decennio sono quelli che si sono verificati a Lahore, a Bangalore, a Rangoon, a Nagpur, ecc.; è proseguito invece il decremento di Haiderabad e di Mandalay, già sentito nel cinquantennio 1872-1921: leggero decremento è pure accusato da Bombay. Nel complesso il maggior numero dei grossi centri sorge nelle piane alluvionali del Gange e dell'Indo, con un totale di 13 oltre i 100.000 abitanti, che divengono 16 se aggiungiamo i tre centri della montagna a NO.
La diversità di condizioni demografiche fra provincie e stati si fa sentire però anche in questo campo. Negli stati sono scarsi tanto i centri urbani popolosi quanto i loro incrementi. Solo sei città vi superano i 100.000 ab.; il solo aumento notevole, fra 1872 e 1921, è quello segnato da Bangalore (66,6%), inferiore però sempre a quello di ben 13 città delle provincie.
Notevole contrasto vi è fra le città di più antica origine, nelle quali la popolazione vive fittamente addensata, anzi - si potrebbe dire - addirittura ammucchiata (come per esempio a Benares), e quelle di più recente sviluppo in cui ampî spazî non occupati s'interpongono fra i quartieri abitati. Ciò si verifica per es. a Calcutta, a Nuova Delhi, a Karachi.
Nella tabella che segue sono elencate le principali città dell'India; per ciascuna è segnata la popolazione censita nel 1901, 1921 e 1931; sono stampati in corsivo i nomi delle città degli stati indigeni.
Movimenti migratorî. - Relativamente scarsa è l'entità dei movimenti migratorî interni. Nel 1921 solo nella proporzione del o,98% gli abitanti censiti si trovavano in distretti diversi da quelli nei quali erano nati. Le due cause principali di questa così scarsa mobilità della popolazione stanno nel sistema delle caste, che osteggia la emigrazione, e nell'attività agricola della massima parte degli abitanti, che ne favorisce l'attaccamento al suolo. Si possono aggiungere lo spirito conservatore degl'Indiani e il loro tradizionale amore alla famiglia e alla casa. Ma il rinnovamento dell'economia, con lo svilupparsi delle industrie e dei traffici, ha ormai dato inizio a una immigrazione verso le città, ancora irregolare e nella maggior parte temporanea o stagionale, che s'accentuerà.
Scarsa in compenso anche la migrazione attraverso i confini, anche se, vivendo nelle grandi città, si possa avere una sensazione diversa per il frequente incontro con uomini d'affari e funzionarî europei e con personale giallo, malese o negro. Poco più di mezzo milione di asiatici non indiani si trova in India, cui si debbono aggiungere meno di 200.000 non asiatici. Fra questi sono i 165.000 Inglesi che dominano una popolazione quasi tremila volte più numerosa.
Relativamente elevata è invece l'emigrazione indiana fuori dell'Impero: si calcolano in oltre tre milioni gl'Indiani residenti all'estero. La provenienza è specialmente dalle zone meridionali della penisola, la destinazione verso altri paesi dell'Impero Britannico, e anzitutto quelli contermini. Senza tener conto della Birmania, le maggiori masse di emigrati si trovano nei seguenti paesi (il numero degli emigrati è riferito fra parentesi secondo i dati del 1921): Ceylon (1.400.000); Penisola Malese (580.000); Maurizio (265.524); Natal (144.000); Africa Orientale Britannica (53.400); Figi (60.634); Giamaica (180.000); Trinidad (122.000); Guiana Brit. (124.489).
È interessante notare che nelle Figi gl'Indiani costituiscono un terzo della popolazione e nelle Maurizio addirittura i due terzi. La presenza di questi emigranti, particolarmente nel Natal e nel Kenga, solleva un problema spinoso, in quanto essi non intendono restare soggetti al trattamento delle popolazioni indigene e d'altro canto le autorità locali non vogliono adattarsi a considerarli coloni veri e proprî, alla pari cioè con gli Europei. Fra l'Impero e l'Unione Sudafricana si è addivenuti tuttavia a un trattato in proposito.
Agricoltura. - Fondamento dell'economia indiana è l'agricoltura. Circa il 90% della popolazione ne è direttamente dipendente. Considerando le singole suddivisioni amministrative non si trovano percentuali inferiori all'80% se non nelle provincie di Delhi (37) e di Ajmer (66), piccole e strette intorno al centro urbano, e di Bombay (76), dove si trova la seconda città indiana. Nella pianura si raggiunge il massimo di popolazione agricola (provincia del Bihar e Orissa col 96%). Il Dipartimento dell'agricoltura estendeva nel 1929-30 la propria valutazione statistica sopra un'area di 27.104.778.378,7 ha. limitata alle provincie, e ne indicava la ripartizione come segue:
Mentre cioè sarebbe suscettibile di coltura il 65% delle aree censite, soltanto il 34,2 è effettivamente seminato.
L'irrigazione è diffusa sin da tempi lontani su gran parte dell'India. In complesso nel 1929-30 erano irrigati col mezzo di canali circa 12 milioni di ettari, coi piccoli bacini indigeni (tanks) 2 e mezzo, con pozzi 6, con altri mezzi 2,5. L'area irrigata dai grandi sistemi costruiti dall'amministrazione britannica salì da 13 milioni di ettari nel 1918-20 a 14 nel 1925-26 (particolarmente nel Sind e nel Panjab) e subirà ancora un aumento notevole con l'inaugurazione del colossale sbarramento di Sakkar sull'Indo. Da zona a zona l'irrigazione ha importanza assai diversa: in tutto il bacino del Gange e del Brahmaputra, ricchissimo di precipitazioni, essa non raggiunge la quarta parte dell'area agricola censita, mentre entrando nel Panjab, regione di scarsa piovosità, sale a primaria importanza, stendendosi al 51% dei seminativi, e nel Sind addirittura i tre quarti delle coltivazioni sussistono esclusivamente mercé l'irrigazione derivata dall'Indo, correzione insostituibile della scarsissima piovosità. Nella Penisola l'irrigazione si presenta assai sviluppata lungo la costa orientale, dove si sfruttano le acque dei corsi inferiori (Madras, 61% dei seminativi), nel Mysore e verso il NO (Ajmer 40%). Tutta la parte centrale del Deccan e il versante a mare dei Ghati occidentali sono scarsamente irrigati, quest'ultimo specialmente per l'abbondanza delle precipitazioni (provincia di Bombay, senza il Sind, 4% dei seminativi).
L'83% dell'area coltivata censita è riservato alle piante alimentari, mentre il 7% alle tessili e il 5% alle piante oleaginose.
Fra i prodotti alimentari tengono il primo posto i cereali (63% della produzione agricola totale): fra questi, a sua volta, come in tutti i paesi monsonici, il riso (35% c. s.). La sua coltivazione è in continuo aumento, essendosi diffusa nel primo quarto del secolo da circa 25 a 35 milioni di ettari, passandone la produzione da 21,5 a 33 milioni di tonnellate, saliti ancora a 43 nel 1928 e a una media di 50 nel quadriennio successivo (1929-32), circa un terzo dell'intera produzione mondiale. Per una quantità variabile dal 7 al 10% il riso prodotto in India è esportato. Conviene tuttavia notare che concorre la produzione della Birmania, la quale, insieme ai vicini Bengala e Assam, ne dà le massime quantità. La zona risicola si stende ancora lungo il medio corso del Gange e sulle coste del Deccan.
Al riso segue per importanza il frumento, esteso su circa un decimo dell'area coltivata, con una produzione che si avvicina ai 10 milioni di tonnellate. Anche questa coltura è andata estendendosi, passando negli ultimi 20 anni da 12 a 15 milioni di ettari (la produzione è salita a 9 milioni di tonn. nella media degli ultimi anni), incoraggiata dalla crescente domanda dei mercati occidentali e incrementata anche da provvidenze governative. Le zone fresche sono le preferite, quindi a occidente, a settentrione (Panjab), ma anche nel centro. Caratteristico e notevolmente diffuso è il miglio, usato nell'alimentazione umana specialmente nell'altipiano centrale e peninsulare. L'orzo s'incontra nella montagna e nel Deccan centrale (2.830.000 ettari, e 2,4 milioni di tonnellate fra il 1927 e il 1931). Il mais ha importanza solo nelle Provincie Centrali (2.500.000 ettari e 2,3 milioni di tonnellate c. s.). Accanto ai cereali vanno posti i legumi, che entrano in parte notevole nell'alimentazione dell'indigeno: moltissime ne sono le varietà, ma le migliori si raccolgono nelle Provincie Centrali del Bengala.
Gli ortaggi sono pure diffusi e varî; innanzi tutto la patata, che spesso si coltiva in successione al riso e alla iuta, richiedendo lavori profondi; non è tuttavia ancora un alimento popolare. Altri ortaggi meritevoli di menzione sono piuttosto cavoli, cavolfiori, pomodori, rape, ecc. Abbondante e assai varia pure la produzione di frutta, manghi, mele, melagrane, aranci, limoni.
Altri prodotti alimentari di grande importanza per l'India sono il tè, il caffè e lo zucchero. Del primo essa provvede circa il 40% del fabbisogno mondiale (1.800.000 q. nella media 1926-30). Il paese caratteristico di tale cultura è l'Assam, indi, agli altri estremi dell'India, la valle del Kangra nel Panjab e i monti Nilgiri; in minori quantità si coltiva il tè lungo il piede del Himālaya, nelle Provincie Unite, nel Sikkim, ecc. La coltura del caffè attraversa un periodo di decadimento per effetto della concorrenza brasiliana. Essa è limitata alle plaghe più meridionali da Madras al Myssore, Coorg, Cochin (meno di ½ milione di ettari con una produzione di 1,5 milioni di tonnellate nella media postbellica). Dello zucchero greggio infine, quantitativamente, l'India è la maggiore produttrice del mondo, benché la produzione media per ettaro sia scarsa. Circa 1.000.000 ettari sono adibiti alla coltura della canna da zucchero con una produzione media di 3 milioni di tonn. di zucchero greggio (nel 1931-1932 addirittura 3.942.300). Nondimeno l'industria dello zucchero è attualmente in declino per la concorrenza delle Maurizio, di Giava e, in Europa, della bieticoltura. Conseguenza del declino è che, mentre verso la fine del secolo scorso l'India non importava affatto zucchero, oggi è costretta ad acquistarne all'estero per un valore ingente, corrispondente a un miliardo di lire italiane.
I semi oleaginosi costituiseono una serie di prodotti molto importanti nell'economia indiana, sia per la richiesta interna, sia per l'esportazione. Il prodotto complessivo è valutato in 4,5 milioni di tonnellate, cifra tuttavia poco espressiva, in quanto vi si assommano le più diverse varietà: olî di lino, di cotone, di sesamo, di arachide, di ricino, di cocco, ecc. L'esportazione è di circa un terzo del prodotto
Importanza industriale ben maggiore, di carattere mondiale, hanno i due prodotti tessili (cotone e iuta) dei quali l'India è stata la prima patria. La produzione del cotone, che era di 980.500 tonnellate in balle, si è andata contraendo costantemente dalla campagna 1927-28, passando da milioni 1,08, 1,04, 0,929, 0,927 sino a scadere a 0,72 nel 1931-32, in relazione con la depressione dell'industria cotoniera britannica e occidentale in genere, che qui largamente si approvvigionava.
La coltivazione del cotone occupa oltre 9 milioni e mezzo di ettari (media 1921-1928). Più o meno esso è coltivato dappertutto, ma le zone principali sono il Gugerat settentrionale, le alte terre del Deccan lavico, i distretti di Tinnevelly e Madura, il Bihar e le Provincie Centrali. Il rendimento medio per ettaro è, in confronto con gli altri paesi cotonieri, assai basso, sia per i metodi arretrati di coltivazione, sia per la degenerazione delle varietà locali. Per di più l'India non produce o, meglio, non produceva cotoni a fibra lunga. Con molta attenzione ed energia il Dipartimento dell'agricoltura si è proposto il miglioramento della produzione con la selezione dei tipi indigeni e l'introduzione di varietà esotiche (cotoni cambogiani, egiziani, ecc.), particolarmente nel Sind, dove si è provveduto a un grandioso sistema irrigatorio.
Della iuta si può dire che l'Impero Indiano (Birmania inclusa) abbia il monopolio, per tutto il mondo. L'estensione della coltura è però assai variabile secondo le esigenze del mercato mondiale, che è uno dei più suscettibili di reazione a svariati fattori. Nella media 1921-25 vi erano dedicati 970.000 ettari saliti nel 1930 a 1.413.000 (Bengala, Birmania) con una produzione rispettivamente di 1.262.600 tonn. e 2.042.100 tonn. di iuta in balle. Le stime del 1931 mostrerebbero tuttavia una produzione addirittura dimezzata. Le condizioni che favoriscono la coltivazione del riso sono pur quelle che favoriscono la coltivazione della iuta; talora quindi questa viene a sostituirsi al riso, quando il mercato si presenta promettente. Circa ¾ del prodotto viene esportato.
Altra pianta caratteristica dell'India è l'indaco, il quale cresce principalmente nelle Provincie Unite, nella Presidenza di Madras e nel Bihar, occupando circa 70.000 ettari con una produzione di 36.000 quintali di colore. È però, dopo un periodo di magnifico rigoglio, culminato nell'ultimo quarto del secolo scorso, coltura in piena decadenza in seguito alla concorrenza dei colori sintetici sui mercati d'importazione.
Monopolio di stato è la coltivazione del papavero per l'estrazione dell'oppio, produzione che pure ha perduto la sua grande importanza passata. Essa è localizzata nelle Provincie Centrali e in qualche stato del Rajputana (circa 750.000 kg. di papavero greggio nel 1926-30). Crescente invece la coltivazione del tabacco, specie nelle regioni costiere, da Bombay alla Birmania La qualità però è scadente, tanto che, diffondendosi il consumo della sigaretta, si fa sempre più largo ricorso all'importazione di tabacchi fini.
Un certo avvenire potrebbero avere le gomme, tratte da varie località nell'India meridionale, Birmania e Assam. Anche la hevea è stata introdotta con successo nelle zone meridionali. L'India ha oggi praticamente il monopolio della lacca, incrostazione resinosa. Coltura arborea importante è il gelso, di cui si parlerà più sotto.
Infine ricordiamo che piante erbacee locali (jawar, bajra, ragi) sono coltivate come foraggio. Anche cereali si usano a tale scopo, ma in complesso l'approvvigionamento di questi generi è ancora assai scarso.
Nel suo insieme l'agricoltura indiana ha ancora molta strada da percorrere, sia riguardo alla possibile estensione delle colture, come riguardo all'intensificazione e miglioramento della produzione. Nondimeno una grande parte della produzione è esportata. Ciò farebbe credere ch'essa rispondesse appieno al fabbisogno interno e lasciasse anzi un forte sovrappiù a disposizione del commercio estero. Ma questo non è vero neppure nei riguardi dei prodotti alimentari di prima necessità. L'esportazione è fondata più che tutto su una deficiente distribuzione interna e sul dislivello fra la media capacità d'acquisto interna e quella d'oltremare e, politicamente, su una tradizione e un'organizzazione tendenti a convogliare nella sfera del commercio la maggior quantità della produzione indigena. Questo ancora più accentuatamente può ripetersi per le materie prime industriali. Non solo l'esportazione del cotone o della iuta in balle non rappresenta il fuoriuscire di un'eccedenza rispetto al fabbisogno del mercato interno, ma questo stesso è per la massima parte soddisfatto con un'importazione di manufatti che è su larghissima scala una vera reimportazione.
Allevamento del bestiame. - L'allevamento del bestiame ha grandissima importanza nell'economia popolare indiana: esso fornisce in genere il solo capitale di qualche valore in possesso dei contadini. Nel 1929 i bovini erano calcolati in 146.959.000 capi, dei quali 120.506.000 nelle provincie e 26.453.000 negli stati. Fra essi circa 126 milioni erano gli zebù e 30 i bufali. I primi (Bos indicus) sono particolarmente diffusi nella pianura del Gange, nel Panjab e anche nelle zone meno piovose dell'India centrale, del Gugerat, di Haiderabad e di Madras. Il bufalo (Bubalus buffelus) è prezioso animale domestico nelle aree di più ricca piovosità e paludose, caratteristico della risaia, diffuso quindi particolarmente nei delta del Bengala e della Birmania e sulle coste orientali del Deccan.
Codesti bovini sono impiegati anzitutto come animali da lavoro e in secondo luogo come fornitori di latte, consumato da alcune caste allo stato fresco, ma generalmente piuttosto in varî suoi prodotti grassi (burro, ghi). Le credenze indù e buddhiste non consentono l'impiego delle carni bovine per l'alimentazione: solo i Musulmani e gli Europei ne fanno uso. Tutta una folla di superstizioni religiose è associata alla vita di questi animali, considerati sacri, talché l'allevamento è assai poco razionale e le varietà sono in genere assai scadenti, anche per la scarsità dell'alimentazione specie nella stagione secca.
Si allevano poi pecore e capre, diffuse anzitutto nelle zone di media e scarsa piovosità (interno del Deccan, Rajputana, Panjab) e anche nell'Assam. Più numerose le capre (calcolate in milioni 44,8 nel 1930), ehe forniscono all'alimentazione latte e carne, e pelli per calzature: meno le pecore (38 milioni). Lana è fornita dal Rajputana e dal Mysore, ma ne viene importata, e preferita, buona quantità dall'Afghānistān e dal Tibet. Notevole il vello caprino del Kashmir, impiegato per i famosi scialli.
Scarsi sono i cavalli (2.220.000), limitati alle aree piane e steppose (Panjab, Rajputana). Gli asini e muli si calcolano in 1.800.000. Nel bacino dell'Indo appaiono anche i cammelli (410.000, nel Thar, nel Sind, oltre che nel Belūcistān). Come bestie da lavoro nelle zone forestali e come animali da trasporto o decorativi nelle corti principesche si impiegano gli elefanti, catturati specialmente nell'Assam e nell'Alta Birmania.
Allevamento particolare infine è quello del baco da seta, il cui prodotto fornì sin verso il 1870 la massima parte del fabbisogno dell'industria serica britannica, poi decadde enormemente. Dopo il 1910 s'iniziò una certa ripresa dell'esportazione, che, superata la parentesi bellica, giunse a un massimo di 214 tonn. di bozzoli e seta nel 1925, si sostenne intorno alle 200 sino al 1929, poi è ricaduta ancora (104 nel 1930 e 64 sole nel 1931). Zone caratteristiche della coltura del gelso e dell'allevamento del baco sono il Mysore, il distretto di Coimbatore (Madras), il Bengala, il basso Kashmir e le vicine plaghe collinose del Panjab. Nel Deccan nordorientale, nel Bengala, Assam, Birmania e sul declivio himalayano si trova la cosiddetta seta selvaggia (tussah), pure sfruttata. In totale si calcola la produzione sericola indiana in 2.300.000 kg. di greggio.
Scarsa importanza ha la pesca, se si toglie qualche plaga litoranea (Malabar, Madras) o deltizia (basso Bengala). Fa eccezione la Birmania.
Foreste. - La superficie intera delle aree forestali, soggette all'amministrazione imperiale nelle provincie, è stata valutata in circa 620.000 kmq., dei quali tuttavia 300.000 appartengono alla Birmania. La foresta è diffusa specialmente nell'alta Birmania (89% della superficie totale) e nell'Assam (43%), zone di montagna assai piovose, ma lo è pure su le pendici del Himālaya orientale, sui Ghati occidentali, e, meno, sugli orientali e nelle alte terre dell'India centrale. Mancanza di tutela della foresta fino a tempi recenti, sfruttamento intenso e irrazionale, libero pascolo del bestiame ai suoi margini, usanza di procurarsi nuove aree coltivabili con l'abbattimento sommario e l'incendio delle piante, fenomeni di combustione spontanea hanno ridotto questo patrimonio forestale in condizioni tutt'altro che buone. In certe zone, come nelle pianure settentrionali, si sente una vera deficienza di legnami, tanto che si ricorre al letame come a combustibile.
Il prodotto di maggior valore è fornito dal tek (Tectona grandis): nell'India meridionale se n'è fatto uno sfruttamento intenso e irrazionale dal sec. XVII a questa parte, riducendosene enormemente la quantità. Oggi la maggior produzione viene dalla Birmania (24 su 30.000 quintali di esportazione). Al tek segue per importanza il legno del sandalo: area di maggior diffusione è l'interno della penisola (Mysore, Monti Nilgiri, Coorg, ecc.); i mercati di larga richiesta sono non solo all'estero (in genere per scopi medicinali), ma anche all'interno, dove il legno del sandalo è impiegato nelle cerimonie religiose. Nell'India settentrionale prosperano invece piante pregiate per il loro legname robusto e duro, per uso di costruzioni edilizie e navali, mobili, carrozzeria, ecc. (Dipterocarpee, Dalbergie, Shorea robusta, Cedro del Himālaya, ecc.). Dagli indigeni assai adoperato per i più varî usi è il bambù, che prospera particolarmente nell'Assam, Birmania, Bengala.
Altri prodotti dà la foresta, oggetto di raccolta da parte degl'indigeni: resine, catechu, mirabolani, gomme, materie coloranti, ecc., produzioni tutte che ebbero una notevole importanza commerciale ai tempi della Compagnia e ora sono più o meno decadute per effetto della concorrenza di altri più convenienti succedanei.
Risorse minerarie. - Le più notevoli risorse minerarie dell'India sono costituite dal carbone, petrolio, oro e metalli preziosi.
Il prodotto più importante è per ora il carbone. Durante gli ultimi trent'anni l'India è salita a un buon posto fra i paesi produttori e ormai basta ai suoi bisogni, essendo giunta a estrarne 23 milioni di tonnellate l'anno nella media 1926-30. Il 97% viene dalla Penisola e di questo quasi il 90% dalle parti di essa comprese nel Bengala e Orissa, il resto dal Haiderabad, Provincie Centrali e India Centrale. Nessun carbone indiano può classificarsi come vera antracite. I più antichi risalgono al Gondwana inferiore (v. sopra, Geologia, p. 3) e sono tutti quelli della Penisola. Nelle catene settentrionali si sfruttano scarsamente le ligniti terziarie. Si trova inoltre torba, in qualche località a notevole altezza, come sui Nilgiri e nel Kashmir, più frequentemente nelle torbiere del delta gangetico. Non sfruttata industrialmente, la torba è impiegata sul posto come combustibile e come concime.
Notevole importanza ha il petrolio. La sua area di diffusione si stende esclusivamente nell'extra-penisola, presentandosi esso a caratterizzare un orizzonte del medio Cenozoico. Questo orizzonte si presenta tipico in Birmania (serie di Pegu) e nel vicino Assam, dove se ne estraggono da 7 a 10 milioni di galloni (Digboi, Badarpur), e si ritrova all'altro estremo, nel Belūcistān, nel Panjab e nella Provincia della Frontiera di nord-ovest dove si sfruttano i campi di Attock. Codesti petrolî sono controllati dalla concentrazione anglo-olandese della Shell Co. e raffinati per la massima parte in Inghilterra (1.200.000 tonn. nella media 1926-30).
Di minerali metallici pure è ricca l'India. Anzitutto essa è ancora uno dei più notevoli produttori dell'oro (circa 1/6 del prodotto mondiale un 12.000 kg. annui), che vi si trova tanto allo stato nativo associato con vene o spuntoni di quarzo, quanto come oro alluvionale nelle sabbie e ghiaie di parecchi fiumi. La produzione maggiore si trae dai giacimenti, di Kolar (stato di Mysore), di Hutti (nel vicino stato di Haiderabad) e di Anantpur nel Madras. In molti altri luoghi della penisola si riconoscono ì segni di antichi sfruttamenti di vene aurifere oggi esauste. L'oro alluvionale si trova anche nell'extra-penisola, ma in genere la sua raccolta è ben poco redditizia.
L'India ha avuto nell'antichità una forte industria estrattiva e metallurgica sia del rame, sia del ferro e del piombo: lo provano i numerosi segni di escavazioni abbandonate e gli estesi cumuli di residui della lavorazione, in parte nuovamente sfruttati con i metodi industriali odierni. Fiorirono particolarmente le miniere di rame del Rajputana e del Singhbhum e, in tempi storici, presso Ajmer e a Khetri (stato di Jaipur). Giacimenti soggetti a coltivazione di una certa importanza sono oggi quelli del Singhbhum. La produzione negli ultimi anni è enormemente aumentata: il minerale estratto, in migliaia di tonn., dal 1927 al 1930 segna la seguente progressione: 5, 18, 78, 126.
Ancora più frequenti i minerali di ferro, particolarmente ematiti e magnetiti associate a scisti quarzosi o argillosi antichi nella Penisola. Sono sfruttate le ematiti del Singhbhum (una riserva di forse 3000 milioni di tonn.) e quelle di Burdwan. Altre miniere di minore importanza sono a Mayurbhani, Manbhum, Bababudan (Mysore), ecc. L'estrazione è aumentata costantemente dal 1921, quadruplicandosi fra il 1922 e il 1929, anno in cui raggiunse il massimo di 2.468.000 tonn.
Dopo gli Stati Uniti, l'India disputa alla Russia il secondo posto nella produzione mondiale del manganese. L'esportazione di questo, in genere allo stato di minerale, è salita durante il sec. XX da poche migliaia a 800.000 tonn. l'anno. I centri principali dell'estrazione sono le cave del Balaghat, Bhandara, Chindwara, Jabalpur e Nagpur.
Si è iniziato lo sfruttamento dell'idrato di allumina dalle lateriti come minerale di alluminio con rendimento assai vario (2600 tonn. nel 1923 23.600 nel 1924).
I giacimenti di minerale di piombo sono numerosi tanto nel Himālaya, come nel Bengala e nel Madras, racchiusi negli scisti cristallini o, come filoni e tasche, nei calcari vindhyani. Spesso la galena è argentifera. Tuttavia l'unico luogo dove oggi si sfrutti su grande scala è Bawdwin negli Stati Shan (Birmania), dove la galena è accompagnata da zinco. Il prodotto totale fu di 50.000 tonn. nella media 1921-25, di 75.000 in quella 1926-30 per il piombo; a questo vanno aggiunte un 20.000 tonn. di zinco e un 200.000 kg. di argento.
Nella Birmania sono i soli depositi sfruttati di cassiterite, all'infuori delle modeste coltivazioni di Palanpur e di Hazaribagh (circa 2.500 tonn. di stagno). Altri minerali poco sfruttati sono il volframio (Tavoy), il cromo (Mysore e Singhbhum), l'orpimento (Chitral, Kumaon).
Prodotto minerale caratteristico dell'India sono infine - e lo erano ancor più anch'esse nel passato - le gemme e pietre preziose. L'antichità non conosceva altri diamanti, si può dire, se non dell'India. Le località produttive più celebri furono il Bundelkhand per i "diamanti di Panna" e i distretti di Kurnool, Cuddapah, ecc. nelle provincie di Madras per i "diamanti di Golconda". La scoperta dei campi diamantiferi del Sudafrica e del Brasile diede il colpo di grazia a questa industria, la quale non produce ora altro che qualche scarsa pietra all'anno, per un valore irrilevante. Rubini produce l'alta Birmania; zaffiri questa stessa, e, particolarmente fra il 1882 e il 1908, il Kashmir (monti di Zanskar). Ora tuttavia non si traggono di qui pietre di pregio, ma solo atte a usi industriali. Acquemarine, agate e altre pietre preziose e semipreziose si trovano in modeste quantità sparse variamente. L'industria del taglio delle gemme è tradizionale a Delhi e Jaipur.
Il sale comune è tratto dall'evaporazione dell'acqua marina per l'80% (Bombay, Madras), per il rimanente dalla concentrazione delle acque sorgenti e laghi salati (Cutch, Rajputana, Provincie Unite, ecc.) e dai grandiosi letti di Kohat (produzione media 1921-30, 1.700.000 tonn., compreso tuttavia Aden). Il nitrato di potassio, in forma di efflorescenze sul terreno, è raccolto nel Bihar, nel Paniab e nel Sind. Prima dello sviluppo dei nitrati sintetici era largamente richiesto all'estero: oggi l'esportazione si aggira fra 4000 e 2000 tonn. (in termini di potassio puro).
Della monazite si fa notevole incetta sulle coste del Travancore, del Deccan, ecc. Grafite si trova in piccole quantità nella Penisola, mentre invece tanto ricca ne è Ceylon. Le miniere più interessanti, nel Travancore, sono state abbandonate perché troppo profonde.
Industrie. - Quando l'Europa centro-occidentale, la culla della industria moderna, era abitata da tribù incolte, l'India era già illustre per la ricchezza dei suoi principi e per la maestria dei suoi artigiani. Industrie fondamentali e celeberrime nel mondo antico le tessili, celebrate nei Veda, pregiate in Egitto (dove s'importavano le mussoline oltre all'oro, all'avorio, al sandalo), note ai Greci. Le industrie del bronzo e del ferro erano parimenti sviluppate e non solo sopperivano al fabbisogno interno, ma davano luogo a notevole esportazione, specie di armi. E poi seterie, scialli, cofani di legno prezioso, coltellerie, oggetti da toletta erano prodotti in abbondanza e ricercati anche oltre mare e oltre monte, attivando tradizionali traffici marittimi e carovanieri. Ancora quando i mercanti dell'Occidente approdarono per la prima volta alle coste indiane, lo sviluppo industriale indigeno non era affatto inferiore a quello europeo del tempo, e la loro rivalità non ebbe causa soltanto nel commercio del tè, delle spezie, dei legni pregiati, quanto nel valore e nella varietà dei prodotti finiti.
La trasformazione dell'India da paese agricolo-industriale a paese esclusivamente agricolo, da paese esportatore anche di manufatti a paese esportatore di sole materie prime è cosa del secolo scorso. Questa vera rivoluzione si è compiuta anzi in pochi decennî al principio di quel secolo ed è contemporanea e in gran parte in dipendenza della rivoluzione industriale determinata dall'introduzione delle macchine negli opifici. Vi contribuì tuttavia anche una decisa condotta politica, imposta dagl'industriali britannici. Questi ottennero non solo che le esportazioni dell'India alla madrepatria (particolarmente dei prodotti tessili) si riducessero rapidamente a zero, con l'impiego di convenienti dazî, ma anzi che la colonia diventasse importatrice a sua volta degli stessi manufatti, ch'essa prima produceva in grande massa e a prezzo unitario relativamente basso.
Assistiamo tuttavia da qualche tempo a un invertirsi di questo grande ciclo storico-economico. Di fronte a tutte le potenzialità delle risorse locali, l'industria indiana odierna è misera cosa; il classico artigianato ridotto a importanza quasi esclusivamente famigliare; tuttavia i timidi primi passi verso un'autarchia hanno già destato preoccupazioni non ingiustificate nei grandi paesi industriali dell'Occidente.
Per l'abbondanza di cotone, la non scarsità di combustibile, la larghissima richiesta di manufatti, era logico, che, a dispetto di tutto, un'industria cotoniera anche modernamente intesa dovesse sorgere in India. Le prime imprese datano dal 1851. Circa il 1880 la media annua dei telai meccanici in attività era già di 14.500, quella dei fusi di 1.600.000. La cifra dei telai si è più che decuplicata in 50 anni (165.000), quella dei fusi quasi sestuplicata (9.312.000 nel 1932). La produzione del filato è poco men che raddoppiata, dai 201.350 kg. della media 1896-1900 ai 378.220 del 1930, e l'assorbimento interno di questa produzione è aumentato con ritmo anche più rapido, specialmente in occasione della guerra mondiale. L'esportazione del filato era infatti nella media prebellica di 90.700 kg., ed è stata di 22.675 nella media 1921-25. In corrispondenza le cotonate inglesi segnano una lenta diminuzione all'importazione, compensata in parte dall'aumento delle cotonate giapponesi.
Progressi più vistosi ha fatto l'industria della iuta, specie la filatura, molti esportatori preferendo l'acquisto del filato al greggio. Infatti da 5500 telai del 1879-84 si è passati a 10 volte tanti, mentre i fusi si sono addirittura moltiplicati per 13, da 88.000 a oltre un milione.
Dopo la guerra l'industria laniera - tenuto conto anche della richiesta non molto forte del paese - disputa all'importazione il primato nelle forniture interne. Sino al 1915 il valore dei manufatti di lana importati superava largamente quello del prodotto interno, nel 1915 per la prima volta la produzione superò l'importazione.
Altra industria che potrebbe rifiorire in India è la metallurgia. Fssa è tuttora nella sua infanzia. Tuttavia la produzione della ghisa è salita da 340.600 tonn. del 1922 a 1.370.000 nel 1929 e, più lentamente, quella dell'acciaio da 153.000 a 629.000 del 1930. L'unica grande azienda è, dal 1912, la Compagnia Tata, caratteristica perché fondata da capitalisti parsi e funzionante con personale indigeno in ogni grado. La sua produzione, a Jamshedpur, sale a 50.000 tonn. di ghisa, 75.000 di rotaie, 60.000 di barre e travi, un valore in tutto equivalente a 80 milioni di lire italiane l'anno. Altre Compagnie con capitale misto anglo-indiano sono pure scese in campo, come la United Steel Corp. of Asia, che dovrebbe produrre 300.000 tonn. di ghisa e 200.000 di acciaio. Per ora l'India imporaa annualmente poco meno di 1 milione di tonn. fra ghisa e acciaio.
Le altre sono in genere piccole industrie sparse e d'importanza locale.
La tabella seguente dà per il 1929, il numero degli opifici e degli addetti alle principali industrie dell'India Britannica, esclusi però gli stati indigeni, gli stabilimenti di stato e l'artigianato. Sono considerate solo le industrie con più di 25.000 addetti.
Traffico e comunicazioni. - Posti questi caratteri dell'economia produttiva indiana, s'intende di quale intensità e volume debba essere il traffico sia all'interno sia attraverso i confini. Attraverso i confini esso deve in primo luogo provvedere all'enorme massa di prodotti manufatti che il mercato indiano richiede (enorme anche solo perché enorme è la massa della popolazione, pur se la sua media capacità d'acquisto sia bassissima) e che esso mercato non produce se non in parte minima; in secondo luogo il traffico attraverso i confini si forma della parimenti enorme massa di materie prime indiane assorbite dalle industrie occidentali.
Il traffico interno anzitutto si attiva nella distribuzione delle due funzioni anzidette. Il commercio estero si fa attraverso pochi porti: alla volta di questi si concentrano le varie materie prime d'esportazione, adunandosi dalle più diverse e lontane plaghe dell'Impero; da questi i prodotti importati si diffondono, irradiandosi in tutte le direzioni, secondo la chiamata delle esigenze, le più varie per intensità e distanze. Su queste stesse vie per le quali si propaga il traffico attraverso i confini, si svolge non meno intenso e vario il traffico esclusivamente interno. Intenso e vario particolarmente appunto perché i bisogni interni e i mezzi per il loro soddisfacimento sono distribuiti in modo che un'adeguata coincidenza degli uni e degli altri si presenta su aree molto ristrette. Si aggiunga la variabilità estemporanea, collegata con le variazioni meteorologiche (carestie locali). Il traffico interno, incrementato dall'odierno sviluppo dei mezzi di comunicazione e con il controllo del già citato ufficio governativo, deve far fronte di quando in quando anche a queste gravosissime esigenze. Il regime britannico ha quindi dedicato una cura particolare alle vie di comunicazione, tanto più che col loro mezzo si è ottenuta e si garantisce l'unità e la difesa dell'Impero sotto il controllo di forze armate opportunamente distribuite e rapidamente mobili.
La fisiografia presenta scarsi ostacoli al traffico interno: la pianura alluvionale e gli spianamenti della penisola sono facilmente percorribili in ogni direzione; unico ostacolo di una certa importanza i Ghati occidentali, tagliati tuttavia da alcuni buoni passi. Vie naturali magnifiche costituiscono i grandi corsi d'acqua dell'extra-penisola. Gange, Brahmaputra, Jumna, Sutlej, Indo in varî tronchi più o meno lunghi furono navigati da tempi remoti.
Saltuariamente le maggiori dinastie conquistatrici tentarono di dare una rete di comunicazioni stabili, anche per via di terra, ai territorî da loro unificati; ma sarebbe stato necessario uno sforzo continuativo, che la storia così frammentata ed episodica dell'India negli spazî esclusi dalle grandi direttrici fluviali, si svolgeva quasi ovunque con il lento mezzo delle carovane di bovini portatori. Ma s'intende che il costo di trasporti così lenti e gravosi non poteva essere sopportato altro che da merci di alto valore. A questo pose rimedio l'amministrazione britannica, specialmente con il sec. XIX. Dapprima furono costruite grandi strade commerciali e strategiche, come il celebre Great Trunk da Calcutta a Delhi; poi, specialmente dopo i fatti del 1857, le ferrovie. Linea da Calcutta a Delhi, indi da Calcutta e Madras a Bombay, che, con l'apertura del canale di Suez, diventava la prima porta dell'Impero; poi le maglie della rete si diffusero, specialmente nella pianura, e si prolungarono verso e oltre l'Indo con una linea di penetrazione destinata ad avanzare in Persia. Separata resta tuttavia la rete birmana.
La lunghezza delle linee ferroviarie raggiunge i 68.044 km. (1930), dei quali 34.567 a scartamento ridotto. Appartengono per la massima parte allo stato (50.600 km. di cui 20.000 a scartamento ridotto, ma in genere anche queste sono gestite da compagnie, le quali realizzano utili ingenti non solo con il trasporto delle merci, ma anche con quello dei passeggeri, il cui numero si è presto rivelato, contro l'attesa, rilevantissimo specialmente alla volta dei grandi centri religiosi e per le migrazioni periodiche interne. Le maggiori compagnie sono quella dell'East Indian Railway, la cui rete risale la valle del Gange, e la Great Indian Peninsular R. Co., la cui linea principale da Bombay per Surat percorre le fertili vallate del Tapti e del Narbada e si congiunge alla precedente ad Allahabad; una seconda (esercitata con la Bengal Nagpur R. Co.) congiunge Bombay e Calcutta per la via più breve, ma meno agevole, di Nagpur; una terza conduce da Bombay a Madras per il passo di Bhor, Poona e Sholapur; e un'altra ancora da Madras a Calicut da una parte e a Ceylon dall'altra, con passaggio in ferry-boat. Altre compagnie importanti sono la Bombay-Baroda and Central India (Bombay-Delhi) e la North Western da Delhi per Lahore al confine afghano da una parte, a Karachi dall'altra. Congiungenti in direzione N.-S. allacciano qua e là queste linee; la più importante è la litoranea Madras-Calcutta.
L'India possiede inoltre circa 250.000 km. di linee telegrafiche e una trentina di stazioni radio in servizio pubblico, 21.000 uffici postali, 13.000 telegrafici e 289 telefonici.
Accanto alle ferrovie i massimi organismi del traffico sono i porti marittimi, come Karachi, Bombay, e Madras, e fluvio-marittimi come Calcutta e Rangoon, ché ben scarsa è oggi l'importanza della navigazione interna, se non sui tronchi inferiori del Gange e del Brahmaputra e loro diramazioni.
La costa dell'India si presta assai meno di quanto parrebbe a prima vista a ospitare buoni porti. Questo, unitamente al fatto che l'organizzazione di essi dipendeva non solo da spontanee iniziative locali, ma dalla scelta e dal volere di un gruppo dominatore straniero, ha condotto alla concentrazione di tutti gli sforzi in pochi centri, che sono saliti quindi ai primi posti fra tutti i porti del mondo. Ufficialmente i porti indiani sono 236, fra i quali 11 nel Bengala, 146 nel Madras, 7 in Birmania, 6 nella provincia di Bombay, 19 negli stati. In realtà i 6/7 del traffico con l'estero si svolgono attraverso i cinque porti di Calcutta, Bombay, Rangoon, Madras e Karachi. Seguono Nuova Goa (portoghese) e Cochin.
L'influenza del sorgere di un'industria indiana si risente già nella distribuzione di queste cifre nei varî gruppi di merci esportate e importate. Nella seconda metà del secolo scorso le esportazioni erano quasi esclusivamente di materie prime, le importazioni di manufatti. Nelle medie antebelliche (1908-13), la situazione era già tanto cambiata che, se pure all'importazione i manufatti figuravano per il 77% contro un 15 per i generi alimentari e un 7 per le materie prime e grezze, nell'esportazione le materie prime non salivano oltre il 47; e i generi alimentari oltre il 28, i manufatti raggiungendo il 23%. Nel quinquennio postbellico (1925-29) le esportazioni delle materie prime erano tornate circa la metà del totale, un po' meno di un quarto erano quelle dei generi alimentari, un po' più quelle dei manufatti. Alle importazioni i manufatti sono ancora scaduti a circa il 72%, con un aumento degli alimentari e delle materie grezze.
Nella media 1921-28, contro un'importazione di cotonate del valore di 4,5 miliardi di lire italiane (la quale supera pur sempre il corrispondente valore delle esportazioni del greggio), s'inizia una piccola esportazione diretta ai paesi vicini. Buona è la vendita delle seterie, pur essa inferiore all'importazione. La stessa metallurgia comincia a esportare (300.000 tonn. di ghisa nel 1927); ma per macchine e prodotti chimici l'India deve ancora pagare all'estero qualche miliardo di lire ogni anno. La bilancia commerciale è invece largamente favorevole per le materie prime e per i generi alimentari. Delle materie prime va annoverato anzitutto il cotone, la cui esportazione ha fruttato circa 3 miliardi di lire l'anno nella media anteriore al 1929. Poco meno della metà è diretta al Giappone, poi vengono, acquirenti minori, la Cina, la Germania, il Belgio e, via Anversa, l'Europa centrale. La Gran Bretagna figura solo col 6% in questa esportazione, non essendo pregiate le qualità indiane a fibra corta. La iuta, la cui esportazione va sorpassando in valore quella del cotone, è distribuita in Occidente fra Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti e, in genere, tutti i maggiori paesi industriali e marinari. Lana e cuoi vedono eguagliarsi i non grandi valori dell'esportazione del greggio e dell'importazione di prodotti finiti. Il petrolio, nell'anteguerra largamente importato dagli Stati Uniti (78%), da Borneo e dalla Persia, è ora in buona parte tratto dai pozzi birmani. Aumenta l'esportazione dei minerali metallici (manganese) e continua il suo declino quella dell'oppio e dell'indaco, le quali ormai figurano nelle statistiche in luogo molto arretrato.
Le esportazioni dei generi alimentari superano le importazioni per doppio, talora triplo valore: valore s'intende assai variabile per la caratteristica variabilità, su enorme scala, della produzione agricola indiana. Il più importante di questi generi è il riso (2 miliardi di lire italiane nel 1926-27), imbarcato principalmente nei due porti di Rangoon e Calcutta. Acquirenti principali Ceylon, poi la Germania e l'Europa centrale via Amburgo, il Giappone e le colonie di emigrazione indiana nella Malesia e nell'Africa. Al riso segue il frumento: esportazione pure soggetta a fortissime variazioni: oltre 2.200.000 tonn. nel 1904 e nel 1927, 145.000 nel 1922. Nel complesso tende piuttosto a diminuire per il concorso di una diminuzione della produzione e di un aumento della richiesta interna. Il maggior acquirente all'estero è il mercato di Londra, via Karachi. Molta importanza ha ancora l'esportazione del tè, traffico internazionale della Compagnia sin dal Seicento. Le variazioni sono molto minori, perché il prodotto viene dall'Assam, dove la piovosità conserva andamento abbastanza costante di anno in anno. Quasi 2 miliardi di lire italiane è il valore di questa esportazione, diretta in prevalenza all'Europa occidentale. Al quarto posto fra le esportazioni vengono i semi oleaginosi (per oltre 1 miliardo di lire italiane). Genere alimentare di notevole importazione (1,5 miliardi) è invece lo zucchero (Giava), tuttavia in diminuzione per effetto del risorgere su nuove basi dell'industria saccarifera locale.
Quanto ai paesi coi quali il complesso di codesto traffico si svolge, il primo posto è naturalmente tuttora tenuto dalla Gran Bretagna, e a conservarlo concorre tutta una serie di provvidenze relative a dogane e trasporti. Tuttavia l'apertura del Canale di Suez, successiva all'abolizione del privilegio della Compagnia, ha allargato assai la concorrenza, specialmente a favore dei paesi mediterranei. La rinascita del Giappone e l'inizio dell'espansione nord-americana hanno poi portato nuovi contributi che si sono fatti rilevanti soprattutto durante e dopo la guerra mondiale. Nel 1927-28, su un movimento di 5700 milioni di rupie, 1981 rappresentavano il commercio anglo-indiano. La Gran Bretagna negli ultimi anni era tornata alla riscossa e, nel campo delle importazioni nell'India, aveva riguadagnato in parte le posizioni perdute, mentre il controllo delle esportazioni si può dire le sia sfuggito, salvo che per il tè, la iuta e le pelli. La bilancia commerciale si chiudeva per essa con un saldo attivo di 403 milioni di rupie nel 1927-28. Al secondo posto sono nel dopoguerra gli Stati Uniti, con una bilancia commerciale passiva per essi, nel 1927-28, di 150 milioni di rupie, su un movimento totale di 563. Segue il Giappone, pure con bilancia passiva per i larghi acquisti di materie prime (cotone, riso). Il terzo luogo gli è però disputato dalla Germania, la quale nell'anteguerra aveva raggiunto il secondo, dietro la Gran Bretagna. Questo avveniva per effetto di una notevole importazione di manufatti delle industrie tessili, meccaniche e chimiche, la quale si è ristretta, riducendo quindi il valore degli scambî, mentre quello delle esportazioni (cotone, iuta, riso) è sempre molto forte. Lontani da questo primo gruppo, seguono in ordine decrescente Francia, Italia e Belgio.
Gli scambî italo-indiani segnano, dal tempo del taglio del Canale di Suez, un ritmo crescente, che nel dopoguerra comincia a preoccupare la concorrenza. Oggi l'Italia disputa il quinto posto alla Francia, che nelle importazioni appare ormai decisamente sorpassata; queste consistono per 2/3 in cotonate e seterie, poi autoveicoli, cappelli, prodotti elettrotecnici, ecc. In cambio l'India invia in Italia, per un valore quasi doppio, cotone e iuta, semi oleaginosi, ecc.
Questo il traffico delle merci, in milioni di rupie. In corrispondenza, ma in parte indipendente, è un movimento di valori e preziosi attraverso le frontiere, movimento contrattosi fortemente negli ultimi anni.
Da una parte infatti il saldo dell'eccedenza di esportazioni sulle importazioni comporta un afflusso fortissimo di valori e più specialmente di metalli preziosi (oltre la metà). Questo afflusso è caratteristico dell'India sin da tempo, si può dire, immemorabile, tanto che la si è chiamata la tomba dell'oro anche perché nella massima parte questo, una volta entrato, resta infruttifero non solo presso i principi e i nababbi, ma anche presso i contadini, che preferiscono pesanti gioielli, amuleti d'oro e argento, piuttosto che nuovi utensili da lavoro, concimi o men che mai titoli di credito. In senso eontrario vi è un movimento di uscita di valori e preziosi alla volta della Gran Bretagna, il deprecato drain degli economisti indiani. Non è solo il saldo di una bilancia commerciale, passiva in questa sola direzione (fortemente passiva, sia pure solo dal principio del secolo scorso), ma sono ancora noli per i trasporti marittimi, interessi del debito pubblico e dei capitali britannici collocati in India (ferrovie, industrie, commerci), pensioni al personale britannico ritornato in patria e rimesse di quello in servizio alla famiglia, risparmio. Il valore annuo di quest'ultimo è stato calcolato in più che 3 miliardi di lire italiane, di cui solo 2 toccano al saldo commerciale.
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Per lo studio del clima sono fondamentali le pubblicazioni dell'Indian Meteorological Department di Calcutta; i Memoirs; il periodico The Indian Weather Review; il Handbook on the Meteorology of India e il Meteorological Atlas of India (1ª ed., 1906). V. anche: H. F. Blandford, A practical Guide to the climates and weather of India, Ceylon and Burma, Londra 1889.
Antropologia: E. v. Eickstedt, Rassenkunde und Rassengeschicte der Menschheit, Stoccarda 1932-33; id., Mysore and history of the Indian races (introduzione a A. K. Iyer, The Mysore Tribes and Castes, voll. 4, Mysore 1929-1932); R. Heine-Geldern, Ein Beitrag zur Chronologie des Neolithicum in Südostasien, in P. Wilhelm Schmidt Festschrift, Vienna 1928, pp. 809-43; A. H. Keane (introduzione a A. K. Iyer, The Cochin Tribes and Castes, voll. 2, Madras 1909-1912); H. N. Risley, The People of India, 2ª ed., Calcutta 1915.
Etnologia: Opere generali e sulle culture inferiori: E. T. Dalton, Descriptive Ethnology of Bengal, Calcutta 1872; P. Mantegazza, Studî sull'etnologia dell'India, Firenze 1886; E. Schmidt, Reise nach Südindien, Lipsia 1894; W. Crooke, Tribes and Castes of the North-Western Provinces and Oudh, Calcutta 1896; id., The Hill-tribes of the Central Indian Hills, in Journal of the Anthrop. Inst., Londra 1899; id., Natives of Northern India, Londra 1907; H. N. Risley, Tribes and Castes of Bengal, Calcutta 1900; A. K. Iyer, The Cochin Tribes and Castes, voll. 2, Madras 1909-1912; E. Thurston e K. Rangachari, Castes and Tribes of Southern India, Madras 1909-10; P. Dahmen, The Paliyans, in Anthropos, III (1908); C. Hayavadana Rao, The Gonds of the eastern Ghauts., ib., V (1910); P. Rossillon, Mœurs et coutumes du peuple Kui, ib., VI-VII (1911-12); F. Jagor, Südindische Volksstämme, Berlino 1914; H. N. Risley, The People of India, 2ª ed., Calcutta 1915; T. C. Hodson, The primitive Cultures of India, Londra 1922; B. Bonnerjea, L'ethnologie du Bengale, Parigi 1927; P. Mitra, Cultural Affinities between India and Polynesia, in Man in India, XI, Ranchi 1931. Vedi inoltre le appendici etnografiche nei volumi del Census of India: 1901 (H. N. Risley e E. A. Gait, Calcutta 1903); 1911 (E. A. Gait, Calcutta 1913); 1921 (J. T. Marten, Calcutta 1924) e G. A. Grierson e S. Konow, Linguistic Survey of India, Calcutta 1903. Per la conoscenza delle culture himalayane è fondamentale l'opera di G. Dainelli (Spedizione italiana De Filippi, s. 2ª, VIII: Le condizioni delle genti, Bologna 1924; IX: I tipi umani, Bologna 1925). V. anche G. Tucci, Note e appunti di viaggio nel Nepal, in Boll. Soc. Geogr., s. 6ª, VIII, Roma 1931. - Vita rurale, arti e industrie popolari: G. M. Birdwood, The industrial Arts of India, 4ª ed., Londra 1884; L. H. Fischer, Indischer Volksschmuck, in Annalen des Nat.-Hist. Hofmuseum, V, Vienna 1890; B. H. Baden-Powell, The origin and growth of Village Communities in India, 2ª ed., Londra 1908; H. H. Mann, Land and Labour in a Deccan Village, voll. 2, Bombay 1918-21; G. Slater, South Indian Villages, Oxford 1919; S. S. Aiyar, Economic Life in a Malabar Village, Bangalore 1925; A. Geddes, Au pays de Tagore: la civilisation rurale du Bengale occidental, Parigi 1927. Per la vita sociale e religiosa v. la bibl. a brahmanesimo; casta. Periodici: Journal and Proceedings of the Asiatic Society of Bengal, Calcutta (dal 1873); Memoirs, ivi (dal 1906); Journal of the Anthropological Society, Bombay (dal 1886); Man in India, ed. da S. Ch. Roy, Ranchi (dal 1921).
Religioni: A. Barth, Les religions de l'Inde, Parigi 1880; id., Bulletin des religions de l'Inde, ecc., ripubblicate in Œuvres complętes (Quarante ans d'Indianisme), Parigi 1914; W. Hopkins, Religions of India, Boston 1895; E. Hardy, Indische Religionsgeschichte, Lipsia 1904; A. Bertholet, Religionsgeschichtliches Lesebuch, 2ª ed., Tubinga 1930; P. Oltramare, Histoire des idées théosophiques dans l'Inde, Parigi 1906; H. Oldenberg, Die Indische Religion, Die Iranische Religion, Berlino 1906; id., Aus dem alten Indien, Berlino 1910; S. Lévi, La formation religieuse de l'Inde contemporaine, Parigi 1907.
Economia: Pubblicazioni ufficiali: Statistical Abstract for British India (annuale), Londra; Agricultural Statistic of India (annuale), Calcutta; Annual Statement of the Trade of B. I. with Foreign Countries, ecc. (annuale), Calcutta; V. Anstey, Economic Development of I., Londra 1929; G. M. Broughton, Labour in Indian Industrie, Bombay 1924; J. C. Brown, India's Mineral Wealth, Bombay 1923; J. S. Gamble, Manual of Indian Timbers, Londra 1922; D. R. Gadgil, Industrial Evolution of India in recent times, Bombay 1924; D. G. Harris, Irrigation in India, Bombay 1923; A. Howard, Crop production in India, Londra 1924; A. K. Iyer, Indian Railways, Bombay 1924; H. M. Leake, The foundations of India. Agriculture, Cambridge 1924; R. Mukerjee, Rural Economy of India, Londra 1926; E. A. Smythies, Indian Forest Wealth, Oxford 1926; E. P. Stebbing, The Forest of India, voll. 3, Londra 1922-26; C. N. Vakil, Financial Developments in modern India, 1860-1924, Londra 1925; P. A. Wadia e G. Joshi, The Wealth of India, Londra 1927; The Indian Yearbook, edito da S. Reed e S. T. Sheppard per cura del Times of India (Londra-Bombay).
Il lavoro topografico del Survey of India si è iniziato dal 1827 con la pubblicazione di un Atlas of India in 177 fogli alla scala 1 : 253.440. Dal 1909 codeste carte sono state sostituite da fogli alla stessa scala, a colori, con isoipse equidistanti a 152 m., detti Degree sheets; ogni foglio si suddivide in quattro alla scala 1 : 126.720 (equidistanza 30 m. circa) e questi alla loro volta in quattro 1 : 63.360, pubblicaz. tuttora in corso. Lo stesso Survey ha compilato due carte 1 : 1.000.000, l'una secondo il programma della Carta internazionale al milionesimo, l'altra nella serie India and adjacent Countries, e inoltre una carta dell'Asia meridionale 1 : 2.000.000. A varia scala il Survey ha poi pubblicato un grande numero di carte di stati, provincie, distretti, piante di città e dintorni, ecc. Buone carte d'iniziativa privata sono pubblicate dal Geograph. Institute di J. Bartholomew di Edimburgo. Il tomo XXVI dell'Imperial Gazetteer è costituito da un Atlante dell'India (nuova ediz., Oxford 1931).
Ordinamento dello stato.
Ordinamento politico-amministrativo. - L'Impero dell'India, costituito dalle provincie indiane governate direttamente dall'Inghilterra o India inglese propriamente detta (British India o British Provinces) e degli stati indigeni protetti o India dei Principi (Indian States and Agencies), in numero attualmente di 562, è un possedimento coloniale britannico dotato di personalità e capacità politica costituzionale (cioè nell'orbita dell'impero britannico) e perfino internazionale in seno alla Società delle Nazioni, ma non ancora autonomo. Il suo ordinamento pubblico attuale si basa essenzialmente sul Government of India Act 1919 con successivi emendamenti non sostanziali (v. sotto: Storia).
Capo supremo di esso, col titolo (dal 1876) d'imperatore dell'India, è il "re della Gran Bretagna e Irlanda settentrionale"; e fonte suprema di ogni potestà per esso è il parlamento inglese.
Alla testa dell'impero si trova il Governo indiano in Inghilterra, costituito dall'India Office o Ministero inglese per l'India, affidato al segretario di stato per l'India (responsabile davanti al parlamento inglese) assistito da un Consiglio per l'India, organo puramente consultivo, incaricato di trattare gli affari inglesi relativi al governo dell'India e composto da 8 a 12 membri al massimo, nominati dallo stesso segretario di stato per la durata di 5 anni.
Sotto al Governo indiano metropolitano sta il Governo indiano centrale, con sede nell'India stessa a Nuova Delhi (da aprile a ottobre si trasferisce a Simla), affidato a un governatore generale in consiglio o (come è anche chiamato dal 1858) viceré, nominato dalla Corona e che resta in carica consuetudinariamente per 5 anni. Il suo Consiglio esecutivo (ministero) si compone di membri (inglesi o indiani) nominati dalla Corona, che abbiano servito almeno 10 anni nell'amministrazione dell'India: a consiglieri sono affidati, col titolo di segretario del Governo dell'India, i singoli dipartimenti ministeriali, meno quello degli Affari esteri e politici, posto direttamente sotto il governatore generale, e il dipartimento ferroviario posto sotto un commissario-capo delle ferrovie: di esso fa parte pure il comandante in capo dell'esercito anglo-indiano.
Il potere legislativo per l'Impero indiano (cioè per tutti indistintamente gli abitanti delle provincie inglesi, per i sudditi inglesi negli stati indigeni, per tutti infine i sudditi indiani all'estero) spetta a una Legislatura indiana, costituita dal governatore generale e di due camere in maggioranza elettive: il Consiglio di stato e l'Assemblea legislativa. In caso di conflitto tra le due camere queste possono essere raccolte in assemblea plenaria per dirimerlo. Il governatore generale però può sempre, con l'assenso del re e previa presentazione delle misure proposte ad ambedue le Camere del parlamento inglese, prendere misure essenziali per la salvezza, anche contro il desiderio del Consiglio o dell'Assemblea.
Anello di congiunzione fra il Governo indiano in Inghilterra e il Governo centrale indiano e organo al tempo stesso di rappresentanza quasi diplomatica dell'Impero dell'India presso il Governo inglese, è l'Alto Commissario per l'India nel Regno Unito che tratta in Inghilterra determinati affari in qualità di agente del viceré e del segretario di stato per l'India in Consiglio.
Unitario il governo centrale indiano, decentrata al massimo grado risulta invece l'amministrazione dell'Impero, non solo per la divisione netta fra India inglese e India dei principi, ma anche per la suddivisione della prima in provincie amministrativamente (e in parte perfino legislativamente) autonome. Diverse di origine storica e cronologica, di superficie, di popolazione, di religione, di ordinamenti, esse sono attualmente in numero di 15; di cui 9 (Madras, Bombay, Bengala, Provincie Unite di Agra e Oudh, Panjab, Burma, Bihar e Orissa, Provincie centrali e Berar, Assam) sotto un governatore, e 6 (Provincia della Frontiera di nord-ovest, Aymar-Merwara, Coorg, Belūcistān, Delhi, Isole Andamane e Nicobare) sotto un commissario capo.
I governi provinciali riposano su una base diarchica, come fu detta, o dualistica; in quanto per la legge del 1919 non tutte le attribuzioni politico-legislative e amministrative sono di loro competenza, ma solo quelle cosiddette provinciali, mentre quelle denominate "centrali" sono di regola riservate al governo centrale. Nell'amministrazione delle materie riservate pertanto il governatore-generale in consiglio ritiene poteri di controllo assoluto sui governi provinciali; mentre nelle materie trasferite esso è competente a intervenire discrezionalmente solo quando ciò sia necessario a salvaguardare interessi centrali o eccedenti i limiti di una singola provincia. Il governo provinciale viene così a sdoppiarsi in due sezioni: il governatore in consiglio, per la trattazione degli affari riservati; e il governatore agente coi ministri, per la trattazione degli affari trasferiti. Il Consiglio del governatore o Consiglio esecutivo consiste di non più di tre membri di nomina della Corona; i ministri sono nominati invece dal governatore e responsabili davanti a lui solamente.
Il Consiglio legislativo, composto dal 60 al 70% almeno (secondo le provincie) di membri elettivi e durante in carica normalmente tre anni, costituisce una vera e propria legislatura locale, le cui decisioni, una volta ottenuta la sanzione del governo imperiale, rappresentato dal governatore generale, alle stesse condizioni delle leggi generali per l'India, hanno forza di legge nei limiti della provincia. Amministrativamente poi la provincia è ripartita generalmente in divisioni, alla cui testa stanno dei commissarî; e la divisione alla sua volta in distretti, alla cui testa è posto con nome diverso (collettore, magistrato, commissario-deputato) un ufficiale esecutivo europeo: il distretto (attualmente sono 273) è la vera unità fondamentale dell'amministrazione anglo-indiana. Quanto all'amministrazione locale, essa è affidata nei centri urbani alle municipalità, nei cui consigli (in virtù dei Local Self-Government Acts del 1883-84) il principio elettivo è più o meno largamente imperante; nelle campagne, eccetto il Burma, a uffici o consigli locali o distrettuali oppure (nella provincia di Madras) ad amministrazioni locali dette Panchayats.
Il sistema giudiziario, rigorosamente indipendente, comprende varî gradi di giurisdizione e trova esso pure il suo fulcro nel giudice di distretto (anello di congiunzione fra i giudici indigeni o provinciali di prima istanza e la Corte suprema della provincia), culminando nel Comitato giudiziario del Consiglio privato del re in Inghilterra (tribunale supremo di appello dalle alte corti indiane).
L'India dei principi (Indian States and Agencies) ha un ordinamento pubblico fondato essenzialmente su un sistema di protettorato coloniale, il quale (a differenza d'un semplice protettorato internazionale) cancella completamente con la sovranità esterna la stessa personalità internazionale dello stato protetto, pur lasciando sussistere con riserve più o meno larghe e controlli più o meno rigorosi ed estesi la sovranità di esso all'interno. L'alta sovranità dell'Impero dell'India sugli stati indigeni (detti anche genericamente stati tributarî, quantunque non tutti paghino all'Impero un annuo tributo fisso) sta alla base di quel rapporto specifico fra il primo ed i secondi; il quale è definito Paramountcy nel rapporto della Native States Commission del 14 febbraio 1929, ultimo documento ufficiale sullo status di tali stati in seno all'Impero anglo-indiano. Le restrizioni fondamentali, apportate alla sovranità indigena dalla Paramountcy britannica, sono: il divieto di entrare in guerra o ostilità armata con chicchessia per conto proprio; di tenere un esercito eccedente le proporzioni stabilite dal governo imperiale; di mantenere relazioni politiche di qualsiasi genere con potenze straniere non solo, ma con gli altri stati indigeni dell'Impero; di contrarre prestiti con forestieri o anche con sudditi inglesi senza il consenso del residente britannico; di elevare i dazî doganali oltre un dato limite; l'obbligo di completa tolleranza religiosa nel territorio dello stato; il diritto infine d'ingerenza o d'intervento del governo imperiale indiano nel caso di riprovevole governo o cattiva amministrazione, di tolleranza di pratiche disumane, di offese infine contro la pubblica moralità. Il controllo politico-amministrativo (che può quindi arrivare nei casi ora richiamati d'intervento alla rimozione della sovranità indigena, sostituita per un periodo più o meno lungo dalla tutela del governo imperiale, quando non addirittura alla destituzione del principe e sostituzione con altro, possibilmente della stessa dinastia) riveste forme varie e molteplici, a seconda della grandezza, importanza, grado di civiltà, tradizioni storiche, ecc. dello stato indigeno, e viene esercitato o su un singolo stato o su gruppi di staterelli o organismi politici indigeni da un funzionario inglese di nome e grado diverso secondo i casi (residente, agente, ufficiale politico, ecc.): sotto tale controllo politico, amministrativo, giudiziario, finanziario, morale del Paramount Power, gli stati indiani si governano con leggi e ordinamenti proprî, in un regime di completa autonomia politico-amministrativa ed economico-finanziaria. Nel 1921 fu dato a essi un legame comune nella Camera dei principi, corpo consultivo permanente creato nell'Impero indiano per trattare gli affari di carattere imperiale indiano o di comune interesse dell'India dei principi: la compongono 120 membri, di cui 108 rappresentanti diretti degli stati da essi governati e 12 eletti nel proprio seno dai capi di altri 127 aggregati politici d'importanza minore (i minimi ne sono esclusi).
Forze armate. - Esercito. - Nel 1930 il bilancio indiano della guerra ammontava a circa 530 milioni di rupie, pari a lire italiane 3.667.000.000 e al 40,7% del bilancio generale. Forza bilanciata: ufficiali 7650 (4150 britannici, 3500 indiani), truppa 222.000 (166.000 indiani; 56.000 britannici). L'esercito dipende dal governatore generale, che ne delega il comando al comandante in capo, la direzione dei servizî al Dipartimento dell'esercito e marina. Ai fini militari, il territorio è suddiviso in 4 regioni (nord, ovest, est, sud) e 1 distretto autonomo (Birmania). L'esercito è costituito da: forze britanniche (regolari e ausiliarie) e forze indiane (regolari, territoriali, riserva, degli stati indiani).
Le forze britanniche regolari comprendono: fanteria (45 battaglioni); cavalleria (5 reggimenti); artiglieria, a cavallo, da campagna, da montagna, pesante campale, pesante (in totale 20 gruppi, 66 batterie); carri di assalto (8 compagnie autoblindomitragliatrici); aeronautica (3 reggimenti); servizi di sanità, d'intendenza, veterinario. Le predette forze sono costituite, nella quasi totalità, da unità organiche metropolitane distaccate in India per turni di servizio di lunga durata (fanteria 12 anni; cavalleria 14); mancando in India complementi britannici, gli organici di pace delle unità stesse sono lievemente superiori a quelli di guerra. La forza ausiliaria (32.000 uomini), riserva delle forze regolari, concorre ai compiti di difesa locali. È costituita da soli sudditi britannici europei. Esiste per tutte le armi; compie brevi periodi d'istruzione annuali (massimo 20 giorni); è prosciolta da ogni vincolo al 45° anno di età.
Le forze indiane regolari comprendono: fanteria (130 battaglioni); cavalleria (21 reggimenti); artiglieria (20 batterie da montagna); genio (3 reggimenti); truppe dei collegamenti (16 compagnie); servizî di sanità, d'intendenza, trasporti, d'artiglieria, ippico e veterinario. Le forze territoriali (15.400 uomini) comprendono: corpi d'istruzione universitarî composti d'insegnanti e studenti delle università indiane, istruiti presso le stesse università da quadri britannici e abilitati a conseguire il brevetto di ufficiale della riserva; unità provinciali, seconda linea delle forze indiane, vincolate a servire (con arruolamenti da 4 a 6 anni, rinnovabili) in qualsiasi parte dell'India e, all'occorrenza, fuori di essa e chiamate annualmente per periodi d'istruzione di durata varia da 28 giorni a tre mesi; unità cittadine, per esigenze locali, chiamate annualmente per periodi d'istruzione della durata massima di 16 giorni. La riserva (43.000 uomini) comprende militari di truppa di età non superiore ai 35 anni provenienti dalle forze regolari e che assumono ulteriori arruolamenti nella riserva stessa. Le forze degli stati indiani (44.000 uomini) sono arruolate dai singoli principi e poste a disposizione del governo ín caso di necessità. Il governo fornisce loro consiglieri militari britannici, per l'organizzazione e l'addestramento.
Gli ufficiali in servizio attivo sono di due specie: nominati dal re e nominati dal viceré. I primi sono indiani reclutati attraverso le scuole militari inglesi, ovvero ufficiali britannici trasferiti nelle truppe indiane; i secondi sono indiani reclutati attraverso le scuole militari indiane. I militari di truppa sono indiani che si arruolano volontariamente, con vincoli di ferma varî, nelle sole forze regolari (minimo 4 anni, massimo 7 anni, secondo le specialità) o continuativi nelle forze regolari e nella riserva (minimo 8 anni, massimo 15).
Marina militare. - È costituita da unità di scarso valore militare, destinate a servizî locali: perciò la Gran Bretagna mantiene nelle acque indiane una delle sue squadre d'incrociatori leggieri e alcune cannoniere, al mantenimento dei quali l'India contribuisce indirettamente con versamenti al bilancio della marina britannica.
Tali unità sono: gli sloops Hindustan (varato nel 1930, da 1050 t. e 16 nodi, armato con 2/102 e 14 mitragliere) e Cornwallis (varato nel 1917, da 1300 t. e 16 nodi, armato con 3/102, 2/76 e 4/47; il yacht Lawrence (normalmente destinato al Golfo Persico), varato nel 1919, da 1260 t. e 15 nodi, armato come il Cornwallis; le navi idrografiche Investigator (varata nel 1917, da 1190 t. e 13 nodi) e Palinurus (varata nel 1907, da 450 t. e 11 nodi), non armate; le navi da pattuglia Baluchi e Pathan, varate nel 1917-18, da 73 t. e 20 nodi, armate con 1/102 e 2/76; lo stazionario Clive, varato nel 1919, da 2100 t. e 14 nodi, armato come il Cornwallis; i dragamine Bombay, Calcutta, Kidderpore, Sealdah, Colombo, Madras, varati nel 1919, da 600 t. e 10 nodi, armati con 1 pezzo di piccolo calibro; la nave-appoggio Dalhousie, varata nel 1886, da 1970 t. e 13 nodi, armata con 4/47. Il personale che arma queste unità è in parte indiano; gli ufficiali sono in massima parte inglesi; gl'Indiani possono prestare servizio come ufficiali di coperta.
Aviazione militare. - I reparti di aviazione attualmente dislocati in India fanno tutti parte della Royal Air Force (R. A. F.) della Gran Bretagna e hanno sede a Quetta, Risalpur, Peshawar, Kohat, Ambala e Lahore. Il comando della R. A. F. dell'India è invece dislocato a Simla. Nel 1932 il governo indiano ha presentato all'assemblea legislativa un disegno di legge che regola i rapporti disciplinari della prospettata forza aerea dell'India. Piloti indiani sono in corso d'istruzione a Cranwell e tra breve giungerà in India il primo nucleo di questi ufficiali, i quali in un primo momento, e per la durata di un anno, saranno addetti a unità della R. A. F. per completare la propria istruzione; poi avrà luogo la costituzione della forza aerea indiana. I progetti presentati perché venisse adottata, per le esigenze della forza aerea dell'India, la legge della R. A. F. o la legge che disciplina l'esercito britannico, sono stati scartati per le complicazioni che importavano. La legge ora presentata all'approvazione dell'Assemblea legislativa è basata su quella dell'esercito indiano del 1911.
Finanze. - Le finanze dell'India dal 1914. - Le condizioni generali dell'economia indiana all'inizio della guerra mondiale erano assai favorevoli, e così pure quelle della finanza, grazie soprattutto all'accorta politica di conversione del debito improduttivo in produttivo, per cui al 31 marzo 1914 su 274 milioni di Lst. di debito pubblico solo 13 rappresentavano oneri improduttivi e il reddito delle ferrovie e delle opere di irrigazione compiute superava di oltre 6 milioni la spesa annuale per il servizio del debito complessivo. Né la situazione in complesso peggiorò durante gli anni di guerra, ché la spesa diretta causata dal conflitto fu minima, mentre le annate agrarie continuarono a essere buone e il commercio, dopo un primo periodo di contrazione, ebbe largo impulso dalle richieste di materie prime, manufatti e generi alimentari da parte dell'Inghilterra e degli alleati, permettendo al governo di trarre un maggior gettito dalle imposte esistenti e di ricorrere anche a inasprimenti fiscali. La guerra afghana del 1919 e i torbidi interni pesarono invece fortemente sul bilancio dell'India, proprio allora che il boom del commercio si era esaurito e il rapido aumento del costo della vita costringeva il governo a elevare gli stipendî. Seguirono anche dei cattivi raccolti e il deficit si aggravò tanto che si dovette ricorrere a severe economie e a un aumento dell'imposizione. Alla fine del 1923-24 (dopo 5 anni di deficit in cui il disavanzo complessivo aveva raggiunto 980 milioni di rupie) l'equilibrio del bilancio era di nuovo raggiunto e il concorso delle favorevoli condizioni dell'agricoltura, come pure dello stabilizzarsi della situazione mondiale e della ripresa del commercio, permisero di consolidare negli anni seguenti il risultato ottenuto. Nello stesso periodo il governo adottò (1925-26) un piano di ammortamento del debito pubblico (su cui le spese belliche e soprattutto il deficit del dopoguerra avevano influito elevando la quota improduttiva) e stabilizzò definitivamente la rupia (1927) rapportandola all'oro.
Sopravvenne la crisi mondiale e il ribasso dei prezzi, specie dei prodotti agricoli, la depressione del commercio e il disordine monetario e finanziario internazionale, influirono sfavorevolmente anche sulle condizioni dell'India, mentre i torbidi interni ne aggravavano la situazione.
La caduta della sterlina, nel settembre 1931, determinò poi il governo indiano ad abbandonare la base aurea della circolazione per conservare inalterato il rapporto di cambio con la valuta inglese. Un certo miglioramento nella situazione finanziaria indiana si è poi manifestato soprattutto per l'energica politica del governo che è riuscita quasi a ristabilire l'equilibrio del bilancio e a rimborsare parte del debito pubblico.
Bilanci e debito pubblico. - La riforma del 1919 ha nettamente separato le finanze del governo centrale dell'India da quelle dei governi provinciali, attribuendo a questi ultimi determinati compiti e particolari fonti di reddito e autorizzandoli a contrarre prestiti. Per la stessa rifoma anche gli enti locali (municipalities) e gli stati indiani ottennero una certa autonomia finanziaria. Per fronteggiare nei primi tempi la ripercussione della riforma sull'andamento del bilancio del governo centrale, fu imposto però alle provincie l'obbligo di un contributo annuale, per l'ammontare complessivo di 98,3 milioni di rupie, che fu poi progressivamente ridotto e finalmente annullato nel 1928. Ecco i dati sulle entrate e le spese del governo centrale in milioni di rupie:
Le principali entrate del govenno centrale sono i dazî doganali, il reddito netto delle ferrovie, le imposte sul reddito, le tasse sul sale (la vendita dell'oppio, cespite prima importante, si è di molto ridotta ed è destinata a scomparire entro il 1935); quelle dei governi provinciali sono invece: l'imposta sulla terra, le imposte di consumo, specie sugli spiriti, le tasse di bollo, il gettito delle opere d'irrigazione e il prodotto delle foreste. Le maggiori spese sopportate dal governo centrale sono quelle per la difesa, per il servizio del debito pubblico e per l'amministrazione centrale; l'amministrazione locale, le opere pubbliche, l'igiene e l'educazione, costituiscono i maggiori capitoli di spesa delle provincie. Il debito pubblico dell'India, interno ed estero (escluso quello contratto dai governi provinciali, che al 31 marzo 1932 era di 162 milioni di rupie), al 31 marzo 1933 ammontava a 10,2 miliardi di rupie, di cui solo una piccola parte rappresentava spese di carattere improduttivo e il resto era stato utilizzato soprattutto per costruzioni ferroviarie e opere d'irrigazione.
Moneta e credito. - L'unità monetaria dell'India è la rupia d'argento (il cui valore fu stabilizzato dal Currency Act 1927 a 1 scellino e 6 pence oro; 13 rupie e 1/3 equivalgono cioè a 1 lira sterlina oro), e la circolazione è in gran parte costituita da monete d'argento, nonostante che negli anni della guerra e del dopoguerra abbiano acquistato notevole diffusione anche i biglietti emessi dal governo centrale attraverso l'Imperial Bank. Al 31 marzo 1933 l'ammontare di questi biglietti in circolazione era di 1769 milioni di rupie, coperti da una riserva di 260 milioni in oro, 1119 in argento e 390 in titoli esteri. Oltre a questa riserva destinata a sostenere la moneta cartacea (Paper currency reserve) il governo indiano, al fine di assicurare la compiuta riforma monetaria, detiene anche in oro presso la Banca d'Inghilterra, in buoni della tesoreria britannica e in sterling securities un'altra riserva (Gold standard reserve) che alla stessa data ammontava a 40 milioni di sterline. Le banche del Bengala, di Madras e di Bombay agiscono come banchieri del governo e acquistano e riscontano le cambiali interne. Le principali banche per gli scambî con l'estero sono la Chartered Bank of India China and Australia, la Mercantile Bank, l'Imperial Bank e la National Bank.
Bibl.: P. A. Wadia e G. N. Joshi, The Wealth of India, Londra 1925; G. Chand, The financial system of India, Londra 1926; C. N. Vokil e S. K. Muranjan, Currency and prices in India, Londra 1927; K. Theill, Die Einkommensteuern des grossen britischen Dominions unter Einschluss britisch Indiens, Jena 1930; Report of the Royal Commission on Indian currency and finance, Londra 1926; Department of overseas trade (Th. M. Ainscough), Report on the conditions and prospects of British trade in India, Londra 1927; Department of commercial intelligence and statistics India, Review of the trade of India in 1930-31, Calcutta 1931; v. anche l'Indian Journal of economics, edito dal Department of economics and commerce, Università di Allahabad, 1920-21 segg.
Preistoria.
L'occupazione umana dell'India Anteriore avvenne durante il Pleistocene antico, come risulta dai numerosi manufatti litici - per lo più di quarzite - raccolti nelle terrazze fluviali e nei depositi di laterite. L'alta antichità di queste primitive industrie umane viene dimostrata non solo dall'età geologica dei depositi in cui esse erano contenute, ma anche dai resti delle faune estinte raccolte negli stessi giacimenti, come è il caso, p. es., degli amigdaloidi trovati nelle alluvioni del Godavari, del Narbada o di Chakarhapur. Non esiste invece nessun indizio sicuro della presenza dell'uomo nell'India durante il Terziario. Le selci eolitiche di Burma (Birmania), segnalate dal Noetling, come molte altre scoperte del genere, non possono venir prese in seria considerazione. Le industrie appartenenti al ciclo dell'amigdala - le più antiche industrie umane finora conosciute nell'India Anteriore - sono diffuse dal Panjab al Bengala e dal Narbada si estendono sino ai Nilgiri e a Madura all'estremità meridionale della penisola.
Uno dei territorî più ricchi di amigdaloidi pleistocenici - molti dei quali trovati in posto a profondità rilevanti nella laterite - è il territorio di Madras, che è anche uno dei territorî meglio esplorati. In generale sembra che tutta la parte sud-orientale del Deccan fosse abitata in quel lontano periodo geologico da gruppi numerosi di famiglie umane.
Centri importanti furono segnati a Chingleput, Renigunta, Nellore, Cuddapah, Bellary. Manufatti paleolitici diedero anche le valli del Kistna, del Godavari e del Narbada. Più rari diventano i reperti a nord dei Vindhya. Ricordiamo gli amigdaloidi scoperti nel Rajputana e in diverse località della pianura gangetica a Rajpur, Mirzapur, Banda, ecc.
Questa antichissima cultura paleolitica viene denominata dal Menghin Madrasiano. Secondo l'opinione di questo autore i manufatti dei dintorni di Madras sono più grossolani di quelli (chelléani) europei e africani. Si tratta di strumenti ricavati da ciottoli e rassomiglianti alle rozze accette chalossiane. Secondo le relazioni degli scopritori sono molto rari strumenti di altro tipo e lavorati con una tecnica diversa (schegge, lame). È probabile quindi che il Madrasiano rappresenti un'industria amigdaloide relativamente pura. In alcune località (Cuddapah, Chingleput) si ebbero anche forme più eleganti e lavorate con maggior cura. Da Nellore provengono tipi appiattiti con tallone arrotondato formato dalla corteccia del ciottolo da cui l'istrumento venne ricavato.
Selci lavorate su scheggia, principalmente punte e dischi (che ricordano le fogge del Moustériano europeo) furono trovate dal Seton Kaar nelle alluvioni del Penaar, insieme ad amigdaloidi piatti di tipo acheuleano. Questa industria venne raccolta anche in superficie.
A Karnul, nelle caverne di Billa Surgan, venne scoperta un'industria ossea (già avvicinata al nostro Magdaléniano), accompagnata da una fauna riferita dal Lydekker al Pleistocene superiore. Secondo Panchan Mitra non si tratta di un abitato trogloditico permanente, ma di ricoveri temporanei simili a quelli occupati dai Vedda. Il Menghin avvicina l'industria di Billa Surgan a quella euro-asiatica di Wildkirchli (culture delle ossa, semndo la sua classificazione), ma è prudente, prima di pronunciarsi, attendere notizie più sicure su questi giacimenti.
Non mancano nell'India Anteriore, industrie litiche caratterizzate da manufatti ricavati da lame simili a quelle del Pleistocene superiore europeo. Secondo P. Mitra si avrebbero industrie di tipo aurignaciano, solutréano e magdaléniano. Nulla ci autorizza però a parlare di una cultura aurignaciana o solutréana indiana, poiché non basta l'esistenza di qualche affinità tipologica tra il materiale siliceo per identificare una civiltà.
Bene rappresentate, specialmente nelle regioni settentrionali, sono le industrie microlitico-geometriche del Pleistocene finale. Oggetti di questo tipo furono raccolti tanto alla superficie del suolo quanto negli strati superiori delle caverne, come nei monti Vindhya, oppure nelle sabbie granitiche o nella laterite come nei dintorni di Jabalpur. Per la fabbricazione di questi piccoli strumenti (trapezî, triangoli, segmenti di cerchio, ecc.) furono adoperate oltre alla selce numerose altre varietà di rocce dure: quarzo, agata, calcedonio, diaspro. I dintorni di Banda e le caverne e i ripari sotto roccia dei Monti Vindhya (Gharwa Pahari, Morahna Pahari, ecc.) hanno fornito i più abbondanti referti.
Il Menghin distingue tre facies diverse: 1. India centrale fino al Kistna (Banda, Kalinyar): lame microlitiche, segmenti, nuclei, di dimensioni maggiori e di fattura meno accurata delle altre due; 2. dalla regione di Jabalpur sino all'estremità meridionale della penisola: lavorazione accurata; pare che manchino i segmenti. A questa industria litica, ricavata prevalentemente da rocce agatoidi, sembra sia associata una ceramica decorata con impressioni cuneiformi. Ricorda la cultura di Shabarakh dell'Asia centrale; 3. gruppo di Morahna Pahar dei Vindhya: segmenti, trapezî, triangoli ben ritoccati.
Rozzi manufatti di terracotta. Sulle pareti di queste grotte esistono pitture in rosso. È un complesso che ricorda il tardo Capsiano.
Pitture e graffiti si trovam anche in altre caverne indiane, e sulle rocce all'aperto. I gruppi principali segnalati da P. Mitra sono i seguenti: rocce dipinte presso Ghatsila ai confini del Bengala (Bihar e Orissa), caverne delle montagne di Kaimur (Mirzapur), pitture rupestri di Singanpur (Raigarh), gruppi di pitture delle colline di Kapgallu (Bellary) e caverna di Edakal presso Calicut. Le pitture del gruppo nord-orientale (Ghatsila, Singanpur) con scene di cacce e di danze, e nelle quali è riprodotto, secondo P. Mitra, anche il canguro (un grosso roditore secondo F. Sarasin), sembra che presentino alcune analogie con le pitture rupestri australiane. Le numerose raffigurazioni del distretto di Bellary, con scene di caccia, figure umane armate di giavellotto e scudo e riproduzioni di uccelli, elefanti e altri animali, vengono riferite al Neolitico.
Il Neolitico è molto diffuso in tutta l'India Anteriore. Manufatti di selce e di altre rocce, scheggiati e levigati, si trovano nel Panjab, nel Rajputana, nel Gugerat e più a S. nei distretti di Haiderabad, Bellary, Anantapur. Il Foote Bruce distinse ben 78 forme di manufatti neolitici, dei quali 41 sono levigati e 37 scheggiati. Nell'alta valle del Gange, nel Bengala e nelle provincie centrali si trovano anche oggetti di rame, principalmente accette, tra le quali si distingue un tipo a taglio semicircolare e tallone stretto (Midnapur, Balaghat), che è affine alle cosiddette accette litiche spatuliformi dell'Elam e a quelle dell'Asia sud-orientale.
In certe regioni della penisola (p. es. a Bellary) si passa direttamente dalla fase neolitica all'età del ferro. Secondo gli studiosi locali (Foote Bruce, P. Mitra) mancherebbe in India una vera età del bronzo e la lavorazione di questo metallo sarebbe posteriore alla conoscenza del ferro.
La fase più antica del Neolitico indiano è caratterizzata dall'uso delle accette litiche cilindriche (Walzenbeil) e dall'allevamento dei suini (Schweinezüchterkultur del Menghin). Questa cultura protoneolitica, originaria pare dall'Asia orientale, avrebbe avuto nell'India Anteriore un centro secondario di espansione verso l'Occidente.
Di grande importanza per la conoscenza delle antiche civiltà indiane e delle loro relazioni con gli antichi centri culturali dell'Asia anteriore sono le recenti scoperte di due città preistoriche avvenute a Harappa nel distretto di Montgomery (Panjab) e a Mohenjo-Daro nel distretto di Larkana (Sind). I tipi più comuni dell'abitato umano, nell'India neolitica, sono i ripari sotto roccia e i villaggi di capanne. A Harappa e a Mohenjo-Daro invece troviamo gruppi di edifici composti di diversi vani e costruiti in muratura con mattoni cotti o semplicemente seccati al sole (cortili, edifici secondarî) e disposti in modo da costituire dei veri aggregati urbani. I resti archeologici raccolti in questi scavi superano per varietà e importanza quelli provenienti dagli altri centri neo-eneolitici indiani. Accanto a strumenti di selce e di pietra levigata si trovano preziosi oggetti di ornamento ricavati da pietre dure, avorio, conchiglia, metallo e pasta vitrea (caratteristici p. es. i braccialetti costati cuoriformi).
Il metallo più comune è il rame; esiste anche il bronzo; manca il ferro. Tra i prodotti ceramici (alcuni dei quali sono lavorati al tornio) si distinguono vasi dipinti, con motivi che ricordano quelli di Susa (2ª fase) e del Belūcistān. Da ricordare ancora una serie di sigilli rettangolari e quadrati, di pietre dure, steatite e avorio. Ogni sigillo ha scolpita la figura di un toro e una breve iscrizione. Stile e caratteri alfabetici rivelano l'esistenza di rapporti tra questa antica civiltà (Indus Valley culture, III-II millennio a. C.) e i centri sumeri e susiani. Influenze sumeriche rivelano anche le statuette di terracotta raccolte a Harappa e a Mohenjo-Daro, rappresentanti con tutta probabilità una divinità femminile prearia della fecondità. Secondo le ricerche di A. K. Coomaraswamy queste statuette - come anche quelle del distretto di Peshawar - presentano insieme ad alcuni caratteri che si ritrovano nelle figurine umane sumeriche, altri che sono tipicamente indiani. Si possono ricordare anche le belle statuette fittili del cosiddetto tipo pre-maurya (1000-300 a. C.), prodotti caratteristici dell'arte locale.
L'età del ferro è ben rappresentata in India, specialmente nelle regioni meridionali, dove succede al Neolitico. A questa civiltà appartengono i monumenti megalitici, che in India sono molto comuni. È possibile che i più antichi monumenti del genere siano anteriori all'età del ferro. L'origine di queste costruzioni è ancora oscura. I megaliti della regione dei Munda, nell'India centrale, presentano molte analogie con quelli dell'Assam e del gruppo asiatico sud-orientale. Essi però, a differenza di questi ultimi, si legano al rito funerario della cremazione, precisamente come quelli dell'India meridionale.
Anche a Ceylon sono molto comuni i manufatti abbandonati dalle prime popolazioni che occuparono l'isola (gli antenati dei Vedda, secondo F. Sarasin e Seligmann; gli Yacca secondo Wayland). Gli oggetti si rinvengono alla superficie del suolo, specie nelle regioni collinose di Kandy e di Peradeniya, e a Bandarawela, o nei ripari sottoroccia, e in grotte (Nilgala). Nei ripari di Gango-dedeniya-galge e di Beligalge, gli oggetti silicei erano associati a percussori di pietra, resti di animali e conchiglie. Gli strati superficiali contenevano resti di ceramica singalese.
Mancano a Ceylon i grandi amigdaloidi paleolitici comuni nel Deccan. Abbondano invece coltellini, punte e raschiatoi, tutti di piccole dimensioni. Frequenti sono anche i microliti. Strumenti di grandi dimensioni ricavati da schegge sono rari. Ricordiamo anche le serie di piccoli strumenti a tallone grezzo e a contorno amigdaloide, ricavati da ciottoli.
L'industria litica dell'isola si distingue da quella del vicino continente anche per l'uso quasi esclusivo del quarzo, del cristallo di rocca e di qualche altra roccia silicea, essendo molto rara a Ceylon la selce.
Mancano nell'isola oggetti di pietra levigata e di metallo, come mancano monumenti megalitici e avanzi di animali domestici. Anche la presenza del cane è molto dubbia.
Il tipo e l'evoluzione delle antiche culture umane di Ceylon non presentano quindi tratti comuni con quelle svoltesi nell'India Anteriore malgrado la breve distanza che separa le due terre. Se nel Paleolitico antico la mancanza di un ponte naturale attraverso lo stretto di Palk poteva impedire il passaggio a tribù selvagge ignare della navigazione, è pur sempre curioso che questa mancanza di rapporti culturali sia perdurata anche dopo l'affermarsi in India di culture più elevate. Questo insieme di cose rende difficile anche la classificazione cronologica del materiale ceylonense. L'isola fu certamente occupata dall'uomo già durante il Paleolitico superiore, ma è molto probabile che una parte del materiale litico ivi raccolto sia più recente e contemporaneo, perciò, alle fasi più evolute delle culture svoltesi nella penisola indiana.
Bibl.: R. Chanda, Note on Prehist. Antiquities including antiq. from Mohenjo-Daro, Calcutta 1924; A. K. Coomaraswamy, Arcaic Indian Terracottas, in Jahrb. für prähistor. und ethnogr. Kunst, 1928; J. De Morgan, La préhistoire orientale, III, Parigi 1928; R. B. Foote, The Foote Collect. of Indian Prehist. and Protohist. Antiquities, Madras 1914-1916; R. Heine-Geldern, Die Megalithen Südostasiens und ihre Bedeutung, in Anthropos, XXIII (1928); J. H. Marshall, New discoveries of an unknown prehist. past in India, in Ill. London News, 20 settembre 1924; O. Menghin, Weltgeschichte der Steinzeit, Vienna 1931; P. Mitra, Prehistoric culture and races of India, Calcutta 1920; id., Prehist. Art and Craft of India, ivi 1920; id., Prehist. India, ivi 1923; F. Sarasin, Étude critique sur l'âge de la pierre à Ceylon, in L'Anthropologie, XXXVI (1926); J. H. Marshall, Mohenjo-Daro and the Indus Civilization, voll. 3, Londra 1931.
Storia.
La storia dell'India può dividersi in tre grandi periodi: indiano, musulmano, europeo. Ciascuno di questi periodi ha per carattere un'invasione di popoli stranieri, ciascuno dei quali ha trovato l'India già in possesso di una civiltà, si è sovrapposto ad essa e infine si è con essa confuso, creando una civiltà nuova. La storia dell'India si divide inoltre nella storia delle quattro grandi regioni: il Himālaya, il bacino dell'Indo o Panjab, il bacino del Gange, il Deccan.
L'India antica. - I più antichi abitanti dell'India sono quelli parlanti lingue muṇḍa, di cui sono discendenti gli odierni Santal nel Chota Nagpur. Altre popolazioni indigene sono i Drāviḍa, che parlano lingue agglutinanti, come il Tamul, il Telugu, il Canarese e il Malayāḷam. La più antica civiltà indiana fu scoperta nella vallata dell'Indo, in seguito a scavi eseguiti a Harappa e a Mohenjo-Daro. Risalente forse al 3° millennio a. C., essa presenta affinità con quella rivelata negli scavi del Belūcistān, del Sigistan e di Susa e fa pensare a rapporti tra l'India e la Babilonide.
Un nuovo periodo s'inizia con l'invasione dei popoli detti ārya, parlanti una lingua indoeuropea. Essi vennero forse dal settentrione circa il 1800 a. C., in due invasioni principali; con la prima si estesero sulle due rive dell'Indo sino al Jumna. La seconda invasione, verso il 1000 a. C., li portò nella valle del Gange. Erano popoli guerrieri e pastori, adoperavano in guerra il cavallo e armi di metallo, erano divisi in tribù, formate da clan, distinti in famiglie; la religione era un politeismo naturalistico, l'organizzazione era patriarcale. Venuti a contatto con le popolazioni aborigene, per mantenere pura la razza e la tradizione essi osservarono severe leggi riguardanti i matrimonî, vietando a ciascuno di sposarsi fuori del proprio clan e dentro la propria famiglia, divieto che probabilmente diede la prima origine alle caste. Il Ṛgveda distingue il dāsavarṇa o colore nemico dall'āryavarṇa o colore amico. Il trasformarsi delle tribù in stati, la divisione del lavoro faranno più tardi sorgere le caste vere e proprie, tra cui primeggeranno quella dei sacerdoti o brāhmaṇa e dei guerrieri o kṣatriya. Alle quali i trattatisti aggiungeranno quelle dei vāiśya o agricoltori e dei śūdra o servi, ma questa divisione in quattro caste rimase teoria: Pochi i fatti storici ricordati nel Ṛgveda. Sappiamo i nomi di cinque grandi tribù arie: Puru, Turvaśa, Yadu, Anu, Druhyu. Si ricorda anche un re Sudās e una grande battaglia sulle rive del Parusni. Tra i nemici di Sudās si ricorda Viśvāmitra, capo dei Bharata, e di contro a Viśvāmitra si eleva la figura di un grande sacerdote, Vasiṣṭha. In questo periodo il governo della famiglia era patriarcale, quello della tribù monarchico. Accanto al re si trova l'assemblea del popolo (samiti), ministro del re è il purohita o cappellano di corte. Vige il guidrigildo e la vendetta personale. Il commercio avviene in natura, sebbene sia adoperato per cambio un piccolo ornamento d'oro o d'argento detto niṣka. La regione conosciuta nel Ṛgveda si estende dal Kābul al umna.
Nei tempi che seguirono alla seconda invasione aria il dominio geografico si allarga sino ai Vindhya e al Narbada. Invasori e vinti si fondono, la fusione può dirsi compiuta verso il 500 a. C. e da essa proviene la civiltà brahmanica. La leggenda parla di una grande lotta tra due tribù. i Pāṇḍava e i Kaurava; i Pāṇḍava rappresentano gl'invasori, i pallidi, i Kaurava gli antichi signori; da questo conflitto sorgono grandi stati monarchici.
Il centro della civiltà è all'incirca nel distretto di Delhi; altre città appaiono: Kauśambī, Kāsi o Benares, Asadivant, Kāmpilī. L'agricoltura fa grandi progressi (coltivazione del riso, dell'orzo e del sesamo), i mestieri si fanno sempre più numerosi, i sacerdoti costituiscono una casta a sé, si pratica la navigazione fluviale. Il commercio si sviluppa e si usa la moneta. Si formano definitivamente le caste. I śūdra teoricamente sono schiavi, in pratica sono servi, cui è permesso esercitare mestieri e arricchire. La religione si trasforma, sorge la teosofia e si sviluppa la magia. Il rito prevale sul mito. Si consolidano le teorie della metempsicosi e del karman o rinascita in seguito alle azioni. Accanto al brahmanesimo sorgono e si sviluppano i due grandi movimenti religiosi del buddhismo e del jainismo.
Dal 500 al 150 a. C. la civiltà brahmanica si estende a tutta l'India e a Ceylon.
Il primo grande stato indiano di cui si ha ricordo è l'impero dei Magadha, che abbracciò i bacini del Gange e dell'Indo, e finì nel sec. IV a. C. La capitale era Rājagṛha, la dinastia quella dei Śaiśunāga. Un re di questa dinastia, Bimbisāra, fu contemporaneo del Buddha. Nel sec. VI a. C. la vallata dell'Indo fu annessa all'impero persiano, sotto Dario I (522-486), e molti dovettero essere i rapporti tra i due paesi, come si rileva dalle monete e dai due alfabeti, Brāhmī e Kharoṣṭhī, ambedue di origine aramaica e passati attraverso la Persia all'India.
Alessandro Magno invase l'India nel 327 a. C. per il passo di Khaiber, vinse il re indiano Poro e giunse sino all'Ifasi (Byās); si ritirò quindi, scendendo sino alle foci dell'Indo e raggiungendo la Persia per mare. La spedizione di Alessandro durò sino al 325. Alessandro istituì sul corso medio dell'Indo due satrapie, affidate l'una a Filippo, l'altra a Pitone. Accanto a essi vi erano due regni tributarî o alleati, quello di Poro sull'Idaspe e quello di Abhisāra nel Kashmir. I Seleucidi e i re greci della Battriana prolungarono per ben due secoli l'influenza greca sulla regione. L'invasione straniera provocò l'insurrezione nazionale, che scoppiò dapprima tra i brahmani e poi tra i guerrieri. Eudemo successore di Filippo fa assassinare Poro e abbandona il Panjab. L'uccisione di Poro provoca l'insurrezione popolare, che è capitanata da Chandragupta Maurya, il quale pone fine alla dominazione greca nell'India e fonda il secondo grande impero indiano, quello dei Maurya. Seleuco Nicatore si accordò con lui e gli riconobbe il dominio delle terre al di là dell'Indo, dell'Aracosia (Kandahar), Gedrosia (Makrān), Arya (Herat) e strinse con lui e la sua famiglia legami di parentela. Capitale dei Maurya fu Pāṭaliputra (od. Patna). La dinastia Maurya durò fino al 185 a. C. e raggiunse il suo massimo splendore sotto Aśoka (272-231 a. C.). L'epoca dei Maurya fu età di grande sviluppo religioso e culturale per l'India. L'impero Maurya fu attaccato dagli Sciti del Sigistan, che, impadronendosi dei paesi alle foci dell'Indo, interruppero le comunicazioni naturali con l'occidente. Altri invasori da nord furono i re greci della Battriana che giunsero nelle loro spedizioni nel cuore stesso dell'India a Patna. Ai Maurya s'era sostituita intanto una nuova dinastia, quella dei Śuṅga, la cui storia è molto oscura: questi Śuṅga scompaiono verso il 72 a. C. Da sud l'impero è attaccato dagli Āndhra e dai Kaliṅga. Gli Āndhra abitavano tra i fiumi Godavari e Kistna, e nelle loro lotte con l'impero dei Magadha riuscirono anche a impadronirsi di Ujjayini. I Kaliṅga invece abitavano lungo il Mahanadi.
L'età dei Śuṅga è l'età aurea dell'arte indiana (stūpa di Sanchi, di Bharhut, di Bodh Gaya e di Mathura).
Il dominio degli Sciti nell'India fu abbattuto dai Mālava (battaglia di Karōr, 57 a. C.). Sorse così per breve tempo un regno indo-partico, che raggiunse il suo splendore sotto Gondophares (circa il 20 a. C.), ma anche questo regno fu travolto dall'invasione dei Kuṣaṇa, probabilmente sciti, provenienti dal Turkestan. L'impero dei Kuṣaṇa fu fondato nel 78 d. C. e comprese il Panjab e il Kashmir, raggiunse la sua massima estensione sotto Kaniṣka (I25 d. C.) e durò sino al 225 d. C., sfasciandosi poi sotto gli attacchi a nord dei Sassanidi, a sud del secondo grande impero indiano, quello dei Gupta.
L'antico impero indiano dei Maurya, ridotto ormai a poco più che alla provincia del Magadha, approfittò dello sfasciarsi dei Kuṣaṇa per salire a nuova potenza. Esso fu il centro dell'impero dei Gupta fondato da Chandragupta (317 o 320 d. C.). Suo figlio Samudragupta estese le sue conquiste, arrivando sino al Narbada. Chandragupta II, che regnò dal 380, è il principe più illustre di questa dinastia. Egli e i suoi successori Kumāragupta e Skandagupta ebbero a respingere invasioni barbare di Sciti, Irani e Unni. Questi, respinti parecchie volte, riuscirono a stabilirsi verso il 500 nel Malwa, ma ne furono ben presto cacciati. Come finisse questo impero non si sa; forse contribuirono a distruggerlo le invasioni degli stati di frontiera e le ribellioni interne. All'impero dei Gupta sottentrò quello dei Mālava (529 d. C.), fondato da Yaśodharman, che prese il titolo di Viṣṇuvardhana; costui respinse gli Unni, conquistò il Kashmir, e fu grande protettore di letterati (fu chiamato Vikramāditya "sole di valore"), e diede origine a una nuova era, l'era Vikrama (57 a. C.?). La sua discendenza regnò nel Malwa sino al 780 d. C. Intanto a Kanauj (Qannōǵ) si fondava un nuovo impero con una nuova dinastia, per opera di Harṣavardhana, e si ebbero così nel sec. VII due vasti imperi, uno a sud nel Malwa, l'altro a nord a Kanauj. Harṣavardhana governò saggiamente e pacificamente i suoi stati dal 613 al 647, anno in cui si tenne a Prayāga un grande concilio buddhistico. Anche Harṣavardhana diede il nome a un'era che comincia col 606 d. C.
Alla morte di Harsavardhana seguì un periodo di anarchia e di invasioni tibeto-nepalesi, sinché il re di Vallabhī, Dharasena IV, assunse il titolo d'imperatore, separando il regno di Vallabhī dall'India settentrionale.
Questa età dei Gupta è contraddistinta dalla cosiddetta rinascita brahmanica, dalla fusione tra brahmanesimo e buddhismo. Sull'India di questo tempo abbiamo le relazioni dei pellegrini cinesi Fa-hsien, che la visitò dal 400 al 411, e Hiueng-Tsang, che la visitò nel 644. Fiorì la letteratura sanscrita classica, e la pittura diede i meravigliosi affreschi di Ajanta.
L'impero settentrionale andò sempre più frantumandosi in piccoli stati per lo svilupparsi dei clan dei Rājput, nati probabilmente dalla fusione di tribù barbare, unne e gurjara con tribù guerriere indigene dell'India. Questi Rājput fondarono una specie di feudalismo indiano, che accennò anche a formare un impero, ma che non fu capace di opporre valida resistenza alle invasioni musulmane. Nel 783 troviamo l'India divisa in due grandi stati, uno a nord del Jumna, con capitale Kanauj, l'altro a sud di essa con capitale Ujjayini. Quest'ultimo costituì l'impero Gurjara, cosi detto dal nome di una tribù barbara, venuta nell'India con gli Unni. Sotto il re Bhoja, circa l'843 d. C., i Gurjara conquistarono anche il regno di Kanauj. L'impero abbracciò allora tutto il Hindostan e la capitale fu portata a Kanauj. Questo impero durò sino al 1019, quando il sultano Maḥmūd prese e conquistò Kanauj.
Ai confini nord-occidentali di questo impero verso il 1000 si costituì un principato indipendente detto di Ajir e di Delhi. L'ultimo principe di questo stato fu sconfitto a Thanesar nel 1192 da Muḥammad al-Ghōrī, e questa sconfitta segna la definitiva conquista musulmana dell'India. La storia dell'India del resto in questo tempo, cioè dal 1000 al 1193, epoca della conquista musulmana è la storia di tanti piccoli stati, retti da dinastie locali.
Il Gugerat ebbe dal 495 in poi, da quando cioè si separò dall'impero settentrionale, una storia a parte sotto la dinastia di Vallabhī, così detta dalla sua capitale. Questa dinastia nel 770 fu distrutta forse da un'invasione araba. Dopo varie vicende il paese fu in potere di una dinastia rājput, quella dei Cālukya, sino alla conquista musulmana.
Il Deccan ebbe una storia a parte. Nel 620 d. C. una dinastia Cālukya fondò il cosiddetto impero meridionale, che si estese dai Vindhya al Capo Comorin, ma non dominò peraltro tutto il paese. Tra il Godavari e il Kaveri troviamo il regno dei Pallava, i discendenti di una tribù indopartica, che giunsero nell'india alla fine del sec. II d. C. A sud-est e a nord di Madras troviamo il regno dei Cola. Pare che non facessero parte dell'impero di Aśoka nel sec. III a. C., né sono annoverati tra i popoli conquistati da Samudragupta nel 340 d. C. Il fiorire di questo regno è intorno al 1000 d. C. Nel 1150 questo regno fu conquistato dai musulmani e perdette ogni importanza. A sud del fiume Vellaru con Madras per capitale c'era il regno dei Pāṇḍya, ricordato dagli editti di Aśoka (sec. III a. C.). Anche questo regno fu conquistato dai musulmani nel 1311. A sud del Narbada abbiamo il regno di Cedi, che s'ingrandì intomo al 1000 d. C., fu annesso nel sec. XIII all'impero meridionale, e conquistato nel XIV dai musulmani. L'impero meridionale (Cālukya) non riuscì mai a sottomettere interamente questi stati. La lotta coi Pallava rappresentò il suo punto debole. Nel 753 l'ultimo dei Cālukya fu deposto da un suo potente vassallo, Dantidurga, che fu il capostipite di una nuova dinastia, quella dei Rāṣṭrakūṭa. Il periodo del massimo fiorire di questa dinastia fu dall'815 all'877, poi venne la decadenza: l'ultimo re di essa nel 973 fu deposto e successe un'altra dinastia Cālukya, che fu a sua volta spodestata da una ribellione di feudatarî di Mysore e di Hoysala. Questi s'impadronirono del potere nel 1190 e regnarono sino al 1311, sebbene divenissero vassalli degli Yādava, una dinastia che, d'origine rāiput, emigrò nel Deccan circa l'825 d. C. e pose la sua sede intorno a Deogiri. Nel 1307 il re Yādava si sottomise ai musulmani. Nel 1318 l'ultimo degli Yādava, ribellatosi a Mubārak Shāh, fu vinto e ucciso. Al confine settentrionale dell'India, parte del Panjab, l'Afghānistān orientale e il Gandhāra costituirono un regno, che era governato dai Turchi Shāhī, residenti a Kābul, forse di origine kuṣaṇa o unna. Questa dinastia durò sino all'870 d. C., quando fu sostituita da una dinastia brahmanica, che ebbe per capitale Wahand sull'Indo. Nel 960 l'ultimo re di questa dinastia fu vinto e deposto da un principe rājput, Jaipal, che trasferì la capitale a Bhatinda, vicino a Lahore. Nel 1021 anche questa dinastia cedette agli attacchi del sultano Maḥmūd.
La storia politica dell'India non offre una linea di sviluppo e un'unità organica. Dopo la conquista aria essa rappresenta un succedersi d'imperi e di dinastie, che fioriscono e decadono a seconda della virtù dei loro capi, alcuni veramente grandi, come Aśoka e Kaniṣka. Lo svolgimento armonico della civiltà indiana è altrove, è nel pensiero filosofico-religioso, e quindi chi voglia conoscere la storia della civiltà indiana non si deve rivolgere alla storia politica, ma a quella religiosa. Quella è l'opera delle dinastie, questa invece è veramente l'opera del popolo indiano, quella su cui esso ha impresso il suo indelebile suggello.
L'india sotto 1 musulmani. - La facilità e la frequenza delle comunicazioni marittime tra la costa occidentale dell'India e quella orientale dell'Arabia ha portato fin da tempi molto antichi a conoscenza degli Arabi il nome dell'India e alcuni prodotti caratteristici di questa regione: nell'età preislamica i beduini arabi apprezzavano particolarmente le stoffe e le armi che l'industria progredita dell'India forniva loro: le "spade indiane", le "lance dal fusto di canna d'India" costituiscono temi obbligati dell'antica poesia araba. Ma non soltanto per la via diretta del mare i due paesi furono in rapporto, bensì anche per quella terrestre, più lunga, che attraversando l'odierno Belūcistān e contornando l'estremità meridionale del Golfo Persico, giunge al limite nord-est della penisola araba. Questa duplice via di accesso dà ragione delle due forme con le quali il nome della penisola indiana giunse agli Arabi: una, as-Sind, derivazione diretta di Sindhu (il fiume Indo), che rimase limitata appunto alla regione bagnata da esso; l'altra, al-Hind, che (analogamente alla forma greca), presenta il passaggio della s iniziale a h dovuto alla fonetica iranica. Il nome Hindūstān, anch'esso di formazione persiana e molto posteriore ai due primi, si riferisce soltanto alla parte settentrionale dell'India, quella dove l'elemento musulmano si stabilì più durevolmente e profondamente.
Le prime incursioni arabe in territorio indiano seguirono immediatamente le grandi conquiste avvenute sotto il califfo ‛Omar nel quarto decennio del sec. VII, e continuarono sotto Mui‛āwiyah, il primo degli Omayyadi, accompagnando, lungo la riva del mare, l'espansione araba verso oriente, che si svolgeva vigorosa attraverso la regione montuosa dell'Afghānistān. Mentre questa, peraltro non riuscì a penetrare nell'India per la via dei monti, l'avanzata lungo la costa si sviluppò (specialmente a partire dal 711, in cui essa, sotto la guida di Muḥammad ibn al-Qāsim, si affermò più decisa) e, risalendo la valle del Panjab, sottomise all'impero arabo una vasta regione, con centro a Multan: non riuscì peraltro a estendersi maggiormente verso oriente per la valida resistenza dello stato dei Rājput; e, nel processo di decadenza del califfato iniziatosi nel corso del sec. X, il Sind finì col rimanere quasi tagliato fuori dal resto del mondo islamico, e anche in esso, come in tutte le regioni eccentriche del califfato, prese piede temporaneamente l'eresia sciita dei Carmati (v.), accelerando il ritmo della disgregazione. Più importanti che non le occupazioni territoriali furono in questa epoca le relazioni economiche del mondo arabo con l'India, per opera di arditi navigatori i quali si spinsero lungo la costa del Malabar e, raggiunta Ceylon (già fin dalla fine del sec. VII), procedettero alla volta della Cina. Di queste navigazioni si hanno interessanti ragguagli derivanti da coloro stessi che vi avevano avuto parte e conseguenza di esse, non meno che della conquista, furono i rapporti materiali e culturali tra l'India e il mondo islamico.
Tuttavia la penetrazione islamica dell'India non ebbe luogo in larga misura che all'inizio del sec. XI, per opera del grande sovrano e guerriero Maḥmūd di Ghaznah, il quale, esteso e consolidato il dominio dell'Afghānistān, organizzò una serie di spedizioni nell'India settentrionale, attraverso il passo di Khaibar (Khyber), che gli diedero, oltre a sterminato bottino e alla fama di "distruttore degl'idoli" a maggior gloria della fede islamica, il possesso di alcune tra le più belle provincie dell'India nord-occidentale, con capitale a Lahore. Ma, indebolitosi e poi sfasciatosi lo stato ghaznevida per opera dei Selgiuchidi sotto i successori di Maḥmūd, la dinastia dei Ghōridi (1148-1215), sostituitasi ad essi, non seppe mantenere l'unità statale insieme con quella dinastica, e le provincie indiane rimasero a Muḥammad al-Ghōrī Mu‛izz ad-dīn, il quale compì la conquista dell'India settentrionale, giungendo fino al Bengala. La capitale fu trasportata a Delhi, rimasta d'allora in poi il centro più importante dell'Islām indiano. Alla morte di Muḥammad al-Ghōrī (602 èg., 1206), tuttavia, il vasto regno andò diviso tra i suoi generali, turchi di origine servile, i quali, con fenomeno analogo a quello che quasi contemporaneamente si era svolto e andava svolgendosi in altre parti del mondo islamico (Atābeg in Siria, Mamelucchi in Egitto), divennero fondatori di dinastie militari: tra esse le più importanti furono quelle di Delhi, del Sind, del Bengala. Da Delhi soprattutto, dove si succedettero cinque dinastie diverse di condottieri turchi, venne l'impulso a un'ulteriore espansione del dominio islamico in India: Īltutmish, il terzo sultano della prima dinastia (607-633 èg., 1211-1236), riuscì a imporre la sua egemonia al Sind e al Bengala e ad evitare la minacciata irruzione dei Tartari di Genghīz Khān nell'India. La dinastia dei Khalgī, affermatasi nel 1290, riprendendo un disegno di Īltutmish che aveva già mosso guerra al regno meridionale di Malwa, si spinse nel Deccan; ma la conquista definitiva di esso fu opera di Muḥammad Tughluq (1322), il figlio del fondatore di una nuova dinastia, il quale, a suggello della sua impresa, trasportò la capitale da Delhi al centro dell'India, nella città di Deogiri da lui ribattezzata in Daulatabad (Dawlat-ābād), e tentò la fusione dell'elemento indigeno con quello del conquistatore. Ma il troppo rapido accrescimento dello stato e la politica tirannicamente energica di Muḥammad furono causa di rivolte e, alla sua morte (1351), dello smembramento dell'impero: mentre a Delhi, a cui era rimasto limitato il dominio dei Tughluq (meno bene Taghlaq), succedevano, nel sec. XV, le dinastie dei Sayyid e dei Lōdī, il Gugerat, Jaunpur, Malwa, Khandesh, Kashmir, Gulbarga (la regione di Daulatabad), il Deccan si governarono con dinastie indipendenti, mentre nel Bengala, che ben presto aveva rotto il legame di vassallaggio coi Tughluq, si succedeva una serie di dinastie. Nel Deccan i molteplici staterelli formatisi dallo smembramento dell'impero dei Tughluq rimasero per lungo tempo sotto l'egemonia del forte stato costituitosi a Gulbarga (dinastia dei Bahmanidi), il quale riuscì anche a rendersi tributarî i rala di Telingana e di Vijayanagar, gli ultimi governi indigeni indipendenti dell'India meridionale.
Più che le complicate vicende dei regni musulmani dell'India, i frequenti cambiamenti di dinastie, le continue guerre interne ed esterne, valsero a modificare le condizioni generali della civiltà indiana le innovazioni culturali recate con sé dai conquistatori. L'islamismo da essi professato aveva assunto, da secoli, un colorito persiano, e fu quindi essenzialmente la civiltà persiana (naturalmente nella sua fase islamica, cioè con una forte impronta araba) quella che si diffuse nell'India; tuttavia questa civiltà non si fuse che in piccola misura con quella indigena, sia per la resistenza di questa, tenace per quanto passiva, sia per le tendenze stesse dei dominatori, volti a opprimere e a sfruttare piuttosto che a guadagnarsi e ad amalgamare la popolazione indigena, considerata da essi come idolatrica e quindi trattata assai peggio che non quella, prevalentemente cristiana, della Siria, della Mesopotamia e dell'Egitto dove si era dapprima insediato l'islamismo vittorioso.
La grande invasione di Tamerlano (1398-1400) sconvolse la maggior parte dei regni dell'India settentrionale, ma non ebbe ripercussioni sull'India centrale e meridionale; essa non produsse peraltro effetti durevoli, e soltanto un secolo più tardi un lontano discendente di Tamerlano, Bāber, impadronitosi dell'Afghānistān, ricondusse i Mongoli nell'India. Dal 1525 al 1530 egli ne sottomise la parte nord-occidentale; suo figlio Humāyūn fallì nel tentativo di annettersi il Bengala, e anzi finì col perdere le conquiste paterne, che soltanto molto più tardi (1555) seppe in parte riacquistare. La definitiva sottomissione dell'India settentrionale alla dinastia mongola fu il risultato dell'opera tenace e intelligente del figlio di Humāyūn, Akbar, il quale dal 1556 al 1593 s'impadronì successivamente delle varie regioni del Hindostan, ponendo fine alle dinastie locali; verso il Deccan si contentò di conquiste parziali, rivolte più che altro ad assicurarsi da eventuali aggressioni. Pari all'importanza delle imprese militari fu quella dell'opera amministrativa di Akbar: se il suo tentativo di sincretismo religioso fallì, e con esso il sogno di creare una civiltà indiana che superasse il particolarismo delle diverse civiltà presenti e contrastanti nell'immensa regione, tuttavia egli, mitigando con la riforma fiscale la condizione dei sudditi non musulmani, anzi di fatto pareggiandoli ai musulmani, fu il vero precursore di quella politica di equilibrio che l'Inghilterra ha applicata fino a oggi, con alternative di successi e insuccessi, ma sostanzialmente con fortuna.
Da Bāber in poi la dinastia mongola ha regnato senza interruzione, benché in ultimo in piena decadenza, fino alla metà del sec. XIX. Essa ha dato all'India quel carattere che si è mantenuto fino ai nostri giorni e ha suscitato e favorito lo sviluppo, in seno all'islamismo indiano, di elementi che lo distinguono da quello di altre contrade e lo avvicinano alla civiltà nazionale indiana, pur senza confonderlo con essa. Le manifestazioni più tipiche di questa fusione d'islamismo e indianismo si hanno nell'architettura, nella lingua (hindūstānī o ūrdū, che nel duplice nome, nell'applicazione dell'alfabeto arabo-persiano a un tipo linguistico indiano, nella massa di vocaboli persiani e arabi che vi sono penetrati, esprime a meraviglia il processo sincretistico con cui essa si è formata), e inoltre in alcuni atteggiamenti religiosi dell'islamismo indiano.
Nel frattempo, un nuovo fattore si era introdotto nella storia politica dell'India, destinato ad assurgere in corso di tempo alla parte di dominatore: il fattore europeo. La costa del Malabar era stata raggiunta da Vasco da Gama nel 1498; egli stesso, e più tardi l'Almeida e l'Albuquerque, fondarono le prime colonie. Ma soltanto dopo l'avvento di Akbar si pose il problema dei rapporti dell'Europa con l'impero del Gran Mogol: come è noto, Akbar si mostrò favorevole alle relazioni coi cristiani e si astenne dal perseguitare le missioni dei gesuiti e dei francescani, pur opponendosi alla loro propaganda. I successori di Akbar, di cui i più notevoli, anche per la storia dell'arte, sono Giahānghīr (v.) e Shāh Giahān (v.), mantennero le concessioni ai Portoghesi, che, limitate alla costa, apparvero loro più vantaggiose che pericolose: del resto, il loro interesse era allora rivolto piuttosto alle conquiste terrestri, che furono compiute da Aurangzēb (1659-1681), il quale sottomise il Deccan, sopprimendovi le dinastie locali. Ma un doppio pericolo minacciava la compagine del vastissimo impero mongolo: da una parte le tendenze autonomistiche dei governatori delle provincie, che diedero luogo al formarsi di principati indipendenti di fatto (i loro capi, i cosiddetti nuwwāb, "vicarî", si considerarono veri sovrani); dall'altra il formarsi, ai confini dello stato, di potenti e bellicose formazioni politiche: quelle dei Sikh e dei Maratti (Marāṭha) nell'India stessa, quelle della Persia e dell'Afghānistān fuori della penisola. I Maratti ritolsero all'islamismo la maggior parte del Deccan; i Persiani di Nādir Shāh nel 1738, gli Afghāni di Aḥmed Durrānī nel 1748 e nel 1757 sottomisero, sia pure per breve tempo, gran parte del Hindostan occidentale, e la liberazione dal dominio afghāno, anziché a vantaggio dell'impero mongolo, andò a vantaggio dello stato dei Sikh, divenuti padroni del Panjab. Verso la metà del sec. XVIII lo stato del Niẓām (anche questo in origine un titolo di funzionario del Mogol) nell'India occidentale, quelli del Rajputana, di Agra, del Bengala, ecc., non erano legati all'impero mongolo che da un incerto vincolo nominale. Questa condizione facilitò grandemente la penetrazione e il predominio degl'Inglesi.
Dalla colonizzazione europea alla costituzione dell'impero dell'India. - Le colonie portoghesi, che erano state fondate all'inizio del sec. XVI, avevano avuto il loro centro in Goa e specialmente ai tempi di Alfonso d'Albuquerque erano state fiorentissime. Erano però territorialmente assai limitate, non penetrando molto nell'interno: il che era da un lato vantaggioso, giacché non allarmava troppo i sovrani indigeni e faceva sì che essi non ostacolassero i Portoghesi. Ma l'unione personale della corona portoghese con quella spagnola, dopo il 1580, recò danno ai dominî portoghesi, come altrove, anche nell'India: restando essi esposti agli attacchi dei nemici della Spagna, specialmente degli Olandesi e degl'Inglesi. Fu così che, già prima dell'inizio del '600, il fattore europeo invece che dai Portoghesi viene costituito dagl'Inglesi, e a tratti dai Francesi. La Compagnia inglese delle Indie orientali (English East India Company), come si chiamò col 1711 (dopo la fusione con un'altra compagnia rivale) l'antica Compagnia dei mercanti di Londra trafficanti alle Indie orientali (The Governor and Company of Merchants of London trading to the East Indies), era sorta alla fine del Cinquecento grazie al privilegio, concessole il 31 dicembre 1600, per l'esercizio in regime di monopolio del commercio nazionale fra l'Inghilterra e l'India (intendendosi sotto tal nome tutte le terre a oriente del Capo di Buona Speranza), con facoltà di giurisdizione nelle fattorie che avrebbe fondate. Era una compagnia commerciale monopolista con poteri sovrani, il prototipo anzi in ordine cronologico di quelle compagnie di mercanti, le quali promossero col commercio la colonizzazione europea in tre continenti nei secoli XVII-XVIII. Misuratasi negli anni successivi con la Compagnia olandese delle Indie orientali negli arcipelaghi della Malesia (nelle Molucche in particolare, le massime produttrici allora di droghe), essa doveva dopo qualche decennio di lotta ritirarsene, per concentrare invece la sua massima attività in quell'India anteriore dove nel 1616 aveva ottenuto dal Gran Mogol di Agra, Giahānghīr, l'autorizzazione di stabilire fattorie (Ahmedabad, Cambay, Surat furono le prime) e di reggervisi con le proprie leggi: era questo il primo esercizio legittimo di giurisdizione inglese nell'India, in quanto derivava da una delegazione del governo inglese per i nazionali britannici e da una concessione della sovranità territoriale dell'India per il territorio indiano.
Ancora però esclusivamente commerciale era l'attività della Compagnia, in concorrenza (sia pure armata) e con la Compagnia olandese predetta in sulle prime e immensamente di più, in seguito, con la Compagnia francese delle Indie orientali, sorta e risorta a più riprese con gli stessi fini delle similari straniere nel sec. XVII e nel successivo. Aliena da ogni proposito di occupazione territoriale e di dominazione politica, la Compagnia inglese si mantenne paga per lungo tempo dei soli emporî mercantili da essa creati e fortificati sulle coste della penisola. Più notevoli fra essi i tre seguenti, che divennero col tempo i capoluoghi delle cosiddette presidenze, sezioni territoriali-commerciali prima che grandi circoscrizioni politico-amministrative e militari dell'India inglese: Madras, sulle coste del Coromandel, sorta sotto la protezione del Forte di San Giorgio, ivi costruito dagl'Inglesi nel 1639, su un lembo di terra loro concesso da un principe locale; Bombay, nell'isola costiera omonima, venuta in dote a Carlo II dalla moglie Caterina di Portogallo (1662) e dal re inglese ceduta alla Compagnia; Calcutta, miserabile villaggio del delta gangetico, donato agl'Inglesi da un principe della stessa dinastia imperiale del Gran Mogol sulla fine del Seicento (1698) e avviatosi presto a grande città commerciale sotto la protezione di Forte Guglielmo, costruito dagl'Inglesi nel 1686.
Le condizioni interne dell'India però, dove l'impero del Gran Mogol andava nel sec. XVIII sfasciandosi, da una parte; la lotta sempre più serrata dall'altra con la Compagnia francese rivale, la quale dai suoi centri di Pondichéry nel Carnatico (costa del Coromandel) e di Chandernagor nel delta del Gange allargava ogni giorno più nel secondo quarto del Settecento coi grandi governatori e comandanti generali (Dumas, Mahé de la Bourdonnais e soprattutto Giuseppe Dupleix) la propria influenza non solo commerciale ma anche politica e militare nelle regioni contermini, sottratte per tal modo all'influenza inglese, costringevano nel sec. XVIII anche la Compagnia inglese, sotto pena di prossima morte, a mutare radicalmente indirizzo e carattere: dalla politica commerciale a quella territoriale; da compagnia prevalentemente commerciale a compagnia essenzialmente coloniale, sovrana di territorî sempre più vasti. Dato durante la guerra europea dei Sette anni (1756-63) il colpo di grazia alla Compagnia francese che era arrivata a controllare un terzo dell'India e a dominare direttamente decine di milioni di abitanti (la pace di Parigi del 1763 non restituiva alla Francia che cinque stabilimenti - conservati poi fino a oggi: Pondichéry, Karikal, Yanam, Mahé e Chandernagor -, con l'obbligo per di più di non fortificarli), la Compagnia inglese riprendeva per proprio conto i vasti disegni della rivale, adottandone metodi e procedimenti nei rapporti coi principi indiani e col Gran Mogol, loro signore ogni giorno più nominale nella progressiva anarchia del dissolventesi impero: politica d'intervento nelle lotte fra principi indigeni; reclutamento e armamento all'europea degli stessi Indiani inquadrati da Europei; delegazioni, infine, di governo, da parte del Gran Mogol, su regioni sempre più vaste con relativa devania (diritto di esazione del tributo fondiario) e diritto di levarne forze militari per conto dell'imperatore.
Il Gran Mogol per tal modo diventava ancora nel terzo quarto del sec. XVIII il pensionato d'una compagnia di mercanti inglesi, mandataria della Corona britannica e delegata della corte imperiale di Delhi per l'esercizio della sovranità sulle popolazioni dell'impero; mentre la vastità dei territorî dominati dalla Compagnia delle Indie, la sua costosa politica di espansione coi relativi dissesti, la corruzione sfrenata dei suoi funzionarî, guadagnante lo stesso parlamento britannico comperato da principi indiani, rendevano ormai improrogabile l'intervento effettivo del governo.
Il cosiddetto Atto di regolarizzazione del 1773 ("Atto per stabilire alcune regole pel migliore trattamento degli affari dell'East India Company"), che iniziava l'unificazione politica dell'India col creare per la presidenza del Bengala un governatore generale munito d'alcuni poteri, sia pure vaghi e indeterminati, sui governatori (antichi presidenti) delle altre due presidenze - fino allora del tutto indipendenti - di Madras e Bombay, iniziava tale intervento diretto: il governatore generale e il suo consiglio supremo (di quattro membri), pur essendo di nomina della compagnia, dovevano essere approvati dalla Corona, la quale si riservava pure la scelta dei giudici della Corte suprema di Calcutta, creata con la stessa legge, e il diritto di veto sulle deliberazioni della Compagnia.
Undici anni dopo, l'Atto di Pitt del 1784, epilogo d'una formidabile campagna parlamentare contro la minaccia indiana incombente sulla moralità politica britannica e - attraverso il giuoco dei partiti e il sistema elettorale ancora ristrettissimo dell'epoca - sulla stessa bilancia della costituzione, istituiva quello che fu detto il "doppio governo" dell'India (dello stato cioè e della Compagnia). Si concretava esso nella creazione d'un Ufficio di controllo (Board of control) su tutti gli atti civili e militari dell'India, composto di sei consiglieri e presieduto da un segretario di stato (origine prima dell'India Office o Ministero per l'India); nell'obbligo di sottoporre al Tesoro il rendiconto completo delle entrate e uscite della Compagnia; nella nomina diretta da parte della Corona del comandante in capo delle forze militari dell'India; nella subordinazione esplicita infine delle presidenze di Madras e Bombay a quella del Bengala (Calcutta), i poteri del cui governatore generale in consiglio (il governatore assistito da tre consiglieri) venivano estesi ulteriormente, pur riconoscendosi anche alle altre due presidenze il diritto di far leggi e regolamenti validi nei limiti della presidenza.
Spogliati così i suoi proprietarî (com'erano detti) o grandi azionisti d'ogni influenza sugli affari politici e militari della Compagnia e ridotta questa a una compagnia mercantile nella sostanza, a una specie di dipartimento autonomo incaricato dell'amministrazione dell'India nella forma, scompariva con la corruzione indiana il pericolo apparso sull'orizzonte politico della stessa metropoli e si risanava l'amministrazione stessa dell'India; ma non per questo (tutt'altro) veniva assicurata quella politica di pace, che era stata tra i fini per i quali era stato creato il Board of control. Fatti arbitri degli affari indiani e responsabili davanti al parlamento e all'opinione pubblica inglese i due uomini di stato a essi preposti (il presidente dell'Ufficio di controllo e il governatore generale, carica di cui fu sistematicamente investito lo stesso comandante in capo, di nomina diretta della Corona) anziché gli azionisti, il governo e l'amministrazione dell'India furono da allora in poi dominati dalle esigenze politiche o territoriali della potenza inglese nell'Asia anziché dal gretto spirito mercantile fin allora dominante.
Dopo Roberto Clive, il vincitore di Plassey (1757) sul nabab musulmano del Bengala Shugiā‛ad-clawlah, e primo fondatore della potenza politico-territoriale inglese nell'India alla metà del secolo XVIII; dopo Warren Hastings, nel 1774 primo governatore generale dell'India, tra la fine del Settecento e il primo trentennio dell'Ottocento si ebbe una serie quasi ininterrotta di grandi governatori generali, che senza - bene spesso contro - la volontà della Corte dei propietarî (assemblea dei grandi azionisti) e dell'Ufficio dei direttori (Board of Directors) della Compagnia, preoccupati soprattutto degl'interessi finanziarî di questa, completavano la conquista dell'impero del Gran Mogol attraverso a una politica d'interventi di annessioni, di lotte coi principi e con le popolazioni ad essi nominalmente sottoposti: Carlo di Cornwallis (1786-1793); lord Mornington, marchese di Wellesley (1796-1805) aiutato militarmente dal fratello Arturo di Wellesley (il futuro duca di Wellington) nella lotta vittoriosa contro la potentissima confederazione indù dei Maratti; lord Hastings (1814-1822); lord Amherst (1823-1828) infine, sotto il quale gl'Inglesi cominciavano la loro marcia nella stessa India posteriore, contro il potente impero della Birmania ancora chiuso all'influenza europea. La finzione stessa di un rappresentante del Gran Mogol non aveva più ragione d'essere per una compagnia di mercanti ormai signora del più vasto e potente dominio effettivo che il mondo indiano di qua e di là dal Gange avesse mai veduto; e nel 1827 in Delhi - capitale ancora nominale del Gran Mogol Akbar II - la Compagnia inglese delle Indie orientali proclamava il suo potere indipendente assumendo, in rappresentanza della Corona britannica, il titolo di sovrana in luogo di quello sino allora ufficialmente portato di "vicaria del Gran Mogol". Con lord Bentinck (1828-1835) s'inaugura risolutamente e coscientemente la politica di progresso civile e sociale dell'Inghilterra nell'India; mentre la Compagnia, privata già parzialmente dello stesso monopolio commerciale al rinnovamento ventennale del suo privilegio nel 1813 da parte del parlamento inglese (il commercio inglese nelle Indie era fatto libero per qualunque vascello non eccedente le 350 tonnellate, mentre rimaneva alla Compagnia il monopolio del commercio con la Cina e - per l'India stessa - il commercio del tè), vedeva appressarsi la fine della sua straordinaria carriera commerciale e politica. La legge del 26 luglio 1833, proposta dal Peel nel 1830 alla Camera dei comuni per la riforma dell'organismo indiano, consacrava infatti in linea di principio la fine di quella che era detta "la vecchia dama di Londra". Si basava essa su un compromesso, per il quale la Compagnia rinunciava ai suoi privilegi commerciali e alle sue proprietà territoriali, mentre lo stato in compenso adottava un complesso di misure intese a salvaguardare gl'interessi finanziarî e i diritti acquisiti della Compagnia. Dichiarata fidecommissaria della Corona per l'amministrazione dell'India per altri 20 anni, mentre che si stabilivano nella legge le modalità per la sua estinzione completa al 1874, l'East India Company cessava col 1833 di esistere come compagnia commerciale privilegiata per rimanere una semplice compagnia finanziaria, investita ancora per un ventennio del ramo indiano dell'amministrazione coloniale inglese, alle dipendenze dirette del Board of control.
Gli eventi indiani però del venticinquennio successivo affrettarono la caduta di essa. Con l'amministrazione di lord Auckland (1836-42), successore del Bentinck, cominciava invero un altro periodo quasi ininterrotto di guerre, che culminava, per vastità di risultati politico-territoriali decisivi, nel governo di lord Dalhousie (1848-56), il quarto dei grandi fondatori dell'Impero anglo-indiano. Centro unificatore di queste imprese era l'acquisto e la difesa della frontiera di NO., la porta per cui in ogni epoca erano passati gl'invasori e conquistatori dell'India. Era la nuova politica di salvaguardia dell'India imposta alla Gran Bretagna, scomparsi definitivamente il pericolo francese, dalla politica asiatica della Russia; la quale già nel 1830 era giunta alle rive del Sir Daryā (l'antico Iassarte) e faceva sentire ogni giorno più la sua influenza diretta o indiretta sugli stati iranici della Persia e dell'Afghānistān. Il confine politico dell'India inglese dalla parte d'occidente e di nord-ovest, veniva così portato alle frontiere naturali, dal Panjab "o paese dei cinque fiumi" (1849), che comanda le vie centro-asiatiche d'accesso nell'India, al Sind (1843), la regione che signoreggia col corso inferiore le bocche dell'Indo; mentre dalla parte orientale il dominio inglese con le ulteriori conquiste sull'impero birmano si protendeva nell'India posteriore sino alla Bassa Birmania (1852), convertendo in lago britannico l'intero golfo del Bengala. Nell'interno intanto della stessa India Anteriore gli stati indigeni superstiti andavano cadendo l'uno dopo l'altro nelle mani della Compagnia grazie alla deposizione dei principi indigeni e - in mancanza di eredi diretti - all'annessione dei loro stati in virtù della comoda dottrina del lapse (decadenza) adottata contro il malgoverno locale.
Le ripetute annessioni o confische di stati indigeni, culminanti nella deposizione del raja di Oudh (1856), eccitavano però, con l'odio e il desiderio di vendetta dei principi spodestati, il fermento di quelli tuttora regnanti e il fanatismo delle popolazioni solidali con gli uni e con gli altri contro il conquistatore occidentale, nemico di razza, di civiltà, di religione; mentre (pericolo immensamente maggiore) il malcontento per queste e molte altre cause andava guadagnando alcune grandi sezioni dell'esercito regolare anglo-indiano, composto alla metà del sec. XIX di circa 280 mila uomini di cui solo forse 6 mila ufficiali e 40 mila fra sottufficiali e soldati erano europei, il resto indigeni (indù e musulmani) aperti alle influenze e alle suggestioni anti-occidentali del loro ambiente etnico e sociale. Nel 1857 infatti, a quattro anni di distanza dal giorno in cui il parlamento inglese aveva per l'ultima volta rinnovato (ma senza limiti di tempo, per potere - quando che fosse - abrogarla) la charta di concessione della Compagnia scadente col 1854, e a cento anni dal giorno in cui il Clive con la vittoria di Plassey aveva gettato le basi di quel dominio inglese sull'India, cui una leggenda diffusa profetava soltanto un secolo di vita, il malcontento prorompeva in rivolta aperta con l'ammutinamento sanguinoso dell'armata del Bengala (Bengal Native Army). Era la grande insurrezione detta dei sepoys o truppe indigene; la quale mise per alcuni mesi a duro repentaglio - con la vita dei sudditi britannici - le sorti stesse del dominio inglese nell'India e poté essere domata, sia pure con grande spargimento di sangue in vera e propria guerra guerreggiata, per un triplice ordine di fatti: primo, che l'insurrezione si mantenne nel campo militare e anche in questo rimase circoscritta all'armata del Bengala, senza estendersi sensibilmente a quelle delle altre presidenze; secondo, che alla difensiva e più alla controffensiva inglese concorsero largamente truppe cosiddette irregolari, del Nord-ovest in ispecie, costituite da musulmani; terzo, che l'esistenza ancora nell'India d'una infinità di grandi, medî e piccoli stati indigeni protetti, rimasti fedeli all'Inghilterra, frazionando a guisa di valli divisorî il territorio di dominio inglese diretto, venne a rompere, per dir così, l'urto della ribellione militare e a costituire delle aree di difesa e d'offesa contro di essa. Scoppiata nel maggio 1857, la rivolta entro il 1858 era del tutto repressa e l'ultimo Gran Mogol, Bahādur Shah II successo nel 1837 al padre Akbar II, che gl'insorti avevano tratto come loro bandiera dall'oblio, scontava col relegamento a Zongu nel Pegu (dove moriva nel 1862) il breve sogno di resurrezione imperiale della sua dinastia. Ancora nel 1858 però l'East India Company, di cui la rivolta dei sepoys attestava praticamente tutto il pericoloso anacronismo, cedeva definitivamente il posto alla Corona britannica nel governo e nell'amministrazione dell'India: a ciò provvedeva l'"Atto per un miglior governo dell'India", proposto da lord Palmerston al parlamento, divenuto legge il 2 agosto 1858 e presentato ai principi protetti e alle popolazioni dell'India come pegno solenne di pace e di civili propositi nel celebre proclama di Allahabad del 1° novembre 1858, dettato da lord Derby sotto l'ispirazione diretta e con la partecipazione della stessa regina Vittoria. Diciotto anni dopo, la conquista inglese dell'India riceveva il suo sigillo imperiale: l'impero secolare del Gran Mogol risorgeva in forma e contenuto immensamente più vasti (ma a beneficio del conquistatore britannico) col bill Disraeli "sui titoli reali", approvato dal parlamento inglese il 27 aprile 1876, che proclamava la regina Vittoria d'Inghilterra "imperatrice dell'India".
Di questo immenso impero, che nella difesa preventiva delle sue frontiere trovava nei decennî seguenti ragioni di ulteriori ingrandimenti territoriali (annessione di una parte del Belūcistān nel 1879 come provincia indiana e trasformazione del rimanente in protettorati anglo-indiani; conquista dell'Alta Birmania nel 1885 e caduta definitiva dell'antico impero birmano; erezione in protettorati degli stati indigeni subhimalayani del Nepal, del Sikkim e del Bhutan nel 1890; e così via), due erano e rimanevano anche in seguito le parti costitutive: l'India di governo inglese diretto o India inglese in senso stretto, e gli stati indigeni protetti (cioè garantiti, controllati e guidati per il tramite d'un residente britannico, ma lasciati formalmente sotto il governo dei loro principi nativi), la cosiddetta India dei principi. Dei più che 4 milioni e 675 mila kmq., su cui si estendeva l'impero dell'India al censimento imperiale del 1921, ben 1.841.496 appartenevano all'India dei principi; dei 319 milioni scarsi di abitanti, quasi 72 appartenevano ad essa (il 40% quindi dell'area e il 22% circa della popolazione). Secondo i risultati dell'inchiesta condotta sul luogo dalla Native States Commission e consacrati nel suo rapporto del 1929, questi aggregati politici indigeni ammontano oggi a 562, di cui però 327 sono di così tenue entità territoriale, demografica, politica che non si può loro seriamente attribuire il titolo di stati. L'area e la popolazione di questi stati indigeni variano straordinariamente, dai 215 mila kmq. e 12 milioni di abitanti dello stato musulmano di Haiderabad ai pochi ettari di terra e poche centinaia di abitanti di semplici capi tribù o capi villaggio; le loro entrate dalle decine e decine di milioni di rupie indiane degli stati di Haiderabad, di Mysore, di Gwalior, di Baroda e così via, alle due centinaia di rupie o meno ancora dei capi di Datena e Dabri nello stato di Malwa; il loro grado di civiltà dagli splendori orientali congiunti col progresso tecnico occidentale degli stati retti da principi europeizzati, alla rozzezza, quando non semi-barbarie, dei piccoli capi primitivi dell'India dravidica.
L'evoluzione politico-amministrativa dell'impero indiano (1876-1919). - Né il passaggio dell'India al governo diretto dell'Inghilterra nel 1858, né l'erezione di essa in impero nel 1876 mutarono radicalmente l'assetto politico-costituzionale dell'India.
Per quanto riguarda anzitutto quest'ultima, l'Inghilterra aveva fatto durante la rivolta militare dei sepoys un'esperienza troppo convincente dell'utilità degli stati nativi protetti, per non trarne ammaestramento per il futuro: lungi dal perseguirne, come prima, la scomparsa, essa da quel giorno ne curò gelosamente la conservazione, il consolidamento, l'aumento perfino (nel 1881 lo stato di Mysore veniva restituito al figlio adottivo del raja deposto mezzo secolo prima), facendo degli stati indigeni protetti, o stati tributari che dir si voglia, una delle basi angolari della sua politica indiana e uno dei perni della sua dominazione sull'India. Solo dopo la guerra mondiale, nel 1921, parallelamente alla riforma costituzionale dell'India inglese si ebbe un piccolo innovamento politico nell'India dei principi, con la creazione per essa d'un corpo consultivo presso il viceré, cioè la Camera dei principi, composta dei capi dei 108 stati principali e di altri 12 membri eletti nel proprio seno dal complesso degli altri 127 stati degni di rilievo politico.
Quanto all'India inglese, il passaggio dal governo indiretto a quello diretto dell'Inghilterra non fece in un primo momento che inquadrare nel più ampio organismo imperiale britannico gli organi effettivi del governo e dell'amministrazione indiana preesistenti a esso. Mentre invero nella metropoli il Board of control, cioè l'antico organo di controllo della Compagnia delle Indie, diventava il Consiglio dell'India e il capo di esso il segretario di stato per l'India, responsabile degli affari indiani davanti al parlamento inglese, nell'India gli organi esecutivi, legislativi e amministrativi creati all'epoca della Compagnia si adattarono senza sforzo al nuovo regime, il quale trova ancora nel 1861 nella legge sui consigli indiani (Indian Council Act) la prima sua regolamentazione e la base stessa dell'ulteriore sviluppo in senso rappresentativo sino ai giorni nostri. Il governo centrale dell'immensa colonia-impero continuò a rimanere affidato al governatore generale, comunemente detto viceré, e i governi locali delle provincie ai governatori provinciali; mentre si ricostituivano su più larghe basi i consigli legislativi di emanazione però sempre e nella massima parte anche di composizione inglese. Un ventennio dopo, però, le riforme promosse dal marchese di Ripon, viceré dell'India tra il 1880 e il 1884, dischiudevano alle popolazioni indiane la vita amministrativa locale; la quale veniva costituita su basi rappresentative (consigli elettivi di comuni e distretti) a sviluppare le attitudini di autogoverno degl'indigeni e prepararli all'esercizio di più larghi diritti politici. Che se l'opera del Ripon, tollerata più che caldeggiata dai circoli politici metropolitani dell'epoca, veniva bruscamente troncata col richiamo di lui, mentre egli si accingeva a passare dalla riforma dei corpi amministrativi locali a quella più delicata e gelosa dei corpi legislativi centrali (generale e provinciali), il nuovo Indian Council Act del 1892, ricostituendo su più larghe basi e allargando i poteri sia legislativi sia di controllo dei consigli legislativi indiani (generale dell'India e provinciali), assicurava all'elemento indiano, per quanto nominato dal governo anziché eletto dalle popolazioni, una partecipazione più larga ed efficace alla vita politica dell'Impero. Ciò però non bastava più alle incipienti aspirazioni politiche nazionali dell'India; come dimostrò negli anni successivi il fermento politico del paese, che cresceva rapidamente sotto il governo specialmente di lord Curzon (1899-1905), altrettanto lungimirante nella politica estera di salvaguardia preventiva dell'Impero indiano quanto ritardatario in quella interna; guadagnava provincie intere (specialmente il Bengala, il Panjab e la presidenza di Bombay); conquistava in massa le alte classi e la gioventù universitaria; e quando spinto, quando frenato dal partito nazionale indiano e dal suo massimo organo, il Congresso nazionale indiano, convocato la prima volta nel 1885, cominciò a esplodere in torbidi sanguinosi e in attentati terroristici contro le somme autorità britanniche nell'India e nella stessa Inghilterra. Questa allora, con la consueta sua politica parallela di repressione energica e d'illuminata prevenzione a un tempo, mentre reprimeva con le armi e coi processi (1907-1908) i tumulti e i torbidi scoppiati sotto il successore del Curzon, lord Minto (1905-1910), accoglieva i minori postulati politici indiani col nuovo Indian Council Act proposto da lord Morley al parlamento inglese sulla fine del 1908 e da questo approvato (in forma però ridotta, in seguito alla viva opposizione della Camera dei lord) nel marzo del 1909. Comprendeva esso la riforma su più larghe basi del Consiglio legislativo del viceré, o Consiglio legislativo generale dell'Impero indiano, e più ancora dei consigli legislativi provinciali, così da allargare le attribuzioni e i poteri dell'uno e degli altri e da assicurare nei secondi almeno - se non nel primo - la maggioranza ai membri eletti dalla popolazione su quelli di nomina governativa; creava un corpo consultivo speciale formato da indigeni; riformava infine gli stessi organi esecutivi dei governi provinciali in senso favorevole all'entrata degl'indigeni anche in essi. Via via che si slargavano le basi del governo indiano al centro e alla periferia, si accentuava il decentramento di esso: l'impero dell'India, la cui capitale nel 1911 veniva trasferita da Calcutta a Delhi, la capitale storica dell'India, aveva già prima della guerra mondiale nel Government of India Act del 1912 un ordinamento amministrativo e in parte perfino legislativo fondato su basi regionali più che unitarie.
Nel clima storico della guerra e in corrispondenza con l'ampio contributo di sangue e di denaro dato dall'India, le esigenze politiche indiane assunsero il carattere di aperta rivendicazione dell'autonomia. La stessa Inghilterra del resto forniva la base giuridica - nonché morale - di tale autonomia, col riconoscimento, non solo nel campo imperiale britannico, ma perfino in quello internazionale, della personalità politica dell'Impero indiano. Questo invero era rappresentato accanto al Regno Unito e ai Dominî o colonie autonome tanto nel Gabinetto imperiale di guerra e nella Conferenza imperiale di guerra quanto nella delegazione imperiale britannica alla conferenza della pace; firmava i trattati di pace alla stessa stregua delle Alte Potenze sovrane firmatarie e, come queste, entrava nella Società delle Nazioni quale membro originario di essa. In questa atmosfera storica si preparava, in seguito a un'opera di consultazione e d'inchiesta compiuta sul luogo dal segretario di stato per l'India (Montagu) e dal viceré (Chelmsford) e sulle basi della relativa "Relazione sulle riforme costituzionali indiane" (il Montagu-Chelmsford Report del 1918), la legge del 1919 per il governo dell'India (Government of India Act, 1919), tuttora in vigore.
Nemmeno la nuova legge del 1919 diede però all'Impero indiano l'autonomia politica invocata dal paese e giustificata dalla personalità politica riconosciutagli. Essa rappresentava e voleva rappresentare soltanto un compromesso tra il sistema di governo precedente e il governo responsabile; con carattere dichiarato di provvisorietà e con l'intento esplicito di preparare per questa via le popolazioni indiane all'esercizio di un'autonomia da concedersi eventualmente nel futuro. Fondamenti di esso erano infatti l'allargamento della base rappresentativa della legislatura (composta di due camere) e dei consigli legislativi delle singole provincie e la concessione di un'autonomia puramente legislativa e quanto mai limitata e controllata, non all'Impero, ma alle principali (nove su quindici) provincie di esso, ordinate sulle basi di una diarchia (come fu detta) o dualismo del potere esecutivo provinciale: trattazione cioè da parte del governatore provinciale in consiglio degli "affari riservati", cioè dalla legge riservati ad esso in rappresentanza del governo indiano; e trattazione da parte del governatore agente coi ministri provinciali degli "affari trasferiti", cioè dalla legge fondamentale trasferiti dal governo indiano ai govemi e alle legislature provinciali (amministrazioni locali, sanità pubblica, lavori pubblici, educazione, agricoltura, pesca, industrie, società cooperative, imposte di fabbricazione, pesi e misure, ecc.).
L'evoluzione economico-civile dell'India e le aspirazioni all'indipendenza. - L'ordinamento politico dato all'Impero indiano con la legge del 1919, per quanto segnasse un progresso notevolissimo su quello precedente, appariva pur sempre al nazionalismo indiano arretrato in confronto, nonché del diritto dell'India all'autogoverno, del grado di sviluppo anche economico e civile da essa raggiunto; per quanto tanta parte di tale sviluppo si dovesse appunto al dominatore occidentale. La pax britannica, imposta da questo, aveva certo mantenuto l'India prigioniera dei suoi antichi sistemi sociali, impedendole - con l'isolamento politico e morale dal resto del mondo - i contatti o gli urti benefici e al tempo stesso il libero giuoco delle forze interne di trasformazione (fatto che più faceva rilevare il nazionalismo indiano); ma con la tranquillità interna ed esterna aveva assicurato all'India - specie dopo il 1858 - le condizioni prime e indispensabili del progresso economico.
Basterebbe a provarlo indirettamente un fatto soltanto, l'aumento demografico del paese, di gran lunga superiore a quello d'ogni altra epoca della sua storia: la popolazione dell'India dal 1857 al 1921 si raddoppiò. Introduzione di colture alimentari e industriali nuove e allargamento o intensificazione di vecchie (cotone, iuta, grano, tè, caffè, ecc.); introduzione di grandi industrie manifatturiere (cotonificio e iutificio in particolare); creazione di mezzi moderni di comunicazione e trasporto, ferrovie in prima linea (mentre ancora nel 1858 John Bright poteva dire al parlamento britannico che una sola contea inglese era più fornita di strade di tutto il territorio indiano, nel 1927 l'India aveva in esercizio 62.500 km. di sole ferrovie, oltre alle strade ordinarie pur esse largamente costruite, e alla navigazione fluviale a vapore sul Gange, il Brahmaputra, l'Indo, l'Irawady (Irrawaddy) coi loro principali affluenti e canali derivati), sviluppo soprattutto dell'irrigazione artificiale (al cadere ancóra del sec. XIX i grandi lavori pubblici relativi - serbatoi e canali - avevano permesso già le colture su 10 milioni all'incirca di acri, indipendentemente dalle piogge, oltre a un 17 milioni di acri irrigati pure artificialmente, ma con mezzi tecnici modesti): ecco in sintesi le principali provvidenze adottate dal dominatore occidentale per migliorare le sorti economiche delle popolazioni.
Un indice sintetico del progresso economico dell'India può esser dato dal suo commercio esterno, alimentato per l'esportazione quasi esclusivamente dall'agricoltura e per l'importazione da manufatti di consumo o di uso industriale. Insignificante ancora (se comparato con le cifre attuali) nel 1813, quando il monopolio della Compagnia veniva ristretto, esso andò da allora - e molto più dal giorno in cui tale monopolio venne abolito del tutto, nel 1833 - non solo sviluppandosi ogni giorno più, ma capovolgendo a favore dell'India la propria bilancia. Nel 1860 rappresentava un valore di oltre 40 milioni e mezzo di sterline all'entrata contro uno di quasi 29 all'uscita; nel 1870 meno di 47 milioni il valore delle merci entrate, 53 ½ crescenti le uscite; nel 1890 quasi 94 le prime, oltre 102 e ⅓ le seconde: immediatamente prima della guerra mondiale il commercio complessivo dell'India con l'estero si aggirava sugli 8 miliardi di lire italiane oro (ad altrettanti poteva valutarsi quello degli scambî interni); e in tale commercio (fatto pel 97% per mare e in mano ancora essenzialmente degli Europei e dei Parsi, ma in piccola parte anche dell'elemento indù) l'India vendeva assai più che non comperasse dal resto del mondo. Le esportazioni di merci arrivarono allora a superare per ben 55 milioni di sterline le importazioni, differenza saldata in parte con l'invio di argento in verghe e di oro in moneta, rimanendo circa 25 milioni di sterline per il saldo delle partite; somma che rappresentava approssimativamente quanto l'India pagava ogni anno all'Inghilterra in interessi prestiti, in noli alle marine mercantili estere, in stipendî e pensioni a funzionarî civili e militari, che servivano o avevano servito nell'amministrazione indiana ma risiedevano in Inghilterra.
Nonostante tutti questi progressi, la base economica pressoché esclusiva della massima parte dell'India rimaneva pur sempre anche nei secoli XIX e XX l'agricoltura, e il villaggio rimaneva la pietra angolare della sua organizzazione economico-sociale come l'asilo e il sacrario della società indigena (ancora al censimento del 1901 le città superiori ai 100 mila abitanti in un paese d'antica civiltà, vasto come mezza Europa e abitato da 294 milioni di abitanti, erano 29 soltanto; mentre i villaggi erano 728.605 con una popolazione media di 360 abitanti per ciascuno, cioè un totale di oltre 262 milioni).
E l'India rurale rimaneva ancora, in via generale, l'India del passato lontano; con la deficienza del capitale mobiliare più indispensabile per lo sviluppo economico o la tesaurizzazione di esso; col lusso e l'assenteismo - bene spesso - dei grandi proprietarî; con l'abito diffuso dello spreco, quando volontario quando imposto dalla religione o dal costume (culto costosissimo degli antenati, matrimonî, ecc.), ragioni queste non ultime del grado ancora basso di produttività dell'immenso paese da una parte, del flagello dell'usura dall'altra. L'usuraio (a un anna per rupia al mese, cioè al 75% all'anno, si eleva generalmente il tasso dell'interesse, quantunque per i prestiti in grande sia di solito il 25% all'anno) è l'arbitro e, bene spesso, come avveniva nel Medioevo europeo, la vittima di questa rachitica costituzione economica; colui che regge, alla foggia però di nodo scorsoio sempre in procinto d'essere tirato, famiglie e proprietarî: calcolava il Chailley nel 1910 che i due quinti dei proprietarî grandi e piccoli dell'India fossero oberati per un debito, in media, di due annate di reddito. Da ciò il malessere profondo delle classi rurali tutte quante, dai proprietarî grandi e piccoli minacciati di rovina ai coltivatori non proprietari premuti da più alti canoni di occupazione dai vecchi proprietarî tradizionali e più ancora dai nuovi, usciti da ceti urbani curialeschi e mercantili più avidi degli antichi zamindar e meno di questi attaccati ai lavoratori dei campi. Da ciò, coi lagni crescenti della classe agricola esplodenti tratto tratto in torbidi e sedizioni, le leggi regolatrici dei rapporti fra proprietarî e occupanti del suolo (tenancy laws) nelle varie provincie indiane (Bengala e Provincie Unite, Provincie centrali) non solo; ma anche, con la fine già del sec. XIX e i primi del XX, le leggi a difesa della stessa classe proprietaria (leggi successorie; leggi limitatrici della libertà di vendita delle terre; ecc.) nell'intento di arginare l'invasione fatale del capitalismo nell'agricoltura attraverso l'istituto della proprietà individuale e la disgregazione con esso della vecchia società agricola.
Che se a tutti questi fermenti economico-sociali di trasformazione dell'India nell'ultimo secolo, e più particolarmente dopo il 1858, aggiungiamo - last but not least - il microbo intellettuale, meno appariscente ma più attivo d'ogni altro, rappresentato dalla diffusione dell'istruzione, della stessa cultura superiore di tipo occidentale appresa dagl'Indiani nelle università inglesi o in quelle fondate dall'Inghilterra nell'India, abbiamo gli elementi fondamentali da cui arguire, con la decomposizione della vecchia società indiana, le forze rivoluzionarie sprigionate da così rapida evoluzione, al disopra delle religioni, delle razze, delle lingue in cui pure rimane diviso il mondo indiano. Era, in sostanza, il sorgere, anche nell'India via via occidentalizzata, di una borghesia di tipo e di cultura occidentale, la quale cominciava a sentire nelle proprie carni gli aculei economici e morali della dominazione straniera e gli stimoli all'emancipazione da essa, quanto e più delle nazionalità oppresse dell'Occidente. Non era solo quel senso manifesto, per quanto composto, di superiorità etnica del più modesto funzionario britannico sull'Indiano sottoposto, anche se appartenente alle più alte caste del paese, che offendeva le razze indigene dell'India, ma benanche la coscienza crescente del peso economico rappresentato per esse dalla dominazione europea. Le grandi somme di denaro, costituite col lavoro e col sudore dell'India, che ogni anno erano sottratte al paese sotto forrma di stipendî, di pensioni, di contributi alle spese militari imperiali, d'interessi del debito pubblico (da 96 milioni di sterline al 1858 esso - sia pure in gran parte per l'esecuzione di lavori pubblici redditizî come ferrovie, canali, irrigazioni e simili - era passato già prima della guerra mondiale a quasi 304, di cui 124 ½ soltanto contratti nella stessa India e oltre 179 in Inghilterra); quelle assorbite sotto forma di profitti, di dividendi, d'interessi del capitale inglese investito nell'India (il Paish alla vigilia della guerra lo calcolava a oltre 365 milioni di sterline); il deprezzamento progressivo della rupia, l'unità di moneta dell'India, passata (in cifra tonda) da un decimo di sterlina (due scellini circa) nel 1871 a meno di un quindicesimo (uno scellino e mezzo circa) già prima della guerra mondiale col risultato (fra i tanti) di aggravare una pressione tributaria già di per sé gravissima, in quanto soddisfatta nella massima parte in moneta inglese, cioè in oro; quella concorrenza ogni giorno più ostica dell'elemento straniero britannico all'elemento nazionale indiano, avvertentesi ormai non solo nel campo commerciale, ma in quello economico in generale; infine e soprattutto quel regime doganale contrastante il mercato nazionale alla incipiente industria manifatturiera indiana (la cotoniera in prima e massima linea) a beneficio della straniera (inglese soprattutto) col divieto di dazî protettori sensibili sulle importazioni dall'estero (il 5% ad valorem al massimo prima della guerra; il 3 ½% soltanto sui manufatti di cotone combinato con un'imposta interma di fabbricazione pure del 3 ½% sulle cotonate indiane; esenzione di dazio per alcuni manufatti in ferro e acciaio, ecc.): ecco i grandi fattori economici dello spirito rivoluzionario dell'India: semi di ribellione tanto più fecondi quanto più preparato è il terreno dall'incompatibilità di razza e di fede, d'ambiente e di cultura.
Ciò spiega come il sistema di governo creato con la legge del 1919, troppo in ritardo sulle aspirazioni politiche dell'India nuova, fosse condannato all'impotenza, più ancora che dai difetti congeniti ad esso, dall'ostilità dell'opinione pubblica e dal boicottaggio e sabotaggio del partito nazionale indiano. Mentre infatti i più moderati lo accettavano come un espediente provvisorio, una semplice tappa da fare sulla via dell'autonomia, i nazionalisti lo dichiaravano subito come oltraggioso per l'India; e il movimento di non-cooperazione politica e civile col dominatore straniero iniziato da un uomo altamente rappresentativo dello spirito nazionale indiano, Gandhi, già nel 1921, era seguito bentosto dal più vasto movimento autonomistico (svarāj "auto-governo"), i cui capi (C. R. Das e il Pandit Motilal Nehru) si presentavano come candidati alle assemblee con l'unico ed esplicito fine dichiarato di sabotare la nuova costituzione indiana: dal 1921 in poi, ogni anno, l'Assemblea legislativa dell'India votava una mozione, sia pure illegale e caduca, per ottenere la piena autonomia delle assemblee provinciali e il trasferimento a ministri responsabili di tutti i dipartimenti "riservati".
Nel 1927, dopo ripetute promesse generiche di autonomia fatte all'India da viceré e governi inglesi anche conservatori (Baldwin), il parlamento inglese procedé alla designazione di una Indian Statutory Commission (la Commissione Simon, come fu denominata dal nome del suo presidente) composta di sette membri, che rappresentavano tutti e tre i grandi partiti inglesi (conservatori, liberali e laburisti). Disgraziatamente, nessun Indiano fu chiamato a far parte di essa; e ciò solo bastò a rivoltarle contro il partito nazionale indiano, che ne proclamò il boicottaggio. Le conclusioni cui arrivò il Simon's Report nel 1929 (creazione d'una federazione indiana non autonoma, ma costituita di provincie dotate di autonomia legislativa e in certi casi perfino di governo responsabile), mentre in Inghilterra venivano ritenute dalla maggioranza dell'opinione pubblica come l'estremo limite cui si potesse arrivare sulla via delle concessioni, nell'India venivano respinte sdegnosamente da tutti i gruppi politici, nessuno escluso, e dichiarate dalla maggioranza dei pubblicisti come inaccettabili perfino come base di discussione.
Siccome, a ogni modo, sir John Simon aveva fatto la proposta che dopo e in base alla pubblicazione del rapporto della commissione si tenesse per l'India una Conferenza della Tavola Rotonda (Round Table Conference), costituita di rappresentanti dell'India inglese, degli stati nativi e del governo inglese (idea felicissima avanzata già una mezza dozzina d'anni innanzi dal Congresso nazionale indiano) e la proposta era stata accolta dal governo laburista, nel 1930 fu convocata a Londra tale conferenza, per quanto il Congresso nazionale indiano avesse rifiutato di parteciparvi ufficialmente e l'India fosse anzi qua e là in piena rivolta, capeggiata da Gandhi, che aveva trovato il segreto per arrivare al cuore delle stesse moltitudini apatiche dell'India contro il dominatore occidentale. Era il movimento di resistenza passiva, cioè di non cooperazione col dominatore straniero, di non obbedienza alle sue leggi e finalmente di "guerra pacifica", che lo stesso mahātmā Gandhi, passando dalla predicazione all'azione, iniziava contro l'Inghilterra con la famosa salt taxprotest marsh o marcia di protesta contro l'imposta del sale (processione dall'interno alla costa per fabbricarsi in riva al mare il sale in spregio al monopolio britannico). Cominciata fra la curiosità più che l'entusiasmo dell'opinione pubblica, ma trasformatasi via via in una travolgente e drammatica protesta collettiva per l'apporto formidabile venuto a essa dalle masse muliebri (fatto nuovo nella storia millenaria dell'India), la marcia portò ai primi di maggio del 1930 all'arresto di Gandhi sotto la sua tenda nei dintorni di Karachi; ma altri presero successivamente il suo posto secondo un piano prestabilito, e l'effervescenza, lungi dal calmarsi, andò aggravandosi (scioperi e serrate di carattere politico nazionale, anziché economico; attentati terroristici; boicottaggi antibritannici, specie contro i tessuti; tumulti, repressioni e stati d'assedio) nei maggiori o più delicati centri indiani: da Bombay a Peshawar, dove a breve distanza dalla vulnerabile frontiera di nord-ovest il moto, altrove nazionale, s'intrecciò con elementi politici e movimenti più sospetti di tribù di confine e venne quindi senza pietà soffocato.
Si teneva intanto a Londra (12 novembre 1930-19 gennaio 1931) la Conferenza della Tavola Rotonda per l'India inaugurata dallo stesso re Giorgio V; ma essa, nonostante la presenza di elementi altamente rappresentativi dello spirito pubblico indiano, oltre ai rappresentanti ufficiali del governo inglese, del governo indiano e degli stati feudatarî dell'India, non approdò ad alcun risultato concreto per l'impossibilità di mettere d'accordo le varie parti, cioè l'Inghilterra e l'India, l'India inglese e l'India dei principi, e soprattutto le minoranze indiane (musulmani, Sikh, "intoccabili", europei, anglo-indiani) con la maggioranza indù sul terreno concreto della riforma costituzionale. Chiusa la conferenza, il governo indiano, seguendo le direttive di quello centrale inglese, cercò una via d'uscita e sui primi di marzo del 1931, dopo una decina di giorni di trattative segrete tra il viceré - lord Irwin - e lo stesso Gandhi, liberato dopo dieci mesi di carcere, si arrivò in base a concessioni reciproche a una tregua, che rendesse possibile la partecipazione di Gandhi e dei fiduciarî del Congresso nazionale indiano alla ripresa delle trattative sul problema politico indiano. Subito dopo, l'esecutivo del Congresso nazionale indiano, in base all'accordo intervenuto tra il viceré e Gandhi, ordinò la cessazione immediata della campagna di disobbedienza civile; e il 30 marzo il Congresso medesimo, risorto legalmente alla luce dopo un anno e mezzo che era stato interdetto dal governo inglese, pure riaffermando il principio dell'indipendenza effettiva completa dell'India sulla base dell'autonomia senza riserve, ratificò in Karachi i termini dell'accordo Irwin-Gandhi, riconfermò la sua fiducia in Gandhi e lo designò a presiedere la delegazione del Congresso alla nuova Conferenza della Tavola Rotonda.
Questa si tenne infatti dal 7 novembre al 1° dicembre 1931, con l'intervento ufficiale anche dei delegati del Congresso e la partecipazione personale di Gandhi; trattò largamente (in seno ai singoli comitati, più che in seduta plenaria) le questioni più gravi riguardanti il nuovo ordinamento federale autonomo dell'Impero indiano (minoranze; principi indiani; questione costituzionale; garanzie imperiali britanniche, sia pure transitorie, di fronte all'autonomia indiana); ma non arrivò neppure essa a risultati concreti nell'impossibilità soprattutto di trovare una via d'accordo per la soluzione del problema delle minoranze (musulmani, cioè 77 milioni su 333 milioni di uomini dell'Impero indiano attuale; intoccabili, cioè 29 milioni d'individui su un complesso di 43 milioni di paria costituenti le caste inferiori, le depressed classes degl'Inglesi; cristiani indiani, cinque milioni circa; Sikh in numero di 3 milioni circa raccolti tutti nel Panjab; anglo-indiani infine ed europei). Se non risolveva il problema indiano, la seconda conferenza indiana della Tavola Rotonda (o, se si vuole, la seconda sessione della Conferenza), a differenza della prima, lasciava aperta la via alla soluzione di esso: il governo inglese s'impegnava infatti, per bocca del suo premier MacDonald, alla seduta di chiusura, a nominare un piccolo comitato rappresentativo della conferenza stessa, che proseguisse nell'India il lavoro (Working Committee) in contatto effettivo col governo inglese, per il tramite del viceré, e altri tre comitati speciali di studio del problema, e a proporre egli stesso una soluzione del problema più spinoso, quello della rappresentanza indiana, conglobante in sé le questioni delle minoranze, nella stessa, pur deprecata, ipotesi che dai comitati predetti non uscisse una proposta da tutte le parti accettabile.
Una nuova tregua, se non ancora l'accordo, pareva così - a giudicare almeno dall'opinione pubblica inglese - raggiunta; ma diverso affatto doveva essere il pensiero del nazionalismo indiano, e forse dello stesso Gandhi, se il mahātmā, nel momento stesso dello sbarco nell'India a Bombay il 28 dicembre 1931, accolto da una folla plaudente di mezzo milione d'individui, riaffermava vibratamente il diritto dell'India alla libertà e la necessità imminente, se necessario, della guerra aperta per raggiungerla, e il comitato di azione del Congresso panindiano decideva di riprendere col 9 gennaio 1931 la campagna di disobbedienza civile e di boicottaggio non solo contro le merci britanniche, ma anche contro tutti i servizî pubblici governativi, non esclusi perfino i postelegrafici e quegli stessi giudiziarî, qualora non fosse stato prima raggiunto un accardo fra Gandhi e il nuovo viceré successo all'Irwin, lord Willingdon. Questi però si rifiutava di accordare a Gandhi, sotto la minaccia del Congresso, il colloquio richiestogli; convocava a Nuova Delhi il Consiglio esecutivo indiano; faceva chiudere nella prigione di Yeroda a Poona (Bombay) il mahātmā; dichiarava un'altra volta fuori legge il Congresso nazionale panindiano, definito "associazione pericolosa per la pace pubblica", ed emanava il 4 gennaio 1932 quattro ordinanze contro ogni forma di attività da esso svolta e promossa. L'India intera, nei suoi maggiori centri, entrava così un'altra volta col 1932 in piena rivolta; ma a questa non si associavano adesso né i musulmani né quegl'intoccabili che perfino il mahātmā nelle trattative londinesi della seconda Tavola Rotonda aveva lasciato escludere da qualsiasi partecipazione al futuro governo dell'India. Ancora nel corso del 1932 però il mahātmā veniva liberato e il problema sembrava avviarsi alla sua soluzione sulla base dell'eguaglianza politica fra le varie razze e caste dell'India, patrocinata oramai, con ogni mezzo da Gandhi.
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Lingue.
Secondo il censimento del 1921 le lingue dell'India, compresa la Birmania, che, pur appartenendo geograficamente e storicamente all'Indocina, fa parte dell'India Inglese, assommano a circa 200 e i loro parlanti a 318.000.000 circa. Esse possono essere raccolte nelle seguenti famiglie e sottofamiglie, alcune delle quali rappresentate in India soltanto, altre estendentisi in gruppi e lingue diverse pur fuori della grande penisola.
I. Famiglia austrica (Austrische Familie di W. Schmidt o muṇḍā-polinesiaca di A. Trombetti). - Comprende linguaggi sparsi in un amplissimo territorio che ha per limiti estremi a O. il Madagascar, a E. l'isola di Pasqua, a meno del 40° di long. O. dalla costa dell'America Meridionale, a N. il Panjab (poche tracce nel Kanawar), a S. la Nuova Zelanda. In complesso in India 4.529.351 parlanti.
A. Sottofamiglia austronesica o maleo-polinesiaca. - Comprende le lingue del Madagascar, dell'Indonesia e delle isole del Pacifico. Sono politicamente connesse con l'India solo le lingue Salon parlate da una tribù di zingari di mare (sea-gipsies), abitanti le isole dell'arcipelago Mergui e le parti adiacenti della penisola di Malacca; e il Malese parlato nella stessa località. Parlanti 5561. (V. maleo-polinesiache, lingue).
B. Sottofamiglia austro-asiatica o muṇḍā-khmer. - Parlanti 4.523.790. Comprende i seguenti rami, sparsi in punti molto distanti fra loro:
a) Ramo mon-khmer: parlanti 549.917. Di queste lingue monosillabiche, la più importante è la Khāsī, parlata nelle alture (Hills) del Khasi e Jaintia, dell'Assam. Le altre sono parlate nel Tathon e Amherst (Pegu) (Mon o Talaing), nella Birmania superiore (Palaung e Wa), nell'Indocina e in altre regioni (Khmer), nelle isole Nicobar (Nicobarese). Ragioni linguistiche fanno supporre che alcune forme di lingue mon-khmer si siano estese un tempo nell'India, dalla quale sarebbero state spinte ad Est da invasioni tibeto-birmane e cinesi (Tai) e costrette a occupare i loro territorî attuali (Pegu, Cambogia e Annam). Esse rappresentano oggi per l'India le più antiche forme di lingue che siano in essa sopravvissute.
b) Ramo muṇḍā. - Parlanti 3.973.873. Le lingue muṇḍā sono oggi localizzate nell'India centrale e, ad Oriente, nell'Orissa e nella parte orientale del Bihar e occidentale del Bengala: nell'estremo limite, cioè, nord-orientale della presidenza di Madras, ma dovettero un giorno esser parlate in un'area assai maggiore, come appare dalle tracce di esse, variamente sparse. Certo furono al Sud soverchiate dalle lingue dravidiche e al Nord dalle indoarie e dalle tibeto-birmane. Mentre sulle lingue dravidiche, particolarmente, e sulle indoarie lasciarono tracce, ciò che di esse oggi rimane tiene, invece, del dravidico e sta arianizzandosi sempre più per le lingue arie circostanti. Le lingue muṇḍā, pur essendo nella maggioranza delle parole agglutinanti, hanno palesi notevoli connessioni con le lingue mon-khmer per somiglianze certo provenienti da un sostrato comune. Delle lingue muṇḍā (16 ne enumera il Linguistic Survey) la più importante è la Kherwārī, che conta 3.503.215 parlanti (Chota Nagpur, NE. dell'India centrale); tutte le altre sono attorno ad essa e comprendono numerosi dialetti, di cui il più importante è il Santālī: 2.233.573 parlanti.
II. Famiglia indo-cinese o sino-tibetana o tibeto-cinese. - Si estende dall'Asia centrale alla Birmania meridionale; dal Baltistan a Pechino. È tutta costituita oggi di lingue monosillabiche o isolanti, un giorno certo agglutinanti, ed è rappresentata nell'India da lingue delle due sottofamiglie: a) sino-siamese; b) tibeto-birmana. Dalla loro patria, la Cina nord-occidentale, i Tibeto-Cinesi penetrarono nell'Assam, estremo oriente dell'India, in successive invasioni, lungo i fiumi Brahmaputra, Chindwin, Irawady, Saluen, Menam e Mekong, sovrapponendosi, forse, a popolazioni Mon-Khmer e ad altre dell'Indocina che sarebbero state spinte da esse verso il mare.
A. Sottofamiglia sino-siamese. - Parlanti 1.053.862. Vi appartiene il gruppo Tai (926.335 parlanti), nel quale l'antica essenza agglutinante soverchia l'isolante e delle cui 7 lingue componenti solo la Khāmtī coi suoi dialetti (9886 parlanti) è parlata in India, in parti diverse dell'Assam; la lingua Shān (843.810) negli stati Shān inglesi (e pur nel Shān cinese); le altre 5 (Samese, Lao, Lii, Khün, Daye) in altre parti della Birmania inglese.
B. Sottofamiglia tibeto-birmana. - Parlanti 11.956.011. Vi appartengono tre gruppi: il tibeto-himalayano (440.263 parlanti), l'assamese settentrionale (80.482 parlanti) e l'assamese-birmano o lohitico (11.438.266 parlanti). Molti linguaggi dei tre gruppi risentono l'influenza di forme linguistiche preesistenti e confinanti; quelli del terzo gruppo si connettono in parte (Kuki-chin) al tibeto-himalayano, in parte (Kachin) all'assamese settentrionale, e confluiscono verso il birmano, che è la lingua dell'antico regno di Birmania (v. indo-cinesi, lingue).
III. Famiglia dravidica. - Dopo la famiglia indoeuropea (vedi appresso), la più diffusa in India. Confina a O. col Mare Arabico, a 100 miglia circa al di sotto di Goa, risale i Ghati occidentali sino a Kolhapur, si volge poi a NE. in una linea irregolare attraverso il Haiderabad, tocca i confini meridionali del Berar e continua, sempre a E., inserendosi fra territorî di altri linguaggi, sino alla baia del Bengala. La curva così segnata indica il limite settentrionale della grande famiglia linguistica, il cui limite estremo meridionale è rappresentato dalla metà superiore dell'isola di Ceylon (8° parall. N.). Essa si estende così, oltreché nel Haiderabad, nel sud della presidenza di Bombay, nel Mysore, nel Cochin, nel Travancore, in quasi tutta la presidenza di Madras. Vi sono tuttavia qua e là punti di altre regioni nei quali sono parlate lingue dravidiche, e cioè nelle isole Laccadive, nelle Provincie Centrali, Chota Nagpur, presso il Gange a Rajmahal (Bengal) e all'estremo NO., nel Belūcistān. L'estensione attuale delle lingue dravidiche, pur grande, è tuttavia assai minore di quella d'un tempo. Soverchiate dagl'idiomi arî, esse hanno perduto terreno, e si son ritirate sempre più nella parte meridionale dell'India. Qua e là si sono sovrapposte, invece, ai linguaggi muṇḍā ai quali nondimeno in qualche parte hanno dovuto cedere. Delle numerose lingue dravidiche (Tamul, Malayālam, Canarese, Tuḷu, Koḍagu, Toḍa, Kurukh, Malto Kui, Goṇḍī, Kolāmī, Naikī, Telugu, Brāhūī) più importante, anche per produzione letteraria, è il Tamul o Tamil (parlato in tutta la parte S.-E. della grande penisola e nella metà nord di Ceylon, nell'estremità meridionale del Travancore, tra il Capo Comorin e Trivandrum): può considerarsi il linguaggio tipo della famiglia dravidica. Numero complessivo dei parlanti lingue dravidiche: 64.128.052. Per l'origine del nome draviḍa, per la suddivisione delle lingue dravidiche, per il loro influsso sulle lingue arie, per notizie sulle singole letterature, per bibliografia, ecc. v. dravidiche, lingue.
IV. Famiglia indoeuropea. - La più illustre e la più numerosa delle famiglie linguistiche rappresentate in India. Al principio dell'epoca storica si trova estesa dall'India (estremo SE.) all'Islanda (estremo NO.) e all'Irlanda (estremo O.), in epoca storica si estese ai nuovi continenti (America e Australia) e nell'Asia settentrionale (Siberia russa).
La massima parte della popolazione della grande penisola indiana parla lingue di questa famiglia, che confina, in India, a N. e ad E. con le lingue della famiglia tibeto-birmana; a S., al disotto di Goa, coincide con le lingue dravidiche; nel centro viene ogni giorno di più assorbendo le parlate locali, stringendo, cioè, via via gli isolotti dravidici o muṇḍā ivi esistenti, con un progresso parallelo a quello dell'induismo, del quale si può dire che le lingue indoeuropee dell'India (come del resto le dravidiche) siano i veri strumenti. Ad O. il territorio linguistico indoeuropeo continua anche oltre i confini dell'India. Nella metà sud di Ceylon le lingue indoeuropee sono rappresentate dal Singalese. Numero complessivo dei parlanti nella penisola: 232.852.817.
Notevoli coincidenze lessicali, corrispondenze letterarie d'intere frasi e di elementi religiosi e sociali negl'inni del Ṛgveda e nelle strofe dell'Avesta, i due più antichi documenti della civiltà indiana e iranica, dimostrano che un lungo periodo a noi direttamente non noto di vita comune debbono, dopo la dispersione degl'Indoeuropei e in tempo anteriore a quello dei testi, aver vissuto i popoli che un giorno, divisisi alla loro volta tra loro, avrebbero distintamente popolato l'India e l'Iran e si sarebbero reciprocamente differenziati per nuove caratteristiche linguistiche, religiose e sociali. Arî sono propriamente chiamati gl'Indoeuropei appartenenti a tale comunità alla branca orientale asiatica, cioè, della loro grande famiglia, e arie le loro lingue, dall'antico indiano aryá, ārya, avestico airya-, ant. pers. ariya- (significato incerto; ved. aryá-, "devoto, attivo, pio" o epiteto di divinità; nel Yajurveda e nell'Atharvaveda "lavoratore" come termine di condizione sociale opposta all'infima; ancora nel Ṛgveda e nell'Atharvaveda "leale, fido amico"; sanscrito ārya "uno dei fidati, dei leali, uomo rispettabile, nobile", appellativo onorevole dato a sé stessi dagl'Indiani e dagl'Irani).
In data non precisata né precisabile, certo anteriore al primo millennio a. C., una parte della comunità aria, dalla sede comune (in una regione non ancora sicuramente determinata), a N. della Persia, scese a sud, nell'odierno Afghānistān e nella Persia; un'altra in direzione di SE. attraverso i passi del Hindu-kush, entrò, lungo la valle del Kābul, nell'India, prendendo sede nel Panjab, ove dovette certo sostenere lotte con gli abitanti, aborigeni o no, lotte delle quali il Ṛgveda ci ha lasciato ricordo in accenni a combattimenti fra bianchi e neri (dāsa o dasyu). L'una e l'altra delle due branche diedero poi, come s'è detto, sviluppo a caratteristiche di lingua e di civiltà tutte particolari, nella vita che vissero singolarmente. In progresso di tempo l'invasione aria guadagnò sempre più terreno, così che oggi occupa tutta l'India superiore sino all'avanzatissimo confine su accennato e ogni giorno più, ripetiamo, progredisce verso sud ed est nell'assorbimento delle altre parlate, dravidiche, muṇḍā, e tibeto-birmane, mentre non si nota "deciso soverchiamento delle lingue indoeuropee per opera di lingue non indoeuropee".
Con la denominazione di indoarie vengono designate, così, le lingue di quella branca di Arî (Indoirani) che, scesi in India, svilupparono una propria civiltà e proprie parlate, branca che si distingue cioè da quella onde presero sviluppo e forma la civiltà e le lingue dravidiche; e indoarî o arioindiani sono chiamati gli stessi idiomi dell'India, per distinzione dagli altri (mon-khmer, muṇḍā, dravidici) non appartenenti alla famiglia indoeuropea. Altro termine per essi è gaudiano o gauriano, dal sanscrito Gauḍa, nome di una regione (od. Gaur) del Bengala. Con tale nome s'indicano pure l'India non dravidica e il popolo indoario, contrapposto al non-ario.
L'ario. - L'accento (o meglio tono) del vedico e quindi dell'ario non pare che fosse sensibilmente diverso dall'indoeuropeo. L'iranico non dà nessun insegnamento in proposito. Per quanto concerne l'evoluzione fonetica, la tendenza generale è di portare l'articolazione verso il palato medio.
Vocalismo. - a) indoeuropeo *ā̆ ñ ō??? > ario *ā̆ (vocale medio-palatale): p. es.: sanscrito dadarśa "io ho veduto", avest. dādarəsa, gr. δέδορκα da indoeur. *dedorka; b) indoeur. *ə > ar. *i: p. es.: vedico pitār, avest. pita, gr. πατήρ da indoeur. *pətēr; c) indoeur. *ṛ ḷ > ar. *ó; d) indoeur. *m̥ *í > ar. *am *an (davanti a vocale) *a: p. es.: sanscr. śatam, avest. satəm, gr. (ἑ)κατόν, lat. centum. La parziale scomparsa delle alternanze, conseguente ad a) d) (indoeur. *ñ/ō???/zero > ar. *ā̆/zero; indoeur. *ñn/ō???n/ṇ > ar. *ā̆n/a) ha completamente sfigurato in ario il sistema vocalico indoeuropeo.
Consonantismo. - Il consonantismo ario presenta, rispetto al sistema indoeur., tre innovazioni: a) lo spostamento d'articolazione delle tre serie palato-velari: indoeur. palatali > ar. sibilanti; indoeur. velari pure e labio-velari: davanti a vocale prepalatale > ar. semiocclusive palatali, davanti a vocali medio- e post-palatali > ar. occlusive palatali; p. es.: sanscrito daśa, avest. dasa, gr. δέκα, lat. decem, ecc. (da indoeur. *dekṃ); sanscr. ca, avest. ca, gr. τε, lat. que (da indoeur. *kwe); sanscr. vṛkah, avest. vəhrkō (da indoeur. *wḷkwo-); b) indoeur. *s (spirante dentale) dopo *k, r, i, u > ar. *š (spirante scivolante), sanscr. ṣ (cerebrale), avest. š: p. es.: sanscr. vakṣyāmi "io dirò", avest. vaxšya- (indoeur. *voksyo-); c) la confusione d'indoeur. *l r in parte del territorio ario (avest., ved.): ved. rehmi "io lecco", ma sanscr. lehmi, avest. raēzaite, ma persiano lištan; d) (particolarità conseguente all'incontro di suoni) sonora aspirata + sorda non aspirata = sonora non aspirata + sonora aspirata; la sorda, cioè, si assimila alla sonora precedente e ne assume l'aspirazione; p. es.: radice sanscr. budh "svegliare" + -ta- (suffisso del participio passato passivo) = buddha- "risvegliato".
Morfologia. - Le innovazioni morfologiche e sintattiche dell'ario non furono probabilmente di grande entità (genitivo plurale in -n-ām dei temi in vocale e sonante).
Caratteri distintivi nel dominio dell'ario. - a) L'arioindiano conserva le aspirate indoeur. e arie, mentre l'iranico riduce le aspirate sorde a spiranti, le sonore a sonore semplici e spiranti (sanscr. prathama- "primo" avest. fratəma-; sanscr. -dhita-, avest. dāta-, pers. mod. dad, cfr. gr. ϑετός, lat. datus); b) indoeur. e ar. *s > ant. ind. s, iran. h (cfr. gr. ‛-).
L'indoario. - Abbandonate le regioni a nord del Hindukush, il ramo degli Arî che dal NO. era disceso nell'India prese anzitutto dimora nell'odierno Panjab, il paese dei cinque fiumi. Ivi ebbe sviluppo ed evoluzione la più antica forma del linguaggio indoario, l'antico indiano, forma certo diversa, nondimeno, da quella che oggi ci è dato conoscere dagl'inni del Ṛgveda che portano appunto i segni di una notevole elaborazione linguistica. Col tempo e in successive ondate i parlanti tale dialetto si spinsero sempre più a oriente e a mezzogiorno, prendendo sede tra il Panjab e la moderna Allahabad nel tratto di terra che la tradizione epica chiama Madhyadeja "il paese di mezzo" dell'Āryāvarta "la terra degli Arî" (dal Himālaya al Vindhya e dal mare orientale a quello occidentale). Centro della civiltà aria divenne così il tratto di terra fra il Gange (Gaṅgā) e il Jumna (Yamunā), detto oggi Doab gangetico ("due fiumi"), che ha al suo oriente l'odierno Oudh (ove fu la celebre Ayodhya, sede della dinastia degli Ikṣvākuidi dei quali Rāma fu il più fulgido eroe). Tale espansione non venne meno col tempo: l'indoario, non solo nella sua fase di antico indiano, ma anche nelle varie forme di medio indiano, continuò nel suo progresso e pur oggi continua, nelle varie lingue che costituiscono l'indiano moderno, a tutto danno delle lingue non indoeuropee. L'indoario confina a O. con l'iranico; nelle altre direzioni i suoi confini coincidono con quelli dell'indoeuropeo.
Simile nel suo sviluppo a quella del latino si può considerare l'evoluzione dell'indoario: ambedue queste lingue raggiunsero in breve uno stadio che possiamo dire assai progredito in confronto a quello che i monumenti più antichi ci presentano; ma d'altro lato si deve osservare che, se nel latino si ebbe un rapida evoluzione fonetica sino al tempo in cui, raggiunta la fase cosiddetta classica, esso venne sui modelli offerti da questa fissato dai grammatici, l'indoario nella forma di antico indiano variò invece notevolmente nella morfologia e nel lessico.
Una grande riduzione di forme grammaticali presenta difatti, in confronto a quella del Ṛgveda, già la lingua dell'Atharvaveda e dei Brāhmaṇa, e particolarmente il sanscrito classico, il quale venne fissato dai grammatici, la cui opera culminò con Pāṇini (secolo IV a. C.), ma che non si arrestò prima del secolo II a. C. Per essere tale lingua stata fissata su regole grammaticali (saṃskāra), si chiamò appunto saṃskṛta "[lingua] perfetta, elaborata, raffinata, purificata", denominazione che per la prima volta appare nel Rāmāyaṇa in opposizione a quei linguaggi indoarî, differenti gli uni dagli altri, ma oggi tutti raccolti sotto la comune designazione di medio indiano, che, foggiati direttameme sulle parlate indoarie della stessa regione dell'antico indiano, o di altre, vennero detti prākṛta "naturali, non elaborati", da prakṛti "natura".
Del resto già tutte le parlate dell'India dai tempi più antichi si possono considerare pracriti veri e proprî. Così la lingua del Ṛgveda sebbene, ripetiamo, essa stessa già elaborata, come quella ch'era stata "fissata scrupolosamente come lingua religiosa", va considerata, perché non ancora "purificata", l'esempio storico più antico di pracrito, che, con G. A. Grierson, chiameremo primario, paragonabile ai dialetti italici in confronto al latino letterario di Roma.
Fissatosi poi l'antico indiano per l'opera purificatrice dei grammatici, la tendenza popolare a mantenere forme non classiche di grammatica, pur nel persistere della forma sintetica, o a render sempre più facile la pronuncia col sostituire a dittonghi un solo suono omogeneo vocalico (sanscr. Airāvaṇa-, nome proprio dell'elefante d'Indra, kaumudī "luce lunare", pracr. Erāvaṇa-, komudī), ad assimilare le consonanti, perché fosse evitata la durezza nella pronuncia dei nessi anche più dolci (sanscr. arka- "sole", phalgu- piccolo", ecc., bhakta- "diviso", pracr. akka-, phaggu-, bhatta-) portò a un nuovo stadio linguistico che possiamo chiamare pracrito secondario, quello accennato del medio indiano. Le varietà di questo in confronto al sanscrito, "la lingua alta per eccellenza, lo strumento precipuo della civiltà brahmanica, proporzionatamente alla quale godette credito e prestigio e alla cui esistenza fu sempre intimamente legato, così che seppe mantenere la sua dignità e imporsi non solo dinanzi alle lingue figlie e nepoti, ma pur dinanzi a quelle che con esse non avevano alcuna parentela, le dravidiche", stanno come le lingue neolatine al latino (cfr. lat. audire, aurum con it. udire, oro, e fr. or; lat. lactuca con it. lattuga). Ma, a differenza di queste, che vissero una loro propria vita in periodi di tempo diversi da quello propriamente classico del latino, le lingue medio-indiane vissero accanto al sanscrito e alcune di esse assursero, foggiate sul sanscrito stesso, ad alta dignità letteraria.
A questo secondo periodo dell'evoluzione linguistica dell'indoario, ne seguì un terzo, quello che chiamiamo dell'indiano moderno o neo-indiano (e in ciò l'evoluzione dell'indoario supera quella del latino) che possiamo meglio designare come periodo dei pracriti terziarî. Questo neo-indiano, sorto 15 secoli dopo il medio indiano, "si è scisso in una grande quantità di linguaggi o dialetti, alcuni dei quali nel sec. XII si sono pur essi elevati a dignità letteraria". Questi si differenziano dai pracriti secondarî, rispettivamente in grado maggiore o minore, per una notevole accettazione di vocaboli persiani e arabi (pur nella tendenza a conservare il lessico originale del tempo vedico, base fondamentale di tutte le lingue indoarie moderne, o ad accogliere vocaboli sanscriti per termini religiosi o scientifici); per sviluppo di nuovi suoni, per indebolimento della vocale finale, per notevole semplificazione della morfologia nominale e verbale, per la quasi totale perdita del carattere sintetico.
Antico indiano. - A) Vedico. - La storia dell'antico indiano si può definire storia non solo di tempi, ma pur di luoghi diversi. Mentre difatti gli inni più antichi del Ṛgveda risultano, ripetiamo, composti nella regione del Panjab, e mostrano di avere a base la parlata del NO., già il libro X del Ṛgveda stesso e più ancora i Brāhmaṇa (già nell'Atharvaveda si accenna a regioni più orientali che nel Ṛgveda) palesano, "per varietà metriche, linguistiche e per fondo di cose", la loro patria nella regione del Gange, e di aver perciò a base l'antico indiano parlato in questa regione stessa, lingua "differente dall'antico indiano usato nel Panjab per la composizione degl'inni, sotto il rapporno del dialetto e del vocabolario"; il che è attestato pure da citazioni di Pāṇini, che si richiama a caratteri dei parlanti del Nord, degli occidentali, ecc.
B) Sanscrito. - Dato l'ufficio importantissimo avuto dal sanscrito nella cultura e nella civiltà indiana, come quello che, già dicemmo, della massima parte dei documenti religiosi e sociali di questa fu l'imprescindibile e più alto strumento, vien fatto di chiedere se esso sia stato o no un tempo lingua parlata, e, nel caso, se non soltanto l'antico indiano "purificato" sia stato lingua viva, ma pur la sua fase più antica, la vedica propriamente detta o quella che ci risulta immediatamente posteriore al Ṛgveda, o, finalmente se siano state parlate le forme varie, che, per quanto vissute accanto al sanscrito, rappresentano, come si disse, una fase letterariamente postclassica e sono a noi note sotto la denominazione di medio indiano. Attestazioni di scrittori d'arte (Siddharṣi, sec. X e Bilhaṇa, sec. XII) e di retori (Bhāmaha, sec. VI-VII) sull'uso del sanscrito, ilricordo che esso veniva usato in dispute d'indole religiosa che si tenevano da dotti dinanzi al pubblico, l'essere nei drammi il sanscrito lingua dei re, dei saggi, dei brahmani di grado elevato, dei ministri, dei generali, accanto ai diversi pracriti parlati dagli altri interlocutori, l'essersi il sanscrito finalmente esteso nell'India, pure quale lingua epigrafica, dal sec. III d. C., mentre prima le epigrafi erano redatte nei varî pracriti: tutto ciò è chiara testimonianza che il sanscrito dovette essere parlato quale lingua - sia pure convenzionale - di alta cultura e quale lingua universale dell'India, a differenza dei varî pracriti (medio indiano, pracrito secondario), che, pur contrapponendosi alle parlate volgari (pracriti terziarî) ed essendo assurti col tempo a dignità letteraria, rimasero lingue della cancelleria e rispecchiarono le tendenze del parlare locale e familiare.
Ma poiché tali pracriti minacciavano d'invadere la lingua che, sia pure variata, rappresentava dai più antichi tempi l'elemento conservatore della civiltà brahmanica, la vera civiltà dell'India, apparve necessaria l'opera "purificatrice" dei grammatici, che in regole schematiche e di facile mnemonico apprendimento fissassero tutte le norme della lingua stessa. E tale opera fu conchiusa, come si è detto, da Pāṇini. Ma che egli si rivolgesse a parlanti, che intendesse, cioè, dar norme per la lingua d'uso corrente, dimostrano i termini di scuderia, di cucina, di conversazione, ecc., ricorrenti nella sua grammatica (cfr. gli hermeneumata del basso latino). D'altra parte Pāṇini non aveva che da preservare e conservare ciò che i secoli avevano trasmesso. Già prima di lui l'antico indiano era stato fissato quale lingua sacra, come quella "la cui purezza faceva parte della purezza liturgica". Tale lingua, che H. Jacobi chiama sanscrito ieratico, il quale diede forma ai Brāhmaṇa, agli Aranyaka e alle Upaniṣad, che era stato foggiato a sua volta sul sanscrito delle Saṃhtā (Ṛgveda, ecc., v. sotto: Letteratura vedica), che può esser perciò ben denominato rituale (a sua volta però elaborato in confronto alle parlate locali), s'era continuato a usare, sia pur subendo una lenta evoluzione, "come regolatore del sanscrito ordinario, come norma dell'alta lingua, usata a sua volta da coloro che volevano conformare la propria vita all'ideale paleo-brahmanico". Ciò dato, si possono accettare le conclusioni del Jacobi: 1. in nessuna epoca il sanscrito è stata la lingua volgare di uso comune; 2. come idioma parlato, esso fu proprio delle classi elevate, detentrici e custodi della più alta cultura e divenne perciò la lingua nobile di tutta l'India; 3. si può dir lingua morta, se per lingua viva s'intende la lingua parlata dal popolo; 4. lo si può considerar lingua viva, ché in nessun tempo esso venne del tutto meno (come fu a es., dell'etrusco, del tocario, del hittito, ecc.). Esso è stato l'elemento vitale della civiltà indiana e vivrà sinché questa non sarà del tutto morta.
Caratteristiche dell'antico indiano (vedico e sanscrito). -1. Accento. - Nel vedico (nei cui più importanti testi soltanto appare segnato) è attestato un tono eguale all'indoeuropeo. Notevoli, se pur non perfette, coincidenze si hanno con l'accento greco (escluse, naturalmente, le leggi relative al tardo trisillabismo) e particolarmente nelle forme della flessione dei nomi monosillabi (accento sulla prima sillaba nei casi forti, sull'ultima nei deboli); p. es.: sanscr. pad-, gr. ποδ- "piede"; accusativo singolare pádam, πόδα; genitivo padás, ποδός; locativo padí, ποδί; nominativo plurale pádas, πόδες (ma acc. padás, ποδας); gen. padām, ποδῶν; loc. patsú; dat. ποσί. Forme del verbo finito generalmente atone, se non in principio di frase e di verso.
2. Sistema fonetico. A) Vocalismo: a) sonanti in funzione di vocali: le liquide ḷ ṛ e le semivocali i u; indoeur. *ṇ ṃ > ant. ind. a: p. es.: sanscr. śatam, gr. (ἑ)κατόν, lat. centum, ted. hund(ert); b) una sola vocale, oltre le sonanti (i u), breve e lunga: ă ā 〈 indoeur. *ā̆ ñ ō??? e due vocali lunghe (dittonghi) ē ō 〈 indoeur. *ai ei oi, au eu ou (dittonghi brevi); c) ai au 〈 indoeur. *āi ēi ōi, āu ēu ōu; d) indoeur. *ə > sanscr. i: p. es.: *st(h)əto-s > sanscr. sthita-, gr. στατός; e) distinzione delle sillabe come in indoeuropeo.
B) Consonantismo: a) il vedico, oltre i suoni indicati nella tabella, possiede le consonanti liquide cerebrali ḷ ḷh che sostituiscono rispettivamente, nel Veda, le consonanti ḍ ḍh intervocaliche; b) mantiene le occlusive sorde, sorde aspirate, sonore e sonore aspirate gutturali, dentali, labiali indoeur. Una sola serie di palato-velari (k kh g gh), una serie di semiocclusive scivolanti (c ch j jh), derivate di regola da originali (labio)-velari. È frequente lo scioglimento nel vedico di gh dh bh (costante di jh): p. es.: 1. plurale indicativo medio -mahe; 2. imperativo singolare attivo -hi (cfr. gr. -μεϑα, -ϑι); c) nasali e sibilanti omorganiche con le serie occlusive (ṅ ñ ṇ n m; ś ṣ s); d) una nuova serie (dravidica) delle cerebrali (o cacuminali o linguali) ṭ ṭh ḍ ḍh e tendenza nel sanscrito all'aumento della cerebralizzazione, certo per più efficace influsso dravidico; e) indo- eur. *kw > sanscr. ś, gr. κ; ondoeur. *kw > sancr. k/c, gr. π/τ (v. sopra: Ario); f) combinazioni fonetiche: ampio, rigido sistema eufonetico (condotto al suo massimo grado nel sanscrito), risultante da leggi fisse regolatrici dell'incontro (saṃdhi) in una stessa parola di suono vocalico o consonantico, finale di prefisso, di radice o di tema con iniziale di suffisso o di desinenza (saṃdhi interno o morfologico), o finale di parola con iniziale di altra nel periodo (saṃdhi esterno o sintattico); p. es.: rad. nī "condurre": terza persona singolare presente indicativo attivo nayati "egli conduce" 〈 ne (grado forte di nī) + -a- (=nay-a-) + -ti; rad. ad "mangiare" (cfr. lat. edo): prima persona indicativo attivo admi "io mangio", ma seconda atsi "tu mangi", terza atti "egli mangia", mātā iha, mater heic = māte 'ha, ecc.; tat asti, (is)tud est = tad asti; tat dadāti, (is)tud dat = tad dadāti, ecc.
3. Morfologia. - A) Declinazione nominale. - a) Temi nominali vocalici in a (indoeur. *e/o) (maschile e neutro), in ā (femminile); in i u (maschile, femminile, neutro); in ī ū (femminile); temi in consonante occlusiva, in r n s. Alternanze qualitative e quantitative della vocale tematica (le qualitative dei temi in indoeur. *e/o, ant. ind. a, non si possono avvertire); p. es. agni- "fuoco", gen. sing. agne-s, ecc.; sanscr. pitā, pitaram, pitre "padre" nom., acc., dat. sing., gr. πατήρ, πατέρα, πατρί; b) tre numeri: singolare, duale, plurale; c) tre generi, con la notata tendenza a specializzare certi temi per certi generi; d) sette casi: nom., acc., strumentale, dat., abl., gen., locativo (il vocativo non va considerato come un caso; esso consiste, anche nell'ant.-ind., del tema puro), particolarmente distinti nella declinazione dei temi in a. Fedele conservazione, come si vede, del tipo di flessione indoeur. Sincretismo di forme per l'abl. e dat. plur. (-bhyas) per lo strum. dat. e abl. duale (-bhyām), per il gen. e loc. duale (-os), ecc.; uso arbitrario delle terminazioni -ebhis, -ais per lo strum. plur. Riduzione nel sanscr., in confronto al vedico, delle forme casuali con l'eliminazione delle forme doppie (dello strum. sing., del nom. acc. voc. duale, del nom. acc. voc. plur., dello strum. e gen. plur., ecc., dei temi in a, ridotte a una sola).
B) Declinazione pronominale. - Netta distinzione tra la declinazione dei pronomi personali (distinti i sette casi del singolare, un tema per ciascun numero, allontanamento dalla declinazione indoeur.) e quella dei pronomi dimostrativi, relativi, interrogativi, che della declinazione indoeur. conserva tracce più nette.
C) Coniugazione. - a) Ricco e complesso sviluppo (ridotto nel sanscrito) del sistema verbale del periodo ario (sotto tale aspetto l'ant. indiano si connette col greco); b) temi verbali indipendenti: a′) temporali: temi del presente (frequentissimi e ben conservati), distinti in dieci classi verbali, raccolte in due coniugazioni (cfr. le coniugazioni greche in -ω e in -μι); del causativo, desiderativo, intensivo, denominativo; temi dell'aoristo, del perfetto e del futuro; b′) modali (fo mati sui temporali): indicativo, ottativo, imperativo (congiuntivo solo nel vedico); c′) aumento, costante in sanscrito e reggente l'accento; facoltativo in vedico (cfr. il gr. omerico); d′) desinenze attive e medie, principali e secondarie; esiste solo una flessione tematica e una per il passivo; e′) vocali radicali e suffissali soggette a gradazioni; c) riduzione nel sanscr., anche maggiore che per la flessione nominale, di forme multiple in confronto al vedico: forme d'infinito, da 12 a una; di gerundio da 3, comunemente a 2; riduzione delle varie specie di aoristo, e sempre minor uso di esso; d) di contro: creazione di qualche forma nel sanscr.: prima persona sing. duale e plur. dell'imperativo; ottativo aoristo con significazione speciale di precativo o benedettivo; conservazione di forme cadute in disuso nel medio ind. (duale, medio, perfetto).
4. Sintassi. - a) Ordine che tende sempre più a fissarsi nel periodo classico, con struttura sempre più complessa; b) subordinazione rudimentale; c) grande sviluppo della frase nominale con participio predicativo; d) ricchezza di composti superiore a quella di qualsiasi altra lingua indoeuropea; loro ampiezza (per numero dei componenti), mrietà e frequenza, assai maggiori nel sanscrito classico che nel vedico, "sino ad assorbire l'intero ordine della costruzione sintattica".
5. Lessico. - Ricco di elementi indoeuropei; prestiti dalle lingue dravidiche, sempre più numerosi col procedere della conquista aria.
Medio indiano. - Varietà. - A) Il pracrito epigrafico. - Come s'è già accennato, con la denominazione pracriti (prākṛta) vengono complessivamente designate tutte quelle varie fomme di linguaggi medio-indiani, che, pur sorti su fondo poco diverso da quello ond'erano usciti il vedico e il sanscrito (antico indiano), si differenziano da questi per caratteristiche particolari; che inoltre, pur linguisticamente più recenti del sanscrito, gli furono anteriori "nell'uso laico, epigrafico e, fuorehé nell'epica, letterario", e accanto ad esso vissero poi e si svilupparono. Non si tratta dunque di forme riconnettibili al vedico o al sanscrito, ma di veri e proprî dialetti (pracriti secondarî).
Nella fase di essi più antica che sia a noi nota, sono redatti i "primi documenti datati delle lingue indoarie", le iscrizioni di Aśoka disseminate in quasi tutta l'India, dal NO. al Bengala, dal Terai al Mysore. È questa la forma che possiamo chiamare del pracrito epigrafico, che ha il suo particolare fondamento, pur tra le molte varietà, dovute ai diversi luoghi di diffusione degli editti e all'opera degli scrivani, nella lingua del Magadha (odierno Bihar meridionale).
Segue in ordine cronologico di documentazione il pāli, forma pure arcaica di medio indiano, nella quale è redatto il canone buddhistico, malamente detto meridionale, conservato nell'isola di Ceylon (i testi letterarî di medio indiano più arcaici che siano giunti a noi).
Finalmente una terza fase di medio indiano è quella dei pracriti secondarî che hanno dato forma alla letteratura sacra e profana dei jaina e anche a opere ad essi estranee (drammi interi o parti di essi, epica, lirica ecc.): Ardhamāgadhī, Māhārāṣṭrī jainica, Māhārāṣṭrī; Śaurasenī, Māgadhī, Paiśācī, ecc., i quali tutti sono considerati i pracriti per eccellenza. Va ricordato che i loro nomi non rivelano in qualche modo che le regioni onde son sorti, ma nulla più. Ad es. la lingua degli editti di Aśoka, che, per quanto sopra s'è detto, potremmo chiamare Māgadhī (lingua del Magadha), ed era stata estesa a tutto il N. dell'India per il prestigio religioso del buddhismo e il politico, creato dall'opera secolare della dinastia Maurya (v. sopra: Storia), non doveva riprodurre (come può esser dedotto da differenze di testi magadhiani contemporanei) la lingua vera e propria del Magadha. Dunque "nessuna iscrizione di Aśoka è documento diretto per la determinazione di dialetti dell'India del sec. III a. C.".
Tenendo conto della loro essenza e della loro storia, possiamo dunque definire i pracriti nel modo seguente: "lingue letterarie corrette, fissate artificialmente per opera di teorici, come ad es. il dorico dei cori della tragedia attica. Le loro particolarità non sono del tutto irreali, né interamente conformi alla realtà della lingua parlata. Alcune di esse palesano una mescolanza convenzionalmente determinata, nella quale le reminiscenze sanscrite dominano" (J. Vendryes).
Un'ulteriore fase dei pracriti secondarî si ebbe quando, fissati che furono essi pure dai grammatici come lingue letterarie (e di conseguenza arrestati nel loro sviluppo), essi, sotto l'influsso dei parlari locali, caddero in qualche modo, praticamente e rispettivamente, in corruzione (apabhraṃśa "decadenza", dalla radice bhraṃś preceduta da apa "decadere", elementi preziosi in tal caso alla conoscenza delle parlate locali stesse: tanti apabhraṃśa (denominazione data dai grammatici) perciò si dovettero avere quanti pracriti esistettero; ma alla lor volta questi pure assursero a dignità letteraria "con un minimo di modificazioni", che di tale elevazione li rendesse degni.
In seguito, nondimeno, con lo stesso procedimento ond'erano originati, si corruppero e procedettero nello sviluppo di quelli che possiamo chiamare i pracriti terziarî, cioè le varie forme del neo-indiano. Una forma particolare di pracrito secondario portò il nome di Apabhraṃśa.
B) Il páli. - La data di redazione definitiva del canone buddhistico Tipiṭaka, quale ci è pervenuto nella sua interezza (opera della setta Vibhajyavādin, "scuola della parte ortodossa del buddhismo", va posta, secondo la tradizione singalese, all'80 a. C. circa (concilio convocato dal re Vaṭṭagāmani): non possono quindi esser posteriori a quel tempo le parti più antiche del canone stesso; nondimeno l'uso del pāli, la lingua nella quale esso è stato redatto, deve risalire ad assai più alta antichità. Incerta è l'etimologia di tal nome, che significa propriamente "fila, schiera, serie", quindi "serie di testi sacri" ("serie di dottrine, secondo le quali i testi sono stati trasmessi": Trenckner) e, secondo l'uso europeo, per quanto impropriamente, "la lingua dei testi canonici buddhistici, in contrapposizione alla lingua dei relativi commenti, cioè, del singalese". Di difficile determinazione è pure il luogo d'origine del pāli, per la poca omogeneità ch'esso presenta (oggi esso è la lingua letteraria della Birmania, del Siam e dell'isola di Ceylon): i testi canonici dànno alla loro lingua il nome di Māgadhī (uno dei linguaggi medio-indiani, per cui v. appresso), mentre l'esame di questa lascia apparire dal pāli notevoli differenze. Come ben dice J. Bloch, la Māgadhī (la lingua del Magadha) dovette essere "la lingua originale del canone, quella citata dal grande sovrano buddhista Aśoka e non quella della tradizione di cui disponiamo". Certo di origine continentale, essa racchiude "elementi che paiono pervenire dalla regione dei Mālava, al N. di Indore" (e precisamente al NO. dell'India centrale, nel Rajputana), la cui capitale fu Ujjayini, residenza di Aśoka, ma insieme molti altri, eterogenei: La connessione tra il singalese (v. appresso) e le parlate occidentali si può spiegare ammettendo un'immigrazione per la quale dalla regione occidentale "furono importati un dialetto vivente destinato a evolversi sul luogo e opere scritte in una lingua religiosa ormai fissata".
Fondato su "un dialetto della conversazione, che aveva probabilmente la sua base nel dialetto di Savatthi (sanscr. Śrāvastī), la capitale del Kosala (N. dell'India, od. Oudh), od era (sin dal sec. VII a. C.) d'uso generale tra i magistrati, i mercanti e le classi più colte", il pāli "non può essere considerato che come un tipo linguistico rappresentante una forma di medio indiano letterario (medio alto indiano) e segnante una tappa nell'evoluzione generale dell'indoario. Si tratta inoltre di un dialetto centrale e occidentale succeduto a un dialetto orientale nelle redazioni del canone buddhistico" (Bloch).
C) Sanscrito misto. - Ma non soltanto il pāli diede forma agli scritti canonici del buddhismo. Alcuni di essi ci sono stati tramandati, difatti, in una lingua strana, consistente di una mescolanza di forme pracrite e sanscrite, di modi sintattici tutt'affatto proprî del pracrito o del sanscrito. Tale lingua, che fu ben definita sanscrito misto o quasi sanscrito, ha dato forma, particolamnente, alle strofe (gāthā) intercalate alla prosa, di biografie leggendarie del Buddha (Mahāvastu, Lalitavistara, ecc.) e fu perciò, malamente, chiamata da alcuno per esclusione dialetto delle gāthā. L'origine di tale forma di linguaggio, meglio che alla prospettata ignoranza del sanscrito da parte degli autori, va forse attribuita al desiderio di apologeti del buddhismo di ottenere i vantaggi che lo scrivere in sanscrito poteva dare e allo scrupolo, insieme, di abbandonare il pracrito, lingua più adatta alla propaganda religiosa tra il popolo (cfr. la lingua della Volgata di S. Girolamo). In progresso di tempo la contaminazione si accrebbe, tutta a vantaggio del sanscrito, che culminò in opere di grande poesia. Ciò dato, possiamo ammettere che il sanscrito misto costituisce una tappa linguistica pur esso, ma di un lavoro lentissimo, originato dal contrasto delle due accennate opposte tendenze (pur dirette allo stesso fine propagandistico), innovatrice l'una, conservatrice l'altra, "di cui le opere in puro stile classico, come quelle di Aśvaghoṣa, segnano il limite definitivo. Prima di giungere al quale si ebbero certo esitazioni e compromessi" (Mansion).
D) Pracrito propriamente detto. - I nomi che designano le singole forme del pracrito secondario, indicate complessivamente dagl'Indiani come prākṛta, e, come s'è veduto, tutti connessi col nome della regione d'origine (la cui lingua cioè ne costituì il sostrato e nulla più), sono quasi tutti di genere femminile e in tal caso veri e proprî agg. determinativi (sostantivati) del termine (sottinteso) bhāṣā "lingua".
Tali forme sono: a) l'Ardhamāgadhī "mezza Māgadhī" (nome non chiaro, datole dal grammatico Vararuci) o Ārṣa (arcaico), il pracrito jainico per eccellenza, lingua del canone dei jaina, ma usata pure in drammi buddhistici e classici;
b) la Mahārāṣṭrī jainica, lingua dei commenti al eanone jainico e delle opere profane dei jaina stessi. Essa e l'Ardhamāgadhī costituiscono le due fasi del cosiddetto pracrito jainico;
c) strettamente connessa con la Mahārāṣṭrī jainica, la Mahārāṣṭrī, lingua usata in scritti tardivi dei jaina, "lingua del grande regno", mahārāṣṭra (regione dei Marāṭha). È la forma di pracrito considerata la più perfetta, ed è la meglio nota, perché fra tutte la più studiata dai grammatici indiani stessi; per gl'Indiani è il pracrito per antonomasia. Appare usata pure nei drammi per le parti liriche e in interi poemi epici e lirici;
d) non molto dissimile dalla precedente, la Śaurasenī (Surasena, territorio il cui centro è il Doab gangetico, con capitale Mathura, od. Muttra), lingua della prosa dei drammi, parlata dalle donne di condizione superiore e dagli uomini che non parlano sanscrito. Per aver avuto come sua regione la stessa nella quale s'era sviluppato il pracrito primario e per risalire nella sua origine a esso, la Śaurasenī ha col sanscrito particolarmente comune il suo lessico;
e) la Māgadhī, parlata nei drammi da persone di classe inferiore, dal popolo minuto;
f) la Paiśācī, la lingua delle classi più umili, letteralmente la "lingua dei piśāca o demoni", denominazione che in origine valeva, probabilmente, "a indicare il dialetto di una tribù popolare dei Piśāca". Fu redatta in esso la celebre Bṛhatkathā "grande novella" di Guṇāḍhya (probabilmente II-III sec. d. C.; v. appresso) il cui originale è andato perduto, ma del cui contenuto si conservano rifacimenti in sanscrito;
g-n) altri dialetti, usati nei drammi, certo di origine non popolare, come la Dakṣiṇātyā, la Prācyā, l'Āvantī, la Ḍhakkī (Ḍhakka nel Bengala orientale), varietà (vibhāṣā) della Śaurasenī, la Cāṇḍālī e la Śākārī, varietà della Māgadhī; o) finalmente, usato nei drammi, per quanto scarsamente, nel romanzo jaina, nella poesia popolare, l'Apabhraṃśa, un quid medium fra il pracrito e le parlate neo-indiane. Vedemmo difatti che "apabhraṃśa- è un termine generico per designare gl'idiomi letterarî, i quali, benché fondati sul pracrito, sono strettamente connessi con certe parlate popolari". Nell'Apabhraṃśa propriamente detto dobbiamo vedere un dialetto del genere su accennato, ma di fondo occidentale, fase diretta di transizione, nella varietà Vrācaḍa, della Sindhī e, nelle varietà Nāgara e Upanāgara, della Gujarātī.
Caratteristiche del medio indiano. - 1. Accento. - È essenzialmente corrispondente, per la sede, al vedico, ma espiratorio.
2. Sistema fonetico. - A) Vocalismo: a) conservazione di a i u; b) sanscrito ṛ ḷ: pracr. a i u; p. es.: sanscr. vṛka- "lupo", ṛkṣa- "orso", vóddhi- "accrescimento", kḷpta- "fatto" pracr. vaka-, accha- e iccha-, vuddhi-, kilitta- e pāli kutta-; c) sanscr. e o (〈 *a + i, *a + u) si mantengono in pracr., ma spesso abbreviati e come semplici vocali, d) sanscr. ai, au appaiono in pracr. monottonghi e o e aï, aü: p. es., sanscr. Kauśambī, pracr. Kosambī. E così a sanscr. -aya-, -ava- corrispondono pracr. -e-, -o-; p. es.: sanscrito jayati "egli vince", avama- "inferiore": pracr. jeti, pāli oma- (cfr. lat. pauper, it. povero, sp. pobre, fr. pauvre, ecc.); e) vocale lunga dinnanzi a due consonanti si abbrevia; p. es.: sanscr. mārga- "via". pracr. magga-. Da tutte queste particolarità appare che il medio indiano ha perduto le ultime tracce del sistema vocalico indoeuropeo.
B) Consonantismo: a) le consonanti iniziali sono mantenute (come nelle lingue romanze), a eccezione di n, j, r, s, ś, ṣ, y che subiscono lievi alterazioni (ṇ, y, l, s, s, j); b) le occlusive mediane e y vengono generalmente elise; p. es.: sanscr. kṛta- "fatto", hódaya- "cuore", pibati "egli beve": pracr. kaa-, hiaa-, piai; o perdono, se aspirate, l'occlusione; p. es.: sanscr. yathā tathā "così come", pracr. jahā tahā, ecc.; alcuna volta s'indeboliscono sonorizzandosi; p. es.: sanscr. āgata- "venuto", pracr. āgada-, ecc. (cfr. lat. strata, it. strada, lat. ripa, it. riva, sp. riba, fr. rive); c) cons. finali di regola scompaiono; p. es.: sanscr. samantāt "d'ogni parte", dhik "maledizione!", pracr. samantā, dhī, ecc. (cfr. lat. amat. it. "(egli) ama", fr. aime). Rimangono solo le nasali, rappresentate dall'anusvāra; p. es.; sanscr. dānam, pracr. dānaṃ, ecc.); d) in tutti i dialetti si ha una tendenza a semplificare i gruppi consonantici; p. es.: sanscr. mukta- "lanciato", mārga- "via", pracr. mutta-, magga-, ecc. (assimilazione: cfr. lat. factum, medius, ipsu-, it. fatto, mezzo, esso, ecc.); sanscr. sthira- "saldo" pracr. thira-, ecc. Alcune volte si ha lo sviluppo di vocale protetica e di svarabhakti; p. es.: sanscr. sneha- "amore", nagna- "nudo", strī "donna", pracr. sineha-, nagina-, itthī (cfr. lat. schola, statu- it. iscuola, fr. été (esté), r. lat. asthma, it. ánsima, ecc.).
3. Morfologia. - A) Declinazione nominale: a) tre generi; b) numeri quasi del tutto ridotti a due, dato lo scarso uso del duale; c) semplificazione della declinazione consonantica a tutto vantaggio della vocalica in -a- e ciò in conseguenza della caduta della consonante finale nei varî temi e del largo uso di suffissi "pleonastici in -a-, che vengono aggiunti alla base senza alterarne il significato: -ka-, -da-, -alla-, -illa-, -ulla-, ecc.". Mantengono la loro forma originale i temi in -an-, -in-, -ant-, -as-; d) dei casi, il dativo è caduto in disuso in alcune forme di medio indiano.
B) Declinazione pronominale: notevole ricchezza di forme, ma grande alterazione e notevoli innovazioni a confronto dell'antico indiano; la declinazione dei dimostrativi e interrogativi ha conservato grande parte delle anomalie proprie già del periodo indoeuropeo.
C) Coniugazione: a) quasi completa scomparsa della coniugazione atematica (2ª coniugazione del sanscrito) e coniugazione di quasi tutti i verbi, per analogia, sulla classe prima; b) due coniugazioni, una in -a- vera e propria, l'altra in -e- (per il causativo, denominativo). Conservazione del desiderativo e del frequentativo; c) scomparsa quasi completa del medio, mantenimento del passivo; d) fra le forme temporali, caduto in disuso del tutto il perfetto; delle altre forme, specie del passato, rimasti residui; e) conservati tutti i modi rappresentati nel sanscr.; f) due verbi sostantivi: radici as e bhū, che formano, per di più, tempi perifrastici con participî (cfr. lingue europee); g) varie forme d'infinito, corrispondenti pure alle vediche; h) sopravvissute le forme note all'antico indiano di participio attivo, medio e passivo; i) finalmente formazione "dal tema del presente dell'aor., del fut., degl'infiniti, gerundî e participî (cfr. lat. amo amas, donde amavi, amatum)".
4. Lessico. - In proporzioni maggiori o minori, secondo le varie forme di medio indiano (massime nella Śaurasenī, il pracr. del Madhyadeśa) si può dire che il lessico di esse corrisponda a quello del sanscrito. Si può anzi affermare più esattamente che il lessico del medio indiano, come in generale quello delle lingue neo-indiane, ha per fondamento il lessico del periodo vedico. Ma di più, si hanno esempî di forme grammaticali di medio indiano "che ricorrono nel Veda e non nel sanscrito classico, e di altre (p. es. pracr. -hi, pāli -dhi, per la seconda pers. sing. imperat. cfr. gr. -ϑι) che risalgono addirittura al periodo indoeuropeo". Come le lingue neo-indiane, i pracriti posseggono vocaboli che, per la loro grande somiglianza a vocaboli sanscriti, sono chiamati dai grammatici tadbhava "aventi origine (a parer loro) da esso (sanser.)", altri che addirittura ricorrono identici nel sanscr. e che son perciò detti tatsama "simili ad esso (sanscr.)". E tali vocaboli sono realmente penetrati nel medio indiano e nei linguaggi neo-indiani per influsso del sanscr. letterario (cfr. l'influsso del latino intellettuale del Medioevo nelle lingue d'Europa: neo latino, germanico, slavo, ecc.), influsso provocato pure dalla ricerca di elevazione da parte dei pracriti stessi, divenuti lingue letterarie. Altri vocaboli proprî del medio indiano e del neo-indiano sono dovuti a provincialismi (deśī, deśya "dialetti regionali", che appartengono a pracriti primarî e spesso non del Madhyadeśa).
Neo-indiano. - Caratteristiche. - 1. Accento. - Accento d'intensità, debolissimo, che cade sull'antipenultima, se essa è lunga o breve e se la penultima è breve; sulla penultima se questa è lunga (cfr. lat. -́⌣⌣̲, ⌣́⌣⌣̲; ⌣̲-́⌣̲.). Il verbo è accentato nella sillaba radicale.
2. Sistema fonetico. - A) Vocalismo: corrispondente in generale a quello del medio indiano: a) vocali finali già molto indebolite, particolarmente in alcune forme di medio ind. (Kāśmīrī, Sindhī, Bihārī), cadute del tutto nel neo-indiano: p. es.: sanscr. devaḥ (devas, devo), medio ind. devo "signore", neo-ind. dev; b) qualche es. di caduta di vocale interna: es.: sanscrito āsana, singalese asna.
B) Consonantismo: a) semplificazione delle consonanti doppie, con allungamento, in generale, della vocale precedente: p. es.: sanscr. sapta "sette", pāli e pracr. satta, neo-ind. sāt (săt, hăt); hasta- "mano", pracr. hattha-, neo-ind. hāth; b) scomparsa delle occlusive intervocaliche, anche di quelle che hanno resistito nel medio indiano.
3. Morātīologia. - A) Declinazione: a) tre generi solo nella Gujarātī e nella Marāthī; nelle altre lingue neo-indiane due (maschile e femminile); o) due numeri (singolare e plurale); c) casi ridotti in generale a solo due (caso diretto, nom., e caso obliquo); la sola Marāṭhī ha qualche forma di più. Le relazioni espresse nelle lingue sintetiche dai casi obliqui sono fatte manifeste nel neo-ind. (lingue analitiche) per mezzo di posposizioni, i cui elementi somigliano in qualche modo alle nostre particelle: p. es. ghora "cavallo" (caso retto), ghore (caso obliquo); ker formatore del genitivo, ger del locativo (sanscr. gṛha- "casa", cfr. fr. chez): ghore ker "del cavallo", ghore ger "nel cavallo".
B) Coniugazione: a) riduzione di modi e di tempi: sopravvive il presente indicativo e imperativo e sporadicamente il futuro; ogni altra forma è ridotta perifrastica; b) frase nominale prevalente sulla verbale.
4. Lessico, - Tatsama scarsissimi nella Pañjābī, assai abbondanti invece nella Bengālī, abbondantissimi nella Hindī orientale. Inoltre elementi persiani e arabi in proporzioni diverse secondo i linguaggi, naturalmente in conseguenza della dominazione musulmana, sotto la quale il persiano era la lingua nobile e ufficiale. Notevoli pure gli elementi dravidici.
Linguaggi neo-indiani. - Possono essere raccolti anzitutto in tre rami: ramo iranico, ramo himalayano, ramo indoario.
I. Ramo iranico. - 1. Balūchan: lingua del Belūcistān (facente parte politicamente dell'India). Parlanti: 704.586. Piccola letteratura, consistente in massima parte di canti popolari, novelle, grammatiche, vocabolarî e traduzioni di varî libri della Bibbia; molte forme arcaiche conservate; sistema consonantico quasi dello stesso stadio del pahlavi medievale; 2. Ormurī o Bargista (centro dell'Afghānistān); 3. Pashto o Afgano.
II. Ramo himalayano. - Alle parlate del NO. si connettono numerosi piccoli dialetti himalayani, cui l'isolamento geografico e la mancanza di letteratura sono stati cagione che venissero differenziandosi non solo dall'indoario, ma pure tra loro. Essi sono denominati dal Grierson, forse impropriamente, "Piśāca moderni" e divisi in tre gruppi: 1. a O. le parlate del Kafiristan (Kāfir); 2. nel centro il gruppo Khovar, parlato nella valle del Chitral; 3. a E. il gruppo dal Grierson chiamato propriamente Dardico, parlato "più giù sull'Indo a Gilghit (Shinā), a Chilas e nel Kohistan (Kohistānī), sullo Swat e nel Kashmir (Kāśmīrī)". Più importante fra tutti la Kāśmīrī (parlanti 1.195.902), come quella che mostra una graduale trasformazione da lingua analitica in sintetica, che è ricca di elementi sanscriti, in conseguenza dell'immigrazione d'Indiani nella valle, che resero il Kashmir una delle sedi più celebri per lo studio del sanscrito (le più importanti opere sono scritte in sanscr.) e che è assurta a dignità letteraria (sec. XIV: Lallāvākyāni, "detti di Lallā", poetessa che scrisse in Kāśmīrī antica). La forma di essa usata dai musulmani è contaminata da parole persiane, spesso alterate.
III. Ramo indoario. - Comprende tre gruppi di linguaggi dell'India propriamente detta.
1. Gruppo occidentale. - a) Lahndā o Panjābī occidentale: lingua del Panjab occidentale, lungo il corso dell'Indo. Parlanti: 5.652.264. Si distingue in 22 varietà dialettali. Letteratura consistente di ballate e di canti popolari (esaltazioni di geste di celebri eroi dell'epica. genealogie di re, canti religiosi, di nozze, ecc.).
b) Sindhī: lungo il corso inferiore dell'Indo, dalla sua confluenza col Panjnad (regione del Sind). A N. coincide col Lahnda, col quale è strettamente connessa. I parlanti questa lingua raggiungono il numero di 3.274.319. Uno dei suoi pochi dialetti, il Laru, è assurto a dignità letteraria.
c) Gujarātī, confinante con la Sindhī a SE. Parlata, lungo la costa, nel Gujarat, a Baroda, a Surat da 9.551.992 individui. È la lingua dei Parsi. "Unica vera variazione dialettale della Gujarātī è costituita dalla differenza tra il parlare delle persone colte e quello delle incolte". Molte contaminazioni lessicali persiane e arabe nella G. dei Parsi e dei musulmani. Letteratura, dal sec. XV: poesia lirica, drammatica, epica; cronache, grammatica, retorica, ecc. Nel territorio, nel quale la Gujarātī si estende, è fiorita una grande civiltà. Esiste ivi la prima iscrizione sanscrita (di Aśoka a Girnar). Il jainismo vi ha, inoltre, sviluppato la sua letteratura pracrita" (grammat. di Hemacandra, sec. XII).
d) Rājasthānī (lingua del Rajputana, chiamato dal Tod Rajasthan, che col Gujarat ha comune la storia politica). Strettamente connessa con la Gujarātī. Parlanti 12.680.562. Molti dialetti, dei quali il più importante il Mārwārī (Rajputana occ.), nella cui forma, particolarmente, la Rājasthānī ha letteratura, consistente di cronache poetiche.
e) Marāṭhi: si estende dai pressi della colonia portoghese di Daman, a N. di Bombay, a S. fino ai confini meridionali del territorio linguistico indoario, e a E. penetra nelle Provincie Centrali, coincidendo con le lingue dravidiche Canarese, Telugu, Gond. Parlanti: 18.797.831. Ha qualche carattere fonetico che la distingue dalle altre forme d'indoario e che certo le proviene dal contatto con le lingue dravidiche. La lingua comune, assurta a dignità letteraria, è quella del Desh, la regione compresa tra i Ghati e la frontiera del Berar. Documenti epigrafici si hanno del sec. XII e una larga letteratura poetica religiosa visnuitica. Numerosi i dialetti, che variano in generale poco dalla lingua del Desh. Dagli altri si diversifica la Konkaṇī, dialetto della colonia portoghese di Goa.
2. Gruppo centrale. - a) Pañjābī: lingua del Panjab orientale-centrale e di territori confinanti. È la lingua dei Sikh, diffusa pure in altre parti dell'India e anche in Cina. Parlanti 16.233.596
b) Pāhārī: parlata nelle valli del Himālaya, dal Nepal, a E., a Bhadrawah, a O. Confina col dominio tibeto-birmano e si distingue in tre gruppi: orientale, centrale e occidentale. Parlanti complessivi: 1.916.483. La Pahārī orientale è detta Naipālī "lingua del Nepal", denominazione non giusta, ché la principale lingua del Nepal è la Newarī, lingua tibeto-birmana. Viene contaminandosi di voci tibeto-birmane.
c) Hindī occidentale: s'estende dalla frontiera del Panjab a Cawnpore e occupa il territorio noto agli antichi col nome di Madhyadeśa "il paese di mezzo" (v. sopra). Parlanti: 41.210.916. Comprende varî dialetti: Braj Bhākhā, Kanaujī, Bundelī e Hindustānī; il primo, detto anche Antarbedī, ha aspetto arcaico ed è diretto discendente della Śaurasenī; conta una ricca letteratura dal sec. XII. Di gran lunga più importante fra tutti è la Hindustānī, la lingua originale del Doab gangetico superiore, divenuta poi, con qualche adattamento lessicale, la lingua parlata (lingua franca) dell'India, particolarmente settentrionale. Il nome Hindustānī è di conio europeo e non è usato dagl'indigeni che sotto l'influenza europea. Come lingua comune, la Hindustānī è sorta nel bazar annesso alla corte di Delhi (Urdū e-mu'alla) e fu diffusa in ogni parte dell'India da rappresentanti del Mogol. Fra i suoi varî dialetti (Urdū, Rēk???ñta, Dakhinī, Hindī) hanno maggiore importanza l'Urdū e l'Hindī. L'Urdū è il linguaggio dei musulmani e degl'Indù soggetti alla cultura persiana nelle città del Hindostan occidentale. Il lessico ha subito col tempo notevoli contaminazioni di vocaboli persiani e arabi. La Hindī propriamente detta (il nome è di conio persiano e vuol designare "un nativo dell'India, distinto dall'Indù, o Indiano non musulmano" è di creazione recente (principio del sec. XIX), in seguito all'influenza inglese; prima non si usavano nella prosa scritta che i parlari locali. Si tratta dunque di una reazione contro l'Urdū, per la quale, in conseguenza dell'accennata innovazione, la Hindī poté divenire comunemente intelligibile e diffondersi in larghissimo territorio.
d) Hindī orientale: si estende da Cawnpore a Benares, regione ove nacque Rāma, l'eroe nazionale indiano, e in cui Mahāvīra l'ultimo Jina (v. jainismo), predicò il suo verbo e dove l'Ardhamāgadhī ebbe origine e sviluppo. I parlanti della Hindī orientale sono 22.567.882. Dei suoi tre dialetti (Awadhī, Baghelī, Chattisgarhī) più importante è l'Awadhī.
e) Bihārī: parlata nel Bihar e in luoghi confinanti da 3.700.000 individui. Dei suoi tre principali dialetti (Maithilī, Magahī, Bhojpurī) solo il primo ha letteratura, sebbene scarsa, risalente al sec. XV.
3. Gruppo orientale. - Comprende tre linguaggi: Bengālī, Oriyā e Assamese. - a) Bengālī: lingua del delta gangetico. Parlanti: 49.294.099. Confina a N. e a E. con le lingue tibeto-birmane e con l'Assamese. La lingua letteraria è notevolmente distinta dalla parlata, per contenere, a differenza di questa, molti vocaboli sanscritizzati e forme grammaticali sanscrite. Si hanno contrazioni, nella lingua parlata, di sillabe nella parola e conseguente difficoltà alla comprensione di esse, anche per particolari difficoltà di pronunzia dei gruppi consonantici e pur di consonanti semplici da parte dei parlanti. La letteratura bengālī, la più ricca, più notevole per contenuto artistico e per vigore e la più popolare d'ogni altra, risale al sec. XI. Il lessico della Bengālī è ricco pure di prestiti hindālī.
b) Oriyā: lingua dell'Orissa. Parlanti: 10.143.165. Lessico contaminato da parole telugu, col quale linguaggio confina al S. Primi documenti, epigrafici, del sec. XIII. Letteratura fatta di poesia religiosa, particolarmente devota al culto di Kṛṣṇa.
c) Assamese: lingua della valle del Brahmaputra. Parlanti 1.717.528. È circondata per ogni parte da lingue tibeto-birmane, fuorché a O., ove confina con la Bengālī. Ha una letteratura che risale al sec. XV, particolarmente notevole, oltre che per poesia religiosa, drammatica, trattati di medicina, versione del Mahābhārata e Rāmāyana, ecc., pure per opere di storia, genere questo quasi del tutto mancante nella letteratura indiana (eccezione, le cronache del Rajputana, v. sopra, Rājasthānī). L'Oriyā e l'Assamese si differenziano pochissimo dalla Bengālī.
4. Singalese. - Lingua indoaria parlata nella parte meridionale dell'isola di Ceylon e nelle isole Maldive da 3.500.000 individui. È connessa con le lingue dell'India occidentale. Primi documenti, conservatici, del sec. X. La tradizione buddhistica afferma che il commento pāli di Buddhaghoṣa del sec. V fu tradotto dal singalese.
5. Zingaresco. - È l'indoario del gruppo NO. trasportato oltre i confini dell'India da immigrazioni di nomadi attraverso la Persia e l'Armenia, sino alle regioni dell'Europa occidentale (v. zingari), notevolmente modificato per via.
Scrittura. - Per le lingue indoarie si sono avuti anzitutto sin dal sec. III a. C. due alfabeti ambedue di origine semitica: l'alfabeto Brāhmī (sottinteso lipī "[scrittura] di Brahmā"), dal quale è derivata la scrittura Nāgarī o Devanāgarī "della città degli dei" (v. sopra, e epigrafia: Epigrafia indiana, XIV, p. 69) di uso comune nell'India, fuorché nel Deccan, per l'antico e medio indiano e per la Hindī e, alterata, per numerosi altri linguaggi indoarî moderni; l'altro è l'alfabeto Kharoṣṭhī o Khaṣṭrī (NO.), che, diversamente dal precedente, si legge da destra a sinistra. Col tempo, sotto l'influsso della religione e cultura musulmana, è stata introdotta per l'Urdū la scrittura arabo-persiana.
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Letteratura.
Ambito e distinzione della letteratura indiana. - Nel 1785 l'Europa acquistava la prima notizia diretta dell'antica letteratura dell'India dalla versione del poema filosofico Bhagavadgītā ("Il conto del beato") pubblicata da C. Wilkins, giovine commerciante inglese, sotto gli auspici di W. Jones, che a Calcutta nel 1783 aveva fondato la Reale Società Asiatica, col proposito d'investigare per essa ogni possibile manifestazione del pensiero dell'India e di creare un centro al quale si sarebbero volti e da cui si sarebbero irradiati gli effetti della perspicua e diligente attività dei nuovi cultori. S'iniziavano così, su basi sicure, quelle indagini che avrebbero dovuto col tempo rivelare all'Occidente, assai meglio di quanto non fosse avvenuto prima di allora per opera di mercanti europei o di missionarî, ogni possibile aspetto della vita e dello spirito di uno dei popoli più intellettuali dell'umanità. E col progresso di tali indagini si poté ottenere in tempo relativamente breve la conoscenza di una letteratura religiosa propriamente detta, tra le più grandi che l'umano spirito abbia prodotte e pur tra le più varie, come quella che aveva dato forma a concezioni politeistiche e panteistiche (che si trovano in "inni, canzoni sacrificali, canti magici, leggende, sermoni, trattati teologici e dissertazioni, compendî di rituale e di regola religiosa"), alla gigantesca letteratura canonica ed extra-canonica del buddhismo (pāli e sanscrito), a quella dei jaina, e a tutti quei componimenti diretti a esaltare ogni ulteriore fase religiosa dell'India. E concezioni filosofiche disparate e profonde apparvero trattate nell'India, e un'epica smisurata e una letteratura novellistica senza confine; poesia gnomica, specchio dell'anima universale del suo popolo, lirica soavissima, drammatica vigorosa e multiforme. E oltre ad esse, una scienza grammaticale, concepita con tale acutezza d'indagine, da poter divenire sicuro fondamento al sorgere della modernissima glottologia comparata. E di diritto, medicina, matematica, astronomia, architettura e delle varie arti (poetica, drammatica, musicale, ecc.) si rinvennero manifestazioni larghe e profonde, e commenti ai più diversi generi letterarî, compilati qualche volta dagli autori stessi. Né soltanto entro i confini dell'India risultò essersi contenuto il pensiero indiano nella sua produzione più che trimillenare, ché se ne trovarono ampî e sicuri influssi pur presso popoli d'Asia, vicini e lontani (Tibet, Indocina, Cina, Giappone, Malacca, Asia centrale), e pure d'Europa. Alla mancanza d'una storiografia vera e propria nella letteratura dell'India antica suppliscono le iscrizioni su rocce, su tavole di metalli e su monete, iscrizioni sparse, numerosissime, per ogni parte dell'India, genealogie di maestri e liste di re (v. appresso: Letteratura classica). Tale mancanza costituì e costituisce, nondimeno, una grave lacuna nelle espressioni del pensiero indiano, perché impedisce di fissare, alle volte anche approssimativamente, la cronologia della storia politica e letteraria dell'India: non solamente, infatti, avvenimenti storici, ma anche dati biografici furono rivestiti di leggenda pur con trattazioni epiche, o con esaltazioni di poeti di corte.
Ma caratteristica peculiare della produzione letteraria del popolo indiano fu lo spirito religioso, del quale essa fu sempre ed è pur oggi pervasa. Tutta la storia del pensiero dell'India, si può difatti definire storia del suo spirito religioso. Parlare, perciò, di letteratura profana, quale noi l'intendiamo (filosofia, arte, scienza) non ha, come fu ben asserito, grande valore per l'India, nella quale la grande epopea nazionale, la cui composizione definitiva è posteriore di molti secoli (1500 anni almeno) a quella dei Veda, è attribuita al compilatore mitico dei quattro Veda stessi; in cui "ogni composizione drammatica comincia e finisce con una preghiera; nella quale, a descrizioni e considerazioni erotiche, seguono esaltazioni dell'ascetismo e meditazioni sullo Spirito supremo".
L'accennata impossibilità di un'esatta determinazione cronologica della storia letteraria dell'India impedisce di comprendere entro periodi sicuramente delimitati le varie fasi del suo sviluppo. L'essere, poi, importantissime differenti manifestazioni del pensiero indiano apparse anche in lingue diverse, ma pur parallele e contemporanee oppure riproducenti in opere relativamente tarde concezioni di alta antichità, obbliga a far distinzione, più che per ciascun periodo di tempo, per diverso ambito di pensiero. Si può pertanto ripartire la letteratura indiana nei seguenti periodi letterarî (determinati del resto non solo dalle concezioni particolari a ciascuno di essi, ma, in parte, pur da diversi stadî linguistici e metrici): I. Letteratura vedica; II. Letteratura postvedica: A) Epica e Purāṇa; B) Letteratura buddhistica e jainica; C) Letteratura filosofica; III. Letteratura classica. Quanto alle letterature in linguaggi neo-indiani, v. neo-indiane, letterature.
Letteratura vedica. - Col termine "letteratura vedica" (Veda "scienza", il "sapere per eccellenza" cioè "il sapere sacro, religioso") si deve intendere tutto quell'insieme di testi sacri, che costituiscono, oltre che i primi documenti, generalmente poetici, del pensiero religioso indiano (e insieme della famiglia indoeuropea), pur tutto quanto ad essi strettamente si connette (illustrazioni liturgiche, esegetiche, teologiche, per massima parte in prosa, e filosofiche), i quali testi tutti riflettono idee risalenti a tempo di gran lunga più antico di quello nel quale essi vennero composti e poi redatti, e stanno a fondamento del sapere brahmanico. Tali manifestazioni religiose, trasmesse per lunghi secoli oralmente, furono dagl'Indiani considerate canoniche (giunte cioè a loro conoscenza per rivelazione divina: śruti, letteralmente "l'udire", cioè "audizione divina"), pur non essendo fissate in un canone vero e proprio, come avvenne per le scritture sacre jainiche e buddhistiche, il cui canone fu determinato in particolari concilî.
Costituiscono la letteratura vedica diverse specie di testi, che si possono così distinguere:
1. Le Saṃhitā o "collezioni" d'inni (chandas) e di mantra, preghiere, formule magiche, invocazioni benedettive, formule sacrificali, sequenze in prosa, scongiuri, da recitarsi o mormorarsi, durante il sacrificio del soma e in servigio di esso. È questo il periodo della produzione creativa, il cui più antico documento, il Ṛgveda, o "Veda [scienza] delle stanze laudative" (Ṛgveda saṃhitā), può essere (ipotesi questa, fra le molte disparate, la meno improbabile) assegnato a un periodo di tempo compreso fra il 1500 e il 1200 a. C. Le altre tre raccolte, di età diverse e posteriori, portano rispettivamente il titolo di Yajurveda-saṃhitā, Sāmaveda-saṃhitā, Atharvaveda-saṃhitā, ove Yajurveda significa "Veda delle formule sacrificali" (yajus), Sāmaveda "Veda delle melodie" (sāman), Atharvaveda "Veda delle formule magiche (atharvan)".
2. I Brāhmaṇa, voluminosi trattati liturgici, quasi interamente in prosa, in cui il rituale del sacrificio è dichiarato in ogni suo più minuto particolare, e in cui si dà notizia dell'origine, dell'importanza, del significato dei varî riti del sacrifizio stesso. Il tempo di composizione di essi è probabilmente fra il 1000 e l'800 a. C.
3. Gli Āraṇyaka "Testi della selva": opere teologiche, ritualistiche, connesse ai Brāhmaṇa, quali loro integrazioni e ad essi molto simili, da studiarsi e meditarsi nella solitudine della selva.
4. Le Upaniṣad, "Testi di dottrina arcana" connesse agli Āraṇyaka, meditazioni sull'Essere supremo, sull'Io e sul mondo esterno, ultima parte del Veda (Vedānta), ma prodotto di tempi diversi. Costituiscono i primi documenti del pensiero filosofico indiano. Se ne contano ben 170 (800-500 a. C.).
Ogni Brāhmaṇa, Aranyaka e Upanisad, si collega a una o a un'altra delle Saṃhitā vediche: ogni Saṃhitā vedica, cioè, possiede i suoi proprî Brāhmaṇa, o āraṇyaka o le sue proprie Upaniṣad.
5. Alla letteratura vedica si connettono inoltre, pur non facendone strettamente parte, ma, come fu ben detto, quali anelli di congiunzione fra la letteratura vedica e la classica, varî trattati, considerati complessivamente Vedāṇga "Membra del Veda" o "Scienza ausiliaria del Veda", la cui data di elaborazione può esser supposta fra il 500 e 200 a. C. Sono questi i Sūtra, raccolte di brevissimi aforismi (sūtra "filo" - dalla radice siv "cucire" - poi "regola") da mandarsi a memoria, aforismi diretti non solo a coordinare, dandone un'esegesi minuta e sistematizzatrice, i riti e i costumi noti per opera dei Brāhmaṇa e della tradizione in genere, ma pure a insegnare la giusta lettura e la retta interpretazione dei testi vedici. Una prima categoria di Sūtra è costituita dal Kalpa-sūtra "il Sūtra delle cerimonie" (kalpa), che comprende una prima sezione concernente le norme regolatrici del rituale dei sacrifici solenni, quelli celebrati dinnanzi a due o più sacerdoti (Śrauta-sūtra "regole relative alla dottrina rivelata"), e una seconda (Smārta-sūtra "regole concernenti la dottrina giunta per tradizione") comprendente a sua volta tre sottosezioni: una di aforismi domestici (Gṛhya-sūtra), relativi a cerimonie e a sacrifizî più modesti e più semplici da compiersi in occasione di avvenimenti familiari (nascite, matrimonî, morti, ecc.); un'altra di aforismi di genere sociale e giuridico (Dharma-sūtra), che certo costituiscono la fonte del diritto indiano; e una terza, chiamata Śulvasūtra "regole della corda", concernente le norme per prendere con la corda (śulva) la misura per costruire gli altari (vedī) del sacrificio. Alla seconda categoria di Sūtra, gli esegetici, appartengono altri cinque temi di trattazione: fonetica Śiṣkā), metrica (Chandas), grammatica (Vyākāraṇa), etimologia (Nirukta), astronomia (Jyotiṣa).
Tutti questi testi, pur riferendosi in parte, specie i primi, ad argomenti sacri, vennero considerati dagl'Indiani non come prodotti di rivelazione (śruti), ma come opera umana, cioè avutisi per tradizione (smṛti "memoria" poi "tradizione sacra").
1. Le Saṃhitā vediche. - a) Ṛgveda. - Nell'unica recensione fissatasi nella scuola (śākhā) dei Śākala, nel 600 a. C. e giuntaci quasi invariata, per tradizione orale di molti secoli, il Ṛgveda consta di 1028 inni, compresi gli undici cosiddetti Vālakhilya "supplementari" (VIII, 49-59: aggiunti certo posteriormente alla composizione della saṃhitā). Gl'inni sono raccolti in 10 maṇḍala "cerchi, cicli" di rispettivamente 191,, 43, 58, 87, 75, 104, 103, 110, 191 inni (sūkta), di complessivi 40.000 versi, di cui 5000 ripetuti. Un'altra disposizione, fondata sulla eguale ampiezza delle sue parti, divide il Ṛgveda in otto aṣṭaka "ottavi", ciascuno di un numero d'inni quasi eguali, i quali constano alla loro volta di otto adhyāya "lezioni", divisi ciascuno in varga "porzioni". Agl'inni è attribuita in lunghe liste (anukramaṇī), o nell'interno di essi, una diversa paternità, secondo i varî libri che li contengono: i libri II-VIII, i più antichi di tutto il Ṛgveda, sono detti "libri di famiglia", perché a un'unica famiglia di poeti (ṛṣi "veggenti, profeti") vengono rispettivamente assegnati: il II ai Gṛtsamada, il III ai Viśvāmitra, il IV ai Vāmadeva, il V agli Atri, il VI ai Bharadvāja, il VII ai Vasiṣṭha.
Nulla si sa di queste famiglie: forse si tratta di nomi tratti dal capostipite di esse, o addirittura mitologici. Analogamente a questi libri, la parte del libro I, inni 51-191, è attribuita a 9 famiglie di cantori, mentre gli altri inni dei libro I (1-50) e quelli dei libri VIII, IX, X, sono attribuiti ad autori diversi, anche donne, e pure a divinità, a semidivinità (apsaras) e persino a concetti astratti come la collera (manyu) e il sacrificio (yajña). Oggetto dell'inno è di accompagnare il sacrificio, per impetrar grazie dagli dei; il sacerdote è nel Ṛgveda chiamato hotar "sacrificatore, invocatore".
La lingua del Ṛigveda, pur rappresentando il più antico stadio linguistico documentato ario-indiano (v. sopra: Lingue), ci lascia apparire, nondimeno, particolarità che dimostrano età differenti di composizione delle varie parti della raccolta. Fra tutti i libri, parte del I e il X presentano caratteri di minore arcaicità; il IX, che per la materia risale ad alta antichità, contiene pure esso, in confronto ad altri, inni di più recente data.
La metrica, a differenza di quella che darà forma alle opere poetiche del periodo epico e classico, si può dire quasi interamente fondata sul numero delle sillabe: i versi (pāda) di 4, di 5 e più generalmente di 8, 11, 12 sillabe, con tendenza quantitativa che verrà sempre più affermandosi nel più tardo periodo vedico (per quelli di 8 a un'uscita digiambica e per quelli di 11 e 12 a un'uscita ditrocaica) sono raggruppati in strofe (rc) di 3, 4, 5 pāda, dette, rispettivamente, gāyatrī, anuṣṭubh, paṅkti, nel caso di pāda di 8 sillabe (3 × 8,4 × 8,5 × 8); e in strofe di 4 pāda nel caso degli endecasillabi e dodecasillabi, dette rispettivamente triṣṭubh (4 × 11), jagatī (4 × 12). Alcuni di questi metri verranno continuati e sviluppati con base sillabico-quantitativa nel periodo epico e classico, la strofe anuṣṭubh diverrà lo śloka, il famosissimo e usitatissimo metro dell'epica (4 × 8); la triṣṭubh e la jagatī s'irrigidiranno, rispettivamente, nell'indravajrā-upendravajrā (11 × 4) e nell'indravaṃśā-vaṃśasthā (12 × 4). Degli altri pāda non rimarrà traccia, mentre altre forme sillabico-quantitative o puramente quantitative, completamente estranee alle forme metriche vediche, si affermeranno e si svilupperanno in numero notevolissimo. Il numero delle strofe contenute in ciascun inno varia da un minimo di 3 a un massimo di 58, con una media da 10 a 12, per un totale complessivo di 10.600 strofe.
Le divinità alle quali gl'inni vengono rivolti e in rapporto alle quali appaiono rispettivamente raggruppati, sono, in ordine decrescente di essi, Indra, Agni, Viśve Devāḥ "tutti gli dei", i Marut, ecc.; il libro IX contiene invece inni d'indole particolarmente liturgica, tutti diretti a celebrare Soma, personificazione divina della bevanda inebriante, tratta dal succo dell'Asclepias acida, bevanda gradita agli uomini e agli dei, sin dal periodo indo-iranico (scr. soma; iran. haoma), che ha sede per gl'Indiani nella luna (chiamata appunto Soma, non solo nella letteratura sanscrita, ma pur nel Ṛgveda, o Indu "gocciola d'oro del cielo"), bevanda eccitatrice, negli uomini e negli dei, di ogni migliore energia spirituale e materiale. Di qui la certezza dell'alta antichità originaria degl'inni stessi, la cui materia risale appunto al periodo indo-iranico. Anche i libri I e VIII contengono inni rivolti a Soma, e offrono, con quelli del IX, materia all'Atharvaveda. Accenni cosmogonici, filosofici, ritualistici, ecc. sono invece contenuti nel libro X, fra tutti il più recente. Anche diesso, numerosi versi appaiono nell'Atharvaveda.
Laddove i dati linguistici e metrici giovano a darci idea certa della maggiore antichità del Ṛgveda in confronto di ogni altra opera della letteratura epico-classica indiana, accenni, contenuti negl'inni, alle condizioni fisiche, alla flora, alla fauna, alle condizioni politiche e sociali del paese nel quale essi vennero certamente composti e da essi chiaramente determinato, ci illuminano, sia pure approssimativamente, sul tempo di composizione del Ṛgveda.
Mentre difatti ricorre in questo più volte il nome del fiume Indo (Sindhu) e dei suoi 5 affluenti (Pañcanada "paese dei cinque fiumi" sarà chiamata, dal periodo epico in poi, la regione da essi bagnata, odierno Panjab), due sole volte, e indirettamente, è ricordato il Gange, il fiume che tanto grande parte avrà in tutta la storia religiosa e poetica dell'India; così si parla del Himālaya una sola volta (Ṛgv., X, 121, 4) e poche volte nell'Atharvaveda, né mai del mare; si adombra nelle lotte tumultuose d'Indra, e nel furioso procedere dei Marut, l'impetuoso periodico scatenarsi degli uragani nel Panjab orientale; non si accenna alla tigre, la cui patria è il Bengala, solo due volte all'elefante, una volta alla scimmia; nulla del Nyāgrodha (Ficus indica), albero celebrato dagl'Indiani e a loro tanto caro, nulla del loto, il fiore che più di ogni altro ricorre, per immagini, similitudini e altro, in tutta la letteratura indiana; nulla del riso; accenni invece ricorrono alla betulla; pochi all'agricoltura e più all'allevamento del bestiame, nel quale la vacca tiene il primo posto per i suoi prodotti, che costituiscono il primissimo, essenziale nutrimento dell'uomo: anche il cavallo, per i servizî che offre in guerra e nelle gare, appare tenuto in pregio. Sicure allusioni si hanno a una società di guerrieri, di preti, di commercianti, di lavoratori (fabbri, falegnami, carradori, tessitori, lavoratori di metalli, conciatori di pelli), retta da un capo (ereditario o elettivo), accanto al quale sta un sacerdote domestico (purohita), società vivente in villaggi aperti e pronta a ritirarsi sulle alture, nel caso d'invasioni e di lotte; accenni a guerra contro venti dalla pelle nera, i dasyu o dāsa (gli autoctoni, o almeno i precedenti abitatori di quelle contrade, i Dravidi), per strappar loro territorio e bovi; ad ampie e opulente offerte agli dei per ottenere da essi tutto quanto alla prosperità della vita si addice: oro, vittorie sui nemici, ricco bottino, lunga vita, figli maschi che possano continuare la stirpe. Manca invece nelle parti più antiche qualsiasi determinata allusione alle caste, dalla cui esistenza dipenderà e dipende tuttora il destino dell'India, e alla dottrina della retribuzione delle opere (karman) e del conseguente peregrinare, con la rinascita, nell'interminabile trasmigrazione (saṃsāra), cardine questo di tutta la vita spirituale del popolo indiano sin da antichissimi tempi.
Tutto ciò, cui vanno aggiunti gli elementi linguistici e culturali che strettamente connettono il Ṛgveda al primissimo monumento della civiltà iranica, l'Avesta, fa riportare la materia del Ṛgveda stesso al tempo delle immigrazioni degli Arî, dopo che parte di questi, staccatisi dai loro fratelli, i futuri Irani, membri tutti della grande famiglia indoeuropea, valicato l'altipiano del Hindu-kush, penetrarono in varie migrazioni nell'India e si stanziarono anzitutto nel Panjab orientale, nelle vicinanze dell'odierna Ambala (Umballa), delle cui caratteristiche fisiché il Ṛgveda ci dà cenno. Non dunque civiltà indiana propriamente detta e quale la tradizione ce l'ha fatta conoscere con le sue concezioni spirituali, con le sue immagini, col suo pessimismo, con i suoi usi sociali, ma civiltà vedica, cioè dei piu antichi Indoarî. E poiché le prime immigrazioni degli Arî si sogliono per molte ragioni (v. indoeuropei) supporre avvenute nel secondo millennio a. C. così a un tempo tra il 1500 e 1200 a. C. par oggi giusto, nell'opinione dei più, assegnare la composizione del Ṛgveda. Ogni altra ipotesi che lo fa retrocedere al IV, V, VI millennio a. C. va respinta. È poi da supporsi ragionevolmente che i vari inni dapprima siano stati trasmessi dalla tradizione orale come opere di singole scuole e, per così dire, disperse e abbiano solo col tempo costituito un corpus, una collezione (saṃhitā), la cui redazione, quale ci è giunta, si deve ammettere appunto definita nel sec. VII a. C., contrariamente all'opinione dei primi entusiasti esegeti europei. Perciò, dunque, e per la loro forma e contenuto - altissimi spesso l'una e l'altro per arte e per concezioni spirituali, pur fra ripetizioni e scorie o allusioni interessate di sacerdoti avidi - debbono gl'inni del Ṛgveda essere considerati un prodotto non d'ingenua poesia primitiva, ispirata "da spontanea ammirazione della natura", ma di una elaborazione millenaria, i cui inizî vanno fatti retrocedere nella preistoria, ma venuta lentamente svolgendosi sul fondamento della pratica sacrificale, che si deve considerare il centro della vita religiosa rigvedica e che avrebbe raggiunto col tempo un'incredibile complessità. Non punto di partenza dunque, ma di arrivo.
Le divinita esaltate e invocate dagl'inni del Ṛgveda sono, per la massima parte, personificazioni dei fenomeni naturali, che, come ad ogni altro popolo della più remota antichità, tanto dovevano essersi imposti allo spirito degli antichissimi Indoarî (dei 1028 inni, 747 sono rivolti a divinità di tale specie), personificazioni più o meno trasparenti, secondo che abbiano mantenuto nel dio le caratteristiche originali o altre ne abbiano assunte col tempo, ottenendo per esse quasi individualità indipendente. A tali divinità sono venute aggiungendosi col tempo altre, o per creazione di nuovi esseri divini da ciò che prima non era che una qualità di alcuni di quelli già noti (ad esempio Savitar "l'eccitatore", Vivasvant "il lucente", tutti epiteti del sole - Sūrya -, divenuti poi singoli dei solari; Tvaṣṭar "il costruttore", epiteto certo di qualche altra divinità, assurto a indicare l'architetto degli dei; Dhātar "il creatore" e più tardi ancora Prajāpati "il signore delle creature") o per divinizzazione di concetti astratti (Śraddhā "la fede", Manyu "l'ira", Tapas "l'ardore della penitenza", ecc.). Altre divinità pure antichissime, traggono origine dal tempo della comunità indo-iranica: ad esempio Mitra, divinità solare, che corrisponde al Mithra iranico, Soma al Haoma iranico, ecc. Gli dei, che pur essendo immortali non esistono ab aeterno; che hanno tutti aspetto umano (ad eccezione di Pṛśnī - la madre dei Rudra - "la screziata", che ha forma di vacca, e di qualche divinità minore, dal corpo di serpe o di capro); che non son regolati da gerarchia, vengono distinti nel Ṛgveda stesso (1, 139, 11) in tre gruppi: celesti, atmosferici e terrestri, comprendenti 11 dei ciascuno, a seconda, appunto, che questi abbiano sede nel cielo (dyu), nell'atmosfera (antarīkṣa), nella terra (pṛthivī; dyusthāna, antarīkṣasthāna, prthivīsthāna li chiama, appunto, il commentatore Sāyaṇa, cioè aventi sede, sthāna, nel cielo, ecc.); 33 dunque in tutti, numero questo accolto pur dalla tradizione, sebbene l'assegnazione ai singoli gruppi differisca per nomi e numero secondo i testi e l'uso.
Fra gli dei celesti Uṣas, l'Aurora, è celebrata da 20 inni, ben a proposito giudicati veri gioielli di poesia lirica. Figlia del cielo, essa è la fulgida apportatrice della prima rosea luce del giorno, che gli esseri tutti risveglia e muove a pensieri giocondi, sorridendo loro come bellissima donna. Essa è l'antica ma pur sempre giovane peregrina del cielo, ché sempre rinasce (I, 92). Varuṇa e Mitra sono esaltati come i più potenti fra i figli di Aditi, l'eterna e veneranda madre degli dei, signore l'uno del cielo splendente di luce del giorno, l'altro del firmamento avvolto di tenebre, rotto soltanto dal tremulo scintillio delle stelle (I, 115, 4-5). Abedue, supremi signori del mondo, lo reggono, sapienti, ed effondono, essi, di cui l'occhio è il sole (VII, 63,1), la pioggia benefica e altri doni graditissimi agli uomini (V, 63); ma sapientissimo è Varuṇa, dal quale emana l'ordine dell'universo (Ṛta), cui è nota la via degli uccelli che volan per l'aria, della nave che solca le acque, che conosce la via del vento, il passato e l'avvenire (I, 25, 7-13), che dall'alto vede, comprende, intuisce ogni più recondito movimento degli uomini, che vigila sulla loro anima, che punisce il mendace e ogni altro colpevole. Sulla cima degli alberi egli ha distesa l'aria, alla vacca ha donato il latte, nei veloci destrieri ha infuso l'ardore della vittoria; al cuore ha dato il palpito del sentimento; sotto l'acqua ha posto il fuoco che si sprigiona dalla terra, nel cielo il sole, il soma sulla montagna (V, 85, 2). Trentasei inni, ricchi di alti concetti, dedica il Ṛlgveda a questa potente divinità, di essenza etica. - I due Aśvin, gli agili cavalieri fratelli, certo connessi con i Dioscuri greci, rappresentano o il cielo e la terra, o il giorno e la notte, o la stella del mattino e della sera, o il sole e la luna, ecc. - Altra divinità celeste cantata dagl'inni è Sūrya "il sole", pur nelle sue ipostasi Savitar, Pūṣan, Viṣṇpu (complessivamente, 35 inni).
Degli dei atmosferici il principale è Indra, forte, violento, bellicoso, il dio - per eccellenza - nazionale dell'India vedica, colui alla cui nascita tremano il cielo, la terra (IV, 17, 2), al quale in ben 250 inni, più cioè che a qualsiasi altra divinità, rivolge il vate vedico le sue lodi. D'incommensurabile ampiezza, così da occupare col suo corpo lo spazio terrestre e da premere con esso, al disopra, le regioni celesti (I, 81, 5), tale che se le due metà del mondo, incommensurabili, egli stringesse, formerebbero per lui una manciata (III, 30, 5); cui la terra fa da cintura, il cielo da turbante (I, 173, 6), Indra raccoglie in sé ogni più grande energia. Nell'ampio ventre porta il soma che lo inebria e lo eccita alle grandi imprese, nel corpo la forza più grande, nella mano il dardo invincibile, nel capo il vigore della sua intelligenza. Incessantemente esaltate sono le sue terribili lotte col drago Vrtra, che egli riesce sempre ad abbattere, lotte che adombrano i violenti, strepitosi uragani che ristorano la terra da troppo lunga arsura, o, con lo scioglimento delle nevi, la liberazione delle acque dei fiumi, non meno benefiche, rinserrate durante la magra invernale nelle viscere delle montagne. Ed esaltate sono le conquiste sui Paṇi, delle aurore cioè sepolte sotto le oscure rocce del cielo notturno, o sugli avari che negan mercede di armenti e di doni al sacerdote sacrificante. Egli crea il sole e l'aurora (II, 17, 7), vince i nemici degli Arî e dona a questi la terra da loro agognata. A lui s'accompagnano i Marut, figli di Rudra, personificazioni del turbinare degli uragani. Ad essi e a Parjanya, il dio della pioggia, a Vāyu e a Vāta, altri venti, il Ṛgveda dedica complessivamente 36 inni.
Principalissimi fra gli dei terrestri sono Agni, che il Ṛgveda esalta con 200 inni, e Soma, cui quasi tutto il libro IX è dedicato, con 120 inni complessivi. Agni è il dio dai capelli d'oro, il messaggero divino che dalla terra, porta al cielo, agli dei, le offerte degli uomini; che colma gli uomini delle grazie del focolare domestico e del fuoco sacrificale, li libera da spiriti mali che fuga e distrugge. È agli uomini ognora presente nella molteplice sua natura: dal cielo, nel sole; dall'aria nella folgore, che guizza dall'umida nube e sulla terra e nelle piante, nel fuoco delle legna, delle pietre, e pur negli animali. È l'amico del vento.
Oltre agli dei maggiori, sono nel Ṛgveda celebrati, spesso con alta poesia, semidei e genî, concetti astratti e altro: i Ṛbhu, genî dell'aria, i Gandharva, spiriti dei boschi e delle selve, Manyu "l'ira", Vāc "la parola", le acque, la notte. Altri inni si hanno, poi, composti a puro fine rituale, vere e proprie monotone litanie laudative di una o di un'altra divinità o addirittura di tutte insieme, aride invocazioni del sacerdote sacrificante per ottenere dagli dei fortuna, benedizione, bestiame, ricchezze o per pregare l'uno o l'altro di essi a condurre gli dei "ad assistere al sacrificio".
D'indole diversa da quella degl'inni che costituiscono la massima parte della raccolta, sono 20 inni circa in forma di dialogo (saṃvāda), che si possono considerare come fonte della poesia epica e drammatica, e canti nuziali con relativi esorcismi contro coloro che potessero nuocere alla sposa, e canti magici in genere, strofe augurali e benedettive, canti di guerra; altri di carattere tutt'affatto mondano, agili e non privi d'umorismo, come il canto sulla varietà dei gusti (IX, 112), o in cui le immagini vivono e palpitano e cozzano in forti contrasti, come quello del giocatore (X, 34). E non mancano i canti funerarî, rivolti a Mṛtyu "la Morte", per scongiurarla di venire il più tardi possibile; ad Agni per pregarlo di non straziare il corpo del cadavere composto sul rogo, ma di purificarlo e di portarlo agli dei; ai Pitaraḥ "Mani"; a Yama, il re dei morti. Finalmente in altri inni il vate non chiede più agli dei che gli concedan grazie, perché possa aver lieta la vita; ma appare preoccupato e fisso nell'indagine e nella soluzione di ben alti misteri. Sono questi gl'inni contenuti particolarmente nel X libro, di soggetto filosofico e cosmogonico. La preoccupazione dell'origine del mondo e della vita (X, 90, 121, 190), dell'immortalità dell'anima e del suo destino; i dubbî sull'unità o pluralità degli dei o, addirittura, sulla loro stessa esistenza (X, 121) e sul valore del sacrificio; il pensiero della morte e della necessità di compiere il bene, azione non meno meritevole che l'onoranza agli dei: tutto ciò viene in un modo o in un altro, pure alcuna volta fra oscurità, indovinelli e astruserie (I, 164), espresso nel Ṛgveda e ottiene le più varie, libere risposte. Più famosi fra tutti sono gl'inni X, 90, il puruṣasūkta, l'inno dell'uomo cosmico, origine di tutto l'universo, nel quale si ha il primo accenno alle caste e alla loro origine, e all'esistenza dei quattro Veda (v. brahmanesimo). Non meno celebre è l'inno X, 129, noto col nome di Nāsadāsīyasūkta, che si può ben dire segni "il punto culminante del pensiero speculativo del tempo rigvedico", nel quale si afferma che "l'abisso caotico primigenio è indefinibile con parole quali essere, non essere, atmosfera, cielo, morte, immortalità. Le prime origini del mondo sono inscandagliabili e ineffabili".
Ormai il politeismo vero e proprio è tramontato, lentamente sostituito nell'animo del cantore, prima, dal "concetto di un creatore del mondo, che si chiama ora Prajāpati, ora Brahmaṇaspati, o Bṛhaspati, ora Viśvakarman, concepito perö ancora sempre come un dio individuale", poi dal concetto "che tutto quanto vediamo nella natura e che la credenza popolare chiama dei sia in verità l'emanazione dell'Uno, dell'Unico; che ogni molteplicità sia cioè soltanto apparente (I, 164, 46)". La via al panteismo, dopo la tendenza quasi monoteistica, è dunque aperta, a quel panteismo di cui le Upaniṣad saranno così vigorose rivelatrici.
Contenuto e forma della poesia rigvedica vanno considerati, se la si voglia ben giudicare, in modo tutt'affatto diverso da quello che esigono i nostri gusti occidentali. Se si prescinda, perciò, da ripetizioni, amplificazioni, giuochi di parole, riempimenti, tutti a servigio di una particolare liturgia, dobbiamo riconoscere nel Ṛgveda gioielli di vera poesia: le meditative invocazioni a Varuna, le movimentate immagini atte a farci viva la battagliera azione di Indra, la lirica stillante da ogni strofa degl'inni all'Aurora (Uṣas) e al Sole (Sūrya), offrono squarci di vera, alta poesia. E tutto ciò pure in componimenti non organici e mancanti di rigorosa concatenazione d'idee e d'immagini.
b) Yajurveda. - "Il Veda delle formule sacrificali" è costituito da versi originali e da altri, tolti per un quarto dal Ṛgveda, e da formule in prosa, con le quali il sacerdote, adhvaryu, accompagnava, mormorandoli, tutti i particolari rituali del sacrificio. Più che indirizzate agli dei, le formule sono rivolte a tutti gli utensili del sacrificio, la funzione e il valore mistico dei quali son via via ricordati, e contro il cui cattivo uso, apportatore di sventura, vengono pronunziati scongiuri o preci dirette a far manifesta agli dei la volontà del sacrificante, e invocazioni di bene per esso e augurî di male per i suoi nemici. Le formule consistono pure in allusioni alla vita dell'universo, simboleggiata nelle varie fasi del sacrificio, o in indovinelli o qualche volta ancora in monosillabi o in parole di per sé incomprensibili, ma significative al fine rituale. Si tratta dunque di un Veda messo insieme soltanto a fine rituale, come appunto vedremo essere il Sāmaveda, e il cui valore nelle parti originali è quasi nullo sotto l'aspetto artistico e letterario (tra l'altro si hanno notevoli coincidenze e ripetizioni, variazioni di una medesima idea), ma di assai valore per il contributo grande che offre alla conoscenza del patrimonio religioso dell'India. È il Veda nel quale il sacrificio si afferma con importanza altissima, cosi da essere mezzo per costringere e piegare gli dei stessi a esaudire qualsiasi richiesta del sacrificante, e per il quale impallidisce quasi la loro potenza, mentre cresce a dismisura quella del sacerdote. Varuna, Indra, Agni, Soma, divinità del Ṛgveda, son perciò ricordati, sì, pure nel Yajurveda, ma con ben differente fisionomia e con assai diminuito potere; ad essi altri dei si aggiungono invece, che assumono una maggiore personalità, in confronto di quella che avessero nel Ṛgveda: Prajāpati, ad es., che appare ognor più eccellere sopra gli altri dei, sino a divenirne il capo; Rudra, che è tutt'uno con Siva, e finalmente Viṣṇu, la cui dignità è di gran lunga aumentata e viene identificato spesso col sacrificio. Le Apsaras, ninfe celesti, raramente ricordate nel Ṛgveda, assumono notevole importanza nel Yajurveda; il termine Asura, col quale sono designati nel Ṛgveda gli dei, viene a significare ormai nel Yajurveda soltanto demoni, esseri sempre in lotta con gli dei. Finalmente appaiono nel Yajurveda, orientati verso quella significazione che sarà spinta al suo estremo nei testi filosofici delle Upaniṣad, concetti come quello di Brahman, che, dal primitivo senso rigvedico di "devozione", giunge nel Yajurveda a quello di "essenza di preghiera e santità". Il Yajurveda è dunque il Veda nel quale si è già affermata vigorosamente quella potenza sacerdotale che raggiungerà poi la sua massima espressione nei Brāhmaṇa.
I dati geografici che esso ci offre e che ci offriranno pure i Brāhmaṇa, ci mostrano un procedimento degli Arî verso Oriente, nelle due regioni vicine chiamate rispettivamente Kurukṣetra "la terra dei Kuru" e Pañcāla. Il territorio che si estendeva tra Gange (Gańgā) e il Jumna (Yamunā), l'od. Doab "due fiumi" dalle vicinanze dell'odierna Delhi a Muttra, era agli antichi noto col nome Brahmāvarta.
Pur variando già da quella del Ṛgveda, la lingua del Yajurveda lascia apparire un aspetto notevolmente arcaico in confronto di quello che faranno palese le letterature epica e classica.
Contrariamente al Ṛgveda, il Yajurveda ci è giunto in varie remnsioni, conservate da quattro delle molte scuole che la tradizione ci ricorda essere esistite fra gli adhvaryu (ben 101 ce ne ricorda il grammatico Patañjali: sec. II a. C.). Le varie recensioni sono raccolte in due gruppi, l'uno chiamato del Yajurveda nero (kṛṣṇa), come quello i cui testi contengono versi, preghiere e formule, da recitarsi dall'adhvaryu durante il sacrificio, corredate da spiegazioni costituenti di per sé materia dei futuri Brāhmaṇa; l'altro chiamato Yajurveda bianco (śukla), perché scevro di materia esplicativa, che è stata raccolta a parte in un Brāhmaṇa. Appartengono al Yajurveda nero (scuola dei Kaṭha): 1. la Kaṭhakasaṃhitā; 2. la Kapiṣṭhalakaṭhasaṃhitā; 3. la Maitrāyaṇīyasaṃhitā; 4. la Taittirīyasaṃhitā (scuola dei Taittirīya o degli Āpastamba). Di queste recensioni, che non variano molto fra loro, vivono pur oggi cultori nel Kashmir (Kaṭha) nel Gugerat (Maitrāyaṇīya), nel territorio del Godavari (Taittirīya). Costituisce il Yajurveda bianco la redazione dovuta ai Vājasaneyin, detta Vājasaneyi-saṃhitā, conservatasi in due redazioni: 1. dei Mādhyaṃdina; 2. dei Kāṇva: tali redazioni variano tra loro soltanto nelle formule in prosa, in conseguenza, forse, di separazione geografica e varietà di parlanti. La Vājasaneyisaṃhitā consta di 40 mpitoli, dei quali gli ultimi 22 sono di data più recente dei primi, come dimostrano varie particolarità religiose e sociali: essi, che costituivano forse in origine da soli la saṃhitā, ricorrono pure nella Taittirīyasaṃhitā. I capitoli 1-25 contengono preghiere e formule (mantra) per il culto quotidiano del fuoco e per i sacrifici più importanti del novilunio e plenilunio, per il sacrificio del soma, per il grande sacrificio del cavallo (aśvamedha), per il sacrificio umano, con elenco delle persone da sacrificarsi, certo simbolicamente, alle divinità più diverse; per il sacrificio universale, per consacrazione del re, sacrificio ai Mani, ecc.
c) Sāmaveda. - Consta di 1812 strofe, per lo più gāyatrī (di tre versi di 8 sillabe) e propriamente di 1549, se si tenga conto delle ripetizioni: strofe tolte tutte, ad eccezione di 75 (che appartengono complessivamente al Yajurveda, all'Atharvaveda e ad altri testi) dal Ṛgveda, particolarmente dai libri VIII e IX. È raccolta composta a fine puramente rituale: tutti i suoi versi debbono, cioè, essere cantati dal sacerdote che perciò è detto udgātar (dalla radice gā- "cantare"), durante il sacrificio del Soma, a differenza di quelli del Ṛgveda che vanno recitati, come s'è detto, dal hotar, in una specie di recitativo semimusicale. Dal giusto modo del loro canto dipende l'efficacia del sacrificio. Le strofe non sono tra loro connesse e in tanto hanno valore significativo nel luogo ove ricorrono, in quanto si riferiscono a dati momenti della cerimonia sacrificale.
I versi differiscono da quelli del testo a noi noto del Ṛgveda per essere differentemente accentati e per contenere varianti non dovute a lezioni più antiche, ma ad alterazioni conseguenti all'adattamento di essi alla melodia (sāman, specie di canto gregoriano, donde il nome della raccolta di Sāmaveda "Veda delle melodie"). Perché appunto sulla melodia i versi vedici venivan cantati, contrariamente a quanto accade per le melodie occidentali, che sono invece adattate al verso. Tali alterazioni consistevano in allungamento, ripetizioni, intromissioni di sillabe, ad es., hoyi, huva, hoi, ecc. "somiglianti ai nostri gorgheggi", detti appunto stobha "inserzioni". Ogni strofe poteva essere cantata su varie melodie (di cui alcune erano forse di origine antichissima), il numero delle quali ammontava secondo alcuni a 8000, e ciascuna delle quali portava un nome e possedeva nell'uso del rituale particolari attributi mistici. Più strofe potevano, al contrario, esser cantate sulla stessa melodia. Esisteva, in tal caso, la strofe tipo, chiamata yoni "grembo materno, matrice", che faceva richiamare una particolare melodia. La melodia, su cui i tre versi della strofa eran cantati, si divideva in cinque parti, di diversa ampiezza: le prime quattro venivan cantate rispettivamente da un sacerdote, la quinta da tutti insieme.
La Sāmavedasaṃhitā consta di due parti: la prima chiamata Ārcika o Pūrvārcika o Chandograntha, che consta di 585 strofe, in ordine diverso da quello tenuto nel Ṛgveda e raccolte in 59 decadi (daśati), divise alla lor volta in 6 prapāṭhaka e ardhaprapāṭhaka, ordinate secondo i proprî metri o secondo gli dei cui sono rivolte (Agni, Indra, Soma); la seconda, chiamata Uttarārcika o Staubhika o Uttaragrantha, che si compone di 1225 strofe, raccolte in 400 canti (stotra) generalmente di tre strofe l'uno (altri pochi vanno da 1 a 10 strofe), raggruppati, alla loro volta, in 9 lezioni (prapāṭhaka), divise in sezioni (ardhaprapāṭhaka), da cantarsi nei sacrifizî solenni e disposte secondo i principali sacrifizî. La prima delle strofe contenute nei singoli stotra dell'Uttarārcika, è generalmente contenuta pure nell'Ārcika: di qui le ripetizioni. Tale prima strofa è appunto quella che porta il nome di yoni e sulla quale sono modulate le altre due (uttara). L'Uttarārcika è certo posteriore all'Ārcika. Mentre l'una e l'altra riproducono i versi come debbono venir cantati, altri testi contengono le norme per le note musicali indicatrici delle modulazioni melodiche e per l'adattamento dei versi alle melodie. Sono questi speciali manuali di canto detti Gāna, due dei quali (Grāmageyagāna e Āraṇyagāna) appartengono all'Ārcika; altri due (Ūhagāna e Ūhyagāna) all'Uttarārcika.
Il Sāmaveda fu coltivato in due scuole: in quella dei Kauthuma e in quella dei Rāṇāyanīya; della prima delle quali esistono seguaci tuttora nel Gugerat, della seconda nel Haiderabad orientale. Le recensioni appartenenti a queste due diverse scuole non devono avere differito gran che tra di loro. Il Sāmaveda fu il primo Veda interamente pubblicato: la prima edizione (recens. Rāṇāyanīya) risale al 1842 per opera del missionario Stevenson; la seconda, fondamentale (1848), è dovuta a Th. Benfey. Della recensione Kauthuma non si è conservato che il VII prapāṭhaka. Privo di valore per mancanza assoluta di originalità e per un'incessante monotonia di pensiero (si aggira sempre sulla preparazione della bevanda del Soma), il Sāmaveda compensa la sua poca importanza estetica, col notevolissimo contributo che offre alla storia della musica dell'India antica.
d) Atharvaveda. - Tutt'affatto diverso per contenuto dagli altri precedenti tre Veda, per quanto come il Ṛgveda composto a fine liturgico, è l'Atharvaveda. Appunto per tale diversità di contenuto esso venne per lungo tempo escluso dal corpus vedico considerato dagl'Indiani canonico, perché riferentesi particolarmente al cerimoniale del sacrificio e da essi designato con la frase trayī vidyā "la triplice scienza" o semplicemente trayī "la triplice". Occorrerà giungere al Mahābhārata, per veder riconosciuto anche all'Atharvaveda tale carattere e autorità, i quali del resto pure oggi gli vengono negati dai brahmani più importanti dell'India meridionale. La trayī vidyā era riserbata alle classi sociali più colte e aveva per oggetto precipuo l'innalzare le lodi agli dei, esaltarne le gesta, invocarne la protezione e offrir loro, primo dovere, sacrifici (particolarmente quello del soma), per impetrarne le grazie maggiori. Ben poco perciò troviamo nei primi tre Veda di quanto costituisse, per dir così, il patrimonio degli umili, di usi, costumi e pregiudizî proprî del popolo indiano, di quanto, cioè, di popolare, fosse giunto agli Arî dell'India, o per retaggio dai primitivi Indoeuropei e forse pure dalle genti, aborigene o no, da loro assoggettate. Tutto questo formò appunto materia dell'Atharvaveda, quasi interamente dedicato, a differenza delle precedenti raccolte, ai riti domestici (gṛhya). Ma appunto perciò esso, anche se nel testo giuntoci ci si mostra, per particolarità varie, più recente degli altri, offre nondimeno nel suo contenuto elementi che risalgono ad antichità non meno alta di quella del Ṛgveda, e che costituiscono di conseguenza un documento storico ed etnico d'inestimabile valore.
Attestazioni della più recente età dell'Atharvaveda ci sono date dalla sua lingua, dalla sua metrica e da accenni in esso contenuti alla fauna e a condizioni geografiche e sociali del paese, nel quale ebbe origine la sua composizione. La grammatica lascia difatti apparire uno stadio già abbastanza vicino a quello dei Brāhmaṇa; il lessico contiene molti elementi popolari, e così la prosodia e la metrica ci dànno esempio di forme che costituiscono già un tipo di passaggio e di evoluzione verso leggi più fisse e determinate. Fra gli animali è ricordata la tigre, belva che si trova nella pianura del Gange, tra i fiumi il Varaṇāvatī (IV, 7,1), che secondo alcuni deve essere identificato col Gange; fra le regioni, quella del Magadha degli Aṇga (od. Bengala) all'Est e del Gandhāra, Mūjavat, Mahāvṛkṣika, Balhika al NO.: indici questi tutti di un progressivo stanziamento del popolo atharvanico nel suolo dell'India, in confronto di quello della società rigvedica. È fatto inoltre chiaro cenno alla distinzione delle caste.
Gli antichi dei del Ṛgveda perdono nell'Atharvaveda la loro particolare spiccata fisionomia e il loro significato originale: non vengono invocati quasi mai singolarmente, ma a gruppi persino di otto alla volta, specie nelle sequenze augurali; hanno l'ufficio di debellatori degli effetti maligni che possono pervenire da uomini e da forze soprannaturali. Non l'esaltazione di essi, ma il merito derivante dalla generosa liberalità di chi dona ai sacerdoti, appare la preoccupazione principale del cantore dell'Atharvaveda. Si può dire, così, che gli dei siano conosciuti quasi solo di nome.
Inoltre gl'inni che l'Atharvaveda ha preso dal Ṛgveda contengono varianti atte a far superare difficoltà, create alcuna volta da oscurità di lezioni, segno ancor questo di una più tarda loro redazione. Finalmente, frammisto a formule, esorcismi, magie, si ha un notevole numero d'inni di contenuto cosmogonico, filosofico, e persino una terminologia che si accosta a quella dei testi filosofici che costituiranno l'ultima parte della letteratura vedica.
Il nome atharvan significava in origine "sacerdote del fuoco, sacerdote stregone", nome corrispondente all'āthravan "uomo del fuoco" dell'Avesta, corrispondenza questa che ci rivela l'antichissima origine di questi sacerdoti, già noti nel periodo indoiranico, nel quale il culto del fuoco, rimasto poi vivo nell'Iran e in India, dovette avere gran parte. I due nomi passarono poi a indicare semplicemente "formula magica", le formule, cioè, che dovevano essere pronunciate dal sacerdote mago. La stessa vicenda subì il termine aṅgiras "sacerdote stregone", dapprima (come il precedente, forse) nome proprio di famiglia sacerdotale, poi, pure esso semplicemente "formula magica". Ma, mentre il primo ebbe valore particolarmente per formule auspicali, benigne, di buon augurio, il secondo significò maledizione contro tutto ciò che fosse cattivo. Accoppiati i due nomi in composto e con terminazione plurale, atharvāṅgirasaḥ, costituirono il titolo antichissimo dell'Atharvaveda "il Veda, cioè, degli atharvan e degli aṅgiras", titolo che venne poi semplificato con l'uso del solo suo primo nome, quello auspicale. Altro nome è Bhṛgv-aṅgiras, da Bhṛgu, nome di famiglia di sacerdoti, devoti al culto del fuoco. Finalmente, più tardi ancora, l'Atharvaveda si chiamerà Brahmaveda "la scienza degli incantesimi", il Veda del Brahman, parola quest'ultima che assurgerà col tempo al valore di preghiera, e poi a simbolo dell'unità assoluta e che verrà finalmente deificata. Brahmaveda varrà pure come "scienza del sacerdote brahman", il più alto fra i sacerdoti officianti, di quel brahmano, nel cui interesse e con tanta esaltazione del quale, parlano numerosi inni. Il che sta a dimostrare l'alta importanza che assumerà l'Atharvaveda anche sopra le altre opere canoniche, dal cui rango invece esso era stato prima, come si disse, escluso. Difatti, mentre ai sacerdoti degli altri tre Veda compete rispettivamente durante il sacrificio di recitare gl'inni o cantarli, o attendere a tutto quanto si riferisce agli accessorî del sacrificio, e di accompagnare tali atti con la mormorazione delle formule, il sacerdote dell'Atharvaveda, cui incombe appunto, per la diversa materia del suo Veda, la conoscenza degli altri tre, sopraintenderà all'ufficio degli altri sacerdoti.
Costituisce materia dell'Atharvaveda tutto quanto può concernere - particolarmente presso un popolo che come l'indiano fece del sentimento religioso lo spirito animatore della sua esistenza - le norme regolatrici della vita familiare in ogni suo atto: tutto quanto, cioè, può giovare ad allontanare da essa i pericoli e - di contro - ad attrarre in suo favore ogni possibile vantaggio e ad accrescerne la prosperità. Base dunque fondamentale della religione dell'Atharvaveda sono le superstizioni; mezzi: esorcismi e lodi di quanto possa essere atto (erbe, ad es.) a combattere malattie, personificate in demoni o prodotte da demoni, febbre, itterizia, pazzia, lebbra, impotenza, idropisia, scrofola, tosse, calvizie, ecc. (accenni questi tutti preziosi per la storia della più antica medicina indiana); a quanto giovi a sopraffare nemici, rivali, incubi, succubi, demoni, spiriti, animali nocivi e tutto ciò che di dannoso possa derivare da essi; a quanto valga ad opporsi all'oppressione dei brahmani, ecc. E, inversamente, si contengono nell'Atharvaveda numerose formule invocatrici per tutti di ogni possibile benessere materiale e morale, e auspicali per la vita del re e per ogni suo atto (consacrazione, elezione, restaurazione, vittorie, ecc.).
L'Atharvaveda consta, nella redazione della scuola Śaunaka (pervenutaci intera, a differenza di un'altra attribuita alla scuola Paippalāda, redazione scoperta nel Kashmir, che dalla Śaunaka varia, inoltre, di contenuto e di forma) di venti libri, per la massima parte in versi. Gl'inni sono per lo più brevi, da 4 a 7 strofe, nei libri I-IV, da 8 a 18 nel V, di 3 nel VI, anche di una sola strofe nel VII; più lunghi negli altri libri (VIII-XVIII: da 21 a 89 strofe). Il numero degl'inni varia notevolmente da libro a libro: complessivamente 731 inni - con circa 6000 strofe, di cui 1200 tolte dal Ṛgveda, contenute specialmente nei libri I, VIII, X - costituiscono la raccolta. Il libro XV e massima parte del XVI sono in prosa, che dà forma a un sesto di tutta l'opera, e in prosa pure sono trenta inni sparsi negli altri libri. Il libro XVII consta di un solo inno di 30 strofe. I libri I-VII e il XVI comprendono scongiuri, formule magiche e incantesimi, base fondamentale, come s'è detto, dell'Atharvaveda; il XIII, inni eterogenei (a Rohita, principio creatore) e scongiuri; canti nuziali il libro XIV, funerarî il XVIII, molti dei quali derivati dal Ṛgveda. Il IV libro è notevolmente importante per contenere notizie riferentisi ai riti domestici (gṛhya) che aggiungono materia ai testi speciali destinati ad essi (Gṛhya-sūtra: v. sopra). Il libro XIX tratta quasi per intero di quella che potremmo chiamare la magia nera, quella cioè che si oppone alle forze maligne; il XX, composto per il sacrificio del soma, a uso dei 16 preti officianti, contiene inni (143) tutti dedicati a Indra, tratti, fuorché 10 (127-136 in lode di sacrificatori liberali) dal Ṛgveda, senza varianti, indice sicuro questo del proposito da parte dei fedeli cultori di connettere questo agli altri tre Veda. Ha carattere non affatto atharvanico, e anche perciò come il libro XVIII appare aggiunta posteriore. Ma non soltanto inni di soggetto magico ed esorcistico, e per conseguenza di valore artistico spirituale assai umile, contiene l'Atharvaveda, nel quale appaiono, oltre che il fondo popolare, pur l'opera rimaneggiatrice del clero, per le frequenti allusioni all'interesse e ai diritti dei brahmani; altri ne ricorrono in esso in cui il pensiero sale a notevoli altezze: sono questi l'inno alla Terra (XII,1), nel quale si celebrano le sue virtù di sostenitrice e altrice di tutte le creature e di tutte le cose, e in cui è offerto un quadro imponente di profonde immagini poetiche; e quello non meno celebre, rivolto a Varuṇa (IV, 16), nel quale il carattere etico di questo dio onnipotente e onnisciente già esaltato nel Ṛgveda è qui con grande efficacia riaffermato: Questa terra è del re Varupa e anche questo vasto cielo ai lontani confini, e i due oceani sono i due ventri di Varuna, ma egli è pure rimpiattato in questa poca acqua. E chi anche riuscisse a sfuggire oltre i confini del cielo, non certo si sottrarrebbe a Varuṇa, il Signore: partendo dal cielo, le sue spie percorrono questo mondo, e con mille occhi scrutano la terra".
Altri inni finalmente si hanno nell'Atharvaveda di contenuto filosofico-metafisico (tutto il libro XV ne contiene di tal genere) e cosmogonico, rivolti alla ricerca ed esaltazione del primo principio, autore e animatore dell'universo, ragione prima e ultima delle cose, creatore e reggitore del mondo, il quale ora viene identificato col sole (XIII,1, 2, 3), ora col respiro (prāṇa), con l'amore (kāma), col tempo (kāla), con l'ascesi (tapas), col brahman, con lo spirito (manas) e con tanti altri elementi viventi fuori dell'uomo o nell'uomo stesso, i quali nella perfezione fisica e psichica sono immagini dell'universo mondo (XIX, 53-54; IV, 11; X, 10; IX, 4, 5; IV 35, 4, 5, 6; XI, 3, 7; X, 2; XI, 8; XI, 5, ecc.). Tali inni dovettero essere certo frutto di quella speculazione extra-sacerdotale che più tardi si sarebbe affermata con tanto vigore nelle Upaniṣad, movimento d'idee ehe, sorto fra la classe militare (kṣatriya), già si era manifestato negl'inni dell'Atharvaveda in onore del re e delle sue gesta, nell'affermazione dell'autorità grande del purohita, il sacerdote cappellano di corte.
e) Brāhmaṇa, f) Āraṇyaka, g) Upaniṣad, h) Sūtra. - Come si è accennato, il Yajurveda nero contiene, unico tra i Veda, giudizî e discussioni sul fine e sul significato del sacrificio, ai quali furono dedicati, poi, con particolare ampiezza i Brāhmaṇa su ricordati. Brāhmaṇa significa anzitutto una "singola dichiarazione di un sacerdote dotto, di un dottore della scienza del sacrificio sopra qualche punto del rituale. Usato collettivamente, il termine indica una collezione di tali spiegazioni e chiarimenti dei sacerdoti sulla scienza sacrificale" (Winternitz). I Brāhmaṇa sono dunque la massima espressione del potere sacerdotale. Il sacrificio è ormai divenuto fine a sé stesso. Nel sacrificio indiano, assai diverso da quello dei Greci, dei Romani, dei Germani, ecc. "non si fa l'offerta a un dio per onorarlo, propiziarselo e ringraziarlo. Il sacrificio supera la potenza degli dei, è un atto trascendente di magia, di forma estremamente complicata, nel quale tutte le manipolazioni, le sentenze e i canti, hanno un profondo significato e sono messe in relazione segnatamente con le forze cosmiche dell'universo, con le forze spirituali e fisiche dell'uomo" (Jacobi). Ciò posto, ben si comprende come dovessero venir dedicate alla più minuta esegesi del sacrifizio trattazioni speciali che, data l'indole sistematizzatrice e sottilizzatrice degl'Indiani, assunsero proporzioni notevolissime per indagine ed esposizione di ogni possibile norma regolatrice, di ogni rito e di ogni cerimonia, per la determinazione del valore essenziale e del significato simbolico di essi, ecc. Ma non a ciò soltanto si limitò il contenuto dei Brāhmaṇa, i quali, per essersi via via arricchiti di miti cosmogonici, di antiche leggende e narrazioni (tra cui quella del diluvio, dell'origine delle caste, ecc.), di canti esaltatori di eroi, di speculazioni teologiche e filosofiche, di accenni etimologici e d'altro, risultarono vere e proprie enciclopedie del sapere indiano.
Dei numerosi Brāhmaṇa giuntici (molti se ne sono perduti), due appartengono al Ṛgveda: l'Aitareya-brāhmaṇa, particolarmente dedicato al sacrifizio del soma e alla festa della consacrazione del re, cui si connettono l'Aitareya-āraṇyaka e l'Aitareya-upaniṣad (per Āaṇyaka, Upaniṣad, vedi sopra e appresso) e il Kauṣītaki- o Śāṅkhāyana-brāhmaṇa, nella massima parte del quale si tratta pure, e con più ampiezza che nel precedente, del sacrifizio del soma. Si connettono ad esso il Kauṣītaki-āraṇyaka del quale fa parte la Kauṣtaki-upaniṣad, detta pure Kauṣtaki-brāhmaṇa-upaniṣad. - Al Yajurveda nero appartiene il Taittirīya-brāhmaṇa che si può considerare un complemento della Taittirīya-saṃhitā, come quello in cui si contengono aggiunte posteriori alla saṃhitā e più minuti particolari di quanto già in essa si racchiude. È forse il più antico dei Brāhmaṇa e tratta del simbolico sacrificio umano (Puruṣamedha), del quale non è parola nel Xaiurveda nero. Ma il più importante fra tutti i Brāhmaṇa per ampiezza, per varietà e per valore di contenuto, è il Śatapatha-brāhmaṇa, "il Brāhmaṇa dalle cento vie" (consta di cento letture, adhyāya) che appartiene al Xajurveda bianco e ci è giunto in due recensioni. Esso è stato definito insieme col Ṛgveda l'opera più cospicua della letteratura vedica. I dati storico-geografici ehe da esso si desumono ne dimostrano l'origine nell'Oriente dell'India. Trattazione del mistero dell'altare del fuoco; precetti per la costruzione dell'altare stesso; norme per la consacrazione dello scolaro, per la sua introduzione, cioè, davanti al maestro, per lo studio del Veda, per le cerimonie funerarie, descrizione del grande sacrificio del cavallo, del sacrificio umano e del sacrificio universale; accenni all'inizio della dottrina del sistema filosofico Sāṃkhya; varie leggende che costituiscono il vero germe dell'epica; primo ricorrere di nomi e di termini tutt'affatto nuovi per la letteratura vedica e che compariranno invece nella letteratura e nella storia buddhistica: tutto ciò rende il Brāhmaṇa dalle cento vie" di eccezionale importanza per ogni aspetto sotto il quale lo si consideri. La sua ultima parte è costituita dalla maggiore e più celebre Upaniṣad, la Bṛhadāraṇyaka-upaniṣad. - Al Sāmaveda si connettono fra gli altri il Tāṇḍya- o Prauḍha-mahā-brāhmaṇa o Pañcaviṃśa-brāhmaṇa, uno dei più antichi Brāhmaṇa, in eui si tratta delle più varie forme delsacrificio del soma, di sacrifici da compiersi sui fiumi Sarasvatī e Dṛṣadvatī, e un piccolo Brāhmaṇa, il Chāndogya-brāhmaṇa, le cuî prime due letture considerano cerimonie relative a nascite e a matrimonî e a preghiere indirizzate a esseri divini e le ultime (3-10) costituiscono la Chāndogya-upaniṣad. I Brāhmaṇa del Sāmaveda, come fu giustamente notato, pur avendo carattere "esagerato e fantastico nelle loro mistiche speculazioni" (una particolare loro caratteristica è "l'identificazione costante dei sāman "canti" con ogni sorta di obietti terrestri e celesti") offrono nondimeno elementi d'importantissimo interesse storico. - All'Atharvaveda, finalmente, appartiene il Gopatha-brāhmaṇa, uno dei più tardi Brāhmaṇa, il cui contenuto è costituito da leggende, speculazioni cosmogoniche, esposizioni di doveri religiosi, illustrazioni del rituale sacrificale, accenni grammaticali, ecc., ed è (nella sua prima metà) una glorificazione dell'Atharvaveda e del suo sacerdote, il brahmano.
Diversamente dai Brāhmaṇa, di essenza eminentemente ritualistica, altre opere, certo uscite, ripetiamo, da cerchia extra-sacerdotale, e pure appartenenti al periodo vedico, raccolgono e sviluppano principî filosofici di cui si erano avuti vaghi cenni nel Ṛgveda, nel Yajurveda, nell'Atharvaveda e in alcuno dei Brāhmaṇa stessi. Sono essi le Upaniṣad già ricordate, alcune delle quali abbiamo veduto essere contenute negli Āraṇyaka, da cui spesso non è facile trovare "linea di distinzione", o formare l'ultima parte dei Brāhmaṇa. Con gli Āraṇyaka costituiscono il Vedānta, "la fine (anta) del Veda" (da non confondersi col sistema Vedānta di Śaṅkara), e contengono rispettivamente dottrine da essere insegnate a coloro che vivono la vita delle foreste, il terzo stadio cioè o āśrama della vita brahmanica (v. brahmanesimo); sono cioè "una guida spirituale in tal caso per l'eremita intento a meditare sul valore simbolico dei riti" (Āraṇyaka) o destinate a essere impartite a scolari privilegiati, scelti fuori della cerchia del volgo, donde il nome Upaniṣad, da upa + ni + radice sad "seder presso", il sedersi cioè del maestro presso lo scolaro per esporgli confidenzialmente la dottrina, chiamata di conseguenza, "dottrina arcana". Altre delle molte Upaniṣad che ci sono pervenute stanno a sé: le più antiche (800-500 a. C.?) si connettono strettamente, come s'è detto pure per i Brāhmaṇa, a una o a un'altra delle scuole vediche (queste trovarono cioè "un corpo comune di tradizioni orali che foggiarono poi, a modo loro", in testi speciali [Upaniṣad] e rispecchiano la dottrina nella sua originalità: l'identità dell'universo col Brahman, cioè Dio, e del Brahman con l'Ātman, cioè l'anima individuale. "Il Brahman, la forza che tutti gli esseri incarna, che tutti i mondi crea, sostiene, conserva e di nuovo in sé riassorbe, questa eterna, infinita, divina forza s'identifica con l'Ātman, con quello che, se ci spogliamo di tutto quanto è esteriore, ritroviamo in noi stessi, come la nostra più intima essenza, come il nostro vero io, l'anima" (Deussen). Le Upaniṣad più moderne (alcune giungono fino al tempo dei Purāṇa) presentano carattere particolarmente religioso, anziché filosofico, già assai diverso da quello del tempo più antico: alcune di esse sono dedicate difatti all'esaltazione di Viṣṇu o di Śiva, indice questo della reazione sacerdotale brahmanica. Tutte pretendono di essere connesse con qualche scuola vedica; le più moderne si attribuiscono particolarmente all'Atharvaveda. Gl'insegnamenti delle Upaniṣad si svolgono in forma dialogica, l'esposizione è in prosa (nelle più antiche in stile dei Brāhmaṇa) o in versi, per alcune altre, e si tratta in tal caso delle più vive e notevoli sotto l'aspetto letterario o, in altre ancora, in una prosa meno arcaica e già vicina a quella del sanscrito.
La lingua che, come la metrica, varia naturalmente nelle varie Upaniṣad secondo la loro età, mostra, come quella dei Brāhmaṇa, uno stadio assai più avanzato di quella dei Veda, per minor numero di forme di cui dispone, per elementi sintattici proprî e per vane altre caratteristiche.
L'espressione assurge non di rado a mirabili altezze; la grandiosità delle immagini, alcuna volta di vero sapore poetico, la profondità dell'intuizione filosofica e religiosa palesano spesso una genialità che raramente ricorre nelle concezioni di altri popoli e che non vien menomata da passi, pur frequenti, di molto minor valore.
Appartengono, tra le altre, al Ṛgveda: l'Aitareya-upaniṣad e la Kauṣītaki-upaniṣad, tra le più antiche; al Yajurveda nero la Taittirīya-upaniṣad, la Mahānārāyaṇa-upaniṣad, la Kāṭhaka-upaniṣad, la Śvetāśvatara-upaniṣad, la Maitrayāṇīya-upaniṣad; al Yajurveda bianco: la Bṛhadāraṇyaka-upaniṣad, la Īśā-upaniṣad, la più ampia e importante, la prima, fra tutte le upaniṣad, la più breve (di solo 18 strofe), l'altra; al Sāmaveda: la Chāndogya-upaniṣad, la Talavakāra- o Kena-upaniṣad; all'Atarvaveda, tra le molte: la Muṇḍakaupaniṣad, la Māṇḍūkya-upaniṣad e la Praśna-upaniṣad.
Da varie scuole furono elaborati pure i Sūtra che sopra abbiamo ricordati, manuali, ripetiamo, di pratica sistemazione di tutto quanto potesse giovare al facile apprendimento del rituale relativo a ciascun Veda e di quanto occorresse alla lettura e interpretazione esatta di essi. Essi sono di estrema stringatezza per il proposito di "raccogliere il più gran numero di cose nel minor numero di parole" e tali perciò da non poter essere compresi che attraverso le interpretazioni di minuti e di conseguenza voluminosi commenti, mercé i quali vengono integrate tutte le parole e frasi occorrenti. Oltre che per il contenuto (preziosi essi sono per le notizie che ci offrono sui particolari del rituale sacrificale, sulla vita domestica dell'India antica, sui più antichi fondamenti del diritto indiano, sulle più antiche conoscenze di matematica, ecc.), i Sūtra sono importanti se non sotto l'aspetto letterario, certo per il linguistico, come quelli che tra l'altro ci lasciano per primi apparire quei composti che saranno poi così notevole caratteristica del sanscrito classico. Le varie collezioni di sūtra portano il nome delle scuole onde sono usciti, nomi, certo, proprî dei fondatori di esse: Śāṅkhāyana- e Āśvalāyana-srauta- e gṛhya-sūtra (Ṛgveda); Kātyāyana-śrauta-sūtra (Yajurveda bianco); Āpastamba-, Hiraṇyakeśi-, Baudhāyana-, Mānava-śrauta-, -gṛhya-, e -dharma-sūtra (Yajurveda nero); Māśaka- o Ārṣeyakalpa-sūtra, Drāhyāyaṇa-śrauta-sūtra, Gobhila-gṛhya-sūtra, Gautama-dharma-sūtra (Sāmaveda); Vaitāna-śrauta-s., Kauśika-gṛhya-s. (Atharvaveda).
Ma la nota sottigliezza sistematizzatrice degl'Indiani, pure nell'ambito del rituale, non si arresta ai Sūtra. Altre opere essi hanno composte per ampliare particolari già nei sūtra trattati o per colmare lacune: sono esse i pariśiṣṭa "supplementi, aggiunte", i prayoga "manuali pratici sullo svolgimento del sacrificio e le funzioni dei singoli gruppi di sacerdoti", le paddhati, che riassumono il contenuto dei sūtra e finalmente le kārikā, esposizioni in versi del rituale.
Letteratura postvedica. - A) Epica. - Già con gl'inni così detti ākhyāna del Ṛgveda e con le non poche leggende (itihāsa), narrazioni (ākhyāna), canti in lode di uomini valorosi (gāthā nārāśaṃsī), antiche storie (purāṇa), in prosa e in versi, contenute nei Brāhmaṇa, si era venuto costituendo un cumulo di leggende su dei, demoni, re, eroi, saggi, la recitazione delle quali, che faceva parte in qualche modo del rituale e di cui si allietavano gli dei, veniva fatta durante la lunga celebrazione del sacrificio del cavallo (Aśvamedha) e durante cerimonie familiari. Queste leggende che nei più antichi tempi non eran certo ancora raccolte in libri, avevano senza dubbio carattere religioso popolare, e già dal tempo del Buddha (VI-V sec. a. C.) dovettero costituire "una specie di fondo comune letterario da cui attinsero i buddhisti e i jaina e i poeti epici". Si deve, inoltre, ammettere che siano esistiti in antico "veri e propri canti eroici e cicli di canti epici", nei quali non solo in pace, ma pure nel campo di battaglia venivano esaltati da bardi, generalmente chiamati sūta (cantori di corte e cocchieri per tradizione) avvenimenti e gesta che un giorno sarebbero state, rispettivamente, oggetto del contenuto del Mahābhārata e del Rāmāyaṇa: la grande guerra fra i discendenti di Bharata, e le imprese di Rāma e di altri eroi.
a) Mahābhārata. - Il Mahābhārata "La storia della grande lotta fra i Bhārata", si compone nella maggiore delle due redazioni pervenuteci, di 110.000 strofe circa, mole non mai raggiunta da alcun altro poema dell'antichità o dei tempi moderni (8 volte l'Iliade e l'Odissea messe insieme); quasi tutte di quattro ottonarî ciascuna (śloka, il metro epico per eccellenza). È diviso in 18 libri (parvan "sezioni"), differenti fra di loro per ampiezza, contenenti cioè, da un massimo di 14.000 strofe (XII) a un minimo di 312 (XVIII), raccolte in letture (adhyāya) che variano, secondo i libri, da 3 a 300. Un XIX libro costituisce un supplemento (khila) e porta per titolo Harivaṃśa "La genealogia di Hari (Kṛṣṇa-Viṣṇu)".
In 20.000 strofe circa si contiene il nucleo vero e proprio del poema nel quale viene narrato il grande conflitto tra i cugini Kaurava e Pāṇḍava, figli i primi di Dhṛtarāṣṭra, i secondi del fratello di lui Pāṇḍu, discendenti tutti da Bharata, sovrano della stirpe lunare, nato dal celebre re Duṣyanta e da Śakuntalā. Kurukṣetra era chiamata la terra (kṣetra, "campo") del loro dominio, nella quale avvenne l'immane conflitto fratricida (da Kuru, uno dei comuni antenati), regione situata a sud della Sarasvatīe ad occidente del Doab, fra Delhi (l'antica Indraprastha) e Muttra. Il Mahābhārata è attribuito al grande saggio Vyāsa (o Kṛṣṇadvaipāyana), nonno dei contendenti, che la tradizione indiana, povera sempre di senso storico, fa, come si disse, autore pure dei Veda e dei Purāṇa.
Col passare dei secoli una grande quantità di materia del più diverso genere venne accumulandosi intorno al nucleo principale del poema e innestandovisi, così da quasi quintuplicarne l'ampiezza e da costituire nel suo complesso, anziché soltanto un poema epico vero e proprio, un ammasso incoerente e spesso contraddittorio, una vera rudis indigestaque moles, ma insieme un'enciclopedia del pensiero indiano, "un compendio didattico, in accordo col Veda, del quadruplice fine dell'umana esistenza (merito spirituale dharma, utile artha, piacere kāma e liberazione finale mokṣa); una smṛti o opera di sacra tradizione (v. sopra) che espone tutti i doveri dell'uomo" (Macdonell). Si hanno così genealogie di semidei e di eroi di stirpe divina; descrizioni delle dimore celesti, miti ed episodî delle più diverse specie (Indra, Agni, ecc.); esaltazione di grandiose geste di guerrieri celebri (Duṣyanta, Yayāti, Śāntanu, Rāma); miracoli di santi; storie commoventi e racconti edificanti di fedeltà materna e coniugale (Kuntī, Nala e Damayantī, Sāvitrī, ecc.) o di eroico altruismo (Śibi); parabole, novelle morali; e oltre a ciò cosmogonie e teogonie; lunghe esposizioni filosofiche (libri III, V, VI, XI) culminanti nella Bhagavadgītā "il canto del Beato" (poema di 18 canti, di complessivi 700 śloka circa, esposto nell'imminenza della battaglia da Kṛṣṇa ad Arjuna, cui ripugna di prender parte alla lotta fratricida); interminabili trattazioni sentenziose (ben due libri, XII e XIII, ne sono interamente composti) di diritti e doveri morali. Di tale materia, estranea al nucleo fondamentale dell'opera, nella grande congerie della quale, pure fra molte scorie e interminabili dilungamenti, si trovano gemme fulgidissime, si fa parola nel Mahābhārata stesso, il quale al suo inizio (I, 1, 101-103) dice che essa era stata recitata dal suo autore in forma diffusa e compendiosa, per compiacere ai dotti che l'una e l'altra forma amano; in 100.000 strofe, cioè, con gli episodî e in 24.000 senza gli episodî (Mahābhārata perciò nel primo caso, Bhārata nel secondo), ma che in origine constava di 8800 strofe sole.
La composizione del Mahābhārata fu perciò oggetto di lungo e laborioso dibattito da parte della critica. Nomi di studiosi illustri figurano nell'arringo (H. H. Wilson, Th. Goldstūcker, Max Müller, Adolf Holtzmann senior e iunior, Chr. Lassen, J. Dahlmann). Possiamo oggi certamente affermare che un fondo storico dovette certo esistere (Lassen), su cui fu elaborato il nucleo del poema: le lotte fra i due popoli confinanti dei Kuru e dei Pañcāla, che si conchiuse con la disfatta dei primi. In tale nucleo fondamentale poetico, che già forse si era col tempo ingrandito per aggiunta di episodî relativi o non ai personaggi già noti, i brahmani dovettero vedere il trionfo della casta militare, ma, riconoscendolo d'altra parte, per il suo carattere, veicolo ottimo alla divulgazione della loro dottrina, v'introdussero in successive elaborazioni tutti quegli elementi morali e culturali che fossero atti a esaltare la loro casta, la cui grande potenza si esercitava pur sugli dei che essi sapevano piegare col sacrificio ai loro voleri. Ed elevarono, anzitutto, a eccellenza morale i Panduidi, la cui arte guerresca per sopraffare i Kuruidi fu invece, come appare dal poema, costantemente accompagnata da frode. Tale elaborazione brahmanica (che non privò nondimeno, e forse ad arte, il Mahābhārata di dati risalenti certo ad epoca pre-brahmanica, come il ricordo della poliandria nel matrimonio di Draupadī coi cinque fratelli Panduidi), fu facilitata, inoltre, dall'essersi il Mahābhārata costituito nella sua redazione definitiva, nella regione ove il culto di Viṣṇu era particolarmente osservato (Viṣṇu e Śiva, pure in diversa misura, sono le due divinità maggiormente onorate nel Mahābhārata). All'ingrandimento del poema diede finalmente valido contributo il patrimonio gnomico, favolistico, leggendario, morale delle varie sette non propriamente brahmaniche, numerose già in India dal tempo del Buddha e pure allora fiorenti.
Pur tenendosi presente che alcune delle leggende, novelle morali, sentenze, ecc. contenute nel Mahābrārata risalgono a epoca antichissima, anche vedica, e che per contro modificazioni e ritocchi al grande poema appartengono certo a età relativamente recente, si può affermare, anche per dati storici in esso contenuti, per citazioni che ne vengon fatte in opere distanti fra loro notevolmente di tempo e infine per particolari che la sua lingua, il suo stile e la sua metrica ci offrono, diversi da luogo a luogo, che lo sviluppo complessivo dell'elaborazione del Mahābhārata va assegnato a un periodo compreso fra il sec. IV a. C. e il IV d. C.
Del Mahābhārata si hanno due redazioni, una chiamata settentrionale (C), che fu edita per la prima volta a Calcutta nel 1834-39 col Harivaṃśa (v. appresso), e più volte a Bombay, dal 1862, col commento di Nilakaṇṭha; l'altra detta recensione meridionale (B), che differisce dalla precedente per varianti, specie nelle parti principali, per diversa disposizione del contenuto e divisione dei parvan, e per essere più breve di essa di un decimo. Sotto la direzione di V. S. Sukthankar e per cura del Bhandarkar Oriental Research Institute di Poona, è ora in corso di pubblicazione un'edizione critica.
I. Il libro delle origini (Ādiparvan). - Da Śāntanu, vecchio re di Hastināpura, della dinastia dei Kuru, discendente dal celebre re Bharata e dalla ninfa Satyavatī, figlia del re del Magadha, nacquero due figli: Citrāṅgada e Vicitravīrya. Per la morte avvenuta in ancor giovane età del primo e per mancanza di figli di Vicitravīrya, che aveva sposato Ambikā e Ambalikā, figlie del re di Kāśi, e per il voto di castità intrapreso da Bhīṣma, altro figlio di Śāntanu natogli dalla dea Gaṅgā, il quale aveva rinunciato al trono, la stirpe di Śāntanu pareva sul punto di estinguersi. Volle allora Satyavatī, che già prima del matrimonio con Śāntanu aveva avuto dall'asceta Parāśara un figlio di nome Vyāsa (il grande saggio penitente il quale sarebbe un giorno divenuto il cantore della grande epica), che questi, secondo la legge del levirato, sposasse le due mogli del fratellastro Vicitravīrya. Nacquero così Dhṛtarāṣṭra da Vyāsa e da Ambikā e Pāṇḍu da Vyāsa e da Ambalikā, cieco il primo, pallidissimo l'altro. Dhṛtarāṣṭra sposò Gāndhārī e ne ebbe una figlia e cento figli maschi, dei quali il maggiore si chiamò Duryodhana e un altro Duḥśāsana: Kaurava (Kuruidi) furon detti tutti dal nome dell'antenato Kuru. Pāṇḍu, a sua volta, sposò due donne, Kuntī l'una, detta pure Pṛthā, che lo rese padre di tre figli: Yudhiṣṭhira, Arjuna e Bhīma; Mādrī, l'altra, dalla quale gli nacquero Nakula e Sahadeva, gemelli: Pānḍava (Panduidi) furono essi cinque chiamati dal nome del padre. Venuto a morte Pāṇḍu che aveva tenuto il regno in luogo del fratello cieco, i cinque fratelli furono dallo zio Dhṛtarāṣṭra, che aveva frattanto ripreso il governo, accolti nella propria corte e allevati insieme con i suoi figliuoli. Ma ben presto la maggiore perizia dei Panduidi nelle armi suscitò la gelosia dei cugini, la quale s'accrebbe poi a dismisura quando Dhṛtarāṣṭra elesse a suo successore nel regno il maggiore dei Panduidi - giusto erede del padre suo, Pāṇḍu - Yudhiṣṭhira, escludendo così dal trono il proprio figlio Duryodhana. Ma l'odio di Duryodhana riuscì a trionfare: costretti, dopo varie violenze, a lasciare la reggia di Dhṛtarāṣṭra, si ritirarono i Panduidi nelle selve, donde si partirono, dopo avere dato pur ivi prova del loro grande valore, per recarsi alla reggia di Drupada, re dei Pañcāla. Ivi Arjuna riuscì a tendere l'arco gigantesco e pesantissimo del re, premio della quale prova gli fu la mano della figlia, Draupadī, che divenne la sposa comune dei cinque fratelli. Considerata l'accresciuta potenza dei cugini, i figli di Dhṛtarāṣṭra decisero allora di riconciliarsi con essi; il regno venne così diviso tra loro a metà: essi rimasero a Hastināpura, mentre i Panduidi si stabilirono a Indraprastha, di cui Yudhiṣṭhira fu proclamato re.
II. Il libro della reggia (Sabhāparvan). - Ma il rancore di Duryodhana non si era spento. Passato alcun tempo, poiché i cugini erano stati invitati dal padre suo Dhṛtarāṣṭra a Hastināpura, egli fece sfidare da Śakuni, suo zio materno, Yudhiṣṭhira al giuoco dei dadi: e nella lunga e fraudolenta partita, ogni suo avere perdette il maggiore dei Panduidi e il trono e la libertà sua e dei fratelli e la moglie stessa, che nell'assemblea venne fatta segno a violenze e ad ingiurie. Ma per consiglio di Bhīṣsma, zio di Dhṛtarāṣṭra, e per ordine di Dhṛtarāṣṭra stesso, ad ambedue i quali troppo doleva quell'aspra contesa tra parenti, fu concesso ai Panduidi di ritornarsene a Indraprastha, liberi e potenti come ne eran venuti. Ma per poco: Yudhiṣṭhira, nuovamente invasato dal demone del giuoco, accettò una nuova partita: vinto anche questa volta, fu costretto a subirne le condizioni: l'esilio coi fratelli e con la moglie per dodici anni, e per un altro anno la permanenza con essi in incognito fra coloro che li avrebbero ospitati: soltanto al quattordicesimo anno essi avrebbe potuto riacquistare trono ed averi.
III. Il libro della selva (Vanaparvan). - E per dodici anni vivono i cinque Panduidi vita di eremiti, durante i quali liberano col loro valore le selve da terribili insidie; riescono a sventare un tentativo di rapimento di Draupadī e con la caccia procurano cibo agli asceti eremiti, che, alla lor volta, li confortano dell'esilio con la narrazione di storie edificanti (Nala e Damayantī, Ṛṣyaśṛṇga, Sukanyā, Uśīnara, Śibi, Rāma, Sāvitrā).
IV. Il libro di Virāṭa (Virāṭaparvan). - Nel tredicesimo anno i cinque fratelli vivono incogniti e vestiti in varie guise (rispettivamente da brahmano, da cuoco, da eunuco, da sorvegliante di stalla, da capo degli armenti e Draupadī da pettinatrice della regina) alla corte di Virāṭa, re dei Matsya. Soltanto alla fine di quell'anno si fanno conoscere, quando, essendo stato il regno dei Matsya assalito dal re dei Trigarta, confinanti, cui s'erano alleati i figli di Dhṛtarāṣṭra, i Panduidi riescono a far trionfare il loro ospite del grande pericolo. E il re, grato di tanto aiuto, concede la figlia sua Uttarā in moglie ad Abhimanyu, figlio di Arjuna.
V. Il libro degli armamenti (Udyogaparvan). - Trascorso pur il quattordicesimo anno di esilio, i Panduidi pretendono dai cugini la metà del regno che secondo i patti ora loro compete. Kṛṣṇa, incarnazione del Dio Viṣṇu, re degli Yādava (che i fratelli avevano conosciuto alla corte di Drupada in occasione del matrimonio con Draupadī e riveduto presso il re Virāṭa per le nozze di Abhimanyu), sostiene nella reggia di Dhṛtarāṣṭra le ragioni dei cinque fratelli e dopo di lui altri; ma Duryodhana recisamente rifiuta di mantenere la parola e rimane irremovibile nella sua trista caparbietà, pur contro il parere di alcuno dei suoi e a malgrado del dolore di Dhṛtarāṣṭra che depreca le conseguenze gravissime alle quali darà origine il rifiuto di Duryodhana ai Panduidi, pronti ormai a rivendicare i loro diritti con la guerra. A nulla valgono le ripetute esortazioni di Kṛṣṇa, che è stato inviato nuovamente dai Panduidi alla reggia di Dhṛtarāṣṭra per dissuadere il cugino dall'insistere nel suo ingiusto proposito. La guerra è dichiarata e scoppia terribile fra i due sterminati eserciti delle pianure del Kurukṣetra: Bhīṣma ha assunto il comando dell'esercito dei Kuruidi, ma con la condizione di non uccidere i cinque Panduidi, Kṛṣṇa s'è fatto auriga (sūta) di Arjuna. Ai Panduidi si sono aggiunti come alleati i Pañcāla, i Virāṭa e varî altri popoli.
VI. Il libro di Bhīṣma (Bhīṣmaparaan). - L'inizio della battaglia, della quale l'auriga Sañiaya vien narrando al cieco re Dhṛtarāṣṭra lo svolgimento - che egli può conoscere, pur standone lontano, per sovrannaturale visione concessagli dal saggio Vyāsa - è stato preceduto immediatamente dal famoso dialogo fra Kṛṣṇa e Arjuna (Bhagavadgītā "Il canto del Beato") nel quale il dio, fatto uomo, eccita il guerriwero a non aver dubbî di prendere le armi contro i cugini, ché, se il corpo dell'uomo è mortale e caduco eterno e immutabile ne è lo spirito. Furiosi si succedono i combattimenti con alterna vicenda. Al decimo giorno Bhīṣma è fatto segno a un violento lancio di frecce da parte di Arjuna e messo nell'impossibilità di combattere.
VII. Il libro di Droṇa (Droṇaparvan). - Droṇa, precettore dei Kuruidi e dei Panduidi, assume per ordine di Duryodhana il comando supremo dell'esercito dei Kuruidi. E la battaglia si riaccende e sempre più violenta si svolge per altri cinque giorni, sinché Abhimanyu, il figlio di Arjuna, genero del re Virāṭa, che nella nuova fase ha compiuto prodigi di valore e ha ferito Duḥśāna e ucciso un figlio di Duryodhana, cade trafitto da mille colpi di frecce. Ma alla fine del quindicesimo giorno anche Droṇa perde la vita, e più che per valore, per astuzia del nemico.
VIII. Il libro di Karṇa (Karṇaparvan). - A Droṇa succede, nel comando supremo dell'esercito dei Kuruidi, Karna il quale nel diciassettesimo giorno della battaglia viene ucciso in un tremendo duello con Arjuna.
IX. Il libro di Śalya (Śalyapaman). - Il diciottesimo e ultimo giorno della formidabile lotta vede Śalya, auriga di Karṇa, generalissimo dell'esercito dei Kuru. Ma ben presto pure il nuovo duce viene colpito a morte da Yudhiṣṭghira, mentre pur Duryodhana è abbattuto da Bhīma, il quale, contrariamente al diritto di guerra, con un colpo di clava gli fracassa le ginocchia e lo percuote con pedate sul capo. Del che Yudhiṣṭhira acerbamente rimprovera Bhīma.
X. Il libro dell'assalto notturno (Sauptikaparvan). - Mentre tutti e cinque i Panduidi sono scampati dalla terribile strage, dell'esercito dei Kuruidi rimangono in vita soltanto tre guerrieri: Aśvatthāman, figlio di Droṇa, Kṇavarman e Kṛpa. Ma nella notte uno di essi, Aśvatthāman, ispirato da un sogno che egli ritiene simbolico, riesce con l'aiuto di Siva e di mostri e di spettri soggetti al dio, a entrare nel campo dei Panduidi e a menare la più orrenda strage di essi, fra i quali sono pure Dhṛṣṇadyumna uccisore di suo padre, Śikhaṇḍin uccisore di Bhīṣma e i figli degli stessi Panduidi. La notizia dell'eccidio è portata al morente Duryodhana, che ne trae conforto agli ultimi aneliti. Rimangono così in vita, dei Panduidi, soltanto i cinque fratelli e Draupadī e Kṛṣṇa.
XI. Il libro [dei lamenti] delle donne (Strīparvan). - Da Hastināpura accorrono al campo di battaglia il vecchio re Dhṛtarāṣṭra e la consorte, la regina Gāndhārī e le mogli e le figlie e le madri e le sorelle dei guerrieri morti. In grandi pianti tutti s'effondono per i tanti lutti che hanno colpito la stirpe di Kuru. Yudhiṣṭhira ordina poi che in favore dei caduti siano celebrati solenni riti espiatorî
XII. Il libro dei conforti (Śāntiparvan). - XIII. Il libro degl'insegnamenti (Anuśāsanaparvan). - Yudhiṣṭhira, angosciato per la notizia ricevuta dalla madre Kuntīche Karṇa, che egli aveva creduto figlio di un cocchiere e di Rādhā e che era stato ucciso in battaglia da Arjuna, era invece figlio di lei e del sole (fratello suo, cioè, e di Arjuna stesso e di Bhīma), e inconsolabile pure per tanto sangue versato, decide di ritirarsi a vita ascetica. Ma ne lo dissuadono i fratelli e la moglie. Il santo Vyāsa lo persuade poi a recarsi da Bhīṣma che sta avvicinandosi a morte per gl'innumerevoli colpi di frecce ricevuti (v. VI), affinché oda da lui insegnamenti preziosi. Consente a ciò Yudhiṣṭhira, e per 56 giorni ascolta dal saggio morente l'esposizione delle più varie norme civili, politiche, militari, sociali, religiose, morali e pure di questioni filosofiche. Morto Bhīṣma, i cinque fratelli gli rendono solenni onoranze funebri.
XIV. Il libro del sacrificio del cavallo (Āsvamedhikaparvan). - Ad acquetare il suo animo sempre tomientato dal pensiero della grande strage, Yudhiṣṭhira, per consiglio di Vyāsa, decide di celebrare un grande sacrificio espiatorio del cavallo (aśvamedha), il compimento del quale rende la sua sovranità più ampia e potente.
XV. Il libro dell'eremo (Āśramaparvan). - Dhṛtarāṣṭra, poiché è rimasto 15 anni alla reggia del nipote Yudhiṣḥira, si ritira con la moglie Gāndhārī e con Kuntī, madre dei tre primi Panduidi, e con altri, a far vita di penitente in una selva, ove rimane sino a che un incendio toglie la vita a lui, alla moglie e a Kuntī.
XVI. Il libro della strage a colpi di clava (Mausalaparvan). - Yudhisthira regna già da 36 anni in Hastināpura, quando, per effetto di una maledizione scagliata da Gāndhārī contro Kṛṣṇa, che ella aveva ritenuto cagione della morte dei suoi 100 figli, scoppia a Dvārakā (ove Kṛṣṇa era tornato dopo la grande guerra) una terribile lotta, preceduta dai più sinistri presagi, fra gli Yādava, sudditi suoi, che tutti si abbattono reciprocamente a colpi di clava. Lo stesso Kṛṣṇa, scambiato per una gazzella, è ucciso e ritorna al cielo, mentre Dvārakā è sommersa dall'oceano.
XVII. Il libro del viaggio supremo (Mahāprasthānikaparvan). - Yudhiṣṭhira, rinunziato al trono in favore di Parikṣit, figlio di Abhimanyu, si apparecchia con i fratelli e con Draupadī al gran viaggio, dandosi con essi a vita di penitente. Dopo lunghe peregrinazioni per monti e mari, durante le quali cadono morti Draupadī, Sahadeva, Nakula, Arjuna e Bhīma, Yudhiṣṭhira, rimasto solo col cane, fedele suo compagno, è incontrato da Indra, il quale lo invita a salire con lui al cielo. Ma Yudhiṣṭhira rifiuta l'onore che gli è concesso, a patto che gli lasci il suo cane, il quale, alla prova di tanta abnegazione dell'eroe, riprende l'antica sua forma, quella del dio Dharma, vero padre di lui, Yudhiṣṭhira (questi difatti era stato concepito in Kuntī, moglie di Pāṇḍu, dal dio Dharma). Dopo di che, Indra, nel suo carro aereo, accompagna Yudhiṣṭhira nella sede dei celesti.
XVIII. Il libro della salita al cielo (Svargārohaṇaparvan). - Ivi il grande eroe panduide, dopo essere stato messo a dura prova dal dio, rivede tutti coloro che gli erano stati particolarmente cari nella vita mortale.
Tutta questa grande narrazione della guerra fra i Kuruidi e i Panduidi fu narrata durante il grande sacrificio dei serpenti, al re Janamejaya - che era succeduto a Parikṣit, ucciso dal morso di un serpente - da Vaiśampāyana discepolo di Vyāsa.
Harivaṃśa: "La stirpe di Hari": supplemento al Mahābhārata, di età assai posteriore. Consta di 16.374 strofe in cui son narrate, tra l'altro, le avventure di Kṛṣṇa, identificato con Viṣṇu (Hari). È diviso in tre sezioni (parvan):1. Harivaṃśaparvan (creazione del mondo, storia delle stirpi solari e lunari), 2. Viṣṇuparvan (biografia di Viṣṇu-Kṛṣṇa), 3. Bhaviṣyaparvan (le future condizioni del mondo, la corruzione dell'età presente, Kali, ecc.).
b) Rāmāyaṇa. - Il Rāmāyaṇa, l'epica che esalta le gesta (ayana, propr. "viaggio") di Rāma, consta di sette libri (kāṇḍa, propr. "sezioni"), di complessive 24.000 strofe circa, raccolte in capitoli o sezioni (sarga), comprendenti da 67 a 128 strofe (śloka di quattro ottonari) ciascuno. Oltre che per ampiezza, il poema differisce dal Mahābhārata per possedere una reale unità. Suo vero e proprio autore appare essere stato Vālmīki, del quale nondimeno, come in generale degli autori indiani, nulla sappiamo. La critica (per opera particolarmente di H. Jacobi) gli attribuisce la paternità dei libri II-VI, il primo e l'ultimo invece dovendosi, per ragioni di forma e di contenuto, considerare come vere e proprie aggiunte. Ma pure i libri II-VI contengono una buona parte della loro materia che non va attribuita a Vālmīki, come quella che deve essere considerata ampliamento di bardi, cantori della leggenda di Rāma, leggenda la quale, per tradizione orale, doveva essersi da secoli già largamente diffusa nell'India, assai prima che venisse raccolta in un poema unitario. Tali bardi, per compiacere agli auditori, si dilungavano certo in quelle diverse parti che potevano essere a questi di maggiore interesse, secondo le rispettive condizioni, politiche, civili e religiose. Accadde così che, quando il poema fu scritto, le aggiunte venissero a costituire parte integrante dell'opera, l'ampiezza del cui nucleo fondamentale, da attribuirsi a Vālmīki, deve essere considerata di poco più di un quarto dell'attuale opera intera: quanto cioè strettamente si riferisce all'esilio di Rāma, figlio di Daśaratha re di Ayodhyā, con la sposa Sītā e il fratello Lakṣmaṇa; al rapimento di Sītā da parte del grande demonio Rāvaṇa, re di Laṅkā, terra oltre il mare al sud dell'India; alla spedizione contro di lui e alla sua disfatta, per virtù di Rāma, capo di un esercito di scimmiotti. L'opera dei brahmani influì inoltre, certamente e assai, sulla redazione definitiva, il cui carattere originale, eminentemente volto a esaltare la classe dei guerrieri (kṣatriya), venne da essi adattato ai fini e alle esigenze della casta brahmanica. Tale adattamento trovò la sua massima espressione nei libri I e VII, nei quali Rāma, eroe nazionale, appare come incarnazione di Viṣṇu.
Sul significato della gesta di Rāma fu lungamente discusso dalla critica moderna, la quale, tenendo conto che il nome di Laṅkā vale per gl'Indiani stessi a significare l'isola di Ceylon, l'interpretò anzitutto come la lotta per l'espansione degli Arî nell'India meridionale (Lassen, Weber). Altri credette invece di vedere nei demoni di Laṅkā buddhisti del Ceylon, sopraffatti dalla reazione brahmanica (Talboys-Wheeler); altri un mito solare (Henry); altri, finalmente (Jacobi), certo cogliendo nel vero, negò al poema qualsiasi contenuto allegorico, ma gli attribuì un fondamento mitologico: in Rāma, il fulgido eroe, è da vedersi Indra, in Sītā, nata dalla terra, il solco personificato in divinità protettrice dell'agricoltura e dei frutti della terra (come appunto appare invocata dal Ṛgveda, IV, 57, 6) sposa di Indra, il Iupiter pluvius.
Il Rāmāyaṇa ci è giunto in tre recensioni, elaborate in parti diverse dell'India e tra loro, contrariamente a quanto è accaduto per il Mahābhārata, notevolmente differenti, non solo per le varietà testuali, ma per contenuto: in ciascuna, difatti, figurano parti rispettivamente mancanti nelle altre. Si può dire che circa un terzo del contenuto delle singole recensioni non appaia nelle altre. Di esse, forse la più antica, certo la più diffusa nell'India settentrionale e meridionale venne più volte pubblicata a Bombay (C), una seconda (B), cosiddetta bengalese o gauda, fu edita per la prima volta e tradotta (1846-58) dall'italiano Gaspare Gorresio (v.); e tale edizione fu la prima apparsa, completa, dell'intero poema. La terza redazione, occidentale (A), kashmiriana, è nota solo nei manoscritti. Le ultime due, costituitesi nel territorio sul quale sorse la letteratura classica, palesano una lingua più raffinata della prima. Tutte e tre coincidono, poi, nella divisione del poema in 7 libri e fanno palesi differenze certo causate dal rispettivo diverso luogo d'origine. Per essere la storia di Rāma narrata nel Mahābhārata (III, 277-291) in forma che si può provare anche posteriore a quella dell'odierno Rāmāyaṇa e per non contener quest'ultimo, dal canto suo, alcun accenno agli eroi del Mahābhārata stesso, si poté, pur con l'ausilio di dati storici, politici, sociali, letterarî, assegnare con sicurezza la data di composizione del poema valmikiano, nella forma da noi oggi posseduta, alla fine del sec. II d. C., a un tempo anteriore, cioè, a quello nel quale il Mahābhārata stesso assunse la sua definitiva, attuale redazione. Ciò non toglie tuttavia che il nucleo delle leggende della grande epica sia anche più antico di quello del Rāmāyaṇa, e risalga forse al IV-III sec. a. C.
I. Il libro dell'infanzia (Bālakāṇḍa). - In Ayodhyā, capitale dei Kosala, regna il pio e giusto Daśaratha della progenie di Ikṣvāku. Nella speranza di continuare la sua stirpe, in pericolo di estinguersi per mancanza di figli, egli celebra un aśvamedha, il grande sacrificio del cavallo. Compiuta che è la cerimonia, il desiderio del re viene esaudito: Viṣṇu, in seguito alla profezia di Brahmā, che un uomo e non un dio avrebbe potuto uccidere il capo dei nemici degli dei, decide d'incarnarsi nel seno delle tre mogli di Daśaratha. La prima, Kauśalyā, dà alla luce Rāma; la seconda, Kaikeyī, Bharata; la terza, Sumitrā, Lakṣmaṇa e Śatrughna. Su tutti eccelle per virtù Rāma, preeonizzato a uccidere un giorno Rāvana, signore dei rākṣasa (demoni) e a distruggerne la formidabile stirpe con l'aiuto di un esercito di scimmiotti creato per lui dagli dei. Ma già, fanciullo di 16 anni, Rāma compie alti prodigi di valore. Affidato dal padre al grande eremita Viśvāmitra, che lo ha voluto con sé perché distrugga i rākṣasa, turbatori di un suo sacrificio, Rāma uccide in un fiero combattimento Tāṭakā, una terribile demone, e ottiene, così, che il lungo sacrificio che Viśvāmitra sta celebrando si compia indisturbato nell'"Eremo perfetto". Rāma decide poi di recarsi dal re Janaka, il quale ha stabilito di concedere in sposa sua figlia Sītā, natagli da un solco, mentre egli arava la terra per preparare il luogo del sacrificio, a colui che saprà sollevare e tendere un arco che mai alcun altro guerriero aveva potuto usare. Per via, Viśvāmitra narra al giovane eroe varie storie. Giunto alla reggia, Rāma vince senza fatica la prova. Celebrate dopo alcuni giorni le nozze con Sītā, Rāma torna con lei e col padre, intervenuto alla cerimonia, ad Ayodhyā.
II. Il libro di Ayodhyā (Ayodhyākāṇḍa). - Dopo varî anni dal ritorno di Rāma, il vecchio re Daśaratha decide di associarselo al trono. Già la cerimonia è pronta, allorché una delle mogli del re, Kaikeyī, la madre di Bharata, istigata dalla gobba e perfida ancella Mantharā, si presenta a lui e gli dichiara che è giunto il momento nel quale esige che egli mantenga la promessa fattale un tempo, di concederle due doni, quali si fossero: voglia dunque consacrar ora socio ed erede del trono, il figlio di lei, Bharata, e mandar Rāma in esilio per 14 anni. E Rāma, pure a malgrado del cocente dolore dei genitori e dei sudditi, desideroso che non venga meno la parola data dal padre, abbandona con la moglie e col fratello Lakṣmaṇa la reggia. Dopo lungo e aspro cammino attraverso foreste e fiumi, i tre giungono al monte Citrakūṭa, ove prendono dimora. Daśaratha intanto, sfinito per lo strazio della separazione dal figlio amatissimo, muore pochi giorni dopo la partenza di lui. Rimasto il trono scoperto, Bharata, sebbene esortato dalla madre e dai ministri a succedervi, recisamente si oppone e si reca anzi ove si trovano i tre esiliati, per indurre Rāma a tornare ad Ayodhyā e assumere il potere che di diritto gli compete. Ma Rāma, certo che solo l'adempimento della parola che il padre aveva data gioverà a scioglierlo, pur morto, dal contratto dovere, nuovamente rifiuta: soltanto alla fine dei 14 anni egli ritornerà ad Ayodhyā. Rientrato alla capitale, Bharata pone allora sul trono i sandali di Rāma, segno della sovranità di lui; egli governerà intanto il regno dei Kosala in nome del fratello, ma standosene in Nandigrāma, sua città. Dopo alcun tempo Rāma abbandona, con la moglie e col fratello, il Citrakūṭa, infestato dai demoni, e si reca nella selva Daṇḍaka.
III. Il libro della selva (Araṇyakāṇḍa). - Gli asceti abitatori della foresta accolgono con grande amore gli esuli e chiedono a Rāma protezione contro i demoni (rākṣasa) che vanno ivi compiendo continue stragi. Fatale difesa concede loro senz'indugio Rāma, che subito il giorno seguente abbatte un terribile demone. Trascorrono intanto dieci anni. I tre, procedendo nel loro cammino, passano di eremo in eremo. Un giorno Rāma riceve in dono dal grande asceta Agastya un arco meraviglioso che un tempo era appartenuto a Viṣṇu. Un'altra volta i tre s'incontrano col grande avvoltoio Jaṭāyus che era stato amico di Daśaratha, ed era già vissuto centinaia di anni. Divenuto loro fedele compagno di viaggio, Jaṭāyus non li lascerà se non quando verrà ucciso in un combattimento per difendere Sītā. Fermatisi tutti in una regione terribilmente infestata dai rākṣasa, sudditi di Rāvaṇa, il grande signore di Laṅkā, Rāma sostiene vittoriosamente combattimenti contro eserciti formidabili di essi, guidati pur da un fratello dello stesso Rāvaṇa. Istigato dalla sorella Śūrpaṇakhā, che era stata malmenata da Rāma, Rāvana decide di rapire Sīta, ma, certo che non vi riuscirebbe per solo valore, ricorre alla frode. Fatto trasformare uno dei suoi fidi in una gazzella color d'oro, gli comanda di correre alla capanna dei due sposi. Sītā prega allora il consorte d'impadronirsi del mirabile animale, del cui vello dorato desidera farsi un molle giaciglio. Incurante degli avvertimeati di Lakṣmaṇa, che teme un'insidia, Rāma si pone subito a inseguire la gazzella, che lo trae nella corsa molto lungi dalla capanna. Non appena l'animale è colpito mn una freccia da Rāma, il demone che l'incarna, ripresa la sua forma, invoca lamentosamente, rifacendo la voce di Rāma, Sītā e Lakṣmaṇa. Atterrita da quel grido, Sītā incita il cognato ad accorrere in aiuto di Rāma, ma non appena quegli è partito, Rāvana le si presenta in veste di penitente e, rivelatosi subito dopo, la rapisce nel suo carro aereo. Né vale il tentativo che in difesa di lei fa l'avvoltoio Jaṭāyus, il quale è abbattuto dai colpi del re dei rākṣasa. Angosciato dalla scomparsa di Sītā, Rāma ne intraprende disperate ricerche e riesce a sapere finalmente da un rākṣasa che ha sconfitto e liberato da una maledizione per cui tale era stato ridotto: che Sītā è stata portata a Laṅkā. Il demone esorta inoltre Rāma a chiedere l'aiuto di Sugrīva, figlio del Sole, signore degli scimmiotti, detronizzato dal fratello Bāli, e Rāma si dirige con Lakṣmaṇa al Ṛṣyamūka, monte del mezzogiorno dell'India, sul quale appunto Sugrīva dimora.
IV: Il libro della selva Kiṣkindhā (Kiṣkindhākāṇḍa). - Sugrīva, fatto sicuro da Hanumat, suo scimmiotto fedelissimo, dell'essere di quei due fratelli e della ragione della loro venuta, dice a Rāma di aver veduto Sītā mentre era trasportata per l'aria da Rāvaṇa, e gli mostra alcuni ornamenti lasciati cadere da lei. Narrategli poi le vessazioni a lui inflitte dal fratello Bālī, che ora abita nella spelonca Kiṣkindhā, lo esorta a muovere contro di lui, alla cui morte egli, Sugrīva, potrà riprendere l'antico potere. Dal canto suo, egli presterà a Rāma il migliore aiuto per ritrovare Sītā. Rāma corre subito contro Bālī, del quale, dopo varî combattimenti, riesce completamente vincitore. Dopo alcun tempo Sugrīva, che ha riottenuto virtualmente il regno, raccoglie lo sterminato suo esercito e invia quattro capi di esso in quattro diverse regioni a indagare ove si trovi Sītā. Ma tre di essi, pur dopo lunghe peregrinazioni ritornano, riferendo che ogni loro indagine è riuscita infruttuosa. Soltanto Hanumat ritarda. Questi ha compiuto interminabili giri e già sta per lasciarsi morir d'inedia, per lo sconforto del mancato successo, quando dall'avvoltoio Sampāti, fratello di Jaṭāyus, riesce a conoscere il luogo ove Sītā è prigioniera. Ma ben 100 yojana di mare dividono Laṅkā dalla terra. Tra lo stupore di tutti gli scimmiotti, Hanumat, additato dal vecchio scimmiotto Jāmbavat come l'unico che possa compiere la mirabile impresa, si slancia d'un salto attraverso l'aria.
V. Il libro bello (Sundarakāṇḍa). - Nessun ostacolo riesce ad arrestare l'impetuosa corsa di Hanumat, che dopo un breve riposo su un monte sorto improvvisamente per benignità dell'oceano, ripreso il cammino, giunge di notte in Laṅkā, ove, fattosi di minime proporzioni, si addentra, compiendo le più minute ricerche nelle principali case e pur nelle stanze più remote della reggia stessa. Finalmente riesce a trovar Sītā che, piangente, se ne sta seduta sotto un albero di un boschetto di aśoka, e assiste, non veduto, alle profferte d'amore che le fa Rāvana e alle sdegnose ripulse di lei, incurante pur delle minacce di morte del feroce rākṣasa. Ma non appena Sítā è rimasta sola, Hanumat si mostra a lei e le porge un anello, segno di riconoscimento, che Rāma gli aveva consegnato per lei. E riparte di là, solo, avendo ella rifiutato, per pudicizia e per fedeltà al marito, di salire sulle spalle di lui. Nell'uscire dalla città, Hanumat, per provocare l'ira nemica, devasta il boschetto di aśoka, carissimo a Rāvana, e mena strage di una quantità di rākṣasa da quello inviatigli contrò. Ma alla fine Hanumat cade prigioniero e con la coda avvolta in stracci inzuppati d'olio e incendiata, è trascinato per le vie di Laṅkā. Ma Agni, invocato da Sītā, lo risparmia. Dato allora fuoco a Laṅkā, e assicuratosi che Sītā è incolume, Hanumat si slancia per lo spazio e ritorna alla caverna Kiṣkindhā, e, lieto, consegna a Rāma la gemma che Sītā gli ha affidata per lui.
VI. Il libro della battaglia (Nuddhakāṇḍa). - Rāma allestisce senza indugio un grande esercito di scimmiotti e lo dispone sulla riva del mare. In Laṅkā intanto il rākṣasa Vibhīṣana tenta di dissuadere il fratello Rāvana dal mantenere presso di sé Sītā e dal non paventare l'ira di Rāma, che certo si scatenerà terribile contro di lui e i suoi. Ma a nulla valgono i suoi prudenti consigli. Offeso dal fratello, eccitato da altri, Vibhīṣana fugge di là e corre a chiedere protezione a Rāma, il quale lo accoglie e lo consacra re di Laṅkā. Con massi enormi di pietra e con intere montagne e con tronchi grossissimi d'albero, gli scimmiotti costruiscono poi un ponte sull'oceano e attraverso di esso fanno irruzione nella città nemica. Terribili si succedono i combattimenti, nell'ultimo dei quali, Rāvaṇa, dopo di essere inutilmente ricorso ad arti magiche per ingannare con false immagini paurose Sītā e i soldati di Rāma, e aver pur invano usato della smisurata forza del terribile rākṣasa antropofago Kumbhakarṇa e sacrificati enormi eserciti, cade in duello con Rāma. Il quale, entrato in Laṅkā, restituisce anzitutto il trono a Vibhīṣana. Si fa poi condurre da Hanumat Sītā, ma subito la respinge, dubitando della sua purezza, dato il tempo non breve che ella ha passato nella casa di Rāvaṇa. Ma Sītā trionfa dei dubbî di lui: gittatasi, forte della sua innocenza, su un rogo, ne vien tratta dal dio Agni che la consegna intatta a Rāma. Ottenuto da Indra, che gli ha offerto di soddisfarlo in ciò che egli desidera, che sian restituiti in vita gli scimmiotti caduti, Rāma, con Sītā, Lakṣmaṇa, Vibhīṣaṇa, Sugrīva e altri ritorna trionfatore in Ayodhyā, ove vien riconsacrato sul trono paterno.
VII. Il libro finale (Uttarakāṇḍa). - Frammista a molte leggende è narrata la storia dell'origine delle sedi dei rākṣasa, delle loro guerre con Indra e con gli altri dei e con le stirpi arie: sono descritte le loro crudeltà e "i presagi annuncianti l'imminente sconfitta". Ed è narrato pure il ritorno degli scimmiotti alle loro terre e un nuovo ripudio di Sītā da parte di Rāma. Sītā, sempre mite e buona pur nella sorte avversa, dà alla luce due gemelli, Kuśa e Lava, i quali divengono, col tempo, seolari dell'asceta e cantore Vālmīki. Un giorno, durante un aśvamedha ordinato da Rāma, essi recitano per ordine del maestro la grande storia del padre. Rāma li riconosce e vien fatto certo da Vālmīki della purità di Sītā. Egli vorrebbe riprenderla con sé, ma ella, invocando ad attestazione della sua fedeltà maritale il ritorno nel seno della madre terra, viene da questa rapita. Brahmā conforta del suo dolore Rāma, assicurandolo che rivedrà la moglie dopo la morte. Il regno di Ayodhyā è trasmesso a Kuśa e a Lava.
Nessun poema raggiunse in India la celebrità del Rāmāyaṇa, il quale, se valse per gli scrittori posteriori come il modello delle opere poetiche (Vālmīki fu detto il primo poeta d'arte, ādikavi, e ādikāvya, il primo poema artistico, fu definito il Rāmāyaṇa), fu ed è tuttora per il popolo indiano l'epica popolare prediletta, per la quale si vedono esaltate in Rāma le più grandi virtù che sia dato possedere a un eroe, in Sītā il modello dell'abnegazione e della fedeltà coniugale, in Lakṣmaṇa la devozione fraterna. I poeti classici ne rivestirono, nei loro poemi, la leggenda fondamentale (Kālidāsa, Bhavabhūti, i medievali e i moderni ne fecero traduzioni, elaborazioni e lo ebbero fonte di concezioni epiche proprie, principalissimo tra queste ultime il Rām-carit-mānas "il lago delle geste di Rāma", epopea hindī (v. sopra: Lingue) di Tulsī Dās (1532-1624) la quale può esser ben definita la Bibbia di milioni d'Indiani d'oggi"; e rappresentazioni vengono fatte pure oggi nei pubblici teatri della leggenda di Rāma, che è certo il più amato eroe nazionale. Le efficacissime descrizioni della natura, l'altezza delle immagini poetiche, la vivezza dei caratteri, e soprattutto la purezza che costantemente anima Rāma, la sposa, il fratello e ogni altro dei suoi, fanno giustamente considerare l'epica di Vālmīki una delle più alte concezioni del genio umano.
Purāṇa. - Connessi con l'epica per contenuto, tratto certamente da fondo comune, e per il loro carattere enciclopedico, sono i Purāṇa, voluminose opere didattiche, composte con finalità religiosa, dirette a esaltare, cioè, una divinità (Viṣṇu, particolarmente, o Śiva, e alcune volte l'uno e l'altro insieme) o alcun luogo sacro. Secondo il loro nome comune (purāṇa, propriamente agg. "antico"), essi valgono come "antiche narrazioni" (purāṇam ākhyānam) cioè "leggende", le quali, per citazioni che del termine purāṇa si hanno nell'Atharvaveda, nei Sūtra, nel Mahābhārata e nei Purāṇa stessi, risultano aver già in antico costituito opere a sé, vere e proprie, opere che tuttavia non sono a noi pervenute, ma del cui contenuto gli attuali Purāṇa ci rendono chiarissima idea. La materia dei testi giuntici (diversi d'età gli uni dagli altri e pur alle volte in loro singole rispettive parti) deve considerarsi perciò risalente a un tempo assai remoto (molte connessioni si notano in essi coi Veda, coi codici di legge, e particolarmente col Mahābhārata), sebbene nessuno dei testi stessi risulti nella sua forma definitiva anteriore al sec. VI d. C., contrariamente all'opinione degl'Indiani che li fanno risalire ad altissima antichità.
I Purāṇa giuntici (detti anche Mahāpurāna "grandi Purāṇa") sono in numero di 18 e contengono complessivamente circa 400.000 strofe. Pure 18, secondo il numero datone in quasi tutti essi, sono gli Upapurāṇa "Purāṇa secondarî", specie di supplementi dei Purāṇa maggiori, poco conosciuti e non tutti pubblicati. Hanno carattere assai più limitato e sono a servigio esclusivo del rituale "di certi culti localì e dei bisogni di certe sette". Autore leggendario dei Purāṇa è Vyṣṇsa, incarnazione di Viṣṇu, lo stesso cui la tradizione indiana attribuisce, come abbiamo detto, la paternità dei Veda e del Mahābhārata. Narratore di essi è il bardo (sūta) Lomaharṣaṇa, cui il maestro Vyāsa li ha insegnati. Sono quasi interamente redatti in versi, nel solito metro epico (śloka) di strofe di 4 ottonarî; pochi brani in altri metri, pochi in prosa.
La lingua è quella ormai del tipo classico. Assai limitato il loro valore letterario; notevolissime le sproporzioni e le esagerazioni. Testi religiosi, ripetiamo, di carattere spesso visnuitico, ma contenenti pure, oltre ad accenni al culto di Śiva (alcuni, anzi, sono ad esso specialmente dedicati) notizie della dottrina della Trimūrti (Brahmā, Viṣṇu e Śiva) - della quale pure il Harivaṃśa (v. sopra) tratta particolarmente - e tracce di derivazioni da sistemi filosofici (Sāṃkhya, Yoga, Vedānta), i Purāṇa, in cui è raccolto un ammasso di notizie che assai da vicino tocca la vita degl'Indiani, sono stati ben definiti "libri santi di secondo grado", come quelli che, composti di materia da principio di genere extra-religioso e fatti oggetto particolare di canti di bardi, costituirono poi manuali di esaltazione delle divinità in templi e luoghi di pellegrinaggio, ma divennero, e pur oggi rimangono, testi direttivi della vita di milioni d'Indiani.
I Purāṇa che possediamo, se pure non rispondono esattamente alle cinque caratteristiche fondamentali che la tradizione assegna a ogni testo del genere (1. creazione primaria; 2. creazione secondaria: distruzione e rinascita del mondo; 3. genealogia di dei e patriarchi; 4. periodi preistorici umani, chiamati Manvantara "regni", "successioni dei varî Manu"; 5. storie di antiche dinastie reali), contengono nondimeno complessivamente tutto quanto a queste caratteristiche risponde, anzi assai di più. Sono essi (alcuni traggono nome da un'incarnazione, avatara, di Viṣṇu: varāha, "cinghiale", vāmana "nano", kūrma "tartaruga", matsya "pesce") i seguenti: 1. il Brāhma- o Brahma-purāṇa o Ādi-purāṇa ("il Purāṇa di Brahmā" o "il primo Purāṇa"); 2. il Padma-purāṇa, così denominato dal loto (padma-) nel quale Brahmā apparve al momento della creazione. Consta di ben 50.000 śloka raccolti in 50 più libri e ci è pervenuto in due recensioni; 3. il Vaiṣṇava- o Viṣṇu-purāṇa. È tra i più antichi Purāṇa e certo il più autorevole testo del viṣṇuismo; 4. Vāyava- o Vāyu-purāṇa, e Śaiva- o Śivapurāṇa, certamente antico, dedicato al culto di Śiva; 5. Bhāgavata-purāṇa (il Purāṇa dei seguaci del culto di Viṣṇu, denominato Bhagavat). Consta di 18.000 strofe circa, raccolte in 12 libri. È il più celebre Purāṇa, come quello che tra l'altro nel X libro contiene descritta la vita di Viṣṇu-Kṛṣṇa, la quale venne tradotta in tutte le lingue moderne dell'India; 6. Nārada- o Nāradīya- o Bṛhannāradīya-purāṇa; 7. Mārkaṇḍeya-purāṇa, forse il più antico di tutti i Purāṇa, nel quale le divinità che eccellono su tutte sono Brahmā, Indra e Durgā; 8. Āgneya- o Agni-purāṇa; 9. Bhaviṣya- o Bhaviṣyat-purāṇa "il Purāṇa del futuro", cioè delle profezie; 10. Brahmavaivarta- o Brahmakaivarta-purāṇa; 11. Laiṇga- o Liṇga-purāṇa (Purāṇa in onore di Śiva simboleggiato nel liṇga, il phallus); 12. Varāha- o Vārāhapurāṇa; 13. Skanda- o Skānda-purāṇa; 14. Vāmana-purāṇa; 15. Kūrma- o Kaurma-purāṇa; 16. Matsya- o Mātsya-purāṇa; 17. Garuḍa- o Gāruḍapurāṇa; 18. Brahmāṇḍa-purāṇa (Purāṇa in onore dell'uovo di Brahmā).
Il contenuto dei Purāṇa è, come si è detto, enciclopedico. Sono difatti oggetto di essi: la creazione del mondo, il loto in cui Brahmā appare nella creazione del mondo; l'origine degli dei; l'esaltazione di Viṣṇu, unico dio creatore e sostenitore del mondo, che riassorbe in sé l'intera Trimūrti (rappresentazione del mondo in Viṣṇu, unica realtà); Brahmā-Kṛṣṇa creatore del mondo; descrizione della vita e delle gesta di Kṛṣṇa; Kapila, fondatore del sistema filosofico Sāṃkhya, incarnazione di Viṣṇu; Vyāsa autore dei Purāṇa, incarnazione di Viṣṇu; mito di Bāli e di Viṣṇu; culto di Viçnu come sole; cerimonie religiose in onore di Viṣṇu; esaltazione di Śrī, moglie di Viṣṇu, nata dal frullamento dell'oceano; mito di Rādhā, l'amata da Kṛṣṇa; mezzo per liberarsi dai mali dell'età presente (meditazione su Viṣṇu e sul Yoga); miti del sole, degli Āditya, di Śiva e Durgā; culto di Śakti (v. induismo); miti e culti dei serpenti; miti di Dakṣa e Bhāva; frullamento dell'oceano; nascita del primo uomo; descrizione del cielo, della terra e degl'inferni; miti cosmologici; le quattro età (yuga) del mondo; diluvio; cerimonie per nascite, morti, ecc.; sacrifizî ai Mani, cerimonie espiatorie; omina et portenta; doveri delle caste e degli āśrama; doveri dell'ospitalità; doveri del re, degli asceti; leggende varie: Śakuntalā, Purūravas e Urvaśī, Rāma e Sītā, Ṛṣyaśṛṅga, Sagara; Anasūyā, Naśiketas e altre ancora; leggende edificanti; storie di re e saggi dell'antichità; nascita dei Kuruidi e dei Panduidi; liste di dinastie, alcune delle quali con vero valore cronologico (Maurya: 326-284 a. C.; Āndhra: fine 236 d. C.; Gupta: 320-326 d. C.); enumerazione e descrizione dei luoghi sacri (tīrtha) (le quali costituiscono gli Sthala-purāṇa "Purāṇa dei luoghi" e Māhātmya "Purāṇa relativi al grande Spirito", che generalmente si dichiarano parti di uno o di un altro Purāṇa); esposizioni di sistemi filosofici (Sāṃkhya, Yoga, Vedānta), della Bhagavadgītā e dell'Iśvaragītā; allusione a sette contrarie ai Veda; esposizione del Mahābhārata, del Harivaṃśa, del Rāmāyaṇa; cenno sui 18 Purāṇa; finalmente nozioni di astronomia, astrologia, di costruzione di case, di politica, arte della guerra, diricto, medicina, matematica, poetica, grammatica.
B) Letteratura buddhistica. - La letteratura canonica del Buddhismo ci è stata tramandata in pāli, in sanscrito misto e in sanscrito puro (v. sopra: Lingue). La costituzione del canone pāli (Hīnayāna; v. buddhismo), erroneamente detto meridionale, ché, pur provenendoci da Ceylon, ov'era stato conservato dai monaci, esso è originato dalla "regione di mezzo", Madhyadeśa, od. Behar, fu opera lenta e la sua pura trasmissione orale durò quasi quattro secoli. Esso ci è giunto nella redazione della setta dei Vibhajyavādin nel cosiddetto Tipiṭaka (sanscrito Trio) "I tre canestri", dei quali il primo porta il nome di Vinaya-piṭaka "Il canestro della disciplina", il secondo Sutta-pitaka (sanscr. Sūtra-pio) "il canestro delle prediche", il terzo Abhidhamma-piṭaka (sanscr. Abhidharma-pio) "il canestro della metafisica". Ciascun piṭaka è distinto in molte parti, alla lor volta divise e suddivise. Il Vinayapiṭaka consta di 5 raccolte, concernenti la diversa gravità dei peccati e delle loro conseguenze in rapporto alla permanenza nell'ordine (Saṃgha) o all'esclusione da esso; regole per l'accoglimento nell'ordine stesso; "abitazioni durante la stagione delle piogge", norme per vestiti, medicamenti, ecc.; procedimenti disciplinari, ecc. Il Sutta-piṭaka, pur esso in 5 raccolte, comprende molti sutta (sanscrito: sūtra) "capitoli", in versi e in prosa mista di prosa e di versi e di assai differente ampiezza nei quali si espone la dottrina (dharma) buddhistica per prediche o dialoghi. I sutta sono raccolti in nikāya "Collezioni" (Dīgha-nikāya, sanscr. Dīrgha-nio "Collezione [di capitoli] lunghi"; Majjhima-nikāya, sanscr. Madhyamanio "Collezione [di capitoli] di lunghezza media"; Saṃyutta-nikāya, sanscr. Samyukta-nio "Collezione di [capitoli] connessi"; Aṅguttaranikāya, sanscr. Aṅgottara-nio, "Collezione [di capitoli] aumentati di lunghezza [secondo il numero crescente]"; Khuddaka-nikāya, sanscr. Kṣudraka-nio, "Collezione di piccoli capitoli").
Notevolissimi, tra gli altri, pur in mezzo a lunghe disquisizioni in uno stile chiamato giustamente dal Barth "il più insopportabile degli stili)", sono: il 16° sutta del Dīgha-nikāya, il Mahāparinibbānasutta "Il grande capitolo del completo Nirvāṇa", narrazione degli ultimi giorni della vita del Buddha, dei suoi ultimi discorsi, della sua morte: una delle parti, pur non omogenea, più antiche del Tipiṭaka, che ci offre elementi preziosi per la biografia del Buddha; il secondo capitolo del quinto nikāya (Khuddaka-n., il più importante scritto, sotto l'aspetto artistico, della letteratura pāli), il Dhammapada (sanscrito: Dharmao) "La via della santità" (antologia di 420 strofe); l'ottavo e il nono: Thera- e Therī-gāthā "Collezione di strofe pronunziate da frati (thera, sanscrito: sthavira, propriamente "vecchio", ecc.), che illustrano, con profondità di pensiero e con altezza d'immagini la morale buddhistica; il decimo, il Jātaka "Libro delle nascite" (anteriori del Buddha, 550 storie), che è di grande importanza pure per le notizie che ci dà della vita sociale e religiosa del popolo dell'antica India, per il suo contenuto narrativo che ha offerto larga materia di studio alla storia della favola in India e delle sue emigrazioni in occidente.
L'Abhidhamma-piṭaka svolge in senso dialettico il contenuto dogmatico del Sutta-piṭaka. Molti commenti furono pure composti al canone: ricordiamo che di esso fa parte la Nidānakathā (introd. al comm. al Jātaka) "Novella dei principî", che contiene la più antica biografia connessa del Buddha. Tale commento è dovuto al più celebre dei commentatori, Buddhaghoṣa, del sec. V, autore pure di un commento al Dhammapada e, tra le altre opere canoniche, del Visuddhimagga (sanscrito: Viśuddhimārga) "La via della purità" che si può considerare la prima trattazione filosofica sistematica e minuta di tutta la dottrina del Buddha. A queste opere vanno aggiunte le cronache di Ceylon Dīpavaṃsa "Storia dell'Isola" e Mahāvaṃsa "La grande storia", poemi storici, per così dire. Si hanno pure opere contenenti leggende, manuali in prosa e poesia di dottrina e teologia, che si connettono coi testi canonici: e trattazioni poetiche della vita del Buddha e finalmente opere novellistiche. Oltre alla canonica, il buddhismo pāli possiede pure un abbondante letteratura extra-canonica, opera quasi tutta di monaci di Ceylon. Ne fanno eccezione le parti più antiche del Milindapañha "Le domande del re Milinda", il Μένανδρος, sovrano della dinastia greco-battriana del sec. II a. C., opera che deve supporsi originaria del NO. dell'India. Si tratta di dialoghi sui punti più importanti della dottrina e pure di opera apologetica.
Il canone della setta dei Mūlasarvāstivādin non ci è giunto completo; i suoi principali testi sono stati tradotti dal sanscrito in cinese, per opera del pellegrino cinese I-tsing, nel 700-712 d. C. Frammenti di questo canone non solo in sanscrito, ma pure in tocario (lingua dell'Asia centrale) sono stati scoperti all'inizio del sec. XX nel Turkestan orientale. I testi giuntici, pure fra grandi diversità di forma da quella del canone pāli (distribuzione della materia, proporzioni, ecc.), lasciano apparire un'identità sostanziale nella dottrina.
Nell'originale indiano (sanscrito misto) ci sono pervenuti il Mahāvastu "Il libro dei grandi avvenimenti" (sec. IV d. C., ma nel nucleo, forse, del sec. II a. C.), narrazione leggendaria della vita del Buddha anche nell'esistenza precedente all'ultima terrena e delle vicende storiche dell'ordine (scuola hīnayāna dei Lokottaravādin), e il Lalitavistara "La dettagliata narrazione del giuoco [del Buddha]", testo mahāyāna, e altre biografie del Buddha: in sanscrito puro, il Buddhacarita di Aśvaghoṣa (I-II sec, d. C.) "Storia della vita del Buddha", opera di altissima poesia, alcune scene ed episodî della quale sono ampliati e rielaborati nel Saundarānandakāvya, dello stesso grande poeta; la Jātakamālā "La ghirlanda di storie delle nascite" di Āryaśūra (sec. IV), elaborazione artistica in versi, e in prosa mista a versi, di una collana di 34 jātaka. Oltre a queste e ad altre opere sanscrite di contenuto buddhistico, esiste un'ampia letteratura di avadāna (che tengono del Hīnay. e del Mahāy.), "grandi gesta", storie di una grande gesta religiosa o morale, e del frutto conseguito e da conseguirsi, spesso narrate in forma di predica dal Buddha stesso, che è quel che ci resta di un'ampia letteratura disciplinare-monastica. Tra le precipue opere del genere, sono da ricordarsi l'Avadānaśataka "I cento Avadāna" (sec. II d. C.; trad. in cinese sec. III), il Divyāvadāna "L'Avadāna celeste" (trad. cinese sec. III), che contiene pure un ciclo di avadāna di Aśoka ed è strettamente connesso coi sutta del canone pāli; la grande raccolta di 107 avadāna del poligrafo Kṣemendra (sec. XI), Avadānakalpalatā.
Finalmente nella letteratura buddhistica in sanscrito, di essenza decisamente mahāyānica, fanno parte opere composte in periodi diversi di tempo e riferentisi a diverse sette, tutte nondimeno tenute oggi in grande onore nel Nepal (mahāyānasūtra). Più importante fra tutte è il Saddharmapuṇḍarīka "Il loto della buona religione" (200 d. C.?), in prosa sanscrita e in versi (gāthā) in sanscrito misto. In esso il Buddha è Dio supremo, creatore e protettore di tutti gli esseri, spirito beatissimo, dotato di ogni più fantastico attributo, già vissuto da tempo infinito, e immortale. L'opera contiene inoltre l'esposizione della dottrina ed è ricca di parabole, similitudini, ecc. Altre opere si hanno di contenuto mitologico, escatologico, fantastico, riferentisi al culto, alla dogmatica, alla filosofia e pur ricche di leggende. Tra esse l'Avalokiteśvaraguṇakāraṇḍavyūha "La descrizione estesa della cesta delle qualità di Avalokiteśvara", detto pure semplicemente Kāraṇḍavyūha, che esalta il Buddha Avalokiteśvara "il Signore che vede tutto" con compassione per tutte le creature, il tipico Bodhisattva che rifiuta per infinita pietà di divenire un Buddha, sinché non siano salvi tutti gli esseri. Più importanti fra tutte le opere del genere su accennato sono le Prajñāpāramitā "[Sūtra della] perfezione della sapienza". Esse appartengono alla scuola dei Śūnyavādin, "negativisti", per i quali la certezza della non esistenza dell'essere e del non essere costituisce la conoscenza suprema. Altre opere si hanno, dovute a celebri maestri del Mahāyāna: Nāgārjuna (sec. II) sistematizzatore della dottrina mahāyāna e fondatore della scuola mādhyamika, Asaṅga (sec. IV), espositore della scuola Yogācāra e autore del Mahāyānasātrālaṃkāra, opera consistente di versi memoriali (kārikā) da lui stesso commentati; Vasubandhu (sec. IV), autore dell'Abhidharmakośa, che è uno dei testi fondamentali per la dogmatica buddhistica; Candrakīrti (sec. VII), Candragomin (secolo VII), Santideva (sec. VII), la cui opera principale, il Bodhicāryāvatāra, "L'entrata nella pratica [della vita che conduce all']illuminazione", è ricca di alti pregi letterarî; inoltre inni (stotra) e formule di benedizione, di scongiuri, ecc. (dhāraṇī), contenute in trattazioni di norme per la condotta sulla dottrina segreta del yogin, e di rituale (tantra), indice del massimo grado di decadenza spirituale del buddhismo culminante nel sec. XIII nel suo tentativo di accordare le dottrine del Mahāyāna con quelle dell'induismo.
Letteratura jainica. - Fra i moltissimi commentatori del canone jaina particolarmente śvetāmbara (v. jainismo) va ricordato anzitutto Bhadrabāhu (sec. IV a. C.), le cui brevi dichiarazioni poetiche in Māhārāṣţrī jainica, dette nijjutti (sanscrito niryukti) furono poi ampliate in commentarî veri e proprî fra il 500 e l'850 (bhāṣya e cūrṇi), che alla lor volta diedero luogo, tra il sec. IX e il XII, ad altri commenti in sanscrito (tikā e vṛitti), ricchi e importanti. Seguono Haribhadra (sec. IX d. C.), Śāntisūri, Devendragaṇi e Abhayadeva (sec. XI). I loro commenti, oltre all'esegesi del canone, contengono notizie semistoriche e novelle. In alcuni manuali, inoltre, tutta o parte della dottrina è riassunta: principali, il Tattvārthādhigamasūtra, il Jīvaviyāra, classificazione in 51 strofe degli esseri viventi, trattatellidi metafisica, altri della dottrina del karman ("effetto dell'azione", i 6 Karmagrantha in pracrito, sec. XIII), ecc. Oltre a questa letteratura canonica e semicanonica, i jaina diedero origine ad altra amplissima in Māhārāṣţrī jainica e in sanscrito, che possiamo chiamare profana, non mai tuttavia indipendente dai testi sacri, ma a tutti connessa, sia che si tratti di commenti o di "dogmatica, morale, polemica, disciplina di monaci, apologetica, storia, leggende di santi, inni in onore dei Jina, storia della chiesa, epopea, novellistica, romanzo, poesia didascalica, grammatica, lessicografia, poetica, drammatica, astronomia, astrologia".
Ma soprattutto ampia e varia è la letteratura novellistica, peculiarità dei jaina che sono giustamente da considerarsi i più grandi novellatori dell'India: se ne trovano saggi già negli Aṅga stessi e nei commenti, a illustrazione di qualche argomento e per edificazione morale, motivi diretti al grande sviluppo del genere letterario stesso, che si manifestò pure in raccolte e in opere a parte. Rielaborazioni, inoltre, si ebbero delle leggende brahmaniche di Kṛṣṇa, della discesa della Gaṅgā, ecc.; imitazioni di poemi artificiosi classici, di tutto il Mahābhārata e di parte del Rāmāyaṇa. Genere importantissimo fu quello dei prabandha e dei caritra, rispettivamente "vite di monaci e di laici del tempo leggendario e storico", sui quali tutti eccelle il voluminoso Triṣaṣṭiśalākāpuruṣacarita "La vita dei sessantatré santi uomini" del jainismo, scritta dal monaco Hemacandra, del sec. XI, grande poligrafo, autore tra l'altro del famosissimo Yogaśāstra. Di eccezionale importanza è l'Upamitibhavaprapan̄cākathā di Siddharṣi (sec. X), altra opera colossale nella quale, come il titolo indica, la vita è esposta per allegoria. È certamente uno dei più importanti e profondi prodotti dello spirito jainico, come quello che assume per la sua ampiezza e multiformità l'aspetto di una vera e propria enciclopedia di tutto quanto può concernere le vicende materiali e spirituali a cui è soggetta l'anima nelle infinite sue peregrinazioni. L'opera, scritta in un sanscrito piano e forbito, ha il suo fondamento nella Samarāiccakahā (sanscr. Samarādityakathā), "La novella di S.", opera pracrita di Haribhadra (sec. X).
La letteratura jainica, ricca pure d'inni (stava o stotra) in onore dei Jina, per la quale, dal sec. XI, è stato usato il sanscrito, e che oggi ha manifestazioni in Gujarātī e Hindī, è pur penetrata nell'India Meridionale (Mysore) ove in Tamul, Canarese, ecc. (v. dravidiche, lingue) si sono avuti rivestimenti jainici di epica e opere grammaticali e metriche e poemi.
C) Letteratura filosofica. - La speculazione filosofica già accennata nel Ṛgveda e nell'Atharvaveda s'era affermata, sia pure in forma caotica, nelle Upaniṣad col tentativo, mosso certo fuor dalla casta sacerdotale, di penetrare l'origine del mondo e il suo eterno principio creatore e sostenitore. Col tempo, quando si fu definitivamente fissato il dogma della retribuzione delle "opere" (karman) e della conseguente trasmigrazione (saṃsāra, "l'indefinito succedersi dei cicli della vita"), dogma che avrebbe poi dominato su tutta la storia del popolo indiano, e dopo che ne fu determinata la causa prima nel "desiderio" (tṛŞṇā "sete"), che a sua volta ha le radici nell'avidyā "ignoranza", cagione d'impedimento a che si conosca la natura delle cose, la speculazione filosofica venne via via sviluppandosi in veri e proprî sistemi (śāstrāṇi), i quali, pure per le vie più diverse, avrebbero mirato a un unico fine, alla "liberazione" (mokŞa) cioè dal corso delle rinascite e dal dolore dell'esistenza. Ma tale liberazione non si sarebbe potuta ottenere che con la distruzione dell'ignoranza, distruzione appunto attuabile soltanto coi mezzi rispettivamente indicati dai singoli sistemi. Di tali sistemi, che, come s'è accennato (v. sopra: Religioni) ammontavano a ben 16, e la cui origine si fa risalire al sec. VII a. C., solo 6 ci sono pervenuti in trattazioni metodiche, per quanto tarde in generale, e in epoche diverse, i quali poi si riducono a 3, avendo ciascuno di essi il suo complemento in un altro. Essi mantennero fede nel Veda e riconobbero i privilegi dei Brahmani (Sāṃkhya-Yoga, Pīrvamīmāṃsā-Uttaramīmāṃsā, Nyāya-VaiśeŞika). Per tali particolari caratteristiche essi vennero considerati dai Brahmani come sistemi ortodossi, anche se tre di essi negarono l'esistenza di Dio (Sāṃkhya, Nyāya, Vaiśeṣika).
La forma, nella quale i principali sistemi filosofici ci sono stati trasmessi, è generalmente quella dei sūtra, piccole regolette idonee al facile apprendimento mnemonico delle dottrine, ma inintelligibili senza commento (v. appresso).
1-2. Sāṃkhya-Yoga. - Il Sāṃkhya (da saṃkhyā "numero": "sistema numerico" enumerazione dei principî: tattva), sistema filosofico tra i più antichi, è attribuito a Kapila e risale con tutta probabilità al sec. VII a. C. Costituisce un'antitesi realistica all'idealismo delle Upaniṣad. Nella sua forma seriore classica è difatti essenzialmente dualistico; nella perfetta conoscenza della natura e delle relazioni delle due cose esistenti senza principio e senza fine (la prakṛti "materia" e il puruṣa "spirito, anima"), fa consistere la vera salvezza. Al leggendario autore del sistema è attribuita pure la paternità del Sāṃkhya-sūtra, nel quale esso è esposto, ma si tratta di opera appartenente al sec. XIV o XV, mentre già nel sec. VI veniva tradotta in cinese insieme con un commento, la Sāṃkhya-kārikā di Īśvarakṛṣṇa, l'opera realmente più antica di filosofia sāṃkhya. Il miglior commento a essa e insieme la migliore esposizione metodica del sistema sono contenuti nella Sāṃkhya-tattva-kaumudī "la Luce lunare della verità del S." di Vācaspatimiśra (sec. IX). Il sistema Yoga (yoga-, propriamente, "concentrazione") offre, retrocedendo assai nel passato, i mezzi per raggiungere il fine propostosi dal Sāṃknya nelle pratiche ascetiche: esercizî di disciplina del respiro, dell'assidersi, del dominio dei sensi, esercizî che debbono servire a rimuovere ogni altra cosa dal pensiero e far concentrare questo in un quid sovrannaturale, perché sia in tal modo possibile, a colui che medita, l'ottener conoscenza ultraterrena e influsso sulle potenze sovrannaturali". Opera fondamentale del sistema è il Yogasūtra, attribuito a Patañjali (sec. II a. C.), il cui principale commento è il Yogabhāṣya a sua volta commentato e sopracommentato.
3-4. Pūrvamīmāṃsā (o Mīmāṃsā)-Uttaramīmāṃsā (o Vedānta) sistemi connessi direttamente col Veda e coi Brāhmaṇa, della cui dottrina si possono considerare sistemazione filosofica. La Pūrvamīmāṃsā "Prima indagine", "Indagine della prima parte [del Veda]", il cui autore leggendario è Jaimini, concerne il lato pratico della religione del Veda, che essa considera come autorità suprema: discute le sacre cerimonie e l'utilità derivante dal loro compimento (la salvazione). Ciò appare chiaramente dal Pūrvamīmāṃsāsūtra, di età non molto antica, ma di cui si posseggono commenti dal sec. VI. "Ammettendo il Veda increato ed esistente ab aeterno, essa, particolarmente, ritiene eterni i suoni articolati e, di conseguenza, reputa essere una parola connessa col suo significato, non per convenzione, ma per natura, inerente al significato stesso" (Macdonell). Celebri sono il commentario di Kumārila, Tantravārttika, VII-VIII sec. d. C. e l'Arthasaṃraha di Laugākṣi Bhāskara, manuale per principianti. Uttaramīmāṃsā. La conoscenza dell'unità dello spirito individuale con l'universale (Brahman) è la dottrina fondamentale dell'Uttaramīmāṃsā. Per essa scompare qualsiasi criterio fallace di pluralità fenomenica, tutto apparendo nel mondo empirico illusione (māyā), all'infuori dell'accennata unità (advaita "non dualità"); con essa sicura è la via di salvazione. Si tratta dunque di una sistemazione della dottrina delle Upaniṣad. Di qui l'altro nome di Vedānta "Fine del Veda" dato al sistema. La dottrina è stata trasmessa nei Vedāntasūtra o Brahmasūtra di Bādarāyana, dello stesso tempo del Pūrvamīmāṃsāsūtra, ed è stata esposta ed elaborata con commento dal famoso vedantista Śaṅkara (Śārīrakamīmāṃsābhāṣya), commentatore anche della Bhagavadgītā e filosofo originale egli stesso, autore di varie opere sullo stesso sistema e il cui nome è intimamente connesso alla rinascita del brahmanesimo. Epitome dell'opera maggiore di Saṅkara è il Vedāntasāra di Sadānanda Yogīndra. Il più celebre commentatore del Vedanta, dopo Śaṅkara, è Rāmānuja (Śrībhāṣya) (secoli XI-XII). Le anime individuali non sono identiche a Dio, esse soffrono per innata mancanza di fede e per ignoranza, mentre la fede o l'amore di Dio (bhakti), non la conoscenza, è il mezzo di salvazione.
5-6. Nyāya-Vaiśeṣika. - Sistemi di logica strettamente connessi. Il Nyāya (nyāya- "regola, metodo, norma [di dissertazione]") è attribuito dalla tradizione ad Akṣapāda Gotama. È sistema di epistemologia e di logica formale, in cui si analizzano i mezzi della conoscenza, dottrina che confluisce nella morale, come quella che per il giusto apprendimento delle sue 16 nozioni fa raggiungere la liberazione da ogni possibile male morale e pur fisico. Col tempo assunse vera essenza di scolastica. Il Vaiseṣika, sistema naturalistico, attribuito a Kaṇāda, espone le categorie (viśeṣa- "differenza": sostanza, qualità, moto, generalità, particolarità, inerenza) che son mezzo all'ottenimento della conoscenza perfetta. Il Nyāya ci è giunto nel Nyāyasūtra attribuito a Gotama stesso. Di esso il più antico commento è il Nyāyasūtrabhāṣya, commentato a sua volta da commenti e sopracommenti. Molti trattati si hanno inoltre, o in versioni tibetane e cinesi o nell'originale sanscrito, di logica (nyāya), dovuti a maestri assai noti, non solo brahmani (Dharmakīrti: sec. VII, Dharmottara: sec. VIII), ma anche jaina (Hemacandra, Yaśovijaya: sec. XVII). Una nuova scuola di logica è quella rappresentata dalla Tattvacintāmaṇi, opera fondamentale di Gaṅgeśa che ebbe numerosiss; mi commenti (sec. XII). La più antica esposizione del Vaiśeṣika, sorto probabilmente nel sec. II a. C., è il Vaiśeṣikasūtra, anch'esso provvisto di commenti e sopracommenti; il più completo dei quali appartiene a Śaṅkaramiśra (sec. XVII). Molti manuali inoltre si hanno, dal sec. XII in poi, di esposizioni complessive dei due sistemi (Tarkabhāṣā e Tarkakaumudī, ecc.).
Per le trattazioni filosofiche contenute nel Mahābhārata, v. sopra.
Letteratura classica. - Letteratura drammatica. - Il dramma, in India, non può annoverarsi fra i generi letterarî più antichi; non v'è però dubbio ch'esso sia uno dei più diffusi e dei più trattati a datare dal principio dell'era cristiana fino ai giorni nostri. Il Konow citava già nel 1920 più di 400 componimenti drammatici, ma molti e molti altri sono da aggiungersi, editi negli anni successivi o per lo meno segnalati nei nuovi cataloghi di mss. che vengono pubblicati, si può dire annualmente, in India. La tradizione indigena assegna al dramma un'origine divina e riconosce nel Nāṭyaśāstra "Scienza dell'arte drammatica" un adattamento, a uso dei mortali, di un Nāṭyaveda, "Veda dell'arte drammatica", che sarebbe stato rivelato da Brahman agli dei per appagare la loro richiesta di una creazione artistica che potesse dilettare insieme la vista e l'udito. E Brahman allora creò quel quinto Veda ricavando dal Ṛgveda la recitazione' dal Sāmaveda il canto, dal Yajurveda la mimica e dall'Atharvaveda i sentimenti.
La questione delle origini del dramma indiano appassionò per tempo gli studiosi europei, e il Weber dapprima e il Windisch poi sostennero che un influsso greco ne fu la condizione determinante e necessaria. Oggi però tale tesi non è generalmente ammessa, e si ritiene che il dramma indiano sia sorto, dopo un non breve periodo di lenta preparazione, da elementi esclusivamente indigeni - tra cui emergono l'antico mimo popolare e la dizione in parte drammatizzata di racconti epici - più che sufficienti a darci ragione di tutte le caratteristiche del nuovo genere letterario.
I nomi naṭa "attore", nāṭaka "dramma", nāṭya "arte drammatica", derivati dalla radice nṛt (naṭ) "danzare", pongono in evidente rilievo l'importanza primitiva della danza mimica. L'elemento religioso, fondamentale fra gli altri, si rivela già nella nāndī "preghiera", con la quale (dichiarata o sottintesa) ogni dramma incomincia. Alla preghiera segue la prastāvanā o sthāpanā o āmukha "prologo", che ha la forma di dialogo tra il sūtradhāra "direttore di scena" e un'attrice o un attore, dialogo in cui (salvo poche eccezioni) si accenna all'autore, si dà notizia intorno al dramma che sta per essere recitato e, cattivandone la benevolenza, si prepara il pubblico alla rappresentazione. Poi ha principio l'azione vera e propria, la quale è divisa in aṅka "atti". Il numero di questi varia a seconda del tipo di produzione drammatica: i trattati indigeni di drammaturgia distinguono infatti 10 (una fonte recentemente pubblicata ne enumera 12) tipi principali (rūpaka) e 18 sottotipi (uparūpaka), fra i quali - particolare degno di rilievo - manca la tragedia. Il componimento drammatico si chiude di solito con un augurio o benedizione (praśasti, bharatavākya).
Le caratteristiche più notevoli del dramma letterario indiano sono: l'alternarsi in esso di prosa e poesia - rimanendo la prima riservata per lo più al dialogo ordinario e familiare e la seconda invece, con una versificazione quanto mai ricca e varia, alle sentenze, ai ricordi mitologici ed epici, agl'impeti lirici, agli squarci descrittivi; l'uso, insieme con il sanscrito, di diversi dialetti, regolato da norme precise; la presenza di alcuni tipi fissi fra cui il più comune e diffuso è il vidūṣaka "tipo del buffone, sollazzevole compagno di eminenti personaggi". Se la parte in prosa non presenta in generale grandi difficoltà ermeneutiche, e l'andamento stesso del dialogo drammatico agevola quasi sempre la comprensione di qualche passo oscuro, non lo stesso può dirsi delle strofe, le quali - per la ricercatezza della forma, per le inconsuete immagini descrittive, per i concetti nuovi e inaspettati che liricamente interrompono la logicità del dialogo - sono da annoverarsi fra la poesia indiana difficile. Una forma di dramma che, dopo aver costituito - sotto una veste rudimentale e monca - un elemento preparatorio al dramma classico, si è sviluppata anch'essa come forma a sé, è il dramma per ombre o proiezioni (chāyānāṭaka) in cui per le figure mute parlano l'operatore o gli operatori celati.
La data di origine del dramma letterario sanscrito può forse risalire al sec. II-I a. C. Ma l'autore drammatico più antico che oggi conosciamo è Aśvaghoṣa, il quale documenta per noi un'iniziale fioritura del dramma classico verso il 100 d. C. Di un'altra scoperta recente si è arricchita la storia del teatro indiano, e probabilmente antico, di quella cioè di 13 drammi la cui autenticità complessiva e attribuzione a Bhāsa (secoli II-IV d. C.) è tuttora una questione sub iudice. Poi la storia del teatro indiano continua, si può dire ininterrotta, nei secoli seguenti, e in essa segnano le pietre miliari: l'enigmatico autore della famosa Mṛcchakaṭikā "Il carrettino di terra cotta", noto sotto il nome di Sūdraka, e il grande Kālidāsa, autore della Śakuntalā, dell'Urvaśī e del Mālavikāgnimitra (entrambi nel sec. IV-V); il re Harṣadeva (sec. VII), al quale sono attribuiti i 3 drammi Ratnāvalī, Priyadarśikā e Nāgānanda "La felicità dei Nāga"; Bhavabhūti (sec. VIII), celebrato dagl'Indiani come il loro più famoso drammaturgo dopo Kālidāsa, col suo popolarissimo Mālatīmādhava e con i 2 drammi di soggetto ramaico Mahāvīracarita "Le gesta del grande eroe" e Uttararāmacarita "Le ulteriori gesta di Rāma"; Viśākhadatta (prob. sec. IX), che nel suo interessante e caratteristico Mudrārākṣasa "Rākṣasa e il suo sigillo u si dimostra profondamente esperto della scienza politica. Ma troppo lungo sarebbe l'integrarne e compirne la serie. La maggior parte dei drammi indiani s'ispira e trae il soggetto dalle tradizioni mitologiche ed eroiche; ve ne ha poi di quelli che attingono al patrimonio novellistico, altri di pura invenzione, e infine taluni che celebrano avvenimenti storici. Una speciale fortuna ha avuto in India il dramma allegorico. Esso fiorisce già con Aśvaghosa; poi, dopo una lunga eclissi di circa un millennio, ricompare e raggiunge il suo culmine col Prabodhacandrodaya "Il levarsi della conoscenza (simile a) luna" di Kṛṣṇamiśra (sec. XI), le cui non poche imitazioni sono documentate fino ad arrivare all'età moderna. Una sottospecie di dramma allegorico è quello didascalico-dottrinale, di cui abbiamo un caratteristico esempio nel Jīvānandana "La felicità dell'anima", composto da Ānandarāyamakhin (sec. XVIII) con l'intento di tratteggiare - non senza abilità artistica - i principî fondamentali della scienza medica. Fra i trattati sulla teoria drammatica si distingue come più autorevole e antico il Bhāratīya Nāṭyaśāstra "Trattato di drammatica attribuito a Bharata" che risale probabilmente, nella sua forma originaria, al sec. II d. C.
Letteratura epico-artistica (mahākāvya). - Il Rāmāyaṇa è chiamato dagl'Indiani l'ādikāvya, cioè il primo e più antico kāvya, (v. sopra) voce che - nella sua più diffusa accezione - indica un poema a trama unitaria composto da un singolo autore con l'osservanza di speciali regole d'arte; esso è infatti considerato come il prototipo di una serie di grandi poemi (mahākāvya), i più noti e più famosi dei quali compaiono fra il sec. I-II e il sec. XII dell'era cristiana. Un luogo importante (559) del Sāhityadarpaṇa "Lo specchio della composizione" di Viśvanātha Kavirāja (1300 circa) definisce il mahākāvya e fa sapere fra l'altro che esso è un insieme di canti (sarga) non troppo brevi e non troppo lunghi e in numero non inferiore a 8, composti ognuno in metro costante ma con variazione alla fine (solo eccezionalmente nel corpo di un solo canto); che esso - il cui eroe è o un dio o un guerriero di nobile lignaggio, o i cui eroi possono anche essere parecchi principi di una stessa stirpe - incomincia con una preghiera o con una benedizione o anche con l'enunciazione dell'argomento; e che in esso abbonda ed è fondamentale l'elemento descrittivo.
L'evoluzione del kāvya indiano rivela un'importanza sempre maggiore attribuita alla forma, laddove il contenuto passa in seconda linea, vien meno l'originale freschezza e l'ispirazione si inaridisce. Nel Rāmāyaṇa, infatti, ispirazione e forma si trovano armonicamente congiunte a costituire il capolavoro poetico; e soltanto in alcune parti del poema, per lo più di andamento descrittivo, la dizione elaborata e la composizione artistica delle parole nella frase fanno avvertire qualcosa di ricercato e di artificioso. Ma nei mahākāvya successivi la veste esteriore prese il sopravvento sulla forza dei concetti, e si affermò una tendenza artistica che potrebbe definirsi secentismo letterario indiano.
Autore di due poemi di soggetto buddhistico, dei quali il più famoso, il mahākāvya intitolato Buddhacarita "La vita del Buddha", sebbene pervenutoci monco, rivela un'ispirata vena poetica poco o punto offuscata dal formalismo che dilagò più tardi, fu Aśvaghoṣa (intorno al 100 d. C.). I mahākāvya posteriori attingono quasi tutti o al Mahābhārata o al Rāmāyaṇa. Kālidāsa ci ha lasciato due mahākāvya: il Kumārasambhava "La nascita del dio della guerra" in 17 canti, di cui solo i primi 708 riconosciuti come genuini, e il Raghuvaṃśa "La stirpe di Raghu" in 19 canti; poemi che rivelano entrambi nel loro autore il più esperto e delicato maestro di stile poetico indiano, ma dimostrano anche che l'artificiosità della forma è in fase di sviluppo (vedi p. es. Raghu., canti IX e XVIII). Appartiene alla metà del sec. VI Bhāravi, autore del Kirātārjunīya (sott. mahākāvya) "Il poema (della lotta di Śiva in veste) di Kirāta con Arjuna" in 18 canti, in cui un episodio narrato nel Mahābhārata è stato ricomposto in un poema che presenta artifici sino allora inusitati (strofe nelle quali ognuno dei quattro emistichî ha un costante suono consonantico appoggiato a vocali diverse; strofe in cui ricorre un'unica consonante; strofe in cui le disposizioni delle consonanti permettono le più inattese combinazioni, ecc.). Tra il sec. VI e il VII fiorì Bhaṭṭi autore del Rāvaṇavadha "L'uccisione di Rāvaṇa" chiamato anche Bhaṭṭikāvya "Il poema di Bhaṭṭi" in 22 canti, nel quale, insieme con il racconto epico di Rāma - non disgiunto dagli artifici ormai in voga - s'illustrano le regole della grammatica e della poetica; e probabilmente nella seconda metà del sec. VII visse Kumāradāsa, ammiratore e imitatore di Kālidāsa e autore del poema Jānakīharaṇa "Il ratto di Sītā " in 20 canti, ispirato al Rāmāyaṇa. Al pari del Kirātārjunīya è molto lodato dagl'Indiani il Śiśupupālavadha "L'uccisione di Śiśupāla" (ispirato a un episodio narrato nel Mahābhārata) in 20 canti, di Māgha (seconda metà del sec. VII), il quale accoppia meriti poetici sostanziali con un sempre più accentuato virtuosismo della forma. Tra i mahākāvya successivi - i quali continuano a tener vivo questo genere di letteratura a sé che conserva le sue caratteristiche fondamentali ed è coltivato fino quasi ai giorni nostri - ricorderemo ancora, perché abbastanza antichi: il Haravijaya "La vittoria di Siva" in 50 canti, nel quale il poeta Ratnākara (verso l'850) si dimostra non indegno imitatore di Māgha; il Rāghavapāṇḍavīya " (Il poema) del Raghuide e dei Panduidi" di Kavirāja (seconda metà del secolo XII), poema singolarissimo (e tale da costituire, con qualche altro esempio indiano, una vera rarità letteraria) in cui - mettendo a profitto speciali caratteristiche del sanscrito in fatto di grafia, di vocaboli composti e di varianti di significato - un unico dettato, che si estende per ben 13 canti, è capace di narrare contemporaneamente la storia del Rāmāyaṇa e quella del Mahābhārata; il Naiṣadhacarita "Le vicende di Nala", in 22 canti, di Śrīharṣa (probabilmente seconda metà del sec. XII), che riveste di tutti gli ornamenti voluti dall'arte poetica il noto episodio mahabharatiano, e prosegue e compie, a giudizio degl'Indiani, la tradizione dei grandi poeti d'arte, Kālidāsa, Bhāravi e Māgha.
Letteratura storica in poesia. - Non si può parlare, in India, di storia vera e propria, concepita - come pensiamo noi - quale narrazione critica degli avvenimenti (v. sopra). Per un complesso di ragioni (sistema castale, legge della trasmigrazione, ecc.) - tra cui sembra essere pur sempre fondamentale un irresistibile e persistente attaccamento al divino e un bisogno di riannodare a esso non solo le origini ma anche i singoli sviluppi degli umani eventi, i quali sono pertanto considerati di solito sotto la luce della tradizione e credenza religiosa e con conseguente trascuranza della loro reciproca concatenazione reale - un tal genere di storia, o meglio il genere letterario che noi chiamiamo storia, in India non esiste. Ma aggiungiamo subito, affinché non permanga un equivoco durato già troppo a lungo, che in India non mancano elementi di letteratura storica, sebbene questa, oltre ad avere delle caratteristiche affatto peculiari, si presenti scarna alquanto e poco coltivata, a paragone della vastità lussureggiante di tanti altri generi letterarî indiani.
Documenti di carattere storico li troviamo già nelle genealogie dei maestri vedici, poi nelle liste di re contenute nel Mahābhārata e nei Purāṇa, e in terzo luogo nelle iscrizioni (v. sopra). Un tipo speciale di documento epigrafico, che prelude all'opera storica in poesia, è quello delle praśasti "elogio, panegirico", le quali non sono altro che poemetti in sanscrito più o meno lunghi (da 10-12 versi fino a 100 versi e più), celebranti le imprese di questo o quel personaggio. Esperto in questo genere di poesia epigrafica troviamo nel sec. VIII il poeta Rāma che pomposamente chiama sé stesso principe dei poeti (kavīśvara) e del cui virtuosismo fa fede un inno inserito in una praśasti, nel quale ogni strofa può essere riferita così a Śiva come alla consorte di lui Pārvatī.
Allo stesso sec. VIII risale poi uno dei più antichi poemi storici indiani a noi pervenuti: il Gaüḍavaha (sanscr. Gaudavadha) "L'uccisione di Gauḍa", composto in dialetto Māhārāṣṭrī da Vākpatirāja, poeta di corte del re Yaśovarman di Kanauj, e celebrante appunto, in 1209 strofe, la vittoria di Yaśovarman sopra un re Gauḍa. Ma come primo poema che porti un reale contributo - sia esso pur modesto - alla storia, è da ricordarsi il Vikramāṅkadevacarita "Le gesta del re Vikramāditya Tribhuvanamalla" nel quale l'autore Bilhaṇa, oriundo del Kashmir e divenuto - nella città di Kalyāṇa (nel Vidarbha meridionale = odierno Bidar) - maestro di sapere (vidyāpati) alla corte del re Vikramāditya VI (1076-1127) della dinastia Cālukya, celebra le imprese del suo regio patrono. Nei colofoni alla fine dei 18 canti che la compongono, l'opera è designata col nome di mahākāvya (v. paragrafo precedente). Alla metà del sec. XII, un conterraneo di Bilhaṇa, lo storico e poeta Kalhaṇa, compose la Rājataraṇginṇī "La corrente ossia storia ininterrotta dei re" portando il genere storico in India alla sua più alta manifestazione. Si tratta di un'opera voluminosa (7826 strofe complessive, divise in 8 estesi capitoli) in cui la storia del Kashmir è narrata dai primi tempi fino all'età dell'autore. Anche Kalhaṇa è un poeta classico (mahākavi) dotato di studio e di gusto artistico; e il suo stile, che rivela una cura tutta speciale della forma, non di rado riesce oscuro. Ma insieme col poeta sta la personalità dello storico il quale sa valersi di tutte le fonti disponibili, sa conservare indipendenza e imparzialità di esame, ed è compreso della dignità e responsabilità di colui che fa rivivere il passato investendosi della delicata funzione di giudice. Molto al disotto dell'insuperato modello sono da collocarsi due continuazioni scritte da due cronisti del sec. XV: Jonarāja e Śrīvara. Il genere storico in poesia, che la critica europea ha distinto nella ricca produzione dei mahākāvya, fa per gl'Indiani parte integrante di questa; e le sue manifestazioni, dopo Kalhana, sono scarse e di poca importanza.
Letteratura lirica. - La poesia lirica è il più antico genere letterario che noi conosciamo in India, presentandosi essa imponente e grandiosa nelle due raccolte d'inni religiosi, sacrificali e magici del Ṛgveda e dell'Atharvaveda. La lirica indiana delle età seguenti può distinguersi in lirica erotica, lirica religiosa e lirica erotico-religiosa. La lirica amorosa fu non solo lirica raffinata in sanscrito, quale espressione dei sentimenti di poeti, ma anche - e fin dagli inizî - lirica popolare in dialetto che fiorì spontanea e anonima nella città e nel contado. Un'importante e antica raccolta di strofe liriche in dialetto Māhārāṣṭrī è quella che, attribuita a Hāla Sātavāhana, s'intitola Sattasaī (sanscr. Saptaśatī) "Le 700 strofe": secondo le vedute del poeta dovevano infatti essere in tal numero le strofe correnti e popolari che egli ha raccolto, ordinato e ritoccato con gusto artistico, formando un'opera di carattere descrittivo che, sebbene non scritta in sanscrito, pure si trova citata con notevole frequenza nei testi indiani di arte poetica. La data della sua composizione va dal principio del sec. III alla metà del V d. C.
Il primo e più autorevole poeta lirico indiano in sanscrito è Kālidāsa, il quale anche in questo campo - come nella drammatica e nell'epica artistica - ha lasciato un'orma incancellabile. Il suo poemetto (khaṇḍakāvya) che s'intitola Meghadūta "La nuvola messaggera" va annoverato fra i più famosi dell'India e - perfetto nella forma e nel verso - rifulge tutto per delicato sentimento poetico. Fra le non poche composizioni liriche in sanscrito attribuite a Kālidāsa, quella che più di ogni altra sembra esser degna di lui e gli si attribuisce, è il Ṛtusaṃhāra "Descrizione compendiosa delle stagioni" in 6 canti, nei quali sono descritte le 6 stagioni ben note alla poesia sanscrita classica: estate, stagione delle piogge, autunno, inverno, stagione delle rugiade, primavera. Il più famoso rappresentante della lirica erotica indiana è Amaru (Amarū, Amarūka), autore dell'Amaruśataka "La centuria di Amaru", e uno dei poeti più frequentemente citati nei trattati indiani di retorica. Per Amaru - come per Kālidāsa - mancano dati biografici attendibili, e possiamo fissare solo approssimativamente nel sec. VII-VIII, l'età in cui egli visse. Altro esempio di lirica erotica molto apprezzato in India è l'opera poetica di Bilhaṇa (già ricordato nel paragrafo precedente) intitolata Caurīsuratapañcāśikā "La raccolta di 50 strofe sull'amore furtivo", nella quale un indiscusso merito poetico rimane, per noi, offuscato alquanto da un'eccessiva sensualità delle immagini.
La seconda corrente della lirica indiana continuò a ispirarsi - come già nel periodo vedico - al sentimento religioso; e, sotto la forma d'inni encomiastici (stotra, stuti, stava), celebrò i meriti di questa e di quella divinità. Anche qui prese una particolare voga il genere poetico della centuria (Śataka); e fra i più antichi esempî deve essere ricordato il Caṇḍīataka "La centuria a Caṇḍī = Durgā" di Bāṇa (sec. VII d. C.), con le sue 102 strofe le quali esaltano la vittoria della dea Durgā sul demone Mahiṣa. Contemporaneo di Bāṇa è Mayūra, autore di un Sūryaūataka "La centuria al (dio) Sole", che si compone di 101 strofe.
Ma l'India conobbe anche e alimentò una terza corrente di poesia lirica, nella quale il sentimento religioso e l'elemento erotico si trovano contemperati e fusi insieme. Il capolavoro del genere è il Gītagovinda "Govinda = Kṛṣṇa celebrato con canti" nel quale il poeta Jayadeva (sec. XII) ha cantato, nello stile artificioso dei kāvya, gli amori di Kṛṣṇa (alter ego di Viṣṇu) e Rādhā, con le loro caratteristiche fasi di rottura e di riconciliazione.
Letteratura gnomica e didattica. - È anche questo un genere letterario che - salvo poche eccezioni - ha in India esteriore veste poetica; e, per la gnomica in particolare, non è sempre facile stabilire una netta distinzione fra essa e la poesia lirica. Nel patrimonio straordinariamente vasto delle sentenze indiane, moltissime sono infatti quelle che manifestano - col loro contenuto e con la forma - una schietta intonazione lirica. Comunque è certo che la massa davvero imponente dei subhāṣita "bei detti, belle sentenze" - i quali in parte si trovano sparsi già in opere dell'età vedica e poi nella grande epica, nella letteratura dei kāvya, nella novellistica, nella drammatica, nei testi giuridici e politici, e in parte costituiscono opere a sé sotto la forma di raccolte gnomiche originali o di seconda mano - dimostra come e quanto il genere sentenzioso, riferito ad argomenti svariatissimi, sia in auge presso gli Indiani. Inventore e autore tradizionale di sentenze rimaste famose è, secondo gl'Indiani, Cāṇakya, ministro del re Candragupta, al quale è attribuita una raccolta di sentenze conservatasi in molte recensioni diverse, tra cui si possono segnalare una redazione in prosa, più breve e probabilmente più antica, e una redazione più ampia in strofe di metro diverso raggruppate in capitoli. È un'opera eclettica, nella quale a un nucleo di sentenze riferentisi in particolar modo alla scienza politica si aggiunsero altre sentenze sui diritti e doveri e sulla morale in genere. Appartengono alla poesia gnomica le due celebrate centurie: Nītiśataka "Centuria sul saggio vivere" e Vairāgyaśataka "Centuria sulla rinunzia alle cose del mondo" di Bhartṛhari (prima metà del sec. VII). Lo Śṛṅgāraśataka "Centuria sull'amore" dello stesso è invece di contenuto erotico.
Fra i più notevoli rappresentanti della poesia gnomica nei secoli successivi ricorderemo Bhallaṭa (verso la fine del sec. IX) - non di rado citato nelle età seguenti - autore di una centuria (Bhallaṭaśataka) di 108 strofe; Śambhu (verso la fine del sec. XI), il quale scrisse un Anyoktimuktālatāśataka "La centuria del filo di perle di sentenze svariate (sopra un dato tema)", in 108 strofe, le quali saltuariamente ritornano su alcuni determinati soggetti; Kusumadeva (di data molto incerta: fra il sec. XI e il XV), autore di un Dṛṣṭāntaśataka "La centuria di esempî" in 100 strofe, ognuna delle quali contiene nella prima metà una sentenza e nella seconda un esempio destinato a illustrarla; Jagannātha (sec. XVII), autore di un componimento in quattro parti, il Bhāminīvilāsa "Il giuoco delle belle donne" con strofe che ricordano quelle di Bhartṛhari.
Strettamente collegata con la gnomica è la poesia didattica in cui il nesso, quasi sempre palese, fra le singole strofe che formano il componimento conferisce a questo l'unità organica che di solito gli è caratteristica. Ma in qualche caso le strofe dell'opera didattica non fanno che illustrare, ciascuna per sé e in modo diverso dalle altre, il concetto che si trova enunciato nel titolo; e allora non v'è distinzione fra questa poesia didattica e la poesia gnomica delle anyokti (vedi sopra l'opera di Śambhu). L'intento d'insegnare, con speciale diletto di chi legge, si manifestò e fu attuato nei campi più diversi. Alla poesia didattica religiosa appartiene un breve componimento intitolato Mohamudgara "Il martello dell'ignoranza", in cui si predica la vanità e la caducità delle cose del mondo. Esso è attribuito a Śaṅkara (VIII-IX sec.), al pari della Śataślokī "La raccolta di 100 strofe" nelle cui 101 strofe è esposta la dottrina del Vedānta. A un campo diametralmente opposto ci riporta Dāmodaragupta (fine del sec. VIII) col suo Kuṭṭanīmata "Gli ammaestramenti della mezzana", che è un trattato poetico di pornografia cui viene data la veste esteriore di ammaestramenti che una mezzana impartisce a un'etera. Uno spiccato carattere didattico presentano talune opere poetiche di Kṣemendra, poligrafo del sec. XI. In età più recente, e precisamente nella prima metà del sec. XVII, visse Nīlakaṇṭha Dīkṣita, autore pregevole di parecchie opere poetiche tra cui non poche di carattere gnomico e didattico, come un Vairāgyaśataka "La centuria della rinunzia alle cose del mondo" in 101 strofe, un Śāntivilāsa "Il giuoco della tranquillità spirituale" in 51 strofe, un Kaliviḍambana "Lo sfruttamento dell'età Kali (la presente età, piena di mali)" in 102 strofe, ecc.
Che finalità altamente educative siano riconosciute alla poesia gnomica è un fatto provato altresì dalle molte antologie di sentenze indiane, tratte da poeti diversi dei quali di solito vengono citati i nomi. Tra le più note sono da ricordarsi: la Śārṅgadharapaddhati "L'antologia di Śārṅgadhara" (XIV sec.) divisa - per soggetti - in 163 capitoli e con un insieme di 4689 strofe; la Subhāṣitāvalī "Serie di belle sentenze" di Vallabhadeva (XV-XVI sec.) in 101 capitoli di complessive 3527 strofe. Una voluminosa e molto utile antologia moderna è il Subhāṣitaratnabhāṇḍāgāra "Il tesoro delle belle sentenze (simili a) gemme" (4ª ed., Bombay 1905). Al nome del Böhtlingk è poi legata la celebre raccolta intitolata Indische Sprüche (2ª ed., voll. 3, Pietroburgo 1870-73) con le sue 7613 strofe in sanscrito e in traduzione tedesca.
Letteatura narrativa: favolistica, novellistica, romanzo. - Fra i rami più vigorosi dello sviluppo letterario indiano si distingue la letteratura narrativa: ramo lussureggiante e di grande interesse altresì per lo studio delle letterature comparate, giacché taluni suoi virgulti hanno propagato parecchie creazioni narrative indigene sopra un'ampia porzione della terra. Posta a confronto con la scarna produzione e documentazione del genere storico, la vastità complessa del genere narrativo ci dimostra che per gl'Indiani non contano tanto gli uomini realmente esistiti e gli avvenimenti che li riguardano, quanto gli eventi universalmente umani, i quali - creati da una fantasia che non trascura ma anzi ha sempre presenti a sé stessa i problemi della vita e della morte - hanno valore per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Nella grande maggioranza delle opere della favolistica e della novellistica indiana, il dettato in prosa (riservato di solito alla narrazione) si alterna con quello in poesia (che per lo più ha valore gnomico e didattico); tutte poi hanno la singolare caratteristica del cosiddetto racconto-cornice entro cui sono compresi, uno dopo l'altro, i singoli racconti, taluni dei quali ne abbracciano alla loro volta degli altri, e questi degli altri ancora.
La favola è fin dall'origine un componimento dotto che rivela, sotto la veste esteriore del racconto, ora l'intento religioso e morale, ora quello pedagogico o comunque educativo e didattico, ora l'insegnamento politico. Di origine popolare è invece la novella: in essa emerge il fine d'intrattenere e di dilettare, e l'ammaestramento o rimane in ombra o nell'insieme manca, sebbene nei particolari esso si manifesti più di quel che comunemente sembri.
Lasciando da parte la letteratura buddhistica che, specialmente nei Jātaka "Storie di precedenti nascite (del Buddha)", offre abbondantissimo materiale narrativo (v. sopra), l'opera più importante e più letta è il famoso Pañcatantra " (Il testo) in 5 parti" o forse " (Il testo) che si compone di 5 dottrine", conservatosi in parecchie recensioni diverse, fra le quali una delle più autorevoli, e probabilmente più simili al comune archetipo perduto, è il cosiddetto Tantrākhyāyika " (Il testo) che si compone di racconti dottrinarî". L'opera è in origine un nītiśāstra "trattato di politica" sotto la veste di componimento letterario didattico, inteso all'educazione e all'istruzione politica dei principi. Prosa e strofe intercalate presentano le caratteristiche di uno stile elaborato ma non eccessivamente artificioso; le favole o storie di animali hanno predominanza quasi assoluta tra i racconti di tutta l'opera. Nulla di preciso può dirsi circa la data del testo originario, la quale vaga tra il sec. II e il VI dell'era cristiana. Derivata in gran parte dal Pañcatantra, e ad un tempo opera fra le più popolari in India, è il Hitopadeśa "Il buon ammaestramento", in 4 parti, con sovrabbondanza - rispetto a quello - dell'elemento gnomico, e con lunghe serie di strofe che interrompono la prosa. Così il carattere didattico si accentua in quest'opera, la cui data di origine è compresa fra il sec. X e il XIV. Alla letteratura narrativa di carattere esclusivamente dilettevole appartiene un'opera disgraziatamente perduta o almeno rimasta celata fino ad oggi, ma citata non di rado da scrittori indigeni come una delle più grandi creazioni artistico-letterarie indiane: la Bṛhatkathā "Il gran romanzo" di Guṇāḍhya (probabilmente sec. II-III d. C.), scritta in dialetto Paiśācī. Tra le derivazioni in sanscrito sono particolarmente note la Bṛhatkathāmañjarī "Il mazzo di fiori della Bṛhatkathā" di Ksemendra, e il Kathāsaritsāgara "L'oceano delle novelle (simili a) fiumi" di Somadeva, entrambe del sec. XI e oriunde del Kashmir. La prima, composta nel 1037, è una compilazione poetica in 18 libri, che certo abbrevia molto, e con molte omissioni, l'originale: il Kathāsaritsāgara invece, composto verso il 1070, si estende per 22.000 strofe (pari quasi al triplo della Bṛhatkathāmañjarā) divise anch'esse in 18 libri; e, pur essendo una riduzione, rivela una maggiore fedeltà all'originale ed è scritto in un dettato poetico, elegante ed efficace. Così nell'una come nell'altra opera si trova conglobata - in recensioni versificate - la Vetālapañcaviṃśatikā "Le 25 (novelle) del lemure", interessante raccolta novellistica che è giunta a noi anche come opera a sé, nella foma di prosa rotta saltuariamente dal verso (redazione di Śivadāsa). Un'altra raccolta fantastica del tipo della precedente è la Siṃhāsanadvātriṃśikā "Le 32 (novelle) del trono", pervenutaci, al pari di quella, in recensioni diverse. Anche la Śukasaptati "Le 70 (novelle) del pappagallo" merita un cenno, perché essa ha avuto una larga diffusione in India e fuori: le novelle si fingono narrate da un pappagallo a una donna (il cui marito è lontano), al fine di trattenerla dall'adulterio.
Il romanzo indiano classico si ricongiunge per il contenuto alla letteratura novellistica, mentre per la forma è un kāvya in prosa, cioè un componimento letterario scritto in prosa elaborata e cosparsa di tutti quegli ornamenti retorici che costituiscono la caratteristica essenziale della poesia artificiosa classica (poemi di arte, lirica classica, gnomica, ecc.). L'opera più antica e più importante è il Daśakumāracarita "Le avventure dei 10 principi" di Dandin (principio del sec. VII), con le sue scene piene di vita, che per lo stile è uno dei capolavori della letteratura sanscrita classica. Di poco posteriore è il romanzo di Subandhu (sec. VII) che s'intitola, dal nome dell'eroina, Vāsavadattā, ed è una storia d'amore scritta in uno stile molto artificioso e difficile. Un più giovane contemporaneo di Subandhu è Bāṇa, autore di un romanzo storico intitolato Harṣacarita "Le gesta di Harṣa", dedicato al suo regio patrono Harṣavardhana di Thanesar (606-648), in 8 capitoli, ma probabilmente giunto a noi incompleto, e di un romanzo d'amore che trae il titolo dal nome dell'eroina Kādambarī e che, interrotto per la morte dell'autore, fu portato a compimento dal figlio di lui.
Dai romanzi - il cui dettato è quasi del tutto in prosa, rotta solo eccezionalmente da qualche strofa - differiscono le campū, componimenti letterarî di genere narrativo, nei quali il racconto procede parte in strofe e parte in prosa: lo stile è quello dei kāvya, la forma esteriore alterna poesia (padya) e prosa (gadya), entrambe artificiosamente elaborate e adoperate, e l'una e l'altra senza distinzione di compito. L'esempio più noto di questo genere letterario è la Nalacampū "Campū di Nala" o Damayantīkathā "La storia di Damayantī" in 7 capitoli, nei quali viene ripreso il tema del famoso episodio mahabharatiano. Al genere romanzesco può anche assegnarsi un interessante componimento il quale presenta le peculiarità esteriori delle campū, con la differenza però che la maggior parte delle strofe ha in esso un carattere gnomico: il Bhojaprabandha "Il prabandha (componimento letterario) di Bhoja (famoso re indiano del sec. XI)", ricco di aneddoti, di curiosità e di anacronismi, composto da Ballāla verso la fine del sec. XVI.
Letteratura filologica: grammatica, lessicografia, metrica, retorica. - La letteratura filologica, è fra le letterature scientifiche, la più vicina alla produzione letteraria originale che comunemente si suole designare col nome generico di "belle lettere". Sorge essa infatti quasi col sorgere di queste, ne accompagna e in parte ne documenta il secolare sviluppo, rappresenta insomma una teorica dell'uso letterario- in prosa e in verso - della lingua dotta. In India poi lo studio filologico traeva fin dall'antico periodo vedico eccezionale vita e sviluppo dalla fede religiosa la quale sollecitava la determinazione di tutte quelle regole fonetiche, grammaticali, metriche, ecc. atte a conservare inalterate la grafia e la pronunzia dei sacri testi (v. sopra: Letteratura vedica).
Fra le scienze filologiche occupa, per gl'Indiani, il primo posto la grammatica (vyākaraîa, lett. "analisi"). Il più antico testo di grammatica sanscrita arrivato fino a noi è l'Aṣṭādhyāyī "(La raccolta degli) otto libri (di regole grammaticali)" di Pāṇini, nativo dell'estremo lembo nordoccidentale dell'India e vissuto probabilmente nel sec. IV a. C. Questa opera, conosciuta anche col nome di Śabdānuśāna "Scienza delle parole, grammatica" (voce usitata comunemente a indicare qualsiasi trattato grammaticale), si compone di circa 4000 aforismi (sūtra) brevissimi, generalmente di non più di 203 parole le quali, per la maggior parte, si presentano come abbreviazioni, gruppi di lettere, espressioni ellittiche, cui sono stati attribuiti speciali significati e valori tecnico-grammaticali. L'estrema concisione e l'esposizione pressoché algebrica rendono difficile la lettura di questo testo che nella sua eccezionale brevità può però definirsi a ragione una grammatica completa la quale abbraccia morfologia, formazione e derivazione delle parole dalle radici, fonetica, sintassi. Probabilmente nel sec. III a. C. Kātyāyana compose i suoi vārttika "note", cioè annotazioni critiche, illustrative e talvolta complementari (redatte per lo più in prosa) a poco meno di un terzo degli aforismi di Pāṇini. In tal numero almeno risultano i vārttika quali sono giunti a noi incorporati nel Mahābhāṣya "Il gran commentario" di Patañjali (prob. sec. II a. C.). Quest'opera è più che altro un commento ai vārttika di Kātyāyana, ma estende altresì l'esame e la critica sopra altri sūtra di Pāṇini, non glossati da Kātyāyana. Ricorrono inoltre in essa dei vārttika metrici che non appartengono a Kātyāyana, e delle kārikā "versi memoriali" probabilmente di autori diversi e in parte di Patañjali stesso. Il primo commento completo all'opera di Pāṇini lo incontriamo nel sec. VII d. C., e s'intitola la Kāśikā Vṛtti "Il commentario di Benares" di Jayāditya e Vāmana, in 8 libri, mentre un riordinamento metodico e insieme un chiaro commento della grammatica di Pāṇini allo scopo di agevolarne lo studio è rappresentato dalla Siddhāntakaumudıī "Il chiarore lunare delle conclusioni stabilite" di Bhaṭṭoji Dīkṣita (sec. XVII).
La lessicografia incomincia con i nighaṇṭu vedici, ossia liste di parole vediche difficili (sostantivi, indeclinabili, verbi), di cui sono conservati antichi esempî nel Nirukta "Etimologia" di Yāska (anteriore a Pāṇini). Diversi dai nighaṇṭu, i quali avevano essenzialmente uno scopo esegetico, sono i kośa "tesori", cioè i vocabolarî sanscriti dell'età classica, raccolte di sostantivi e indeclinabili, compilate per uso dei poeti e scritte in versi, in modo da facilitarne l'apprendimento a memoria. Si distinguono due tipi di kośa: vocabolarî di sinonimi e vocabolarî di omonimi. Nei primi si susseguono i gruppi delle voci sinonimiche sì da formare più o meno ampie raccolte, ordinate di solito per concetti; negli altri invece troviamo elencate voci, ognuna delle quali ha più che un solo significato. L'ordine alfabetico, che manca completamente alle raccolte di sinonimi, incomincia ad apparire - con criterî diversi - nelle raccolte di omonimi. L'opera più importante è l'Amarakośa "Il vocabolario di Amara" di Amarasiṃha (fra il sec. VI e l'VIII), vocabolario sinonimico che, al pari dei suoi consimili e derivati più importanti, ha anche un lungo capitolo dedicato agli omonimi. Fra i vocabolarî di omonimi eccelle l'Anekārthasamucchaya "Raccolta di (voci) aventi più che un significato" di Śāśvata (prob. contemporaneo di Amarasiṃha) in 807 strofe. Nel sec. XII il dotto jaina Hemacandra compose tre vocabolarî sanscriti, fra i quali il più importante è quello sinonimico intitolato Abhidhānacintāmaṇi "La gemma che largisce ogni parola" in 1542 strofe.
Anche la metrica risale, nelle sue origini, al periodo vedico, e chandas "metrica" costituisce appunto una classe fra i testi (esegetici) ausiliari del Veda (vedāṅga). L'opera fondamentale sulla metrica indiana è il Chandaḥsūtra "Le regole della metrica" di Piṅgala (intorno al 200 a. C.), opera che, sebbene sia chiamata un vedāṅga, riguarda assai diffusamente la metrica classica sanscrita e solo in piccola parte la metrica vedica. Piṅgala enumera e descrive ben 160 metri profani (laukika), cioè non vedici, designati con nomi molto espressivi e varî. Lo stile dei suoi aforismi sulla metrica è tutt'altro che facile, e la loro concisione gareggia con quella di Pāṇini. Opere speciali più recenti sono lo Śrutabodha "L'apprendimento del sapere", attribuito - tradizionalmente ma senza alcun fondamento - di solito a Kālidāsa; il Suvṛttatilaka "L'ornamento dei bei metri" di Kṣemendra (sec. XI) in 3 libri; il Vṛttaratnākara "L'oceano dei metri" di Kedārabhṭṭa (ant. al sec. XV), in cui sono descritti 136 metri profani.
La retorica o poetica, cioè l'alaṃkāraśatra "dottrina degli ornamenti e dell'essenza della poesia", è di fondamentale importanza per un'esatta e perfetta comprensione così dello spirito come delle forme della poesia artistica indiana. In questo campo le opere più antiche non sono giunte a noi. Il primo e più antico testo è il Bhāratīya Nāṭyaśāstra (v. sopra: Letteratura drammatica), dove i non pochi argomenti che si riferiscono alla poesia drammatica hanno anche valore per l'arte poetica in generale. Sul principio del sec. VII Dandin compose in strofe il suo Kāvyādarśa "Lo specchio dell'arte poetica", rimasto fondamentale pur nelle età seguenti per le precise teorie in esso contenute sulla sostanza e forma della poesia, sugli stili, sugli omamenti poetici, sulle figure retoriche, ecc. Nei secoli successivi è una serie si può dire ininterrotta di opere sopra questo stesso tema dottrinario. E si giunge alla fine del sec. XIII e principio del sec. XIV, epoca in cui fiorì Viśvanātha Kavirāja, autore dell'ultimo famoso trattato del genere: il Sāhityadarpaṇa "Lo specchio della composizione ossia dell'arte retorica", le cui strofe formano 10 capitoli nei quali è svolta, insieme con la poetica generale, anche la poetica speciale del dramma.
Letteratura giuridica, politica, erotica. - Questi tre rami di letteratura sono stati raggruppati in un unico paragrafo in omaggio alla concezione panindiana del trivarga, ossia del complesso dei tre oggetti o fini dell'umana esistenza, i quali sono: dharma, che è l'insieme dei doveri con cui si determina la norma giuridico-religiosa e si acquista il merito morale; artha che è l'insieme delle attività della vita pratica con cui si ottengono beni materiali; kāma, che è l'amore e il piacere sessuale.
I più antichi testi giuridici indiani sono i Dharmasūtra "Le regole sul dharma" i quali formano una propaggine dell'età vedica appartenendo presumibilmente a un periodo cronologico compreso fra il sec. VIII e il III a. C.; e, più ancora del diritto, trattano della religione e delle usanze. Il più antico fra quelli a noi pervenuti è probabilmente il Gautamīya-dharmaśāstra "Il trattato giuridico di Gautama" in 28 brevi capitoli. Importante, perché segna quasi una fase di transizione dai Dharmasūtra ai trattati giuridici seriori e regolari in sanscrito, è il Vaiṣṇava-dharmaśāstra "Il trattato giuridico di Viṣṇu", che nella forma attuale tradisce numerose interpolazioni e aggiunte a nuclei ben più antichi, e sembra non risalga oltre il sec. III d. C. I trattati giuridici veri e proprî, i quali seguono all'età dei Dharmasūtra, si distinguono da questi non solo per la forma del dettato, che è metrica, ma anche per una maggiore larghezza di vedute e per una trattazione della materia legale, assai più ampia e particolareggiata. Il più autorevole di questi Dharmaśāstra metrici, detti anche Smṛti "Tradizione (del corpo del giure)", è il Mānava-dharmaśāstra "Il trattato giuridico di Manu" o Manusmṛti "Il codice di Manu" in 12 libri, con un totale di 2685 strofe. La sua data di composizione, molto indeterminata, è compresa fra il 200 a. C. e il 200 d. C. Al codice di Manu si accosta molto, per importanza e per antichità, il Yājñavalkya-dharmaśāstra "Il trattato giuridico di Yājñavalkya" (non anteriore al sec. IV d. C.) in 3 libri, con un totale di 1009 strofe. Terzo e ultimo dei grandi Dharmaśāstra e - a quanto tuttora sembra - posteriore al precedente, è la Nāradasmṛti "Il codice di Nārada". In esso il concetto di dharma viene per la prima volta limitato quasi esclusivamente al diritto inteso nel vero senso della parola, al quale è riservata una trattazione che segna un notevole progresso rispetto al codice di Manu e a quello di Yājñavalkya. Anche i commentarî indigeni offrono interessanti materiali per lo studio del giure indiano. Fra essi eccellono il commento di Medhātithi (prob. sec. IX d. C.), quello di Govindarāja (sec. XII) e, in derivazione da questo, il notissimo commento di Kullāka (sec. XV) al codice di Manu; e al codice di Yājñavalkya quello di Vijñāneśvara (sec. XI) imitolato Mitākṣarā "Il (commentario) conciso". Quest'ultimo costituisce di per sé un trattato giuridico che acquistò fama e rinomanza in quasi tutta l'India, e fu alla sua volta oggetto di altri commentarî. Col sec. XII compaiono i primi compendî giuridici o digesti (Dharmanibandha) la cui produzione continuerà per parecchi secoli. Notevoli fra essi lo Smṛtikalpataru "L'albero miracoloso della legge" di Lakṣmīdhara (secolo XII) e il voluminoso Caturvargacintāmaṇi "La gemma (che largisce) i 4 beni" di Hemādri (intorno al 1300).
Parallelamente alla letteratura del dharma si sviluppò per tempo la letteratura dell'artha; ma non bene accertati né definitivamente stabiliti sono i rapporti cronologici fra le singole fasi delle due letterature. L'arthaśāstra "scienza dell'artha (amministrazione, governo)" riguarda il complesso delle attività della vita pratica armonizzate e regolate, nell'ambito dello stato, dal re investito del potere amministrativo, esecutivo e punitivo. Per questa ragione appunto l'arthaśāstra è una scienza che si rivolge, nel suo insieme, ai re e, come tale, prende altresì i nomi di nītiśāstra "scienza di governo", rājanīti "governo regio", daṇḍanīti "potere e azione punitivi". Degno di rilievo il fatto che l'autorità regia - esaminata nell'estrinsecazione di parecchie tra le funzioni che le sono inerenti - costituisce un argomento trattato, in misura più o meno ampia, anche nei testi giuridici (Dharmasūtra e Dharmaśāstra). L'opera più importante sull'arthaśāstra è il Kauṭilīya Arthaśāstra "Il trattato sull'arte di governo (attribuito a) Kauṭilya", giunto a noi in una redazione in prosa con poche strofe intercalate. Sebbene sembri ormai escluso che si tratti di un'opera del sec. IV a. C., composta proprio da Kauṭilya (chiamato anche Cāṇakya o Viṣṇugupta) ministro di Candragupta della dinastia Maurya, e il prezioso testo, quale ci è pervenuto, non risalga probabilmente oltre il secolo IV d. C., pure è immenso il contributo che esso porta alla conoscenza dell'antica civiltà indiana. Una specie di rifacimento poetico della materia trattata nel Kauṭ. Arth., ma con ampie omissioni e non senza qualche elemento estraneo all'arthaśāstra, è il Kāmandakīya Nītisāra "Compendio di scienza politica" di Kāmandaki (intorno al 700 d. C.). In prosa, e con intento morale, è stato invece composto dal jaina Somadevasīri (sec. X) il Nītivākyāmṛta "L'ambrosia della dottrina politica" che riproduce spesso il Kauṭ. Arth. non solo nei concetti ma anche nelle parole. L'arthaśāstra suppone e in parte comprende parecchie scienze sussidiarie, intorno alle quali si dà qui un rapidissimo cenno.
La scienza delle costruzioni (vāstuśāstra) - che comprende la fondazione e topografia dei centri abitati e poi l'architettura, la scultura, la pittura e le macchine - è trattata in molti testi, fra i quali si distinguono, come più antico, il Mānasāra, probabilmente "Il compendio delle misure" (500-700 d. C.), e per ampiezza il voluminoso Samaraāṅgaṇasūtradhāra, probabilmente "L'architetto dell'universo" con le sue 7423 strofe divise in 83 capitoli. L'allevamento e le cure così del cavallo come dell'elefante (animali entrambi di eccezionale importanza in pace e in guerra) formano gli argomenti di due scienze: la veterinaria equina e l'elefantoiatria, esposte in trattati speciali.
Altri testi riguardano la scienza delle armi (dhanurveda) e altri la teoria e la pratica nella conoscenza delle pietre preziose (ratnaśāstra o ratnaparīkṣā). Tutte queste dottrine si trovano riunite e succintamente esposte in versi nel Yuktikalpataru "L'albero miracoloso (che largisce) le attività pratiche" attribuito al re Bhoja (sec. XI). È un'opera di compilazione, ma ciò nondimeno interessante, la quale fornisce, verso la fine, alcune preziose informazioni sulle navi e sulla loro costruzione. Anche la teoria orchestrale e del canto (saṃgīta) fa parte dell'arthaśāstra, e, oltre alle notizie più antiche contenute nel Bhāratīya Nāṭyaśāstra (v. sopra: Letteratura drammatica), ci sono giunte sull'interessante argomento alcune opere speciali dei secoli XIII e seguenti.
La letteratura del terzo ramo del trivarga, cioè del kāma "amore sessuale", si riferisce a una specialissima attività materiale della vita umana; ed è naturale che il kāmaśāstra "scienza dell'amore" presenti, non solo per la materia di cui tratta, ma anche per le sue origini e per il suo sviluppo, una stretta colleganza con l'arthaśāstra. Mentre questo - come si è visto - si rivolge ai re, quello si rivolge invece al nāgaraka "cittadino raffinato", al quale insegna tutto quanto concerne l'amore. Il trattato più antico e l'unico veramente importante giunto fino a noi, è il Kāmasūtra "Le regole sull'amore" di Vātsyāyana (intorno al 500 d. C.), il quale rivela per la forma del dettato, per l'impostazione generale dell'opera e per taluni paralleli facili a stabilirsi, lo studio e l'imitazione del Kauṭ. Arth. Un ampio e prezioso commentario al Kāmasātra fu composto da Yaśodhara (secolo XIII) con il titolo di Jayamaṅgalā "(Il commento avente) l'augurio di vittoria".
Letteratura medica. - Ricca di testi è la medicina indiana con la sua imponente materia medica ricavata dal mondo minerale, da quello animale e più specialmente dalla flora indigena quanto mai varia e rigogliosa. Concezioni mediche ricorrono già nel Veda (Ṛgveda e Atharvaveda), e il nome più antico e diffuso per designare la scienza medica è quello di Āyurveda "Veda della longevità", considerato come un'appendice dell'Atharvaveda. Anche il buddhismo, sino quasi dalle sue origini, affina ed evolve teorie e dottrine mediche tradizionali, e al buddhismo appartengono pregevoli autori di medicina e opere mediche di grande importanza. Le parti della teoria medica indiana le quali intaccano il valore scientifico del sistema sono l'anatomia (alquanto imprecisa, non essendo ammesso il sezionamento dei cadaveri) e la fisiologia (con il caratteristico sostrato, dominante poi in tutta la medicina indiana, della credenza nei tre umori: vento, bile, flemma); e mentre la diagnosi mostra fin da principio un'osservazione acuta e precisa, la prognosi rivela in ogni tempo l'elemento superstizioso. La patologia e la terapeutica le troviamo ampiamente trattate, ed entrambe suscitano uno speciale interesse nello studioso. Interessante altresì la chirurgia con le sue operazioni di rinoplastica, di laparatomia, di cateratta, ecc.
L'evoluzione della medicina indiana conferisce inoltre vita e sviluppo a talune scienze affini o sussidiarie quali la tossicologia, la veterinaria, la botanica, la mineralogia, la farmacia, l'alchimia, la chimica e persino la scienza o arte culinaria. La tradizione indiana e, d'accordo con essa, autorità più antiche Caraka e Suśruta. Sotto il nome del primo - il quale visse probabilmente intorno al 100 d. C. - è giunta a noi la voluminosa Carakasaṃhitā "Il compendio di Caraka" in 8 libri in versi e prosa, alla cui composizione collaborò ancora il medico Dṛḍhabala verso l'800 dell'era nostra. La Suśrutasaṃhitā "Il compendio di Suśruta", in 6 libri in versi e prosa, la quale comprende fra l'altro una nuova e particolareggiata trattazione della chirurgia, è un po' meno antica del nucleo originario dell'opera precedente; e può essere fissato per essa come termine ad quem il sec. V d. C. Al nome di Vāgbhaṭa, che con i due autori già citati forma un tradizionale trinomio, sono legate due opere, come le precedenti, di medicina generale: l'Aṣṭāṅgasaṃgraha "Il compendio delle 8 parti (della medicina)", in versi e prosa e probabilmente del secolo VII, e l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā "Il compendio dell'essenza delle 8 parti (della medicina)", esclusivamente in versi e appartenente, a quanto sembra, al sec. VIII. Anche al sec. VIII o forse al IX appartiene Mādhava, autore dell'opera speciale più importante sulla patologia, il Rugviniścaya "L'accertamento delle malattie", noto anche sotto il nome di Mādhavanidāna "La patologia di Mādhava", in 70 capitoli completamente in versi; e strettamente legato con essa - seguendo lo stesso ordine delle malattie - è il trattato di terapeutica intitolato Siddhayoga "La cura perfetta" di Vṛnda, in cui taluno ha voluto ravvisare - e la cosa non è improbabile - un secondo nome di Mādhava. Un'altra opera voluminosa è il Cikitsāsārasaṃgraha "Il compendio della quintessenza della medicina" composto da Vaṅgasena (sec. XI-XII) e concernente nella quasi sua totalità la patologia e la terapeutica. Questi i trattati più importanti e antichi, rimasti a fondamento di tutte le numerose opere mediche composte in India nei secoli seguenti fino all'età moderna. Interessante, anche per la storia dell'alchimia, è la ricca letteratura sul mercurio (rasa) la quale raggiunge un grande sviluppo nei secoli XIV e XV.
Letteratura matematica e astronomica. - I testi sanscriti di matematica pura costituiscono, quasi tutti, una sezione dei testi di astronomia. Per questa ragione il presente paragrafo prende anzitutto in esame la scienza astronomica, le cui origini risalgono all'età vedica e sono legate al rituale del sacrificio.
Una fase successiva, già alquanto evoluta ma pur sempre genuinamente indiana, è rappresentata in primo luogo dall'astronomia cosmografica contenuta nel Mahābhārata e nei Purāṇa. Una terza fase, nella quale spiccano indirizzo e metodo scientifici ed evidenti influssi dell'astronomia greca, si apre nei primi secoli d. C. con i Siddhānta "Trattati che espongono un completo sistema astronomico", uno dei quali è giunto a noi ben conservato in una redazione, non però originale, in versi, ed è il Sūryasiddhānta "Il Siddhānta (rivelato) dal Sole", in 14 capitoli, con un complesso di 500 strofe. Il merito di essere stato uno fra i primi a esporre in sobria ed efficace trattazione, in parte rielaborandola, la materia contenuta nei Siddhānta spetta ad Āryabhaṭa (nato nel 476), il quale compose nel 499 l'Āryabhaṭīya "Il (testo) di Āryabhaṭa" opera importante non solo per la storia dell'astronomia ma anche per quella della matematica, a eui viene dedicata per la prima volta un'apposita sezione. Un nome famoso nell'ambito dell'astronomia e astrologia è quello di Varāhamihira, il quale verso la metà del sec. VI compose, fra altre opere, la sua Pañcasiddhāntikṭī "(L'opera) riguardante i 5 Siddhānta" (nella quale egli dà notizie intorno a 5 antichi Siddhānta, tra cui una redazione forse originale, e non giunta fino a noi, del Sūryasiddhānta sopra ricordato) e - importante per l'astrologia e per la storia della cultura indiana - la Bṛhatsaṃhitā "Il grande compendio" in 107 capitoli, scritta in metro vario e non di rado con schietto colorito poetico. Alla prima metà del sec. VII appartiene Brahmagupta, autore del Brahmasiddhanta "Il Siddhānta di Brahman", chiamato anche Sphuṭasiddhānta "Il Siddhānta diffuso (ovvero preciso)", nel quale è ripresa con ampiezza di metodo la trattazione del sistema astronomico e insieme la teoria matematica. L'ultimo, in ordine cronologico, fra gli astronomi indiani più noti è Bhāskarācārya (sec. XII), il quale con il suo Siddhāntaśiromaṇi Il diadema (ossia il capolavoro) dei Siddhānta" ha portato l'astronomia e la matematica (algebra) indiane al loro più alto grado di sviluppo.
Le credenze astronomiche indiane prescientifiche, quelle cioè che risalgono all'età vedica e si trovano poi evolute ed esposte nel Mahābhārata e nei Purāṇa, raffigurano la terra come una superficie circolare al disopra della quale i corpi celesti si muovono in piani ad essa paralleli. Nei Siddhānta e nella letteratura astronomica successiva troviamo invece la concezione di una terra sferica, immobile nello spazio, e dei corpi celesti che girano intorno a essa seguendo ciascuno la propria orbita circolare.
Ma in matematica pura ben più notevoli sono stati i progressi e i risultati conseguiti dagl'Indiani. E se la questione è tuttora sub iudice, pure sembra molto probabile che il fondamento di ogni calcolo moderno, cioè il sistema numerico decimale nel quale ogni cifra ha, oltre al suo valore assoluto e immutabile, un secondo valore relativo alla sua posizione nel composto numerico, sia un ritrovato della mente indiana. Le sezioni matematiche dei testi astronomici già citati di Āryabhaṭa, Brahmagupta e Bhāskarācārya dimostrano lo sviluppo eccezionale dell'aritmetica e dell'algebra presso gl'Indiani. La geometria ha in India un'origine molto antica e risale ai vedici Śulvasūtra "Le regole della corda (per misurare)", nei quali la tecnica relativa alla misurazione e all'apprestamento dell'area sacrificale e dell'altare rivela molte conoscenze geometriche, compreso in esse il noto teorema di Pitagora. Ma nelle età successive la geometria rimane in seconda linea. La trigonometria la troviamo collegata con il calcolo astronomico; ed è, a quanto sembra, un'importazione dalla Grecia. Un'opera circoscritta al puro campo matematico e meritevole di particolare rilievo è il Gaṇitasṃrasaṃgraha "Il compendio della quintessenza del calcolo" del jaina Mahāvīrācārya (sec. IX). L'opera, divisa in 9 capitoli, con un totale di 1131 strofe, è ricca di dati e di esempi su tutta l'aritmetica generale, sulla misura delle aree, sul calcolo delle escavazioni e delle ombre.
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Arti figurative.
Introduzione. - Intorno alla metà del sec. XIX ebbe inizio lo studio dei numerosi monumenti che l'India ci ha tramandati. I resti della pittura e delle arti minori delle prime età sono così scarsi da non potersi ordinare in una successione cronologica e stilistica. È importante avvertire che la scultura spesso, anziché venir applicata all'architettura come decorazione, è ricavata dalla viva pietra, come la stessa architettura, risultandone anche più necessario unire strettamente lo studio delle due arti.
Preistoria. - La preistoria dell'India è ancora tanto negletta da poter riservare grandi sorprese. Oggetti paleolitici in pietra, generalmente delle forme più primitive, rinvenuti in gran copia nelle regioni meridionali della penisola, dimostrano che questa fu abitata sin dall'età preistorica. Tra le numerose e in genere insufficientemente studiate serie di pitture e disegni rupestri sono particolarmente importanti quelle di Singanpur presso Reigarh (Provincie Centrali) con scene di caccia e gruppi umani e animali, che si possono ascrivere ancora alla civiltà aurignaciana.
Avanzi neolitici, sparsi per tutta la penisola, sono opera d'indigeni di colore, forse dravidici. Un'arte lungamente diffusa, la cosiddetta arte indosumerica, si ricollega all'inizio dell'età del rame e del bronzo. Le principali rovine e luoghi di ritrovamento sono Harappa e Mohenjo-Daro sul medio corso dell'Indo; ma se ne hanno propaggini in tutto il Settentrione e anche nel Belūcistān e nel Vaziristan, regioni che formano il naturale anello di congiunzione con la Mesopotamia e l'Iran. Oltre a prodotti indosumerici, in oro, in argento, in rame, in bronzo, rimangono ceramiche grezze e dipinte, monili in ceramica, avorio e pietre dure; particolare importanza artistica hanno poi le sculture in pietra, terracotta e bronzo. Si può datare all'incirca detto gruppo, per confronti con oggetti affini ritrovati in Egitto e in Mesopotamia, tra la fine del quarto millennio e la fine del secondo. Gl'indizî più sicuri si ricavano dalle numerose tessere per sigilli di Mohenjo-Daro, con dicitura in scrittura strettamente affine al più antico alfabeto dell'Asia occidentale. Gli animali che vi sono rappresentati - zebre, antilopi, elefanti, rinoceronti, tigri, animali fantastici muniti di corna - si ritrovano in parte nel repertorio artistico dell'Asia occidentale. Vi si riscontra spesso l'albero della vita, motivo anch'esso mesopotamico, e testimonianza della venerazione per l'albero, così tipica dell'Asia meridionale. In complesso l'arte indosumerica contiene in germe numerose forme fondamentali della successiva arte indiana. Il nome dato a quest'arte sembra venir giustificato specialmente dalle sculture. In queste si distinguono nettamente due tipi: l'uno ritrae, in modo raffinato e tecnicamente perfetto, figure affini nel taglio del viso e nell'abbigliamento a quelle di Ur; l'altro rappresenta, generalmente in terracotta, un'umanità primitiva e può solo spiegarsi come una continuazione della tradizione neolitica. La predilezione per le figure muliebri risponde alla venerazione, propria al bacino meridionale del Mediterraneo, per una forma primordiale d'immagini di culto, cioè per la divinità madre; è un'eredità dell'età della pietra a carattere matriarcale, forma sociale mantenutasi particolarmente a lungo nell'Asia meridionale. La figura è rivestita dai soli monili, le gambe sono strette l'una all'altra, le braccia ridotte a mozziconi. Venivano modellate a parte e aggiunte alla figura le grevi palpebre, la piccola bocca e gli ornamenti, tecnica che si ritrova in posteriori statuette di terracotta, molte delle quali si usavano come giocattoli sin dall'epoca indosumerica.
La ceramica dipinta, decorata di animali stilizzati, di motivi a spirale o a scacchiera, ricorda la ceramica di Susa (I e II).
Quest'arte così collegata all'Iran e alla Mesopotamia non si estese sino all'India centrale e meridionale, ove sorsero invece sin dall'inizio dell'età del bronzo numerosi sepolcri megalitici corrispondenti ai contemporanei d'Europa, da molti considerati come una prova di relazioni oceaniche avvenute tra i varî continenti. L'uso del ferro apparve assai presto in India, certamente già un millennio prima di Cristo, sicché si attribuisce a questo "paese del ferro" la scoperta della lavorazione di quel metallo. Importante luogo di ritrovamenti di suppellettile preistorica nel sud è Tinnevelly presso Madras; ne provengono anche rappresentazioni plastiche della figura umana.
L'avvenimento più importante della preistoria indiana fu l'immigrazione degli Arî, bianchi, iniziatasi nel secondo millennio a. C. Essi, venuti dal nord, conquistarono a poco a poco tutta la penisola. Rimane tuttavia in parte insoluto il problema delle conseguenze della loro immigrazione per la civiltà della vecchia India, poiché le indagini più antiche vedevano tanto nella civiltà storica quanto nell'attività artistica e filosofica un patrimonio ario (è fuori di dubbio che gl'immigrati recassero seco carri e cavalli e dominassero il paese in qualità di casta vincitrice), mentre ora si vorrebbe assegnare la parte principale nella creazione artistica agl'indigeni, uomini di razza scura.
Nel sec. VI a. C. al termine dell'età vedica, si vennero formando le dottrine che dovevano fomire materia all'arte più tarda, e cioè il buddhismo e il jainismo, ma, sebbene si abbiano notizie di un'attività antecedente delle arti figurative, non restano monumenti anteriori al sec. III, probabilmente perché furono distrutti dal tempo, essendosi per essi impiegata una materia non molto resistente.
L'arte arcaica. - Età dei Maurya (320-285 a. C.). - La prima epoca storica di cui rimangano tracce nell'arte è quella della dinastia Maurya, che regnava nella regione di Magadha, posta sul medio corso del Gange. La sua massima personalità fu Aśoka (272-232 a. C.), patrono del buddhismo nel proprio regno, esteso su tutta l'India settentrionale e centrale. La scultura di quel periodo si può distinguere in due scuole. Una di queste sembra proseguire le tendenze dell'arte dell'età in cui si scolpiva in pietra, cercando di rendere del corpo umano il volume e la massa, come nelle figure di Besnagar, Parkham e Patna: l'artista tenta con varie superficie di ottenere delle figure a tutto tondo, ma solo in assoluta posizione frontale. Tutte le sculture di questo gruppo raffigurano Yakṣa, semidei dell'induismo, riallacciandosi così non solo formalmente ma anche iconograficamente all'epoca primitiva. L'altra scuola, detta aulica, con molta proprietà, rivela molteplici affinità con la civiltà del bacino meridionale mediterraneo, particolarmente con la Persia. Appartengono al repertorio comune del mondo iranico i capitelli a campana, gli animali alati, gli animali abbinati, con una sola testa, le palmette, le rosette e l'acanto; motivi che in parte persistettero nell'arte indiana. Animali a tutto tondo e in rilievo decorano la colonna monolitica che Aśoka fece erigere per affiggervi i proprî editti: il miglior esemplare conservato è il capitello in granito di Sarnath, con quattro leoni fra quattro ruote, simboli della dottrina buddhistica, e quattro rilievi con rappresentazioni di animali magistralmente e realisticamente modellati.
Appartengono già a quell'epoca alcune residenze monastiche scavate nelle montagne, nelle regioni medie del nord e nord-ovest, a Lomas Rishi, a Salsetta, al colle Barabar, ecc. Si compongono generalmente di due ambienti con una stretta apertura per porta; la loro facciata esterna dalla ricca decorazione plastica ripete in pietra quasi servilmente i prototipi lignei, in modo poi lungamente durato nell'architettura indiana. Vi predomina l'arco inflesso che incornicia l'entrata; gli stipiti, specialmente nei monumenti più antichi, sono un po' obliqui. Vi sono riprodotti, in materiali indeperibili, sostegni e rinforzi di legno, sinanche intrecci e cancellate in bambù. L'interno è uno sviluppo del caitya dell'atrio; ha generalmente pianta rettangolare e termina talvolta in un'abside semicircolare; la copertura cerca d'imitare la vòlta a botte. Se a questo ambiente è aggiunto un luogo di culto a pianta circolare, allora il primo serve da sala di riunione. Con il caitya, che è insieme sala di riunione e luogo di culto, il monastero (il vihāra) è la forma architettonica più importante.
Periodo Śunga e Āndhra (circa 200 a.C.-20 d. C.). - Gli avvenimenti storici e la cronologia di queste due dinastie non sono stati ancora ben determinati. I Śunga provenivano dalla regione di Magadha, gli Āndhra più dal mezzogiorno.
All'inizio di questo periodo appartengono i due rilievi di Bhaja, eseguiti ancora nel pesante e vecchio stile, e che erano probabilmente destinati a scopi induisti.
Le fomme fondamentali dell'architettura buddhista raggiungono ora il completo sviluppo. Il vero e proprio centro delle costruzioni religiose è formato dallo stūpa, specie di tumulo in terra e rottami, a forma sferica inaccessibile, che con tutta probabilità deriva la sua forma dai sepolcri principeschi.
Lo stūpa s'innalza isolato su una serie di terrazze; è coronato da un dado aperto in alto, sormontato da un'asta che regge un'"umbella" onoraria, insegna della potenza dei regnanti e dei fondatori di religioni. Il tutto è circondato da un cancello con quattro entrate. Lo stūpa poi fece anche parte del caitya a forma di basilica, ove venne posto in fondo all'abside come un altare. Queste basiliche, scavate nella roccia, dell'epoca Śunga-Āndhra, si trovano in Nasik presso Yunnar e in Karli (ove è il gruppo più importante). La loro vòlta riproduce in pietra le nervature del legno; i capitelli, che ripetono la forma a campana di tipo persiano, sono coronati da sculture: elefanti inginocchiati, cavalli e tigri montati da cavalieri e altre figure secondarie. La struttura rupestre, monolitica come tutte le altre, rivela una così salda fusione fra architettura e plastica, quasi nell'animata pietra, da superare ogni nostra fantasia.
I gruppi monumentali più celebri di quest'epoca sono gli stūpa di Bharhut, Sanchi (entrambe nello stato di Bhopal) e Bodh Gaya, che s'innalzano tutte isolate. Lo stūpa e la maggior parte dei cancelli in pietra e delle porte di Bharhut sono andati distrutti; ne sono stati sistemati gli avanzi nel museo di Calcutta. Le grandi figure dei pilastri rappresentano Yakṣa e altre divinità protettrici. Gli stipiti sono coperti da rilievi con storie della prima esistenza del Buddha; nelle rosette delle travi in pietra sono scolpite, oltre ai motivi vegetali, teste virili e muliebri; come in altri monumenti coevi, la figura del Buddha è sostituita da un simbolo: ora l'albero sotto cui raggiunse la conoscenza, ora il suo baldacchino d'onore, il suo trono, l'impronta del piede o la ruota della dottrina. Il noto motivo "dell'albero e della donna" appare per la prima volta a Bharhut: esso esprime in modo evidente la particolare concezione formale che gl'Indiani si fanno del corpo umano; esso viene sempre rappresentato in modo realistico, ma con una sovrapposizione di volumi assolutamente inverosimile. I seni e il bacino stanno in voluto contrasto con la snellezza della vita, contrasto ancor più accentuato dal movimento impresso ai fianchi. Un'impronta di aspra sensualità, una gioia pervasa da selvaggia animalità e insieme un senso perfetto del ritmo, un'espressione armonica del movimento caratterizzano l'arte di Bharhut.
L'opera arcaica più completa e meglio conservata dell'India è il complesso di rilievi e di sculture che decorano su ambo i lati le quattro porte dello stūpa di Sanchi, conservato in perfetto stato. Anche la sua decorazione plastica rappresenta storie di jātaka (tratte cioè dalle narrazioni delle anteriori esistenze del Buddha). La lavorazione della pietra vi rivela la tecnica propria agl'intagliatori di avorio, e un'iscrizione afferma che un rilievo fu opera degl'intagliatori di avorio di Bhilsa. Vi manca la raffigurazione del Buddha. Se gli animali alati vi richiamano la Persia, lo spirito dell'arte indiana si afferma pienamente nella rappresentazione dei corpi umani, e specialmente nel magistrale modellato degli animali. L'affollamento confuso che si nota a Bharhut qui è scomparso.
Nei suddetti monumenti è ormai perfettamente fissato l'ideale indiano della bellezza umana, in assoluto contrasto con quello europeo. Nel corpo umano la vigoria della struttura, la funzione dello scheletro e delle articolazioni non presentano alcun interesse per l'artista, il quale cerca invece di riprodurne la pieghevolezza e la stretta connessione con la natura, come altrove si vede soltanto nelle rappresentazioni di animali: e ciò egli raggiunge perfettamente nella rappresentazione del nudo femminile. Appartengono alla stessa epoca alcune singole opere d'ispirazione buddhistica o jainica. Su tutte le opere iainiche sono da ricordare i primitivi rilievi realistici del gruppo Udayagiri (Bhopal), singolari per il carattere narrativo delle minute figurazioni. E persiste anche la tradizione delle statuette in terracotta di tipo indosumerico.
I Kuṣaṇa. Periodo del Gandhāra (sec. I-IV d. C.). - All'inizio circa della nostra era giunsero nella valle dell'Indo gli Yue-shi, popolo nomade di razza scitopartica scacciato dalla Cina nordoccidentale; stabilitisi definitivamente in quelle regioni, gli Yue-shi estesero il loro impero sino alla valle del Gange, assoggettando anche il Kashmir e l'Afghānistān. I monumenti dovuti alla loro attività artistica, estendentisi per tutta questa zona e generalmente contrassegnati dal nome della regione del Gandhāra (v.), più di qualsiasi altra espressione dell'arte indiana attrassero l'interesse europeo, contribuendo in gran parte all'errata concezione che per lungo tempo vi fu in Europa della storia dell'arte asiatica. I Kuṣaṇa, dinastia imperante sugli Yue-shi, in primo tempo aderirono alla vecchia tradizione indiana, se non altro nella decorazione delle loro monete; la loro religione fu il buddhismo, diffuso specialmente per opera del re Kaniṣka, che regnò probabilmente intorno al 100 d. C. Il più importante tra i numerosi ritrovamenti nel Gandhāra è quello di Taxila. Gli edifici della regione di Gandhāra sono tutti in muratura, in netto contrasto con la genuina architettura indiana: e si conservano numerosi avanzi di stüpa, di monasteri e di palazzi. I Kuṣaṇa accettarono in generale i principi architettonici indiani, applicandovi però particolari decorativi (basamenti, nicchie, colonne e relativi capitelli) di stile ellenistico. Ed è appunto la fusione tra le forme artistiche ellenistiche e indiane che costituisce il carattere essenziale dell'arte di Gandhāra, particolarmente palese nella statuaria. Non è possibile seguire un'evoluzione di quest'arte entro i quattro secoli del suo fiorire; anche opere di cui iscrizioni offrono dati cronologici, per es. ilcofanetto d'oro di Kaniṣka, non offrono alcun punto sicuro di riferimento, non essendo ancor possibile stabilire la cronologia di quel re. La più rilevante novità è la rappresentazione plastica del Buddha, che, a tutto tondo e a rilievo, sostituisce ormai i suoi precedenti simboli: ma, mentre i caratteri esterni della rappresentazione rispondono all'iconografia propria al pantheon buddhistico d'impronta indiana, l'esecuzione tecnica deriva generalmente dall'arte ellenistica. Sul tipo dell'Apollo è modellato quello del Buddha, con paludamento organicamente disposto intorno al corpo, la cui struttura è resa con chiarezza. Il vecchio patrimonio artistico delle scuole ellenistiche serve all'interpretazione dei varî temi della dottrina indiana. Numerose figure del pantheon greco, semplicemente fornite di nuovi attributi e di nuovi significati, vengono interamente accettate; compaiono al seguito delle divinità Atlante e Tritoni. Ma ci sono figure prodotte dalla scuola del Gandhāra nelle quali l'induismo indigeno trionfa contro l'arte d'importazione; e numerosi particolari stanno a dimostrare che gli antichi abitanti del paese hanno influito su quell'arte.
Incerto è ancora se la figura del Buddha fu davvero ideata dagli scultori ellenistici operanti sotto la dinastia dei Kuṣaṇa o se poté, indipendentemente da essi, nascere ed evolversi in altri luoghi. Il Coomaraswamy ha presentato a favore della seconda tesi argomenti stringenti, per cui l'arte del Gandhāra viene ridotta a un fenomeno provinciale d'importazione locale, che esercitò bensì una certa influenza su alcuni luoghi dell'India, ma il cui linguaggio formale estraneo all'essenza dello spirito asiatico fu presto superato.
L'arte di Mathura e Amaravati. - Mathura è posta sul fiume Jumna, affluente di destra del Gange. Numerosi monumenti prevalentemente buddhistici e jainici stanno a testimoniare che agl'inizî della nostra era essa fu uno dei centri più importanti dell'India. Il materiale preferito, un'arenaria rossastra a leggiere macchie biamhe, rende assai facile l'identificazione della sua produzione artistica che giunge a tutto il sec. VI d. C., e poi s'inaridisce improvvisamente. Tra le cose più importanti è un torso che un'iscrizione consente d'identificare come ritratto del re Kaniṣka. Il suo stile appartiene evidentemente ai nomadi immigrati; la rigidezza frontale, l'impaccio della figura, le vesti, gli ornamenti, le armi si rivelano molto affini all'arte iranica. L'influenza persiana si afferma nuovamente accanto all'ellenistica nel gruppo dei ritratti scolpiti. Vi è in Mathura una serie di rappresentazioni del Buddha e del Bodhisattva databili in parte intorno al sec. I d. C. Su quella di Katra, la meglio conservata, si basa la teoria dell'origine indiana della figura del Buddha: mentre nell'arte Gandhāra la veste copre le due spalle, qui la destra rimane scoperta, il drappeggio vela il corpo senza nasconderlo e le pieghe ne sono ordinate non secondo la loro naturale disposizione, ma seguendo un principio decorativo; il corpo massiccio risponde al vecchio ideale indiano. Le rappresentazioni plastiche posteriori si riallacciano di preferenza allo stile del Buddha di Katra che non a quello del Gandhāra. Alla stessa tradizione si debbono riferire i numerosi esemplari, che si trovano a Mathura, dell'"Albero e la donna".
Le dee della vegetazione e della fecondità non hanno mai perduto la loro importanza nell'arte figurativa popolare dell'India; se prima erano grevi, quasi brutali, ora sono improntate a un realismo pervaso di gioiosa sensualità e presentano uno schema formale a cui si atterrà poi sempre tutta la plastica indiana; il carattere erotico di queste figure non contrasta affatto con le credenze religiose indiane.
I monumenti di Amaravati (posta circa a metà della costa orientale) rivelano la coesistenza di varie tendenze artistiche all'epoca Kuṣaṇa; distrutti gli edifici, le loro decorazioni plastiche si trovano ora nei musei di Madras e Londra. Accanto alla rappresentazione simbolica del Buddha, vi si trova anche quella nello stile del Gandhāra, con veste naturalisticamente modellata, e nello stile di Mathura, con veste disposta decorativamente; nei viticci e nei capitelli sopravvivono elementi persiani. Ma il frammento con l'Adorazione delle orme dell'eletto rivela come, in conclusione, l'elemento dominante del linguaggio formale sia effettivamente indiano. La struttura e il movimento del corpo rispondono nella pienezza delle forme e del ritmo dei movimenti all'ideale indigeno, che non raggiunse mai fuori di Amaravati più perfetta espressione.
Ceylon. Periodo arcaico. - Il buddhismo si diffuse in tutta l'isola sotto il regno di Aśoka. Numerosi stūpa, detti in Ceylon Dagoba, risalgono all'epoca dei Maurya: e fra i più antichi sono quelli di Anuradhapura in forma di semisfera; rimangono anche avanzi di palazzi; la decorazione plastica delle loro scalee rispecchia l'arte dell'età Kuṣaṇa. Le lastre di rivestimento sono decorate da fregi animali ove rivive, più pura che sul continente, l'arte aulica dei Maurya; cavalli, bufali, elefanti vi sono disegnati con maggior sicurezza e maggior fedeltà alla natura che non l'araldico leone stilizzato.
L'arte classica. - Epoca dei Gupta (circa 302-600). - Agl'inizî del sec. IV sorse sul Gange, nel centro dell'India peninsulare, il reame dei Gupta, che sottomise per un certo periodo gran parte della penisola. Per ragioni di utilità pratica, e anche perché molti avvenimenti storici non sono stati ancora chiariti, si è usi dare il nome di arte Gupta anche all'arte che fiorì oltre i limiti cronologici di quella dinastia, poiché stilisticamente i secoli VII e VIII, durante i quali regnarono nel Deccan i primi Cālukya, furono una continuazione dell'arte sviluppatasi sotto i Gupta. Fiorirono allora forme artistiche che i missionarî buddhistici trasportarono ben oltre i confini della penisola, e furono poi codificate in trattati, detti Śilpaśāstra, che offrono all'artista sotto fomia di regole tecniche uno schema fisso a cui potrà aggiungere di sua iniziativa variazioni nel modellare superficie ed espressione.
In un primo tempo l'architettura sviluppa i vecchi tipi. Lo stūpa di Sarnath si distingue per un magnifico fregio decorativo nell'imbasamento. Le costruzioni più nuove, come i templi con cella, veranda e atrio su pilastri, erano destinate specialmente al brahmanesimo sempre più dilagante. Appare, al termine dell'età Gupta, una nuova forma architettonica, il śikhara, torre di pietra o di mattoni, che, eretta sopra la cella, segnala il luogo santo ove vien conservata l'immagine sacra; la parte esterna è già di per sé tanto pronunciata, che solo di rado le viene aggiunto un vestibolo, in cui sono riprodotte forme proprie all'architettura in legno. I śikhara, particolarmente numerosi nelle regioni poste sul corso inferiore del Gange, assunsero in un primo tempo due tipi: il tipo settentrionale, a base quadrangolare con lati curvi e digradanti sino a formare una vera e propria punta; il tipo meridionale, piramide a terrazze sormontata da una cupola a forma di stūpa, a piani e gradini.
Le architetture rupestri dell'età Gupta sono importantissime.
La caverna di Viśvakarma in Ellora, con la finestra a balcone in aggetto sovrastante l'entrata, segna il passaggio dalla primitiva struttura a un piano a quella a due piani; nicchie, cornici, pareti offrono un vasto campo alla decorazione plastica a tutto tondo e al rilievo. Anche la decorazione nell'interno cambia: colonne e pilastri si accorciano, intrecci di fogliame circondano i capitelli cilindrici che recano nel mezzo ornati di artigli con foglie a volute, e, alla base, serie di foglie d'acanto.
La scultura dell'età Gupta si riallaccia allo stile di Mathura; alcune fra le sue più belle creazioni provengono dai dintorni immediati della città stessa. Nelle rappresentazioni del Buddha di Ajanta, di Sarnath e di Sanchi l'arte indiana raggiunge il suo vertice: la massa, prima così greve, del corpo cede il posto a un'opulenza contenuta; il paludamento, rigonfio al collo e ai polsi, aderisce senza pieghe sul corpo, rivelando il gioco della muscolatura.
Sulle ampie, gigantesche pareti di Udayagiri e di Deogarh l'artista tenta di dare forma alla mitologia e cosmografia del brahmanesimo. Nel Deccan occidentale si trova il gruppo di monumenti rupestri di Ellora, in parte eseguiti in periodi assai posteriori. Tutte le dottrine vi sono rappresentate, ma il brahmanesimo vi predomina. La montagna scavata vuol essere un'immagine della sede degli dei nel Himālaya. Nei gruppi a rilievo, i corpi delle figure principali si staccano talmente dal fondo da sembrar quasi eseguiti a tutto tondo: in confronto alle figure d'età precedenti queste sembrano snelle, la composizione è vigorosa e chiara. La gioia sensuale propria alla dottrina e all'arte indiana trionfa nella tenera confusione delle coppie, nel morbido fluire delle linee.
Oltre Ellora, appartiene ai capolavori dell'arte indiana anche la caverna dell'isola Elephanta presso Bombay. Il Rodin attribuiva alla gigantesca figura centrale, al trifronte Śiva, "un misterioso profondo significato, il senso stesso della vita". La perfetta padronanza della modellazione ha permesso all'artista d'imprimere sul viso del dio l'ambiguità e il mistero.
È pure sita in occidente la serie di caverne di Ajanta a cui è legata la storia dell'antica pittura indiana. Sebbene avanzi di affreschi siano stati scoperti anche altrove, nessun ciclo può paragonarsi per importanza a quello di Ajanta. Tranne alcune parti d'età più remota, le pitture delle pareti e dei soffitti risalgono ai secoli VI e VII. Esse furono restaurate nel 1920-1921 da L. Cecconi, per incarico del governo britannico. La roccia è intonacata da un impasto di argilla, concime e sabbia, su cui è disteso uno strato di pasta di riso. Il disegno a contorni è parte essenziale dei dipinti, ma non è il solo mezzo all'effetto artistico come nell'Asia orientale, poiché anche il modellato dei colori ha importanza non trascurabile. I temi sono ispirati al buddhismo; vi sono serie di Buddha e anche grandi composizioni, di cui la più nota è il grande miracolo di Śrāvastī. Cornici e soffitti sono adorni di soggetti più profani; vi si aggirano animali tra piante; e intrecci di fiori, di frutta, tenere coppie d'amanti vi s'accompagnano a scene d'ispirazione religiosa.
Età dei Pallava (secoli V-IX). - L'arte che prende il nome dai Pallava è topograficamente limitata alla costa orientale della penisola, e deve la sua celebrità a Mamallapuram, ove si trovano caverne, cinque templi monolitici, vicino ai quali sorgono all'aperto alcune sculture, e finalmente una parete rupestre, lunga 27 m., alta 9. Nei templi, rilievi e sculture a tutto tondo; le sculture all'aperto rappresentano leoni, zebù e gruppi di scimmie. Gli scultori indiani sono sempre stati maestri nella rappresentazione dei corpi animali, ove trovano, più e meglio che nel corpo umano, curve sinuose e morbide superficie, che ne nascondono la struttura ossea. A Mamallapuram compare nuovamente l'animale sacro a Śiva, rappresentato in tutto il gioioso abbandono alla natura che caratterizza la piena maturità artistica, senza la gonfiezza barocca che ne complicherà i contorni in età posteriore. Le sculture della parete rupestre sfruttano anche gli accidenti della roccia, adagiandosi in una spaccatura della rupe, dove effettivamente scorreva forse di tanto in tanto dell'acqua. Rappresentano le sorgenti del Gange: a destra della spaccatura, in atto di penitente, il pio re che elargì agli esseri viventi il fiume generatore di abbondanza; dei, uomini, animali corrono a refrigerarsi nella pura acqua; appare nella fessura in atto di adorazione il popolo Naya, dei genî dell'acqua, riconoscibili dalla parte superiore del corpo a forma di serpente. "Noi vediamo, scrive il Goloubew, rappresentata sulla rupe di Mamallapuram il giubilo dell'universo; nulla fu mai creato di così gigantesco e di cosi armonico e unitario". Appartengono alla stessa epoca e allo stesso stile dell'arte dei Pallava anche la grotta del leone in Saluvan-Kuppam e le grotte in Trichinopoly.
Ceylon all'epoca dei Pallava. - Anche nell'isola si trovano opere affini a quelle di Mamallapuram. Nel monastero di Isurumuniya rimane un rilievo rupestre, che rappresenta il saggio Kapila seduto, e una parete rupestre con gruppi di elefanti. In Sigiriya si conservano affreschi stilisticamente vicini a quelli di Ajanta.
Sviluppi dello stile classico sotto le varie dinastie. - L'arte del Settentrione prima della conquista musulmana (secoli IX-XII). - La storia politica dell'India settentrionale è come si è detto (v. sopra: Storia), assai aggrovigliata; singole provincie e dinastie con alterna vicenda compaiono nella storia per poi scomparire nuovamente. Tra le dinastie che regnarono nel Deccan è da ricordare per prima quella dei Rājput; la provincia passò poi sotto il dominio dei Cālukya. I Hoysala resistettero in Mysore più a lungo dei regni vicini all'invasione islamica.
L'architettura, pur appartenendo a religioni diverse, mantenne un carattere unitario. Stragrande è il numero dei monumenti che essa produsse; e molti problemi attendono ancora di venir risolti. Accanto agli edifici a torre del Settentrione e del Mezzogiorno, che del resto non si possono mai considerare geograficamente bene distinti, si afferma ora un nuovo stile composito sorto nella parte centrale della penisola. Molto numerose le costruzioni in pietra e in laterizio, del brahmanesimo. Tipico per l'architettura settentrionale è (seppur di epoca un po' più tarda) un piccolo śikhara posto nei dintorni di Udaipur, il cui atrio è coperto da un'unica cupola, in evidente contrasto con il tipo decorato di torri molteplici, che si ergono a guisa di stalattiti. Si trovano templi monolitici nei monti del Himālaya (Masrur, Kangra); l'arte di Khajuraho nel Bundelkhand prelude al selvaggio barocchismo dell'epoca tarda. L'artista accentua sempre maggiormente la linea orizzontale, scompone le singole forme in gradinate e sporgenze irregolari, ottenendo un insieme caotico e pur legato, affine nello spirito informatore ai fregi in rilievo di soggetto erotico che decorano l'esterno degli edifici. La sala delle riunioni (marnapa) è tra le costruzioni in crescente sviluppo e diffusione.
La scultura continua le vecchie tradizioni, ma perde la forza espressiva che distingueva le sculture delle regioni centrali e limita il proprio compito a fini decorativi: le linee sono fredde e misurate, i visi inespressivi.
Gruppo meridionale (secoli IX-XIV). - L'arte dei Pallava esercitò una grande influenza; alla loro volta le dinastie che loro succedettero arricchirono il repertorio di nuove forme architettoniche. Il Jouveau-Dubreuil ha ben riassunto questo fatto. Ai Pallava costruttori di templi rupestri e monolitici seguono i Cola (850-1100), che predilessero il dravidico tipo śikhara, particolarmente poi quello così caratteristico per il Bengala in cui una cella addossata a una torre assume la forma di un veicolo (vimāna), nome in evidente relazione con il culto. Un edificio abbastanza rappresentativo dell'epoca è il grande tempio di Tanjore. Ai Cola seguono i Pāṇḍya (1100-1350), che portano un nuovo contributo alle forme architettoniche (gopmon); se ne conserva un caratteristico esemplare a Srirangam. Per secoli ancora riecheggia nella scultura meridionale l'eccezionale vigore che anima l'arte di Mamallapuram. Si veda il Brahmā a tre volti del Metropolitan Museum (vedilo riprodotto in tavola fuori testo): la decorazione non ha ancora sopraffatto la chiarezza della forma plastica, il viso rispecchia ancora i segni di una vita interiore. Intanto alla diminuita qualità della produzione artistica rispondeva un incredibile aumento della quantità.
I rilievi all'esterno vanno perdendo ogni connessione con il pantheon indù. Un'armonica fusione di religiosità e di festosa sensualità, assolutamente estranea allo spirito europeo, si rivela soprattutto nelle sculture di carattere erotico che decorano numerosi templi, composizioni decorative che nel leggiadro fluire delle linee ricordano i capolavori dell'antichità. Il completo dissolvimento plastico si compie sotto la dinastia dei Pāṇḍya: sebbene il Viṣṇu del Metropolitan Museum risponda in tutti i particolari alle esigenze dell'iconografia tradizionale, il corpo, già parte essenziale della rappresentazione, scompare completamente sotto i monili in cui l'artista dà libero sfogo al suo amore per il lavoro a traforo e a cesello; il viso non è più che una rigida maschera priva di espressione.
Scultura in bronzo del Mezzogiorno. - L'enorme produzione di statue fuse, particolarmente care ai Śilpaśāstra, cominciò intorno al sec. XII; avvenne poi anche che pezzi databili intorno alla metà del millennio copiassero fedelmente esemplari più antichi. Furono rappresentati divinità e santi del brahmanesimo. Soggetto prediletto fu il Śiva danzante (Śiva Nāṭarāja), il quale nella divinità dalle quattro braccia rendeva meglio di qualsiasi altra raffigurazione plastica il significato cosmico: nella corona del danzatore sono raffigurate la luna e la testa della personificazione femminile del Gange; la mano destra superiore stringe la tromba della creazione del mondo, la corrispondente sinistra il fuoco della distruzione, una delle altre due mani compie il gesto del consolare, mentre l'altra accentua, accompagnandolo, il movimento della danza; una pelle di tigre cinge i fianchi del dio, il soggiogato demone della malattia gli serve da base.
Nel sec. XII e nei seguenti sono numerosi i ritratti principeschi.
Gruppo di Orissa. - La trasformazione dei dravidici śikhara e vimāna in forme fantastiche si compie nel Bengala e nel Bihar, sul corso inferiore del Gange, cioè nel lembo più nordorientale della penisola. Meritano di essere ricordati i templi di Konarak e Bhuvaneshvar, i migliori esemplari di quest'architettura. Vi è raggiunto sull'intera superficie, con una profusione di linee orizzontali e verticali, un giuoco di luci e d'ombre, senza che sia diminuito l'effetto delle linee dominanti della composizione. La forma a veicolo dell'insieme è particolarmente accentuata nei templi di Konarak; il tempio del sole è circondato da imponenti gruppi a tutto tondo di elefanti e cavalli con i loro conducenti. Nella costruzione stessa la leggiadra plastica appare completamente subordinata all'architettura; molti gruppi trattano argomenti erotici.
Ceylon. - In un primo periodo l'arte vi dipese dalle forme artistiche dell'età dei Pallava; ma, all'opposto che nella penisola, essa fu completamente asservita al buddhismo. Un gigantesco rilievo con la morte del Buddha, un enorme Buddha e un'imponente figura del prediletto discepolo Ānanda rappresentato in piedi e con le braccia incrociate, decorano la parete esterna del gruppo di caverne di Yal Vihara (sec. XII). Accanto al molo di Topawewa sorge, ricavata nella roccia, la figura di un saggio barbuto, forse un re, che legge in un libro di foglie di palma. Numerosissime sono le repliche dei bronzi dell'India meridionale, arricchiti da temi buddhistici. Rivelano però sempre caratteristiche proprie all'arte di Ceylon nella morbidezza del modellato, nel regolare fluire ornamentale delle pieghe. In Ceylon il buddhismo si mantenne tenacemente attaccato alle vecchie tradizioni e l'isola fu come una rocca della vera dottrina, donde bronzi buddhistici poterono venire esportati sin nelle regioni orientali della penisola; ed è uno dei sicuri segni di loro origine da Ceylon la formazione appuntita del cranio (uṣṇīsa). Ampî cicli di affreschi hanno più interesse iconografico che artistico.
Epoca moderna (sec. XIII-XVII). - Arte brahmanica del Mezzogiorno. - Il sorgere accanto alle antiche di nuove forme artistiche indiane fu possibile solo nelle regioni della penisola governate da sovrani indigeni. Dal 1350 al 1600 imperò nelle regioni sudorientali lo stile del regno di Viṇayanagar. Esso sviluppò l'atrio a pilastri (maṇḍapa) reso necessario dall'imponente afflusso di pellegrini. I pilastri posano in Vellur su leoni in atto di spiccare il salto, su cavalli impennati in Srirangam. Le difficoltà tecniche sono superate in modo meraviglioso. L'arte non mancava d'ispirazione; ma nel voluto virtuosismo, nell'eccessivo sviluppo dei particolari appaiono evidenti i segni precursori dell'esaurirsi della vera forza creatrice.
Nel sec. XVII la scultura ritrattistica tocca nuovamente l'apice con il gruppo di re Tirumal e del suo seguito.
L'ultima arte del Mezzogiorno è strettamente legata al nome di Madura: anch'essa produsse qualcosa di nuovo, portando a ulteriore sviluppo grandiosi portali piramidali su base quadrangolare (gopura).
La struttura quasi vi si dissolve in un'esuberanza sbalorditiva di particolari che accentuano le linee orizzontali; la decorazione plastica non è quasi più percettibile. È una iperbole del concetto architettonico e decorativo indiano, che ha le sue radici nello spirito caotico della dottrina indiana, contenuto dall'arte nelle epoche precedenti. Gli esemplari più rappresentativi, oltre che in Trichinopoly, si trovano nella stessa Madura. Gli stili architettonici di Madura e Orissa sono tuttora vivi; ancor oggi i pellegrini affluiscono nei luoghi sacri di Madura e di Benares, i quali, anche se recentemente costruiti, riproducono sin nei minimi particolari gli esemplari del sec. XVII.
Il legno ha ora una gran parte nella decorazione plastica di edifici e di veicoli: le numerose statue lignee ripetono con accentuato barocchismo antichi prototipi. La pittura torna ad affermarsi nella decorazione d'interni: e appartengono all'arte di Madura numerosi cicli d'affreschi. Ma questo ramo dell'arte ha perduto ogni contatto con la natura nel millennio che corre tra l'arte di Ajanta e quella di Madura: vengono ricopiate dai trattati composizioni iconograficamente importanti e non prive di un certo interesse folkloristico. I colori crudi, gli atteggiamenti rigidi, la ripetizione inespressiva dei tipi mostrano come la pittura parietale sia da tempo divenuta una specie di arte popolare, che ben poco conserva della qualità di epoche precedenti.
Altrettanto schematica la miniatura contemporanea, completamente dipendente da prototipi dell'India settentrionale.
L'arte jainica del Settentrione. - Ben pochi monumenti della dottrina propriamente indiana si sono conservati dopo il 1200, se ne escludiamo i templi) jainici del monte Abū (v.), posti nel Rajputana meridionale, in parte già precedentemente iniziati. Vi domina il marmo bianco; in alcune sculture il tono uniforme è ravvivato da intarsî di pietre colorate. Soffitti, colonne e pareti, trattati con una tecnica da orafo, formano un insieme unico nel suo genere; il virtuosismo tecnico è meraviglioso, sebbene l'ammirazione per l'arte del monte Abūsia assai diminuita da quando, nella lavorazione quasi a filigrana del marmo si è riconosciuto un semplice trionfo dell'abilità artigiana.
L'abbondanza dei manoscritti miniati provenienti dal Gugerat dimostrano l'importanza assunta per le provincie nord-occidentali dal jainismo. Anche la miniatura ha indubbiamente le sue radici nell'antica arte indiana ma come tutte le altre manifestazioni, s'isterilì in una immobilità stereotipata: determinate forme del viso e del corpo vengono ripetute meccanicamente; quanto ancora ricorda la - vecchia grazia è dovuta a formalismo, non all'arte; caratteristico il fatto che, mentre il naso è disegnato di profilo, l'occhio è perfettamente frontale. Il carattere lineare, anzi propriamente calligrafico, predomina sempre sul pittorico; e se ne può dedurre che gli amanuensi eseguirono anche le illustrazioni. Un'importante scuola di miniatura fiorì pure nel Bengala.
Arte islamica dell'India settentrionale. - Dopo la prima invasione dei Turchi, avvenuta intorno al 1000, la parte settentrionale dell'India cadde sempre più sotto il dominio straniero. Con il sec. XII bisogna perciò tener conto di un'arte indo-islamica, avente solo un legame relativo con l'arte indiana vera e propria; moschee e minareti sono semplicemente architetture d'importazione: pure, in quanto gl'imperatori mongoli si valsero, per progetti ed esecuzione, di artisti indigeni, non si può considerare quell'architettura islamica come completamente avulsa dall'antica arte indiana. Tra le più antiche costruzioni è la moschea di Quṭb ad-dīn a Delhi. I pilastri vi sono trattati come nei templi indiani e lo spirito dell'antica India si palesa anche nel minareto a tre piani, mentre nei giganteschi portali, incorniciati da archi acuti in bassissimo rilievo, si afferma a sua volta la tradizione persiana.
I due stili si fondono in una perfetta armonia nella costruzione di monumenti sepolcrali: il Taj Mahal (sepolcro della regina Argiumand Mumtāz Maḥall), del 1630, ci offre un magnifico esemplare di questo tipo di monumenti, di cui Agra è ricca, con quattro ambienti a vòlta raccolti intorno a una cupola centrale. E questo antico schema indiano non può certo attribuirsi a Europei, anche se qualche Europeo abbia collaborato alle costruzioni. L'influenza europea si può rilevare piuttosto nel disegno dei giardini. La varietà dei marmi, l'uso delle pietre dure e la conseguente vivacità dei toni conferisce ai particolari un'impareggiabile bellezza.
All'appassionata attività costruttiva degli imperatori mongoli si debbono numerosi edifici profani, particolarmente fortezze e palazzi. Di case d'abitazione d'epoche precedenti sono note solo le rappresentazioni che ne furono fatte in rilievi, mentre sono numerose quelle posteriori al 1500, l'influenza dei palazzi costruiti dai dominatori mussulmani essendosi estesa in tutto il paese.
La maggior parte delle miniature mongole dell'India settentrionale vanno ascritte all'arte perso-islamica, fatta eccezione per le scuole del Rajputana e del Bundelkhand. Mentre la produzione aulica è sempre firmata, la pittura popolare di Rajputana è quasi sempre anonima, e anche dopo la penetrazione islamica essa predilige soggetti tratti dai miti e dalla letteratura indiana, che altrove appaiono solo eccezionalmente. Una diretta derivazione dall'arte antica può spiegare la forza espressiva che hanno saputo mantenere disegno e colore.
Arti minori dell'epoca moderna. - Solo con l'introduzione e in parte sotto l'influenza dell'islamismo le arti minori raggiunsero il loro pieno sviluppo, divenendo elemento essenziale dell'evoluzione artistica. Ciononostante il senso della forma inerente all'antica arte indiana si afferma anche in questo campo dominato dallo spirito islamico, contrario alla rappresentazione della figura umana. Armi superbamente decorate e magistralmente eseguite vengono preparate per i principi guerrieri di stirpe turco-mongolica. Nei recipienti ornati d'incrostazioni d'oro e d'argento, forse per influenza dell'arte persiana, la decorazione ha talvolta uno sfarzo eccessivo. Frequenti anche i lavori a traforo. Targhette decorative in bronzo stanno a testimoniare la persistenza della tradizione indigena accanto all'arte aulica asservita al conquistatore. E ancora nel sec. XVII si mantiene l'ideale estetico indiano: corpi muliebri mossi ritmicamente, composizioni equilibrate, espressione d'estasi sensuale nei visi.
Lo sviluppo dell'oreficeria (orecchini, spille, anelli) diventa eccessivo; il metallo vien ridotto dalla filigrana e dalla granulazione a un grazioso intreccio. La produzione dei tessuti di seta e di cotone adopera tutte le tecniche, anche quelle proprie all'India posteriore, principalmente il Batik e l'Ikat; e tecniche affini si ritrovano in Ceylon.
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V. tavv. I-XXX e tavv. a colori.
Musica.
Documenti di cultura musicale si trovano già nella letteratura dal sec. IV in poi, e c'informano dell'onore nel quale la musica era tenuta presso gl'Indiani di ogni classe. Da quei lontani tempi a oggi tale tradizione non s'è mai del tutto interrotta, e le tracce dell'arte antica non si sono del tutto perdute, per quanto attraverso i secoli si sia svolta un'evoluzione nello stile, che da complesso si è fatto più semplice.
A questa tradizione è da collegarsi la distinzione, fatta ancor oggi, tra musica "del Nord" (Hindusthānī) e musica "del Sud" (Karnāṭī); le quali due scuole hanno particolari tendenze e perfino nella terminologia si differenziano nelle accezioni date agli stessi vocaboli. Fatto, quest'ultimo, da tenersi in conto per non cadere in equivoci nello studio dei documenti indiani.
Base della concezione armonistica degl'Indiani è un sistema di tre gamme analoghe (corrispondenti ai tre registri della voce umana), ognuna delle quali può dividersi in 22 gradi (śruti); l'intervallo è di poco superiore a 1/4 di tono del nostro sistema temperato. L'uso di questi piccoli intervalli non ha però una funzione reale nella struttura d'una composizione, mentre può essere paragonato a quello che si pratica nella musica occidentale con il cosiddetto "portamento" (il passaggio da una nota a un'altra, compiuto scivolando senza soluzione di continuità dall'altezza della prima a quella della seconda). Rimangono dunque, nella pratica musicale, gamme costituite da una successione di 5, 6 o 7 note, i cui intervalli risultano dall'aggruppamento di due o più śruti (la nota cade non sulla prima ma sull'ultima delle śruti del suo proprio gruppo). La gamma prevalente oggi è eptatonale e le eventuali alterazioni o accidenti conducono a modulazioni non già da tonalità a tonalità, ma da modo a modo. Ai varî modi (rāga), con tutte le norme che ne son proprie (esclusione di alcuni gradi nella scala ascendente o nella discendente, non alterabilità di questa o di quella nota, condensamento melodico intorno a dati gradi, ecc.), si attribuiscono determinate proprietà espressive e determinate funzioni.
Basti dire che i varî rāga possono essere usati soltanto in date occasioni e dati momenti (per es. in date stagioni, ore, ecc.). Lo stile della musica indiana è omofono, e il canto è sostenuto da un doppio pedale (di 5ª) immutato durante tutto lo svolgersi del pezzo.
Gli Strumenti. - Nello studio dei numerosi strumenti usati nel- l'India ci avvediamo che la loro quantità è generata, più che da sostanziali differenze, da semplici varietà di pochi tipi fondamentali. Elencheremo qui tuttavia un certo numero degli strumenti più usati, prescindendo da troppo minuziose indagini sulla loro origine. In tutti gli strumenti indiani troviamo caratteri comuni di grande accuratezza e preziosità nella fattura (ma anche rispetto alla materia adoperata); la forma è spesso bizzarra e tormentata da ornamenti, in omaggio alle esigenze d'una ardente fantasia più che a quelle della buona sonorità e della praticità.
Strumenti a corda. - Citiamo, tra gli altri, per la loro diffusione e per la loro importanza intrinseca: una sorta di mandolino (vīṇā) a 7 corde metalliche, manico scolpito, 24 tasti. Di questo strumento è in uso una variante che ha due casse (invece di una) unite per il manico ed è di fattura di solito meno lavorata. Si usa specialmente nell'Indostan. Sitar: nonostante il nome derivato dal persiano Sī-tār (tre corde), ha di solito 6 o 7 corde. I tasti possono mancare. Per forma e grandezza diverse se ne ha una numerosa serie. Se ne attribuisce l'invenzione al musico Amir Khusraw di Delhi (sec. XII). Tumburu-vīṇā: ha 4 corde ed è privo di tasti; ha solo un capotasto per cambiare rapidamente l'accordatura. Serve spesso per accompagnare il canto. Ekatantrī (o yektar): ha una sola corda, tesa sul lungo manico di bambù e sulla cassa. Se ne conosce anche una variante chiamata Gopiyantra. Kinnarī-vīṇā: ha 2 corde e 3 casse situate due alle estremità, l'altra al mezzo del lungo manico di legno duro. Una delle corde serve soltanto al falso-bordone ed è accordata alla 4ª o alla 5ª dell'altra. Quest'ultima si tocca in corrispondenza di 11 tasti fissati nel manico. Rabāb: violino d'elegante forma, a 4 corde (una metallica, tre di budello) o talvolta a 6 (due per ciascun suono). La tavola è in pergamena. È in uso in tutta l'India, ed è di origine araba. Svara-sṛṅgārā, varietà di rabāb a 6 corde metalliche. Ravaṇastra, sorta di violino a 2 corde di budello, a cassa cilindrica, chiusa da una parte con pelle di serpente. Ravaṇa, variante del Ravaṇastra, più grande e sonoro. Amrita, altra variante del Ravaṇastra, dal quale differisce per avere la cassa costituita da una noce di cocco. Sāraṅgī del Sud, sorta di piccolo violoncello (se si bada al suo registro e all'intonazione) fatto d'un sol pezzo di legno sul cui incavo si stende una pergamena. Ha 4 corde (metalliche), più 15 che vibrano per risonanza. Se ne conosce la variante Sāraṅgī del Nord, che ha 5 corde. Alābu-Sāraṅgī: ha una cassa a pera, la cui tavola è di legno sottile; 4 corde (budello) accordate per quinte e 7, oppure 9, corde simpatiche. Chikārā, sorta di violino a 3 corde, più 7 simpatiche (queste ultime accordate secondo una scala diatonica discendente da fa3 a sol2). Se ne conosce una serie di varianti, secondo il numero delle corde: Sārinda (3 corde), Esrār (5, più 12 simpatiche), Māyurī (o Tāyuc), Taūs (o Esrar Mayri) che ha 4 corde, più 15 simpatiche e 15 tasti sul manico; Kunjerry, a 5 corde (di budello) e 2 simpatiche, e 14 tasti sul manico. Kin, sorta di lira, o di arpa, con una cassa a forma di barca, che a una delle estremità reca un arco. Dall'arco al ponte della barca sono tese 21 corde di budello. Un tipo consimile si trova presso tutte le popolazioni negre dell'Africa. Svara-maṇḍala, cornice quadrata, di legno, sulla quale si tendono zi corde metalliche che vengono pizzicate con 2 plettri. La sonorità richiama quella dei nostri clavicembali. Santin, variante del precedente: la cornice è trapezoidale e le corde, in numero di 36, sono toccate da 2 bacchette.
Strumenti a fiato: Pilagori (o Murali), flauto di bambù, lungo 38 cm., con sei buchi oltre quello per la bocca. Algoa, flauto a becco (il becco è fatto con una penna), di sonorità assai limitata e quindi adatto a essere suonato in piccoli ambienti. Nel Panjab se ne usano coppie, come le tibie doppie dei Romani; lungo 34 cm., esso ha 7 fori. Nāgārara, oboe (di solito in legno di Santal; talvolta in metallo), ha 12 buchi: 7 per le dita, 5 da otturarsi con la cera a seconda della serie di suoni desiderata. Mukhavīṇā, Sānai, Surnai (o śruti), oboi, a 7 buchi il primo a 4 o 5 i due ultimi. Puṅgi, sorta di cornamusa, a 7 buchi, usata specialmente dagli incantatori di serpenti; si suona come il flauto a becco. Moshuk (o nāgabadāha), identico al Bag-pipe degli Scozzesi: 6 buchi. Śaṅkhā, conchiglia di mare, usata attualmente specie nelle cerimonie religiose. Raṇa-Śṛṅga, tromba da guerra, in metallo. Śṛṅga noursing (o Kahalay), tromba semi ellittica. Bherubnathic, Turi (o Tuturi), Nafari, Karana, Kurna, Rāma-Śṛṅga, varie sorta di trombe di grandi dimensioni e di suoni gravi e lugubri, d'uso nelle cerimonie funebri.
Strumenti a percussione. - Numerose specie di tamburi, tra le quali citiamo il Mṛdaṅga, il Mardala, il Khol, il Dhola, che sono in terra cotta e hanno 2 superficie sonore, battute con le mani; gli Joraghāi, due tamburi accoppiati, uno grande e uno piccolo, battuti con un mazzuolo di legno; il Dāmaru (o dugduga, o budbudiki) a forma di diabolo; il Zablâ, il Bāhyā, il Nagara, il Khoradak, il Ghata (o Ghutru), il Khangiari (analogo al tamburello basco) che si suonano da una parte sola. Tra i cimbali menzioniamo: i Tāla (o Kara-tāla) di ottone (6-7 cm. Di diametro), i Jābra, più grandi dei precedenti, i Kāmsya-Tāla e i Kamsara (gong), il cui diametro varia da 20 a 30 cm., e che sono usati nei templi per annunciare le ore. Si conosce nell'India anche una campana, Gnaṇṭā, il cui tipo più corrente misura 30 cm. d'altezza e 15 cm. di diametro alla base. Le castagnette hanno il nome di Kurtar (o di Chittika, Chavra, Kattala) e sono munite di dischetti di ottone atti a rinforzare il suono. Una varietà di esse è usata anche dagl'Indocinesi. Lo silofono, chiamato Kunery, ha 17 lamine sonore (in legno o in una lega di ottone, argento e bismuto) e ha un timbro molto puro e splendente. Strumento assai singolare è poi la Jālataraṅgiṇī, sorta d'armonica, costituita di piattelli di porcellana o di terracotta, accordati ad acqua, i quali vengono percossi da leggiere bacchettine. La sua origine sembra risalire, a quanto credono gl'Indiani, al sec. VIII.
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Diritto.
Le origini. - I testi di legge, a cominciare da quello di Manu, pubblicato anche in versione inglese da Guglielmo Jones (Calcutta 1794), svelarono all'Europa forse anche meglio delle opere letterarie il volto genuino dell'India. A mano a mano il campo degli studî giuridici s'allargò e divenne vastissimo, senza però che si riuscisse a raccoglierli, coordinarli e comporli in un tutto, in modo da formare una storia del diritto indiano degna di questo nome.
L'India è la terra di Brahmā e dei Brahmani, caratterizzata dalla costituzione delle caste, che serrano gli uomini in una cerchia invalicabile fuori della quale restano milioni d'esseri umani considerati come impuri. In questa compagine religiosa e sociale sta il Dharma che compendia in una sintesi severa e rigorosa i diritti e i doveri di tutta la comunità ariana o arianizzata. Esso è la legge morale, umana e divina, che guida la vita interna ed esterna degli uomini al bene e alla perfezione e ha la sua base nel Veda, che Manu chiama "l'occhio eterno degli Dei, dei Mani e degli uomini". La letteratura imponente che s'addensò intorno al Veda, la cui autorità non fu combattuta mai con successo, comprende le saṃhitā (Ṛgveda, Yajurveda, Sāmaveda e Atharvaveda, i Brāhmaṇa, gli Āranyaka, le Upaniṣad e i Sūtra (v. sopra: Letteratura).
Nei Dharmasūtra (Gli aforismi del Dharma), si profilano in incipiente chiarezza i lineamenti del diritto umano. I Sūtra risalgono a una data che oscilla tra il sec. II e il III a. C. e, fra i tanti, l'unico Dharmasūtra che sia giunto a noi immune da ogni manipolazione settaria di rifacitori è quello d'Āpastamba, che forma le sezioni 28ª e 29ª del Kalpasūtra della scuola degli Āpastambīya dello Yajurveda nero, fiorita nel sec. IV o V d. C. Connesso con esso è il Dharmasūtra dei Hiraṇyakeśin, una scuola staccatasi dagli Āpastambīya per divergenze intorno alla recitazione delle preghiere, e che compilò per questa ragione un suo Dharmasūtra. Anche il Dharmasūtra di Baudhāyana proviene dallo Yajurveda nero e forse supera per antichità ogni altro lavoro del genere, come si desume dallo stile e dal contenuto, benché sia certo che abbia subito modifiche e alterazioni specie nella 4ª sezione. Al Sāmaveda fa capo il testo di Gautama, intorno a cui è lecito formulare l'ipotesi che un rimaneggiamento successivo lo staccasse dal suo Kalpasūtra e lo riducesse allo stato attuale non più di Dharmasūtra, ma d'un testo di legge vero e proprio. Oscuro, difficile, senza commenti atti a renderlo comprensibile è il Vāsiṣṭha, che ci è pervenuto guasto: è una mescolanza di prosa e di poesia in 30 capitoli, gli ultimi cinque dei quali sono una palese aggiunta posteriore.
I Dharmasūtra che non si presentano più nella forma originaria sono molto numerosi, e per tutti basti citare quello di Viṣṇu (Viṣṇusmrṭi) in 100 capitoli, rielaborato da uno zelatore fanatico della setta visnuitica. La caratteristica dei Dharmasūtra è lo spirito religioso, ma in essi s'afferma già il diritto umano, che in breve troverà la sua espressione intera e potente nei Dharmaśāstra, testi di legge scritti in forma metrica.
Dharmaśāstra, commenti, digesti e scuole giuridiche. - 1. Il Veda, la Smṛti, i costumi dei luoghi, delle famiglie, delle caste, il gradimento dell'anima propria costituiscono le quattro basi del Dharma. La Śruti, come già è stato detto, è il verbo rivelato agli uomini mediante l'audizione e comprende i Veda, i Brāhmaṇa, gli Āraṇyaka, le Upaniṣad; la Smṛti, il ricordo, contiene i precetti divini nella forma tradizionale e non in quella rivelata, e perciò gli autori delle Smrti versificate, dei Dharmaśāstra, fingono, per dar loro credito, d'averle ricevute da qualche asceta famoso e da uomini santi e dotti, che le avevano udite da un qualche dio.
Le usanze sono d'indole generale, se osservate da tutto un popolo, o particolari, se si restringono a un luogo, alle famiglie, a una casta: le costumanze più lodevoli e approvate sono quelle che, con tradizione continua, governano da secoli le caste originarie e quelle miste nella terra santa dei Brahmani tra i due fiumi divini della Sarasvatī e della Dṛṣadvatī. Se uso, costume o pratica di famiglia prevalgono in una località, e l'esperienza ha dimostrato che sono convenienti, non si sopprimono neanche se sono in contrasto con i testi di legge: restano circoscritti però solamente al luogo, e altrove non hanno alcun potere. Qualora due passi della Śruti non concordino, non si discute se l'uno sia da preferirsi all'altro, ma si dichiara che tutti e due sono Dharma: quando c'è conflitto tra Śruti e Smrti, questa non si considera genuina, perché la Smṛti non può deviare dalla rivelazione: Smṛti e costume s'equivalgono, ma in caso di contrasto ha la prevalenza il costume.
Il quarto aspetto del Dharma vuole che s'obbedisca alla voce della coscienza: quanto ripugna all'anima, la quale per istinto rifugge da ciò che non si conforma al dovere, non è Dharma.
Il Dharma scaturisce da quattordici sorgenti: i quattro Veda con i sei Vedāṅga, i sistemi filosofici Mīmāṃsā e Nyāya, i Dharmaśāstra o testi di legge e i Purāṇa, leggende del buon tempo antico; in relazione con il diritto sono da porsi inoltre i poemi epici, e innanzi a tutti il Mahābhārata, che ha in comune con Manu un ragguardevole numero di versi.
Il Dharmaśāstra, undecima scaturigine del Dharma uscito fuori dalle sottoscuole vediche, rappresenta il punto di centro nella storia del diritto, e della sua importanza è testimonio Manu (XII, 111), che, esponendo le qualità delle persone chiamate a decidere i punti controversi della legge, precisa: "Tre persone ognuna delle quali conosca uno dei tre Veda, un esperto della dottrina filosofica del Nyāya, un altro pratico della dottrina filosofica della Mīmāṃsā, un conoscitore dei glossarî d'etimologia, uno che reciti le norme della legge sacra (Dharma) e tre uomini appartenenti ai tre primi ordini costituiscono un'assemblea legale che non deve essere minore di dieci persone". In questo passo non si nomina esplicitamente il Dharmaśāstra, ma i commentatori sono unanimi nel dare alla parola Dharma il significato letterale di "legge sacra", e alcuni aggiungono: "È impossibile prendere la parola in altro senso che non sia quello di testo di legge". Il numero dei Dharmaśāstra è rilevante: non pochi però si sono perduti e d'altri s'hanno frammenti o si conosce solo il nome.
Yājñavalkya enumera 20 Smīti versificate, il Vīramitrodaya 56, note che non pretendono affatto d'essere complete, e che non lo possono essere, non comprendendo che gli autori contemporanei e gli antecedenti. Nei primi distici dei Dharmaśāstra è intelaiato sistematicamente il programma di tutta la materia da svolgere. Si legge in Manu: "I grandi savî accostatisi a Manu, che, seduto, aveva la mente assorta nel meditare, dopo averlo debitamente onorato, gli dissero: Degnati, o divino, di comunicarci con esattezza e nel loro ordine le leggi sacre d'ognuna delle quattro caste principali e di quelle intermedie" (I,1-2). E Yājñavalkya: n I Muni, sapienti e santi, avendo venerato Yajñavalkya, il principe di quelli che hanno sottoposto il talento alla ragione, gli dissero: Esponici per intero i doveri delle caste, degli stadî della vita brahmanica e delle caste miste" (I, 1).
Le caste e gli stadî della vita brahmanica, integrati dallo studentato e dalla liberazione finale, rappresentano il quadro completo dell'esistenza d'un Ario sotto il duplice aspetto d'individuo e di parte d'una società religiosa e civile. Appartiene naturalmente alla società voluta dall'Ente supremo e che per questo non può perire, e si collega con quelli che furono mediante il sacrifizio ai Mani e con quelli che verranno mediante i figli maschi destinati a compierlo alla loro volta, quando siano diventati padri di famiglia. Ammogliatosi e generata prole maschile, l'Ario ritorna individuo e tende con tutte le forze del suo spirito a chiudere il circolo penoso e terribile delle sue esistenze, per non rinascere mai più e disperdere l'atomo sottile e imponderabile della sua vita nell'infinito. Sotto questi punti di vista il diritto indiano è fas o lex divina ed è ius o lex humana, la quale ultima fu tenuta in poco conto dagli scrittori di Sūtra del Dharma, quantunque nella vita pratica non mancassero certo un diritto pubblico e un diritto privato regolatori della convivenza sociale. I Dharmasūtra genuini, tra il sec. VIII e il III a. C., furono compilati per servire alle rispettive scuole vediche, e solo in seguito acquistarono maggior rinomanza e furono consultati spesso in tutte le questioni giuridiche, finché lo stile sutrico apparve non più adatto a lavori di questo genere che esigevano chiarezza e precisione, e allora agli aforismi quasi inintelligibili si sostituirono i distici epici che la poesia didattico-sentenziosa aveva già usato in larga misura, e che furono il segno distintivo che separò i Dharmasūtra dai Dharmaūstra, sorti quando s'avevano ormai un'ampia cultura giuridica e varî maestri del giure, che seppero elevarsi al disopra delle singole scuole vediche e fecero un posto sempre più largo al diritto umano, come è agevole constatare nei testi di Manu, di Yājñavalkya e di Nārada.
2. Manu in 12 libri dà fondo a tutto l'universo brahmanico: dalla creazione del mondo alla felicità suprema della liberazione ultima. I libri dal I al V, dopo un'incursione sulle fonti e sull'origine del Dharma, trattano dei sacramenti, dello studentato e dei doveri del capo di famiglia. Seguono le prescrizioni intorno ai cibi e alle vivande permesse o proibite, intorno alle contaminazioni, alle cerimonie purificatrici, e infine vengono le norme che riguardano le femmine nella vita familiare e in quella sociale. Nel VI libro l'Ario che s'è composto una famiglia e ha procreato un erede maschio, se ne ha la vocazione, abbraccia il terzo stadio e, vivendo nella selva, s'accosta allo stato perfetto, che raggiungerà divenuto asceta.
Il libro VII espone i doveri del re e offre precetti d'arte, di governo e di politica, mentre il libro VIII per intero e il IX parzialmente sono dedicati, fatto d'importanza somma, al diritto civile e penale e al processo (vyavahāra). La materia che dà luogo a processo è raccolta da Manu sotto i diciotto titoli seguenti, che trattano: 1, del debito; 2, del deposito e pegno; 3, della vendita senza diritto di proprietà; 4, della società; 5, dell'annullamento di dono; 6, del salario non pagato; 7, dell'inadempienza di patti; 8, della rescissione di compra e vendita; 9, delle liti fra proprietarî di bestiame e i loro dipendenti; 10, delle controversie di confini; 11, delle ingiurie verbali; 12, delle vie di fatto; 13, del furto; 14, della violenza; 15, dell'adulterio e della seduzione; 16, del diritto matrimoniale; 17, del diritto di successione; 18, del giuoco e della scommessa.
I libri X, XI, XII s'intrattengono delle caste miste, delle occupazioni lecite o illecite, delle penitenze, delle conseguenze delle colpe e del modo di liberarsene per sempre: nell'ultimo libro come nel I s'avverte un'influenza notevole delle dottrine del Sāṃnkhya e del Vedānta.
Tolti di mezzo il I e il XII libro, tutto il resto del codice di Manu può essere diviso in tre parti: la 1ª che riguarda l'ordinamento religioso della società brahmanica, la 2ª che contempla i doveri del re, la 3ª che riguarda il diritto processuale. La lettura invece del Dharmasūtra di Āpastamba, modello del genere, e di quelli celebri di Baudhāyana, di Vasiṣṭha, di Gautama e di Viṣṇu, nei quali la materia s'affastella caoticamente, non si presta per nulla a una simile spartizione sistematica. Lo Śāstra di Manu appartiene alla scuola dello Yajurveda nero, mentre Yājñavalkya è la manifestazione più alta dello Yajurveda bianco.
Il codice di Yājñavalkya è in tre libri. Il I s'occupa della buona condotta (ācāra) per quanto si riferisce alla religione e alla morale; il II ha per oggetto il vyavahāra o processo, e dà regole di diritto pubblico e privato; il III è riservato alla penitenza (prāyaścitta).
Il potere giudiziario è privilegio del re, che nella pratica delega a rappresentarlo persone dotte, che conoscono il Dharma, e a cui l'affetto verso gli amici e l'odio verso gli avversarî non fanno velo alla coscienza. L'istruttoria del processo si compie con diligenza e secondo le norme della procedura; dev'essere esatta e rigorosa la prova, che Yājñavalkya così definisce: "Documenti, uso e testimoni sono dichiarati prova: quando manchi uno di questi elementi si ricorra ai giudizî di Dio (II, 22)", distico che il commento della Mitākṣarā illustra in questo modo: "La prova è di due specie: divina e umana. La prova umana dai saggi è detta triplice: documento scritto, uso e testimoni. I documenti scritti sono di due sorta: pubblici e privati". L'azione civile s'inizia per undici titoli, quella criminale per cinque, ma tali divisioni non contengono tutta la materia giudiziaria e solo la materia giudiziaria che dovrebbero comprendere, e infatti sotto all'uno e all'altro dei titoli si scoprono elementi poco affini o anche completamente estranei all'argomento che si tratta.
Yājñavalkya appare in deciso progresso su Manu per avere ordinato tutto il materiale dharmico in tre soli libri, nel II dei quali il diritto umano comprende 307 sui 1010 distici dell'opera. Nello stile però Yājñavalkya segna un passo indietro rispetto a Manu, e spesso è così conciso da assumere un carattere sutrico, mentre Manu alle volte riveste di forma lirica il severo concetto giuridico.
Connessa intimamente con Manu è la Smṛti di Nārada, e lo dimostra all'evidenza il proemio prosastico, che precede l'opera e che racconta di quattro successive redazioni del testo di Manu in 100.000 distici, divisi in 1080 capitoli, in 12.000, in 8000 e finalmente in 4000. La Smṛti di Nārada non sarebbe che il 9° capitolo del lavoro originale. Nārada però non è un seguace pedissequo e servile di Manu, sebbene la materia processuale sia disposta quasi egualmente in ambedue gli Śāstra, ché anzi si deve ritenere espositore libero e indipendente del diritto come allora s'insegnava nelle scuole di legge; in lui il diritto umano fa parte a sé, e da questo libro si diffonde non poca luce sulle istituzioni politiche e sociali esistenti in quel tempo nell'India.
È impossibile determinare il luogo di nascita e la data di questi tre Dharmaśāstra sovrani. Manu è da porsi tra il sec. II a. C. e il sec. II d. C., e proviene probabilmente dall'India settentrionale: Yājñavalkya è da collocarsi nel sec. IV d. C. e ha per luogo di provenienza Mithilā, centro culturale e politico di primaria importanza; Nārada scende fino al sec. V d. C.
D'altri testi di legge più recenti e assai numerosi non è assolutamente indispensabile fare cenno, poiché lo sviluppo storico del diritto indiano nella fase dei Dharmaśāstra risulta chiaro da Manu, Yājñavalkya e Nārada: basterà quindi nominare per tutti Kātyāyana, Vyāsa, Hārīta, Pitāmaha, Bṛhaspati, i frammenti del quale sono stati raccolti e editi da J. Jolly.
3. Bṛhaspati, e l'ha scoperto il Jolly, spiega, semplifica e al bisogno modifica Manu: non è ancora un commento, ma un'aggiunta, un supplemento dichiarativo, un Vārttika insomma. Presto però i Dharmaśāstra ebbero i loro commentatori, prova sicura della notorietà e del credito che s'erano acquistato nelle varie contrade dell'India.
Il commento relativamente più conosciuto, intorno al codice di Manu, è quello di Medhātithi, anteriore al sec. IX d. C. Questo commento, intitolato Manubhāṣya, ha per patria il Kashmir ed è il più antico di quelli rimastici su Manu, ma non il più remoto di data, riferendosi di frequente a commenti anteriori, di cui vaglia e discute le opinioni, ora accettandole e ora respingendole. Medhātithi s'ingegna di cogliere il significato generale di Manu, di spiegarne i passi difficili, confutando tutte le obiezioni che si potrebbero muovere al suo modo di vedere; evita lo scoglio delle citazioni sovrabbondanti, rifugge dalle sottigliezze cavillose e s'appoggia sulla realtà delle cose. Altri commentatori di Manu sono Govindarāja, Kullūka, Nārāyāṇa, Rāghavānanda e Nandana. Govindarāja, del sec. XII o del XIII d. C. era forse un re o un principe, come lascia credere il suo nome. Il suo commento a Manu (Manuṭīkā) secco e difficile, appare talvolta un semplice compendio di quello di Medhātithi; quando se ne allontana arriva a conclusioni estreme messe in ridicolo dai commentatori. Più recente è il commento di Kullūka nativo del Bengala e vissuto nel secolo XV d. C., che scrisse la sua opera a Benares con l'aiuto di parecchi eruditi. Egli si giovò non poco degli studi di Medhātithi e di Govindarāja, e quantunque si scagli non di rado contro la leggerezza dei suoi predecessori, non esitò al caso a copiarli alla lettera. È il commento su Manu più diffuso nell'India e la sua critica ai lavori antecedenti non è priva di certi pregi. Nārāyana non si sofferma a chiarire Manu parola per parola; si prefigge invece di spiegare determinati passi difficili con spiegazioni nuove, prudenti e accurate. L'asceta Rāghavānanda usò i i quattro commenti nominati sopra, visse nel sec. XV o nel XVI d. C., e di lui non si trova quasi menzione nelle opere giuridiche più recenti, fatto che accadde anche a Nandana, nativo, con molta probabilità, dell'India meridionale. Il monaco mendicante Vijñāneśvara compose sulla Smṛti di Yājñavalkya un'opera di valore eccezionale. Fiorì nella 2ª metà del sec. XI d. C. ed era dell'India meridionale. Il suo commento (Mitākṣarā) si servì del testo di Yājñavalkya per discutere minutamente e con acutezza le più eleganti questioni di diritto, colmando al bisogno le lacune e le manchevolezze giuridiche di Yājñavalkya ormai arretrato con i progressi della scienza. La fama che Yājñavalkya ha goduto sempre nell'India non si può separare da quella di Vijñaneśvara, che ha contribuito validamente a conservargli e ad accrescergli il prestigio. La Mitākṣarā divenne presto essa medesima oggetto di commenti e di discussioni.
Non c'è che Manu che abbia il vanto di possedere tanti e così valorosi commentatori come Yājñavalkya, che vide affaticarsi intorno alla sua Smrti, oltre a Vijnāneśvara, anche Aparārka, Mitramiśra, Śutapāṇi, Viśvarūpa, ai quali se ne aggiungeranno molti altri, quando siano pubblicati quelli che il Jolly ha visto manoscritti in alcune biblioteche dell'India. Il commento d'Asahāya e Nārada spetta al sec. VIII d. C. e ci è stato trasmesso in un rifacimento dovuto a un autore che non ha lasciato traccia di sé.
4. Dal 1000 oppure dal 1100 dura senza interruzione la serie dei digesti sul Dharma (Dharmanibandha), non scritti da maestri per le loro scuole e discepoli, ma da ministri e da personaggi d'alto grado e cultura, per conto di re e principi. LakŞmīdhara, ministro di Govindacandra, compose un trattato in 12 parti sul diritto religioso, toccando anche quello regio e procedurale: rimonta al secolo XII d. C. se non prima. Halāyudha capo-giudice del re LakŞmaṇasena del Bengala, salito al trono nel 1119 d. C., compilò un prontuario dei doveri giornalieri del Brahmano. Tra il 1260 e il 1309 d. C. apparve la vasta opera di Hemādri, cava inesauribile di citazioni; egli fu ministro e archivista di due principi della dinastia Yādava regnante in Haiderabad, per i quali elaborò questa sua Caturvargacintāmaṇi. Nel sec. XIV è nel fiore la scuola di Mithilā, dalla quale uscirono illustri giurisperiti; visse alla corte di Harinārāyana di Mithilā il giureconsulto Vācaspatimiśra, a cui si devono molteplici Gemme del pensiero (cintāmaṇi) su varie parti del Dharma.
Dharmaāstra, commenti (Ṭīkā), note (Vyākhyāna), digesti si adoprano nella pratica in armonia con gli usi e le regole dei paesi, delle caste e delle famiglie in modo da averne un complesso di leggi, che s'accordino con le condizioni di vita del luogo, Dal prevalere maggiore o minore dell'uno o dell'altro elemento nascono e si distinguono tra loro le varie scuole di diritto dell'India.
La Mitākṣarā di Vijñaneśvara e la Partizione dell'eredità (Dāyabhāga) di Jīmūtavāhana informano di sé le scuole di legge dell'India, che sono: 1. scuola del Bengala; 2. scuola di Benares; 3. scuola di Mithilā. In queste scuole prevale la Mitākṣarā, eccetto che nel Bengala, dove il Dāyabhāga è tuttora d'uso corrente.
Il diritto indiano e la dominazione inglese. - La vittoria inglese del 1558 sulla flotta spagnola spinse la marina britannica a oriente. L'ultimo giorno del 1600 la regina Elisabetta concesse una carta con diritti esclusivi di traffico per l'India orientale alla Compagnia dei mercanti della città di Londra. La storia del diritto indiano dal 1600 a oggi corrisponde al progredire dell'espansione inglese, ma non si deve dimenticare che l'Inghilterra sbarcò nell'India solo per stabilirvi stazioni commerciali in contrasto geloso con Portoghesi, Olandesi, Danesi, Francesi. In tali circostanze gl'Inglesi dovettero ricorrere al sistema delle fattorie, nelle quali, senza il consenso del parlamento, valendosi delle sue prerogative, il re d'Inghilterra poteva creare Corti di giustizia civili e criminali aventi giurisdizione sui soggetti alla Corona e sugl'indigeni che risiedevano in essi stabilimenti.
Nei primi tempi il re delegò alla Compagnia delle Indie la facoltà di creare tribunali; più tardi, dopo Carlo II Stuart, i rescritti regi indicarono le linee di condotta da seguire, la natura delle corti di giustizia e il luogo in cui dovevano essere stabilite. E così s'andò per molto tempo. Dopo la metà del sec. XVII la Compagnia prese parte sempre più attiva alla politica indiana, e allargò d'assai la sfera della sua influenza, e allora ottenne il possesso di territorî vastissimi da Shāh ‛Ālam, sovrano di Delhi (1764), e divenne il Divan, cioè la più alta autorità civile dello stato. Da questo tempo gli addetti della Compagnia ebbero il carattere d'ufficiali pubblici e accentrarono nelle loro mani l'amministrazione della giustizia, la polizia e tutti gli organi esecutivi di governo.
Warren Hastings governatore del Bengala (1772) sancì nell'articolo 23 del regolamento per l'amministrazione della giustizia che i Brahmanici obbedissero agli Śāstra per le questioni di casta, matrimonî, successioni e per ciò che era in attinenza con la religione, e che la minoranza musulmana stesse ferma al proprio diritto. Nuove e più larghe conquiste cambiarono il dominio inglese in un grande impero, ma la legge brahmanica e quella musulmana mantennero quasi sempre e dappertutto i limiti accennati.
Adesso nell'India sono in vigore quattro sistemi di legge: 1. la legge inglese, ossia la legge fatta in Inghilterra e applicata nell'India, 2. la legge anglo-indiana, ossia le leggi emanate nell'India dai governatori prima e poi dai viceré; 3. la legge brahmanica; 4. la legge musulmana. Le leggi inglesi sono fatte dal parlamento in Inghilterra espressamente per l'India, ma accanto a queste esistono non poche leggi inglesi non approvate dal parlamento per uso dell'India e che non di meno hanno vigore nell'India. La legge anglo-indiana proviene dal governo centrale e dai consigli formatisi con l'autorizzazione del parlamento nelle diverse parti dell'India. Le leggi inglesi e le leggi anglo-indiane hanno estensione territoriale; quindi il governo centrale ha giurisdizione per l'India intera, il Consiglio del Bengala legifera per il Bengala. Le leggi brahmaniche e musulmane all'incontro hanno carattere personale.
L'amministrazione giudiziaria per i musulmani dell'India ha radice, alla pari di quella per i Brahmanici, nel regolamento Warren Hastings, in cui s'ordinava che per i matrimonî, le successioni e altri titoli il Corano dovesse essere osservato ineccepibilmente. Gli Sciiti, dissidenti dai Sunniti, maggioranza dei credenti nell'Islām e costituenti nell'India uno scarso gruppo, divergono nel divorzio e nel diritto di successione dai loro fratelli di fede. Per i Parsi, i Buddhisti, i Jaina, i Sikh e per gli ascritti a una delle confessioni cristiane, se nati nell'India, qualora non sia applicabile la consuetudine locale, vige la legge anglo-indiana.
Bibl.: J. D. Anderson, The peoples of India, Cambridge 1913; G. Bühler, The laws of Manu, Oxford 1886; Āpastamba and Gautama, Londra 1897; J. Dowson, A classical dictionary of Hindu mithology and religion, Londra 1913; J. Jolly, Recht und Sitte, Strasburgo 1896; The code of Manu, Londra 1877; id., Nārada-Brhaspati, Oxford 1889; A. Macdonell, A history of Sanskrit literature, Londra 1913; W. Markby, An introduction to Hindu and Mahomedan law, Oxford 1906; G. Sarkar, Hindu law with an appendix of Mahomedan law, Calcutta 1903; L. v. Schroeder, Indiens Kultur und Litteratur in historischer Entwickelung, Lipsia 1887; V. A. Smith, History of India, Oxford 1920; A. Fr. Stenzler, Yājñavalkyas' Gesetzbuch, Berlino-Londra 1848; E. Watson, The principles of Indian criminal law, Londra 1907; M. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, III, Lipsia 1920. V. anche dharmaśāstra; manu.