Abstract
Viene qui discussa l’importante questione teorica della soggettività internazionale dell’individuo alla luce dei numerosi esempi di trattati internazionali che hanno creato posizioni soggettive rilevanti per gli individui. Questa importante modifica negli assetti normativi giuridico-internazionali induce a propendere per il riconoscimento di una soggettività dell’individuo all’interno di questi sistemi particolari, senza però che questo implichi una revisione dell’indirizzo tradizionale che nega la soggettività dell’individuo nel diritto internazionale generale.
Il problema della soggettività internazionale dell’individuo è una importante questione di teoria del diritto internazionale, che si trova al crocevia di temi centrali per la ricostruzione del diritto internazionale come sistema normativo. La sua importanza si arresta alla soglia della pratica applicazione delle norme: infatti, anche qualora si riuscisse ad argomentare in maniera inoppugnabile la tesi della piena soggettività internazionale dell’individuo, è lecito chiedersi quanti e quali effetti pratici avrebbe tale dimostrazione, cosa cambierebbe nella concreta esperienza delle relazioni internazionali. Forse l’unico effetto concreto sarebbe il fatto che il diritto internazionale non sarebbe più … internazionale, ma qualcosa di diverso.
Ed in verità le originali caratteristiche del diritto internazionale si spiegano, nella ricostruzione generalmente accolta, asserendo che esso vige tra enti assai peculiari, caratterizzati dalla sovrana indipendenza. Questi enti sono i soggetti dell’ordinamento internazionale. L'espressione «soggetti di diritto» o, più semplicemente, «soggetti», indica infatti gli enti ai quali si indirizzano le norme di un dato ordinamento giuridico, ossia gli enti in capo ai quali sorgono i diritti e gli obblighi discendenti dalle regole dell'ordinamento considerato. In questo senso soggettività giuridica è sinonimo di personalità o capacità giuridica. Ma i soggetti del diritto internazionale sono, quantomeno secondo un approccio tradizionale, enti sovrani e indipendenti. Il primo e tipico soggetto dell'ordinamento internazionale è infatti lo Stato, organizzazione politica che stabilmente ed esclusivamente esercita su un determinato territorio i poteri tipici della sovranità.
Caratteristiche tipiche dello Stato sono la sovranità, un potere al di sopra del quale per definizione non ve n’è alcuno, e l'indipendenza, ossia il fatto di non derivare giuridicamente il proprio potere da un altro ente sovrano. E, a ben vedere, con esclusione delle organizzazioni internazionali per le quali andrebbe fatto un discorso a parte, che esula dai limiti del presente contributo, anche gli altri enti dei quali comunemente si afferma la soggettività internazionale sono enti che o aspirano a diventare Stati o che (si perdoni il gioco di parole) sono stati … Stati.
È stato sostenuto però spesso che anche l’individuo possa essere considerato soggetto di diritto internazionale, ma la tesi maggioritaria è ancora quella che sostiene che, se correttamente impostata, la questione della soggettività dell’individuo si riduce solamente a cercare di comprendere se l’ordinamento internazionale contenga norme che stabiliscano diritti e obblighi i cui destinatari diretti sono i sudditi degli Stati (e dunque non solamente l’individuo come persona fisica, ma anche la persona giuridica, ossia la società commerciale) e conclude negandolo. Pur ammettendo trattarsi di questione che merita grande attenzione e che ha grandi implicazioni sistematiche, si sostiene che quella della soggettività dell’individuo non è ipotesi necessaria, ben potendo gli sviluppi normativi che interessano l’individuo venire interpretati in maniera coerente con la tesi negatrice della sua personalità.
Vero è, ad esempio, che esistono trattati internazionali che permettono all’individuo di proporre azioni giudiziarie sia davanti al tribunale interno di uno Stato straniero, sia davanti a un tribunale internazionale, sia davanti a organi internazionali di tutela dei diritti della persona umana. Ma questa situazione può anche essere spiegata, come fa peraltro la maggior parte degli studiosi, descrivendo l’individuo come il materiale beneficiario di quei trattati e non come il diretto destinatario di essi. Le situazioni nelle quali essi esercitano veri e propri poteri (come, ad esempio, in certi sistemi regionali di protezione dei diritti dell’uomo) possono venire ricostruite come situazioni circoscritte a quel particolare ordinamento settoriale che è stato creato da un trattato che impone pur sempre obblighi agli Stati e solo a loro. La situazione pratica non cambia e, del resto, anche a voler riconoscere che l’individuo sia un soggetto di diritto internazionale ciò non implicherebbe la sua assoluta equiparazione agli Stati.
Anche i casi nei quali gli obblighi che gravano sugli individui sembrano derivare direttamente dal diritto internazionale, come nel caso della repressione dei crimini internazionali dell’individuo, possono ricostruirsi come obblighi posti dal diritto internazionale a carico degli Stati ai quali ordinano di usare della loro sovranità in modo da reprimere quei comportamenti degli individui, modificando solo le norme che regolano l’esercizio di questi poteri da parte degli Stati (come nel caso della cosiddetta giurisdizione universale). Simili considerazioni possono farsi per quei trattati che istituiscono forme di giurisdizione internazionale in materia di crimine internazionale dell’individuo (quali il Tribunale di Norimberga, il Tribunale di Tokyo, il Tribunale per l’ex Jugoslavia e quello per il Rwanda, nonché la Corte Penale Internazionale Permanente delle Nazioni Unite).
Insomma la tesi generalmente accolta, quantomeno nella letteratura europea, non vede significativi scostamenti dalla situazione che esisteva nel diritto internazionale classico. Come si sa, nel diritto internazionale classico l’individuo non veniva preso in considerazione in quanto tale. Egli era un suddito dello Stato e il diritto internazionale non si occupava delle questioni interne allo Stato. Il diritto internazionale attuale contiene invece numerose norme che costituiscono a favore dell’individuo posizioni soggettive di vantaggio, ovvero gli impongono obblighi assoggettandolo alla giurisdizione di organi giudicanti internazionali. Indubbiamente la situazione risulta molto modificata rispetto alla condizione dell’individuo che era tipica del diritto internazionale cosiddetto classico. Ma, secondo la dottrina prevalente, non ci troveremmo di fronte a un superamento del diritto internazionale come ordinamento dei rapporti interstatali, ma solo a una fase caratterizzata (giustamente, vorremmo aggiungere) da un crescente interesse per i comportamenti posti in essere dai singoli individui anche all’interno degli Stati. Non siamo insomma davanti a una nuova comunità mondiale panumana, una sorta di Civitas Maxima, ma a una fase evolutiva del diritto internazionale che rimane però fedele alle sue caratteristiche strutturali di sempre.
Eppure, ci pare, gli sviluppi che abbiamo sopra richiamato sono di tale entità, da far ritenere giunta l’ora di una seria revisione di questa posizione teorica, per operare la quale occorre procedere a una spassionata analisi della complessa problematica, impresa nella quale può guidarci la storicizzazione dei suoi termini.
Quando, infatti, nella seconda metà dell’Ottocento, il diritto internazionale pubblico venne messo a tema nella sua dimensione di autonoma disciplina giuridica positiva, svincolato dai condizionamenti del diritto naturale e della filosofia politica, l’idea della soggettività dell’individuo venne vista come incompatibile con la concezione dello Stato come realtà dotata di una sua originale e assoluta significatività. Fino a questa epoca (e anche oltre per certi versi) i sovrani si rispettavano reciprocamente come sovrani, considerandosi fra loro uguali. Nei loro rapporti, essi si attenevano infatti al cosiddetto principio di non intervento negli affari interni. E di ciò la teoria voleva rendere ragione attraverso la costruzione del diritto internazionale come sistema normativo affatto distinto da quelli interni ai singoli Stati.
Il contenuto di questo obbligo di astensione risulta già allora delimitato abbastanza chiaramente. Dalla pur vasta esemplificazione fornitaci dalla prassi dell'epoca emerge infatti un «catalogo» assai vario di ipotesi, ma riconducibile sostanzialmente a due categorie fondamentali. La prima categoria raccoglieva i casi in cui un sovrano richiede ad un altro sovrano di adottare, o di astenersi dall'adottare, un certo comportamento nell’esercizio del potere di governo. Anche la semplice richiesta di clemenza per un suddito del sovrano richiesto, veniva ritenuta violare il principio e respinta con la motivazione che la questione era puramente interna e dunque di esclusiva competenza del sovrano territoriale. L'altra categoria di comportamenti vietati erano attività che non miravano a chiedere al sovrano l'adozione di un comportamento determinato, ma turbavano comunque l'esercizio da parte sua dei propri poteri di governo favorendo o fomentando complotti che turbassero l'ordine sociale nel suo Stato.
Tutti questi comportamenti erano compresi nel divieto di "se mêler des affaires domestiques" (letteralmente “immischiarsi degli affari interni”) ed è facile rendersi conto che l'elemento che li accomunava era appunto il fatto di recare molestia all'esercizio del potere di governo da parte del sovrano territoriale, il fatto di voler attingere in qualche modo i di lui sudditi che invece, in quanto tali, per il diritto internazionale non esistevano perché la sovranità (del sovrano prima e dello Stato poi) non avrebbe avuto senso se i sudditi fossero stati soggetti di rapporti internazionali (e in una visione assai restrittiva e risalente anche se fossero apparsi nelle relazioni internazionali come semplici oggetti di quelle). E questo atteggiamento sarà costantemente mantenuto, anche negli anni successivi, dalla dottrina, con la sola significativa eccezione di Hans Kelsen, il quale, nel quadro della sua Dottrina pura del diritto, riteneva che la sovranità dello Stato non avesse una sua autonoma consistenza e che, pertanto, tutte le norme giuridiche, anche quelle internazionali, si indirizzassero alle persone umane (rectius, nella sua visione, costituissero situazioni giuridicamente rilevanti in capo agli individui. Cfr. Kelsen, H., Théorie générale du droit international public, in Recueil des Cours, 1932-IV, 141 ss.).
In questa ricostruzione del diritto internazionale non c’è posto per gli individui né per valori altri rispetto a quello assorbente della tutela della sovranità dello Stato. Dunque il diritto internazionale non si occupa dell’individuo che “non esiste” perché la sua esistenza si svolge tutta all’interno di quella sfera di competenza domestica che lo Stato considera un suo dominio riservato, che custodisce gelosamente. L’esigenza di affermare esistente un ordine giuridico che indirizzi e guidi l’operare degli Stati implica che ci si concentri su questo obiettivo, ad esso subordinando qualunque altro.
Né possono emergere valori diversi da quello della semplice coesistenza degli Stati. Il diritto internazionale, peraltro, appare in questa fase come il prototipo dell’ordine convenzionale perché si basa su un equilibrio basato a sua volta su un accordo (una sorta di contratto sociale) tra individualità così forti (gli Stati) da non poter né volere procedimentalizzare il conflitto fra loro fino a far emergere una legittimità forte e legale, un governo mondiale che, pur reggendosi su un consenso convenzionale, eserciti una qualche forma di potere legittimo. E non manca peraltro ancor oggi chi pensi che così sia o debba essere. Ciò rende ragione, mi pare, del perché i tentativi pur generosi di far “progredire” l’ordine internazionale verso forme più spinte di socialità si siano a tutt’oggi miseramente infranti sulle rocce di un “contrattualismo” monolitico e immutabile. Si pensi alla costruzione di un ordine mondiale basato su una organizzazione internazionale come l’Organizzazione delle Nazioni Unite, o alla teoria dello jus cogens come limite all’autonomia contrattuale degli Stati, o a certe teorizzazioni della responsabilità degli Stati, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
La situazione dell’individuo si modifica però notevolmente con l’affermarsi del movimento filosofico e politico che sostiene la necessità della tutela dei diritti dell’uomo. Si tratta, come si sa, di un processo che si avvia all’interno delle Costituzioni nazionali. È noto che le prime Dichiarazioni dei diritti dell’uomo risalgono al settecento ed esprimono la pressante urgenza di affermare l’esigenza di difesa della libertà del cittadino nei confronti di uno Stato del quale egli desiderava riappropriarsi. Sono, lo sanno tutti, delle dichiarazioni “borghesi”, che ci consegnano un modello di Stato attento a non invadere gli spazi di libertà del singolo cittadino.
Protezione dei diritti umani che emerge anche nella comunità internazionale, in una società ormai a dimensione planetaria, all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che si presentava infatti fin dall'inizio come un ambizioso progetto di pacificazione mondiale e l'opinione dei Padri fondatori era giustamente che la pace mondiale non potesse venire assicurata una volta per tutte se non tentando di costruire, accanto a meccanismi di mantenimento della pace, che erano, in sostanza, tentativi di assicurare un controllo delle attività belliche, anche una comune civilizzazione tra i Paesi del mondo.
È opportuno segnalare su questo versante, l'adozione il 10.12.1948 della risoluzione n. 217/III, che conteneva la celeberrima Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, un importante documento che nell'intenzione dei proponenti doveva rappresentare a livello mondiale quello che nelle costituzioni degli Stati liberali era il cosiddetto Bill of Rights, ossia l'elenco dei fondamentali diritti della persona umana. Rispetto a questi elenchi, però, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo presentava alcune fondamentali differenze. Innanzitutto, per quel che riguardava la sua forza obbligatoria. Mentre le Dichiarazioni dei diritti che fanno parte delle Carte costituzionali degli Stati sono delle vere e proprie leggi, anzi hanno talvolta una forza superiore a quella della stessa legge, la Dichiarazione Universale, come molte altre Dichiarazioni delle organizzazioni internazionali, aveva il valore di una semplice raccomandazione indirizzata dall'Assemblea Generale agli Stati. In altri termini, pur avendo un alto valore morale, la Dichiarazione non imponeva agli Stati l'obbligo di proteggere i diritti in essa contenuti, ma semplicemente raccomandava loro di farlo.
Ma ciò nonostante, ed anche perché il contenuto della Dichiarazione viene sviluppato e trasfuso in numerosi trattati internazionali, il paradigma convenzionalista cede il passo al tentativo di costruire valori comuni sui quali fondare la comunità internazionale, vista non più come una mera comunità di coesistenza, ma come una comunità fondata sulla condivisione di valori. Una visione dunque che mira a sostituire a una comunità di Stati retta da una logica convenzionalista una comunità di Stati che si riconoscono in valori comuni. Questi valori sono difficili da individuare in maniera esaustiva e l’elenco che se ne volesse tracciare sarebbe sempre approssimato per difetto. Essi poi sono valori che vengono affermati come un programma di lavoro, riprendendo l’atteggiamento militante che già fu dei giuristi positivisti di fine ottocento. E in larga misura tendono a coincidere con i fini delle Nazioni Unite. E certamente implicano una diversa considerazione per l’individuo e i suoi diritti.
Possono utilmente accostarsi a questi sviluppi che interessano il diritto internazionale universale anche quelli che si sono sviluppati a livello regionale. Si pensi all’originale integrazione della dimensione interna e della dimensione internazionale nei sistemi regionali di garanzia internazionale dei diritti dell’uomo, come ad esempio il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’ambito del quale, specie dopo la riforma realizzata con l’undicesimo Protocollo addizionale, gli individui dispongono di un ricorso davanti alla Corte, disciplinato dalle disposizioni della Convenzione, avverso lo Stato parte nell’ambito della cui giurisdizione si sia verificata una violazione della Convenzione stessa.
Sempre nell’ambito europeo può riscontrarsi l’interessante fenomeno dell’Unione europea, all’interno del cui sistema agli individui viene riconosciuta la pienezza delle posizioni soggettive, in alcuni casi anche dagli stessi Trattati istitutivi o da atti europei direttamente applicabili. È pur vero che la Corte di Giustizia ha chiaramente affermato che il diritto dell’Unione europea avrebbe dato vita a un ordine né interno né internazionale, ma queste innegabili peculiarità non fanno che confermare che attraverso dei trattati internazionali si è potuto dar vita a qualcosa che forse non può più chiamarsi stricto sensu “internazionale”, ma che è comunque riconducibile all’uso di strumenti apprestati dal diritto internazionale.
Negli ultimi anni ha poi ripreso vigore l’interesse per la questione della giurisdizione internazionale penale, una questione invero non recente. Infatti, dopo alcuni esperimenti isolati, alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’esigenza di istituire una giurisdizione penale internazionale fu avvertita come assolutamente prioritaria. Con la dichiarazione di Mosca del 30.10.1943, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica avevano annunciato al mondo intero che i criminali di guerra sarebbero stati giudicati in linea di principio dagli Stati sui territori dei quali si erano verificati i fatti criminosi, mentre coloro che si erano resi colpevoli di crimini di particolare gravità e che non potevano ricollegarsi a nessun territorio in particolare sarebbero stati giudicati per decisione congiunta dei Governi degli Alleati. Tale tribunale, istituito con l’accordo di Londra dell’8.8.1945, operò a Norimberga, giudicando i gerarchi nazisti, mentre i giapponesi vennero giudicati dal Tribunale di Tokyo, peraltro istituito con una determinazione unilaterale del presidente statunitense Truman e concretamente avviato all’operatività dal generale Mac Arthur. Più recentemente hanno operato due tribunali internazionali penali, il Tribunale delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia e il Tribunale delle Nazioni Unite per il Rwanda, è stata anche istituita una Corte Internazionale Penale permanente delle Nazioni Unite e numerosi tribunali misti. L’individuo sembrerebbe dunque aver acquisito una limitata e parziale soggettività internazionale anche in questi ambiti, davanti ai quali viene chiamato a rispondere di suoi comportamenti qualificabili come crimini internazionali, come peraltro riconoscono tutti gli studiosi, come abbiamo visto anche quelli che negano la possibilità di una soggettività dell’individuo.
È il caso adesso di avviare verso la conclusione queste riflessioni. Credo che l’approccio adeguato per una soluzione del problema che ci occupa sia dunque assumere nella teoria del diritto internazionale la realtà di un diritto frammentato in sistemi giuridici parziali, all’interno dei quali si costituiscono ordini e legalità indipendenti e talvolta alternative. Nel 2006 il Gruppo di Studio costituito all’interno della Commissione per il Diritto Internazionale sul tema Fragmentation of International Law: Difficulties arising from the Diversification and Expansion of International Law, ha consegnato il suo Rapporto finale contenente 42 conclusioni. Si è così per il momento terminata una lunga stagione di riflessione su queste tematiche, affidata anche a ponderosi studi. Orbene il tema della soggettività dell’individuo può trovare adeguata considerazione all’interno di questa teoria secondo la quale l’individuo potrebbe essere vero e proprio soggetto all’interno di alcuni di questi ordini parziali ma non all’interno dell’ordine internazionale quo talis. Già del resto la Corte permanente di giustizia internazionale aveva riconosciuto la possibilità che il trattato internazionale costruisca un sistema giuridico all’interno del quale le posizioni soggettive dell’individuo possano essere riconosciute e tutelate (Danzig Railway Officials, 3.3.1928, in World Court Reports, II, Dobbs Ferry N.Y., 1969, 246-247).
Quello che in pratica starebbe accadendo, anche secondo un apprezzamento prudente di questi nuovi sviluppi, è che la tensione verso nuovi equilibri e nuovi modelli sta trovando accoglimento in sistemi internazionali parziali capaci di generare nuovi equilibri e nuove modalità di tutela, ivi compresa la soggettività giuridica degli individui.
È da chiedersi adesso se l’idea dell’unità dell’ordine internazionale sia una ipotesi necessaria. Da un punto di vista di mera analisi del linguaggio, affermare il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico è una affermazione banale e tautologica: infatti, com’è noto, la stessa idea di ordine e di ordinamento postula una sistematica correlazione tra le parti di un tutto (o tra singole individualità che possono comporsi in una individualità superiore) che può venire espressa dal concetto di unità. Un ordinamento giuridico può essere un ordinamento giuridico a condizione che esso sia retto da una logica interna (da una sola) che permetta di considerarlo appunto uno.
A un successivo livello analitico tuttavia il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico rivela la sua valenza specifica apparendo in realtà per quello che è, ossia il meccanismo di mantenimento della coesione di una comunità di valori e di individui (e di questa attraverso quella) attraverso la preferenza attribuita a una proposizione piuttosto che ad un’altra perché maggiormente coerente con il sistema, con l’ordinamento. Esso si ipostatizza negli ordinamenti contemporanei nella decisione dell’ultima istanza giudiziaria e, tendenzialmente, dovrebbe esprimere anche la regola dell’agire di quest’ultima.
Orbene, indagando le radici del principio dell’unità dell’ordinamento giuridico e della esaltazione del suo ruolo nell’attuale riflessione giuridica e a una più matura riflessione, il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico rivela la sua stretta dipendenza da determinate categorie da esso distinte, segnatamente (e in via di prima approssimazione) dall’idea della verità del diritto, dall’idea dell’unità del potere sovrano, dall’idea dell’unità della società, dall’idea della società come insieme ordinato di azioni o di decisioni. Nessuna di queste categorie assume peculiare rilevanza per il diritto internazionale che può dunque essere visto come un insieme di norme, financo come un sistema, ma non necessariamente composto ad unità ordinamentale. Bene può dunque convivere con una situazione di “frammentazione”, di ordini parziali che inglobano selettivamente gruppi di Stati o di materie.
Così ricostruito l’ordine internazionale contemporaneo, non sussiste, ci pare, nessuna difficoltà a collocare le ipotesi di soggettività internazionale all’interno di queste comunità parziali, di questi sistemi in sé conclusi, che il diritto internazionale crea e metabolizza, pur senza abbandonare la sua generale dimensione tradizionale di diritto interstatale.
È difficile redigere un elenco completo di tutti i trattati internazionali che prevedono posizioni giuridiche soggettive per gli individui. Possono citarsi a titolo meramente esemplificativo il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici (G.U. 333 S.O. del 7 dicembre 1977), il Patto sui diritti economici, sociali e culturali (ivi), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (G.U. 255 del 5 novembre 1955 ed anche http://www.conventions.coe.int), lo Statuto del Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia (G.U. 304 del 29 dicembre 1993), lo Statuto della Corte Penale Internazionale (G.U. 167 del 19 luglio 1999).
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