INDUISMO
. Il vocabolo, trovato e usato dagli studiosi europei, è malagevole da definire. La distinzione che si è voluta introdurre nella storia della civiltà indiana tra vedismo, brahmanesimo, induismo, è per molti riguardi artificiosa, e così approssimata da diventare talvolta inesatta e antistorica. Ciò vale soprattutto per il brahmanesimo e l'induismo, i quali furono in gran parte contemporanei. Fissare una data iniziale per l'induismo è dunque presso che impossibile. Solo si può dire che a un certo momento della storia dell'India, troviamo un'atmosfera diversa, un ambiente spirituale profondamente cambiato; e si deve parlare ormai d'induismo e non di brahmanesimo in senso ristretto. Caratteri salienti del nuovo periodo sono da ritenersi, nel campo religioso, la radicale modificazione del pantheon mitologico, il nuovo indirizzo dell'esperienza religiosa, la grande varietà delle sette. E poiché il documento forse più antico e più ricco di dati è costituito dalla grande epopea del Mahābhārata, possiamo scegliere come punto di partenza dell'induismo il principio dell'era volgare. Ma è una data oltremodo vaga, da accettarsi con il presupposto costante di spostamenti nel senso del prima e del poi. Va infine ricordato che il Mahābhārata ha per tutti gl'Indiani un valore quasi canonico di tradizione sacra (smṛti) e di testo religioso e morale (śāstra).
In esso appunto troviamo uno dei testi più antichi dell'induismo, la Bhagavadgītā ("Canto del beato" o "del Signore"), che si ritiene composto fra il 300 a. C. e il principio dell'era volgare. Il testo (700 versi [830-1532] in 18 capitoli = Mahābhārata, VI, vv. 25-42) comincia con la descrizione del dolore di Arjuna per dover combattere contro i proprî congiunti; e continua in forma di dialogo fra lui e il suo auriga Kṛṣṇa, in cui si è incarnato Viṣṇu. Il contenuto dottrinale del poema, non sistematico e misto di riferimenti ad altre dottrine, specialmente yoga e sāṃkhya, si può in breve riassumere così. Spirito e materia sono distinti, eterno il primo, mutevole la seconda. L'anima è costretta, per le azioni commesse nelle esistenze anteriori, a trasmigrare di continuo, finché si sia purificata: il che può avvenire per due modi, o nella vita ascetica e contemplativa, o informandosi a un rigido ideale etico. Così purificata, essa può darsi tutta e per sempre a Dio (Viṣṇu): l'amore devoto conduce infine alla liberazione e all'unione con Dio.
La Bhagavadgītā gode in India di una venerazione senza limiti presso i seguaci delle varie confessioni religiose. In senso più ristretto, essa fu dapprima il testo dei Bhāgavata (adoratori di Bhagavat, cioè Viṣṇu-Kṛṣṇa). Documenti epigrafici rendono verosimile che questa setta esistesse già nel sec. II a. C. come religione predominante nel nord-ovest dell'India ma è probabile che risalga addirittura al secolo III o IV a. C. (Bhandarkar, Vaisnavism, Śaivism ecc., pp. 6-7). Nella Bhagavadgītā si afferma chiaro quel profondo mutamento dell'esperienza religiosa che si può descrivere così: più che la via delle opere (karma-mārga) o della conoscenza (jñānamārga) vale, per entrare in comunione con la divinità, la via della devozione e dell'amore (bhakti-mārga). Questo nuovo modo di sentire i rapporti fra l'umano e il divino, informerà di sé tutto il pensiero religioso dell'India, costituendo uno dei caratteri predominanti dell'induismo.
È notevole il fatto che questo rinnovamento dello spirito religioso si esprima nel credo di una setta la quale adora una divinità di origine probabilmente non brahmanica e ad ogni modo di carattere popolare, qual'è Viṣṇu-Kṛṣṇa.
L'accoppiamento di questi due nomi ci rivela uno dei segni distintivi del viṣṇuismo, consistente nella larga parte che vi ha la teoria degli avatāra. Nel Ṛgveda, Viṣṇu tiene già un posto ragguardevole; ma ciò che di lui vi si racconta, si riferisce a leggende e a rappresentazioni che, se erano familiari agl'Indo-arî di quel tempo, rimangono tuttavia oscure a noi nel loro vero significato. Comunque, la sua figura contiene già i germi da cui poteva svilupparsi il tipo di una grande divinità, signora della vita e dell'universo, custode dell'ordine e della legge. La dottrina degli avatāra permise poi d'identificarla con altri eroi religiosi, fondendo nella sua storia mitica cicli leggendarî di diversa origine. Ne consegue che il viṣṇuismo si scinde storicamente in una grande varietà di fonne. Fra le più notevoli è il kṛṣṇaismo. Kṛṣna, originariamente divinità di pastori, è nella Bhagavadgītā un avatāra di Viṣṇu, e come tale si manifesta ad Arjuna alla fine del poema. Ma se qui egli ci appare una delle più alte espressioni del divino, la sua leggenda è assai più complessa. Nato da Devakī e Vāsudeva in una famiglia di Rajput in Mathura, egli era predestinato a essere ucciso come gli altri suoi fratelli per ordine di Kaṃsa suo zio, a cui era stata predetta la morte per mano di uno dei figli di Devakī. Ma, partorito di nascosto dalla madre, e messo in salvo appena nato dal padre, crebbe insieme con fanciulli e fanciulle di pastori, in libertà sfrenata e gioconda: e sono di questo periodo i suoi amori con Rādhā. Le gesta prodigiose che egli poi compì, spiegano perché Megastene lo chiamasse l'Ercole degl'Indiani. Due punti della sua leggenda diedero luogo a particolari sviluppi religiosi. Dall'episodio della sua nascita occulta e del suo salvamento nacque il culto del bimbo divino, nel quale non è possibile vedere un'influenza cristiana, essendo tutta la leggenda anteriore all'era volgare. In secondo luogo, dalla storia dei suoi amori con Rādhā derivò il culto di questa come divinità femminile, insieme con l'elemento erotico che pervade tanta parte del viṣṇuismo.
La sistemazione teologica e filosofica del viṣṇuismo si trova in testi (āgama) composti verosimilmente intorno alla metà del primo millennio d. C., ma le dottrine ivi contenute sono molto più antiche. Esse costituiscono il sistema noto col nome di Pañcarātra. Una delle teorie più importanti è quella delle manifestazioni o autofigliazioni (vyūha), che la divinità produce da sé stessa per creare e animare l'universo: essa è anteriore all'era volgare (Bhandarkar, p. 13). Vāsudeva (Viṣṇu) è lo spirito eterno e immutabile, che genera di sé Saṃkarṣaṇa, l'anima che vivifica ogni cosa; da questo si produce Pradyumna, l'organo razionale del cosmo, che dà origine a sua volta ad Aniruddha, la coscienza cosmica. Il viṣṇuismo in genere si avvantaggiò certo da principio delle dottrine dei Pāñcarātra, sebbene questi ne fossero solo una setta; ma più di tutto valse a diffonderlo su gran parte dell'India lo slancio lirico da cui era animato, e che si esprimeva nel devoto e ardente amor di Dio (bhakti). Appunto in tale forma esso penetrò e si diffuse nel mezzogiorno dell'India fra le popolazioni dravidiche; e qui proseguì nel suo sviluppo, che divenne d'importanza capitale per tutto l'induismo. Secondo la tradizione, la storia del viṣṇuismo nell'India meridionale prima del sec. XI si può dividere in due periodi. Il primo è quello degli āḷvār, o santi: sono dodici profeti cantori, che in inni di mistico amore esaltarono Viṣṇu e le sue gesta: i più antichi sarebbero vissuti nel sec. V e VI, e forse prima. Segue il periodo degli ācārya o dottori, quando, per il contrasto con le altre confessioni religiose e per il rifiorire del brahmanesimo, fu necessario ricorrere alla disputa e alla contesa dialettica.
Col sec. XI s'inizia un nuovo lavoro di sistemazione teoretica del viṣṇuismo che dà origine a quattro scuole (sampradāya: lett. "tradizione"), rappresentate da Rāmānuja, Madhva, Viṣṇusvāmin, assorbita poi quest'ultima in quella fondata da Vallabha. Ognuna di esse cerca di riconnettersi alla tradizione brahmanica, con commenti alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā, ai Brahmasūtra, con l'intenzione d'interpretare queste opere secondo lo spirito della propria dottrina. Rāmānuja (nato nel 1018 presso Madras), distingue tre principî eterni: le anime individuali, il mondo inanimato, Dio. Dio è la guida occulta degli altri due principî, i quali formano il suo corpo, senza essere né identici a lui né confusi in lui. La concezione è monistica, ma di un monismo limitato e definito (viśiṣṭādvaita). Madhva (nato nel 1199 in un villaggio presso Rajatapitha nel Karnata) sostiene invece una teoria dualistica (dvaita- mata), in cui Dio e le anime individuali sono distinte; aggiungendovi il mondo inanimato o materia, si hanno di nuovo i tre elementi di Rāmānuja e di altre scuole. Dio (Viṣṇu) governa la materia e le anime e predispone, nella sua imperscrutabile volontà, quali tra queste si salveranno o dovranno senza posa trasmigrare o saranno in eterno dannate. Nimba, o Nimbārka (metà del sec. XII), elaborò una specie di compromesso fra monismo e dualismo (dvaitādvaita-mata): la distinzione fra Dio da una parte e materia e anime individuali dall'altra, è mantenuta; ma queste sono identiche con Dio in tanto, in quanto dipendono totalmente da lui. Viṣṇusvāmin (metà del sec. XIII) è, come Madhva, dichiaratamente monista, e il suo sistema si distingue principalmente per la larga parte fatta al culto di Rādhā. La sua setta fu assorbita da quella di Vallabha (1479-1531), nonostante la diversità dei principî teoretici. Vallabha difatti afferma un puro monismo (śuddhādvaita-mata) e si contrappone alla maggior parte dei riformatori religiosi dell'India in quanto nega valore all'ascetismo e sostiene che l'amor di Dio è da Dio stesso donato all'uomo come una grazia (cfr. Farquhar, Relig. Liter., p. 313). La setta ha col tempo assunto un carattere mondano ed epicureo, che talvolta ha degenerato in deplorevole licenza. A questi capiscuola si deve aggiungere Caitanya (1486-1534), un brahmano nativo del Bengala. Teoreticamente, egli sembra riconnettersi a Madhva, ma i punti fondamentali della sua dottrina sono il totale ripudio delle caste e del rituale, e la prevalenza dell'elemento emotivo nell'adorazione di Dio (Viṣṇu).
Le sette fin qui enumerate sono kṛṣṇaitiche. Ma esiste un'altra suddivisione di viṣṇuiti, rappresentata da coloro che adorano il Dio nel suo avatāra, come Rāma. Rāma, il protagonista del Rāmāyaña, è in certo modo l'eroe nazionale dell'India. Secondo il Bhandarkar (p. 47) la credenza che egli sia un'incarnazione di Viṣṇu esisteva probabilmente già nei primi secoli dell'era volgare; ma il suo culto cominciò circa nel sec. XI. Tra i rappresentanti di questa forma di viṣṇuismo va ricordato principalmente Rāmānanda (nato secondo alcuni circa il 1300, vissuto secondo altri dal 1400 al 1470). Per i principî teorici, egli si riconnette al viśiṣṭādvaita di Rāmānuia, alla cui setta appartenne in origine: nella pratica, si devono a lui riforme notevoli, che il Bhandarkar (p. 68) riassume in tre punti: uguaglianza di tutte le caste, uso dei dialetti per la propagazione della fede, contrapposizione del culto di Rāma e Sītā, più puro e più casto, a quello di Kṛṣṇa e Rādhā, voluttuoso e non di rado licenzioso.
Il śivaismo costituisce il secondo grande gruppo di sette induistiche. Il culto di Śiva si presenta da principio come più aristocratico e, per usare le parole del Barth (Relig. of India, p. 196), sembra che sia rimasto a lungo una specie di religione professionale dei brahmani e degli uomini di lettere. Menzione di sette śivaitiche sì trova prima dell'era volgare; ma il sistema che, fra gli antichi, pare più definito e più organico, è quello noto col nome di Pāśupata-mata, che, secondo il Bhandarkar, è da assegnarsi al sec. II a. C. I principî generali del śivaismo quali si riscontrano nelle formulazioni teoriche più elevate (ad es. nel Śaiva-siddhānta, diffuso in territorio tamil), possono ridursi ai seguenti. L'anima, unita alla materia, è separata da Dio, soggetta a peccare e ad espiare il peccato; è come un animale (paśu), trattenuto da lacci (la materia) e impedito di raggiungere il suo signore (pati). Dio (Śiva) è puro spirito, causa efficiente di tutto ciò che esiste: egli opera e si fa conoscere per mezzo della sua "forza" (śakti). In rapporto all'uomo, al suo agire e al suo destino, prevalgono due tendenze: secondo alcuni, l'uomo è predestinato, secondo altri, egli è l'autore della propria fortuna spirituale (cfr. Barth, op. cit., p. 199). Particolare sviluppo prendono nel śivaismo le pratiche ascetiche, tanto da far passare in seconda linea l'elemento dottrinale, il che avviene soprattutto in talune sette, ad es., i Kāpīlika, i Kālśmukha, gli Aghorī, che si distinguono tra loro soprattutto per la tecnica dell'ascetismo e per il carattere talvolta ripugnante delle pratiche seguite. Una posizione particolare è tenuta dal śivaismo del Kashmir, rappresentato da Vasugupta (sec. IX), e da Abhinavagupta (sec. XI). I punti essenziali della dottrina si riducono a questi: sebbene l'anima individuale sia identica con l'anima universale, essa non ne ha coscienza a causa della propria impurità; ma quando si sia purificata con la meditazione, ritrova o riconosce se stessa in Dio (pratyabhijñāmata, dottrina del riconoscimento). La reazione contro le caste provocò anche nel śivaismo la formazione di una setta che si contraddistingue, almeno sul principio, per una volontà di riforma sociale: è quella dei Lingāyata (rappresentante principale Basava, sec. XII). La loro teologia, fondamentalmente monoteista ma tuttavia colorita di panteismo vedantistico, interpreta il divino intendendo che Brahma è l'essenza di Śiva, il quale, per effetto della propria śakti o principio potenziale, si sdoppia originando da una parte Dio e dall'altra le anime individuali; e la śakti stessa è quella che in Dio così manifestato si trasforma nel suo elemento di potenza attiva (kalā), mentre nelle anime singole si rivela come devozione o bhakti. II principio della totale uguaglianza dei fedeli portò con sé la negazione delle caste e l'abolizione, in seno alla setta, del divieto alle vedove di rimaritarsi. Questo in teoria, perché in pratica il sistema delle caste era ed è così radicato nella struttura sociale indiana, che gli stessi Lingāyata finirono con l'ordinare su quel modello la propria comunità. I Lingāyata adorano Śiva nella forma del linga o fallo. Sull'origine del culto fallico in India, i critici non sono concordi. Secondo alcuni, esso sarebbe anariano; dal che risulterebbe confermata l'opinione che nel culto di Śiva confluirono figurazioni mitiche del pari non ariane. Comunque, si deve osservare (cfr. Encycl., of Relig. and Ethics, VI, p. 701ª) che nel śivaismo i riti fallici sono, tranne poche eccezioni, scarsi di erotismo.
È tipica dell'induismo la larga parte che vi hanno le divinità femminili, e la funzione che queste vi assumono. La potenza del Dio (śakti), sebbene in lui contenuta, viene pensata tuttavia diversa da lui. Ne derivò la formazione di dee consorti, che dapprima si accompagnano alla relativa divinità maschile, ma poi divengono preminenti e sono adorate in sé e per sé. Tale processo, assai antico, servì ad assorbire nel pantheon indiano divinità femminili di diversa origine, soprattutto dee-madri, dee ctoniche e altre svariate figurazioni mitiche femminili. Sebbene lo sdoppiamento in maschio e femmina si sia esteso agli dei principali, tuttavia esso ha assunto un più tipico rilievo nelle confessioni śivaitiche, molte delle quali adorano la śakti di Śiva nella forma e con i nomi di una dea, che, immaginata dapprima come sua consorte, ha finito col diventare oggetto di culto esclusivo. Il nome di śākta designa coloro che si professano devoti di Kālā (o Durgā, o Pārvatī, ecc.), cioè della potenza divina di Śiva. I testi canonici dei śkta sono i Tantra, che costituiscono una ricca letteratura religiosa le cui origini sono certo molto antiche, ma di cui i primi documenti attestati risalgono a circa il sec. V d. C. Il fondamento filosofico del śaktismo si può ridurre in ultima analisi al dualismo fra anima universale e materia, nelle quali si manifesta, per mezzo del suo principio potenziale (śakti), Dio, che di per sé è immutabile e inconoscibile. Ciò che crea, mantiene, distrugge, è la śakti, figurata come divinità femminile. Unendosi a questo concetto quello della misteriosa virtù dell'atto procreativo, ne derivò facilmente un prevalere dell'elemento erotico-sessuale: anzi, più sessuale che erotico, in quanto l'atto della copula acquistava un valore simbolico. In teoria ciò deve accompagnarsi a una completa purità di spirito, a una totale soppressione del desiderio, a un distacco assoluto da ogni cosa materiale; ma nella pratica le deviazioni orgiastiche furono inevitabili.
Il fenomeno delle sette è un processo inerente alla storia religiosa dell'India, ed è inevitabile, data la grande estensione del paese, la varietà delle sue genti, la mancanza di una chiesa ufficiale rigidamente organizzata. Tuttavia, la cosiddetta ortodossia brahmanica cercò sempre di assorbire le nuove espressioni del pensiero religioso, alle quali del resto dava alcuni elementi costanti ed essenziali: la dottrina del karma, quella della trasmigrazione, la credenza in un principio divino assoluto e universale, variamente denominato dalle singole confessioni, ma che ripete in sé i caratteri fondamentali attribuiti a Brahma. Le due divinità predominanti dell'induismo - Viṣṇu e Śiva - formarono con Brahma una triade, nella quale Brahma rappresentava il divino nel senso più pieno e più puro. Col tempo, questa idea astratta della divinità, se pur continuò a essere chiamata con quel nome, finì con l'identificarsi ora con l'uno ora con l'altro dei due termini restanti della triade, che così si ridusse a una diade, la quale da ultimo si confuse in una visione unitaria del divino, designato con i due nomi accoppiati di Viṣṇu e Śiva: Hari-Hara. Al fondo di questi atteggiamenti si trova dunque una tendenza monoteistica: le diversità di attributi esteriori, di nomi, di culto, riflettono le vicende, a loro volta diverse secondo i tempi e i luoghi, della storia religiosa del paese. Ma un tentativo per rientrare, con più logica coerenza, nelle idee fondamentali del brahmanesimo, non poteva mancare. Esso fu fatto da due insigni filosofi: Kumārila (fine del sec. VII - principio dell'VIII) e Śankara (principio del sec. IX). Il primo rappresenta la filosofia della mīmāṃsā rinnovata e rammodernata; il secondo la filosofia del vedānta, portata a tale altezza da costituire uno dei massimi sistemi che l'ingegno umano abbia mai prodotto. L'influenza di Śankara si fece sentire su gran parte della storia filosofica e religiosa de) l'India; ma il ritorno alla purità della tradizione (smṛti) brahmanica, che avrebbe potuto, estendendosi, portare all'unificazione delle diverse tendenze religiose, non avvenne. E per un paradosso più apparente che reale, si ebbe la formazione di una nuova setta, quella degli smārta. Il principio fondamentale della scuola è il monismo: Dio è impersonale, privo di qualunque attributo; la via delle opere (karma-mārga) è insufficiente per raggiungere la verità e l'unione con l'Assoluto, a cui si può pervenire solo seguendo la via della conoscenza (jñāna-mārga). Una posizione così rigidamente spiritualista era solo per pochi, e contrastava con la psicologia del comune fedele, sicché Śankara ammise che, come primo gradino nella scala della perfezione, si adorasse un Dio personale: ed egli stesso era śivaita.
La conquista musulmana, iniziatasi nel secolo XI, e la fondazione di stati islamici esercitarono un'influenza sullo sviluppo dell'induismo, se non nel suo complesso, almeno favorendo talune particolari tendenze religiose e sociali, che si possono ridurre principalmente a due: monoteismo e negazione delle caste. Inoltre la presenza, nello stesso ambiente culturale, di mentalità così diverse quali erano quelle dei conquistati e dei conquistatori, poneva il problema della conciliazione dei contrarî. Il movimento, che è in pari tempo di riforma e di sincretismo, avviene tuttavia in senso induistico: dei due elementi, l'islamitico e l'indiano, il secondo si rivela il più potente per forza di attrazione e di assimilazione. L'uomo che forse con maggiore genialità riassume siffatte tendenze, è Kabīr (1440-1518), nato, secondo la leggenda, da una donna di casta brahmanica e allevato da un tessitore musulmano. Fu discepolo di Rāmānanda, e si distingue per l'impeto lirico e per la nobile purezza della sua religiosità. Egli sostiene l'unità essenziale del dio che Indù e Musulmani adorano sotto diversi nomi, respinge tutte le esteriorità del culto e dell'ordinamento sociale, non riconosce quindi le caste, non ammette né l'idolatria né la circoncisione, nega l'autorità dei Veda e del Corano. Dal punto di vista filosofico le idee di Kabīr sono poco originali; ma il movimento che con lui s'inizia è importante, sia perché largamente diffuso fra le popolazioni di lingua hindī, sia perché costituisce un nobile e vigoroso sforzo di contemperare l'induismo con l'islamismo. Quest'ultima tendenza si sviluppò, estendendosi anche sul terreno politico, nella religione dei Sikh. Suo fondatore fu Nānak (nato presso Lahore nel 1469, morto nel 1538). Egli si professò discepolo di Kabīr, ma le sue idee sono più affini al monoteismo semitico. Nel secolo XVIII, per opera di Govind, la setta divenne una chiesa militante e un'entità politica, nettamente individuata e avversa in egual modo a Indù e Musulmani. Dal 1764 al 1848 furono padroni del Panjab e cedettero solo all'occupazione britannica.
Le correnti religiose e le sette, di cui abbiamo qui accennato le principali, hanno conservato, qual più qual meno, la loro vitalità. Oltre a queste, che s'inquadrano con maggiore o minore aderenza nell'ambiente ariano o arianizzato dell'India, vi sono gl'innumerevoli culti locali. A guardarla nel suo complesso, l'India si presenta come un'enciclopedia di quasi tutte le possibili espressioni religiose. Uno dei caratteri della storia religiosa dell'India, è la completa libertà in materia di fede, e quindi il moltiplicarsi delle confessioni. Nell'ultimo secolo, entrati in più intimo contatto lo spirito europeo e l'indiano, si hanno tentativi di riforma in cui l'indirizzo critico si fonde con la volontà di unificare le varie fedi sulla base di una visione universale dell'esperienza religiosa. Ne derivò la creazione del Brāhma Samāj (v.) e dell'Arya Samāj (v.); ma la tendenza induistica finì col prevalere. Un posto a parte tiene il Deva Samāj, fondato da Śiva Nārāyana Agnihotrī (nato nel 1850). Questi, dopo avere oscillato tra varie posizioni teoretiche, nel 1894 diede forma definitiva al suo sistema fondandolo nell'ateismo e su un insieme di principî in cui la filosofia europea si combina con alcune delle idee fondamentali della filosofia indiana, giungendo a quella che egli chiamò "religione fondata sulla scienza". Tra gli ultimi riformatori si devono ricordare Rāmakṛṣna (1834-1886) e Vivekānanda (1862-1912), a cui si deve un rinnovamento spiritualistico della vita religiosa sulla base di principî vedantistici.
Bibl.: H. von Glasenapp, Der Hinduismus, Monaco 1922; id., Religiöse Reformbewegungen im heutigen Indien, Lipsia 1928 (Morgenland, fasc. 17); J. N. Farquhar, An outline of the religious literature of India, Oxford 1920; id., The crown of Hinduism, Oxford 1920; Sir Ch. Eliot, Hinduism and Buddhism, voll. 3, Londra 1921; R. G. Bhandarkar, Vaiṣṇavism, Śaivism and minor religious systems, Strasburgo 1913 (Grundriss d. Indo-ar. Phil. und Altertumsk., III, 6); F. O. Schrader, Der Hinduismus, Tubinga 1930 (Religionsgesch. Lesebuch, n. 14); A. Barth, The Religions of India, Londra 1906; E. W. Hopkins, The Religions of India, New York 1895. - Cfr. brahmanesimo.