INDUSTRIA (XIX, p. 152; App. II, 11, p. 28; III, 1, p. 866)
L'industria contemporanea. - Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi le imprese industriali di tipo capitalistico hanno posto in luce alcune modificazioni di carattere strutturale evidenziatesi, da un lato, in uno sviluppo del processo d'internazionalizzazione e, dall'altro, nelle tendenziali modifiche ai modelli di organizzazione del lavoro di tipo tayloriano. Peraltro, tali evoluzioni non hanno modificato le condizioni fondamentali dell'i. moderna quali si sono andate determinando negli sviluppi del secolo in corso relativamente alle dimensioni ottimali, ai vari tipi di produzione in serie, continua, di massa, ai rapporti fra imprenditori e imprese.
Riguardo al primo aspetto, una delle forme di organizzazione industriale a carattere internazionale che ha assunto particolare importanza, è costituita dalla cosiddetta impresa multinazionale, in cui l'attività estera risulta integrata con quella nazionale, ma nella quale permane la nazionalità originaria del capitale e della dirigenza a condizionare le strategie operative.
Non è facile individuare il periodo in cui questo nuovo modello aziendale inizia ad affermarsi. Da parte di alcuni storici si è sostenuto che le prime forme di imprese multinazionali si possono individuare addirittura nelle banche fiorentine e veneziane di epoca medievale o, in epoca più recente, nelle compagnie commerciali e in quelle coloniali. Attenendoci a una definizione puramente strutturale delle multinazionali, la quale postula l'esistenza di centri di produzione e di vendita in più parti del mondo, non si può considerare come multinazionale l'attività dei banchieri italiani o delle compagnie commerciali. Tale definizione, invece, potrebbe risultare più idonea per le compagnie coloniali, le quali ebbero bisogno di impianti, di attrezzature, di depositi, di personale specializzato per l'utilizzazione delle riserve esistenti nei paesi esteri, ecc. Tuttavia eventuali affinità strutturali con le forme di organizzazione multinazionale celano una sensibile difformità nei metodi di gestione e nelle finalità; al riguardo, si possono citare la non integrazione delle compagnie coloniali nell'economia del paese colonizzato; la grande limitazione del rischio imprenditoriale; l'utilizzazione delle sole risorse naturali; la centralizzazione quasi completa delle funzioni commerciali e finanziarie presso la casa madre.
Bisogna quindi arrivare alla seconda metà dell'Ottocento per trovare i primi esempi significativi di imprese industriali che effettuano investimenti diretti all'estero (basti citare, a tal proposito, la Bayer, la Nobel, la Singer). Il fenomeno si diffuse con sempre maggior intensità in relazione all'ampliamento delle correnti di scambio internazionale, oltre che alle merci, anche alle tecnologie, ai capitali, alla dirigenza e più limitatamente, alla manodopera. Tale incremento si è accentuato dopo la fine della seconda guerra mondiale, allorché si è determinato un massiccio flusso di investimenti statunitensi negli altri sistemi economici coinvolti nel conflitto. Il diffondersi degli investimenti statunitensi nei paesi industrializzati dell'Europa ha incontrato ulteriori opportunità di affermazione nell'istituzione del Mercato Comune Europeo (MEC) e della zona di libero scambio (EFTA); cioè di mercati molto vicini per dimensioni e struttura a quello degli Stati Uniti d'America.
Le caratteristiche essenziali di un'organizzazione multinazionale si ritrovano nell'azienda che produce e vende nei mercati esteri attraverso affiliate e consociate, pur conservando un prevalente volume di investimenti e di vendite sul mercato interno e quindi presentando strutture di capitale e dimensionali prevalentemente nazionali; e che con la sua gestione cerca di rendere massimo il vantaggio della divisione internazionale del lavoro e delle opportunità di mercato, di disponibilità e di costi dei fattori della produzione, di facilità di trasporto offerte dalle varie aree del mondo. Tali caratteristiche differenziano un'impresa multinazionale sia dalle imprese con mercato internazionale (dotato di capitale e quadri dimensionali esclusivamente nazionali) sia dalle imprese transnazionali (caratterizzate dalla completa integrazione internazionale delle attività e dalla perdita della nazionalità da parte del capitale e della dirigenza).
Altra caratteristica emersa dall'evoluzione dell'i. contemporanea può essere individuata nella tendenza a modificare gli schemi organizzativi già affermatisi e tuttora prevalenti, e cioè nella cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro, ispirata alle idee di F. W. Taylor. Alla base della concezione tayloriana vi è la convinzione che l'uomo sia motivato nella sua attività lavorativa solo da incentivi di ordine economico, che corrispondono all'esigenza di soddisfare soprattutto determinati bisogni fisiologici. Tale forma di organizzazione, dando un'impostazione di tipo meccanicistico al comportamento del lavoratore, tende a trascurare l'eventuale ricerca e soddisfazione di altre necessità, attraverso la piena valorizzazione delle capacità intellettuali e professionali individuali.
I modelli alternativi di organizzazione del lavoro vengono attualmente individuati, secondo il diverso grado di mutamenti organizzativi, dai più limitati ai più impegnativi. Un primo esempio è costituito dal job enlargement che ha come obiettivo l'estensione dell'attività del singolo verso operazioni nuove e aggiuntive. Questo indirizzo tende a creare spesso condizioni contrarie alla possibilità di predeterminare i ritmi di lavoro cercando di stabilirli a livello individuale.
Altro modello è quello del job enrichment che si propone non solo di cumulare varie operazioni, ma di aggiungere attività che offrano al lavoratore una maggiore varietà di compiti e responsabilità. L'arricchimento delle mansioni individuali comporta una riduzione di livelli gerarchici nell'organizzazione.
Un terzo modello è costituito dal lavoro di gruppo, che dovrebbe permettere di accrescere i rapporti sociali e superare l'isolamento che caratterizza determinate mansioni. Il lavoro di gruppo offre ai singoli partecipanti la possibilità di sviluppare, in forma cooperativa, attività sia di controllo sia di supervisione e programmazione; nei gruppi che hanno già acquisito una certa esperienza, ogni membro è in grado di svolgere il lavoro di tutti gli altri.
Le esperienze finora compiute non consentono un definitivo giudizio sulle conseguenze dei nuovi modelli organizzativi sulla produttività; che resta un obiettivo fondamentale dell'organizzazione delle imprese industriali per assicurare crescenti salari reali o lo sviluppo economico del paese. Se con i nuovi modelli è stato possibile, in diversi casi, conseguire una più soddisfacente ed efficace utilizzazione delle persone, molti esperimenti hanno inizialmente dato luogo a cali produttivistici, riassorbiti successivamente con una certa fatica. Infatti i mutamenti organizzativi in questione non si realizzano tanto in aumenti delle quantità prodotte, quanto nella migliore qualità del lavoro, e quindi del prodotto; nella diminuzione degli scarti di lavorazione, nella riduzione degli sprechi di materiali, nella limitazione dell'assenteismo. In alcuni casi si sono inoltre potuti ridurre o eliminare gli errori e gli sprechi di programmazioni troppo rigide, mentre si sono create strutture più flessibili, adattabili con maggiore rapidità e minori oneri allo sviluppo della tecnologia o alle richieste del mercato.
Gli effetti positivi devono, tuttavia, compensare i più elevati investimenti in impianti e attrezzature richiesti dalle nuove forme organizzative. Agl'investimenti più propriamente materiali, si aggiungono, infatti, le spese di ricerca, sperimentazione e formazione del personale, nonché i maggiori livelli retributivi per un aumento della qualificazione e capacità professionale.
La funzione dell'impresa ha quindi registrato modifiche nel senso che i suoi obiettivi caratterizzanti, fino a ieri di natura strettamente economica, vengono sempre più condizionati da limiti sociali e cioè dalle maggiori responsabilità nei confronti della società e dei lavoratori. Così, per es., taluni studiosi considerano necessario istituire uno schema di contabilità (bilancio sociale dell'impresa) in grado di valutare e testimoniare raffronti tra costi e benefici, che tengano presente l'emergere della responsabilità dell'impresa anche nel campo sociale.
Bibl.: F. Perroux, L'economia del XX secolo, Milano 1967; A. Fabris, Metodi di organizzazione del lavoro, Torino 1967; M. Wilkins, The emergence of the multinational enterprise, Cambridge, Mass., 1970; J. Gonding, The Blue Collar on the Assembly Line, in Fortune, luglio 1970; id., It Pays to Wake Up the Bleu Collar Worker, ibid., sett. 1970; C. Tugendhat, Le multinazionali, Milano 1971; A. Anfossi, Prospettive sociologiche sull'organizzazione aziendale, ivi 1971; E. Rullani, Lo sviluppo multinazionale delle imprese industriali, ivi 1973; S. Sciarelli, L'impresa multinazionale, Roma 1973; F. Chiaromonte, Nuove forme di organizzazione del lavoro, Milano 1975.
L'industria italiana. - Da paese agricolo, qual era nel secolo scorso, l'Italia si era andata, nella prima metà del sec. 2°; lentamente trasformando in paese a economia mista agricolo-industriale: ma è soltanto nel terzo venticinquennio che l'i. si affaccia decisamente come il principale strumento nella formazione del reddito nazionale e la maggior forza traente dello sviluppo del paese. L'accresciuta importanza del settore secondario (cioè dell'i. trasformatrice) nel sistema produttivo si nota nella sua partecipazione al totale prodotto nazionale: dal 29% durante il periodo tra le due grandi guerre al 41% attuale, impegnando all'incirca quattro decimi delle forze di lavoro occupate in Italia. In termini assoluti il prodotto reale dell'i. tra il 1951 e il 1974 risulta quadruplicato: un ritmo senza precedenti, anche a prescindere dal rallentamento degli anni Settanta. Nel 1976 il prodotto dell'i. è pari a 5 volte quello dell'agricoltura: nel 1951 il rapporto era di 1/2 a 1.
Si accentua così il carattere di paese trasformatore, con materie prime importate pagate dall'esportazione di manufatti; e aumenta notevolmente il grado d'integrazione e d'interdipendenza dell'Italia con l'economia mondiale. Siffatti processi hanno sollecitato un'accentuata dinamica dei principali fenomeni della vita sociale ed economica del paese, a cominciare dai vasti spostamenti di popolazione dalla campagna alla città e dal meridione al settentrione, e ne sono stati causa ed effetto a un tempo, impegnando mutamenti notevoli nella vita sociale e nei suoi problemi.
All'Italia s'attribuisce il sesto posto tra i paesi dell'OCSE, cioè del raggruppamento più industrializzato dell'Occidente col Giappone, sia pure a notevole distanza dai primi cinque. Presenta infatti una produzione industriale pari al 4,3% dell'intero gruppo OCSE (gli Stati Uniti entrano per il 42,9%, la Germania 12,4%, il Giappone 11,6%, la Francia 8%, il Regno Unito 6,2%). La proporzione del prodotto lordo delle attività industriali rispetto al prodotto lordo complessivo, pari a poco più di quattro decimi per l'Italia, in altri paesi sviluppati supera il 45% (Germania 54,1%, Francia 46,7%, Giappone 45,9%), in altri, a causa del lievitante settore terziario, è poco più di un terzo (Regno Unito 37,8%, Stati Uniti 34,2%; dati del 1970). Sulla base del valore aggiunto delle attività industriali, espresso a parità del potere d'acquisto, l'Ufficio statistico delle comunità europee ha calcolato la produzione dell'i. (in milioni di "eurpa", cioè in Eur col potere d'acquisto dell'anno; v. tab. 1).
In complesso la produzione industriale italiana (compreso il ramo "costruzioni") rivelò nel ventennio 1951-71 un aumento medio annuo in termini reali del 7,04% (con punte intorno al 10% nel 1959-62, che fu la fase di maggior ritmo di ascesa), mentre il reddito nazionale lordo crebbe complessivamente del 5,38% annuo. Assai favorevoli per questa espansione si manifestarono gli anni Cinquanta fino al 1962; una relativa stasi subentrò nel 1963-65; poi una ripresa nel 1966-69; infine fattori limitativi di varia natura intervengono negli anni Settanta e rallentano il saggio di sviluppo industriale. Il grado di utilizzo della capacità produttiva degl'impianti, superiore ai nove decimi nel 1955-57, nel 1960-62 e nel 1967-69, si riduce poi al disotto degli otto decimi.
L'offerta crescente di prodotti industriali in Italia ha potuto manifestarsi in modo spiccato, dapprima per la richiesta di tali prodotti nel mondo immediatamente seguita alla guerra mondiale, poi per il lievitare continuo della domanda all'interno del paese e della domanda dall'estero dove l'i. italiana si è conquistata un posto ragguardevole rispetto al periodo tra le due guerre. Siffatta crescente offerta fu consentita dalla notevole mano d'opera disponibile, dalla possibilità di un'utilizzazione più larga di risorse energetiche importate, dalla rapida introduzione di tecnologie e di macchinari acquistati nei paesi più avanzati, dalla disponibilità di "servizi" in espansione, meno incompleti e più modernizzati che nel passato. Tra tali servizi sono da citare quelli offerti dal sistema creditizio e da quello delle comunicazioni e dei trasporti.
Elementi limitativi furono invece la scarsità quasi permanente di capitali (con varie fasi d'impossibilità di autofinanziamento delle imprese), la lentezza di adeguamento del sistema arretrato di distribuzione mercantile, la congestione industriale in varie regioni del Settentrione e la difficoltà di una gestione economica aziendale nonostante gl'incentivi in atto nel Mezzogiorno. La domanda fu generalmente sostenuta nel venticinquennio, con una media annua in termini reali di aumento del 5% annuo per i consumi interni, e fra il 12 e il 13% annuo per l'esportazione. La costituzione del Mercato comune europeo ha notevolmente avvantaggiato le condizioni della domanda di prodotti industriali italiani, ma ha evidenziato anche i motivi di minor competitività delle i. italiane rispetto a quelle dei paesi più sviluppati d'Europa: divario che, per quanto ridotto nell'attuale dopoguerra, rimane ancora in molti rami ragguardevole. Nonostante ciò, il 46% della nostra esportazione si dirige verso i mercati comunitari e il 42% delle nostre importazioni proviene da essi. La scelta della politica del Mercato aperto ha in complesso giovato all'i. italiana.
I tre più recenti censimenti economici decennali, sebbene non rigorosamente raffrontabili, ci presentano il quadro di un ventennio di evoluzione industriale del paese. Tra il 1951 e il 1971 l'i. ha aumentato i propri addetti del 56%, passando da 4,2 milioni nel 1951 a 5,7 nel 1961, a 6,6 nel 1971, e il numero di unità locali del 21% (rispettivamente, alle tre date, da 691.000 a 735.000 e a 837.000) ampliando così leggermente il numero medio di addetti per unità locale (da 6,1 a 7,8 e a 7,9 nelle tre date) che rimane però indicativo di una media dimensione assai modesta. Il decennio 1951-61 è stato il più espansivo in termini di addetti industriali (1,5 milioni in più) mentre l'aumento 1961-71 si è limitato a 900.000: comunque, nel ventennio il maggior numero di persone occupate nell'i. ha compensato per oltre metà la contrazione delle forze di lavoro nell'agricoltura (per la quasi metà rimanente si sono dirette verso le attività terziarie). La produttività media per addetto è aumentata nel ventennio, poiché il valore aggiunto dell'i. si è quadruplicato col 56% in più di addetti.
A cifre più complete giungono i censimenti demografici e i sondaggi aggiornativi, che numerano nel 1974 ben 8,3 milioni di cittadini i quali hanno dichiarato di esercitare un mestiere nell'i.: due milioni in più dei 6,3 milioni censiti alla metà del secolo, e quattro milioni e mezzo più del principio del secolo attuale. Oggidì siamo, secondo questi dati dei sondaggi demografici, al 16% della popolazione totale, occupati nell'i., e al 44% della popolazione attiva (all'inizio del secolo eravamo al 23,8% deva popolazione attiva). L'occupazione umana viene a rappresentare sempre più, anche nel nostro paese, una responsabilità sociale preminente per l'industria.
Caratteristica dell'evoluzione qualitativa di siffatte forze di lavoro nell'i. è anzitutto l'aumento della quota di lavoratori dipendenti (dal 79% nel 1952 all'86% nel 1974): i lavoratori indipendenti si riducono in termini assoluti a poco più di un milione di unità contro gli oltre 7 milioni di dipendenti (1974). Nell'immediato dopoguerra l'inchiesta parlamentare sulla disoccupazione (1952) rilevava la grande maggioranza di lavoratori industriali come non qualificata o appartenente al novero della manovalanza generica e un accentuato aumento della qualificazione (nel 1966 apposita indagine rilevò che oltre un terzo [36%] degli operai erano qualificati, un altro abbondante terzo [35,7%] erano semi-qualificati, e solo poco più di un quarto [28,3%] non qualificati). Infine il rapporto tra impiegati e operai muta: si estende continuamente la quota di impiegati (un settimo del totale, mentre nell'immediato dopoguerra era poco più di un decimo).
A cagione dello sviluppo preso dalle i. "pesanti" è ora relativamente bassa, in Italia, la percentuale media di lavoro femminile nelle i. (26,1% nel 1974), sebbene in taluni rami, come quello tessile, raggiunga il 64%. Anche l'incidenza percentuale dei minori di 18 anni - dopo essere stata, nella storia industriale italiana, altissima e vigorosamente denunziata - è oggi ridotta: il ministero del Lavoro la calcola nel 2,8% degli operai occupati nel 1974. Le condizioni ambientali di lavoro sono migliorate nel recente quarto di secolo. La durata media del lavoro nell'i. è diminuita: nell'immediato dopoguerra superava le duemila ore annue; nel 1966 era di 1834 ore, nel 1971 di 1708.
Nel recente quarto di secolo si sono rese evidenti altre modificazioni rilevanti della struttura e della funzionalità del sistema industriale italiano. Siffatti mutamenti non sono soltanto osservabili nel volume degl'impianti e della produzione, e nelle differenziazioni qualitative del prodotto, ma anche nelle mutate proporzioni dei fattori nella combinazione produttiva (con la spinta a una più alta intensità di capitale) e nel grado di tecnologia utilizzata, con un meno primitivo spirito di ricerca sistematica (nel 1972, nelle sole i. manufatturiere, furono spese per la ricerca pura applicata e di sviluppo 333 miliardi di lire, e furono occupate in tale compito 41.000 persone). Mutamenti sono segnalabili non soltanto nel tentativo di localizzare nuove imprese nel meridione del paese, ma anche nella destinazione geografica dei prodotti. Una maggior quota di produzione fu destinata all'offerta di beni d'investimento. È mutata la figura, così come sono mutati la problematica e il modo stesso di esprimersi dell'imprenditore. Si assiste a una sempre più vasta partecipazione della mano pubblica all'industria. Si accentua infine la rilevanza delle economie esterne all'impresa, sempre più condizionata da scelte macroeconomiche. Il reddito da capitale-impresa del prodotto netto industriale diminuisce (dal 23,6% nel 1952 all'11,8% nel 1971), contemporaneamente a un aumento del reddito globale da lavoro (dal 76,4% all'88,2% negli stessi anni).
L'i. italiana, dal punto di vista merceologico e tecnologico, si è andata differenziando. Nel secolo scorso era prevalentemente tessile e di i. cosiddette "leggere", il suo mercato di prodotti era prevalentemente di beni di consumo. Nel venticinquennio dopo la metà del secolo attuale si rileva un avvio incisivo alle i. basiche, a quelle produttrici di beni d'investimento, e si nota uno sforzo verso le produzioni che richiedono alta intensità di capitale, intensa meccanizzazione, ricerca scientifica. Da un'i. prevalentemente agricolo-manifatturiera, qual era nello scorso secolo, si passa a un sistema industriale nel quale hanno conquistato preponderanza le i. siderurgicomeccanica, la petrolchimica e chimica, l'i. delle risorse energetiche. Il quadro risulta molto più diversificato che nell'Ottocento, e molto più vicino a quello dei paesi altamente industrializzati. Così, per la destinazione economica dei prodotti, si passa a una preponderanza di i. da beni d'investimento e a beni di utilizzazione per la produzione (materie prime, ausiliarie e semilavorati).
L'attività produttiva che comprendiamo generalmente nel campo dell'i. consta di due grandi comparti, quello dell'i. in senso stretto (prodotti della trasformazione industriale, o i. manifatturiera; e prodotti energetici), e quello delle costruzioni e opere pubbliche. Quest'ultimo, che comprende il vasto campo edilizio, rappresenta quasi un quinto del totale valore aggiunto industriale (totale che è di 40.635 miliardi di lire correnti nel 1974), mentre il gruppo dei prodotti energetici ne rappresenta un ottavo: il complesso più consistente, nell'intero settore industriale, è però quello dei prodotti della trasformazione industriale. In esso hanno particolare rilevanza i prodotti in metallo (21,9% del totale in lire correnti del valore aggiunto manifatturiero), i prodotti tessili e dell'abbigliamento (13,5%), i prodotti alimentari (16%), i prodotti chimici (10,3%), i mezzi di trasporto (6,8%). Nel complesso, l'i. meccanica, intesa come produttrice di macchinario, mezzi di trasporto, macchine elettriche, meccanica di precisione, e con officine di manutenzione e riparazione, interessa oltre tre decimi del valore aggiunto delle i. trasformatrici ed esporta i quattro decimi della totale esportazione manifatturiera italiana: è, con due milioni di occupati, di gran lunga il ramo più importante, cui seguono, ormai a molta distanza, il ramo alimentare e quello tessile e dell'abbigliamento.
L'i. tessile, che fino al primo quarto del secolo era stata la principale attività trasformatrice, non ha seguito la successiva rapida evoluzione delle i. meccaniche e chimiche, per quanto abbia dato vita a una dinamica i. dell'abbigliamento, abbia perfezionato e ammodernato il proprio macchinario in quasi tutti i suoi comparti. L'apparato degl'impianti resta rilevante: 3,7 milioni di fusi a 69.000 telai cotonieri; 1,2 milioni di fusi di pettinato a 0,9 milioni di cardato nel ramo laniero, oltre a 25.000 telai; e l'avviamento deciso all'utilizzazione di fibre artificiali e sintetiche (in quest'ultima produzione sono in attività 112.000 filiere per raion e 20.000 per fiocco, oltre a 722.000 fusi per filatura).
Notevole ampiezza ha raggiunto, in questo dopoguerra, una moderna i. siderurgica. Il consumo di acciaio si è sviluppato in modo rapido: da meno di un quintale per abitante (75 kg) nel 1951 a quasi mezza tonnellata (430 kg) nel 1974. Tale consumo è quasi totalmente fornito dall'i. siderurgica italiana, che ha cinque cokerie, 74 impianti per ghisa e ferroleghe con forni elettrici e 17 impianti con altiforni a gas; 265 impianti per acciaio con forni elettrici, 60 fonderie d'acciaio, 314 laminatoi.
Il ramo chimico, che è contrassegnato dalla rilevante complessità di processi e di prodotti e da un'elevata spesa di investimenti, rappresenta oltre un decimo della produzione manifatturiera del paese, ed è pari circa al 4% della produzione chimica mondiale, e al 13% di quella europea. Vi è una chimica "primaria" (chimica di base, intermedia e derivata) caratterizzata da grandi impianti; e una chimica "secondaria", che si occupa in parte di produzioni intermedie, in parte di produzioni per il consumo finale: si passa dai farmaceutici ai saponi, dai detersivi alle vernici e ai cosmetici. Il valore della produzione annua della chimica secondaria è poco meno della metà del valore attribuito all'intero settore chimico, che assorbe circa 432.000 dipendenti.
I passi compiuti nell'espansione delle nostre produzioni industriali nel recente quarto di secolo sono senza dubbio i più rapidi, nel ritmo, di tutta la storia economica dall'Unità in poi. Nel solo ventennio tra il 1951 e il 1971 la produzione di acciaio si è quasi ottuplicata, quella di cemento e quella di carta si sono sestuplicate; quella chimica si è moltiplicata per nove; quella di autoveicoli per 11-12 volte; quella di benzina e di olio combustibile per 16; infine la produzione di energia elettrica si è pressoché quintuplicata. Alcuni nuovi rami industriali hanno ampliato notevolmente la rispettiva produzione: citiamo quelli delle fibre sintetiche e delle materie plastiche; altri rami hanno mostrato notevole espansione, come quello di produzione degli elettrodomestici, ormai diffusi in una larga percentuale delle famiglie italiane (l'88% ha il frigorifero e la televisione, l'1,68% ha la lavatrice automatica).
Un cenno a sé merita il ramo dei prodotti energetici, che comprende quelli petroliferi (con un quantitativo di greggio importato pari a circa 120 milioni di tonnellate nel 1974), il metano (15 miliardi di metri cubi estratti nel 1974), la produzione di energia elettrica (147 miliardi di kWh prodotti nel 1974): quest'ultima (quintuplicata dal 1951 al 1974) è per oltre due terzi gestita dall'Enel, ente nazionalizzato (sorto nel 1962), ed è ora prodotta in modo preminente (due terzi) con tecniche termiche mentre si vanno esaurendo le possibilità d'incremento alle fonti idroelettriche, un dì (prima del 1966) preponderanti. Il complesso industriale italiano è un notevole consumatore di energia: quattro decimi dei consumi finali di energia del paese sono destinati al fabbisogno delle i. (per circa metà, nel 1972, queste ultime attingevano all'olio combustibile, ma contributi rilevanti erano offerti anche dal gas naturale e dall'energia elettrica).
L'i. delle costruzioni (fabbricati residenziali, fabbricati non residenziali, opere pubbliche) occupa da un quinto a un quarto delle forze di lavoro globali dell'i., ed è passata da 1,2 milioni di occupati nel 1952 a 1,8 milioni nel 1971: la sua attività per i fabbricati residenziali ha consentito che dai 34,3 milioni di stanze esistenti nel 1951 si raggiungessero i 63,2 milioni nel 1971, consentendo una notevole contrazione dell'indice di affollamento. Frattanto la produzione di cemento ha seguito questa veloce dinamica (da 6 milioni di tonn. prodotte nel 1951 a 36 milioni nel 1974). L'i. delle costruzioni, che attualmente produce circa 2 milioni annui di stanze (la punta massima fu raggiunta nel 1964 con 2,9 milioni), edifica (1972) 119 milioni di mc annui per fabbricati residenziali e 51 milioni di mc annui per i non residenziali.
La localizzazione delle i. italiane, per quanto si siano condotti sforzi per renderla meno disuguale tra le varie zone d'Italia, rimane prevalentemente accentrata nel Settentrione, dove si ottengono i due terzi del prodotto lordo industriale del paese (poco più di un settimo nell'Italia centrale, un sesto nel sud e isole). Qualche leggero vantaggio si è ottenuto nell'ultimo quarto di secolo a favore del Mezzogiorno: comunque, certamente non si è accresciuto il divario, e il ritmo di evoluzione dei due grandi compartimenti geografici è stato almeno parallelo. Ma nel centro-nord l'attività industriale fornisce circa il 42% del reddito alla popolazione, mentre nel sud non ne rappresenta che il 26,6%. Degli occupati presenti nell'industria, su 8,2 milioni in Italia nel 1971, solo il 23,2% era da attribuire al Mezzogiorno (1.895.000 unità: vent'anni prima erano 1.305.500 unità).
La permanenza, nonostante qualche lento avvio a imprese di maggiori dimensioni, delle piccolissime e piccole imprese industriali in Italia è contemporanea a una concentrazione finanziaria di gruppi che talvolta assumono grandezze rilevanti e che arrivano, specialmente nei settori dell'energia, della chimica e della meccanica, a contare centinaia di migliaia di dipendenti e a fatturare qualche migliaio di miliardi di lire. Gli addetti medi per unità locale, invece, non riuscirono nel recente trentennio a superare le otto persone occupate (e, se ci si limita al Mezzogiorno, le cinque), una media tra le più basse in Europa. Nel 1971 513.000 unità locali dell'i. (su un totale di 837.000) avevano fino a due addetti. Solo 351 unità locali avevano più di mille addetti ciascuna. È infine da rilevare che la struttura del sistema industriale risente anche di un'alta nati-mortalità di piccole imprese.
Il capitale fisso nelle i. italiane è quasi quadruplicato tra il 1951 e il 1971: il tasso medio di questo incremento è stato annualmente del 6,52% in media: le punte più elevate furono raggiunte nel decennio tra il 1956 e il 1966 (7,56%). Attualmente quattro decimi del complessivo "fondo capitali" dell'Italia (settore privato, esclusi i fabbricati) sono da attribuire all'industria. Nel 1952 la proporzione era soltanto del 28%, e si dovette rimediare alla lunga e notevole inferiorità tecnica del nostro apparato industriale con faticati investimenti. Tra il 1951 e il 1971 il capitale per addetto crebbe da 1,3 milioni di lire a 3,1 milioni di lire (lire costanti 1963). Così avvenne che circa un terzo degl'investimenti lordi totali del paese fu destinato alle attività industriali, e per oltre metà utilizzato in macchine. Il settore pubblico partecipò per quasi quattro decimi a siffatti investimenti.
Anche nel campo dell'i. le imprese pubbliche sono andate, nel recente dopoguerra, ampliando la quota di partecipazione. L'incidenza percentuale delle imprese pubbliche sul totale nazionale delle imprese industriali fu rilevata nel 1972 nel 12,7% del prodotto lordo, nell'8,2% per numero di dipendenti e nel 15,2% delle spese per il personale (533.000 occupati). Il fatturato delle imprese pubbliche industriali sommò, sempre nel 1972 (indagine ISTAT), a 6834 miliardi di lire, di cui quasi due terzi nelle i. manifatturiere e quasi un terzo nelle i. elettriche. La più importante voce, nel gruppo delle manifatturiere, è quello della siderurgia. Più di metà del prodotto lordo delle imprese pubbliche industriali (53,7%) si deve a quelle a partecipazione statale; seguono le imprese gestite dagli enti locali (5,6%), le aziende autonome dello stato (5,1%) e le altre imprese pubbliche (35,6%). Nel 1975 i fondi di dotazione affidati dallo stato alle partecipazioni" ammontavano a 3725 miliardi di lire, di cui metà all'IRI (fondata nel 1933, comprende, oltre a imprese industriali, banche e società finanziarie). Imprese pubbliche di notevole ampiezza sono l'ENI, l'ENEL, oltre a quelle facenti parte del gruppo IRI e le aziende autonome dello stato: varia è la loro morfologia giuridica. Il complesso delle imprese in cui entra la mano pubblica è, peraltro, attualmente superiore, per numero di occupati e fatturato, a quello indicato dalla succitata indagine ISTAT, del 1972 (v. partecipazioni statali, in. questa App.).
Qualche tentativo di censire la partecipazione straniera al capitale delle grandi società italiane (indagine ISTAT del 1973 sul 60% del capitale delle società italiane) ha mostrato una partecipazione straniera del 21,3% sul capitale di tutte le società rilevate per le i. manifatturiere, mentre è apparso pressoché trascurabile l'apporto nelle i. estrattive, elettriche e delle costruzioni. La partecipazione appare prevalentemente provenire dalla Svizzera, dai paesi CEE e dagli Stati Uniti, ed è notevole soprattutto nelle imprese di medie dimensioni.
Va assumendo, dalla fine della guerra a oggi, sempre maggior rilevanza la domanda estera soddisfatta dalle nostre i.: la tavola intersettoriale dell'economia italiana (1969) ci assicura che si tratta di un quinto della produzione manifatturiera italiana (ma in alcuni singoli rami raggiunge proporzioni ancor più alte: 47% nelle calzature e cuoi, 42% nelle meccaniche, 37% nei tessili, 35% nella costruzione di mezzi di trasporto, 24% nella chimica, 21% nella gomma). Se si tien conto, per la connessione di fornitura dei vari rami interessati, della dipendenza totale della componente estera alla domanda finale, la proporzione accennata risulta ancor più elevata, e riflette il risultato del lavoro industriale di un paio di milioni di italiani. La bilancia commerciale del complesso manifatturiero italiano si chiude con un'eccedenza di esportazioni (124.000 miliardi di lire nel 1973 di esportazioni contro 11.000 miliardi di importazioni): particolarmente rilevante l'apporto esportatore delle i. meccaniche (oltre quattro decimi dell'esportazione manifatturiera), delle chimiche (un sesto), delle tessili (più di un decimo). Le nostre vendite all'estero di prodotti manufatti sono per quasi tre quarti beni di complessa lavorazione o trasformazione.
Bibl.: oltre alla bibl. cit. in App. III, i, p. 871; sull'andamento del settore ind. italiano: Il valore aggiunto delle imprese 1961-65, Istat, 1967; Mediocredito centrale, Indagine sulle imprese industriali, 3 voll., Roma 1972; Annuario di statistiche ind., Istat, 1973; G. de Meo, Sintesi statistica di un ventennio (1952-71), Istat, 1973; Annuario di contabilità naz., Istat, 1974; Tavola intersettoriale dell'ec. italiana per l'anno 1970, Istat, 1974; Ist. studi per la programmaz. econ., Le prospettive di sviluppo ind. al 1975 e 1980 in Italia e nelle sue regioni, Ispe. 1974; v. anche le indagini conoscitive delle Commissioni permanenti industria, bilancio, della Camera dei deputati e del Senato sulla situazione di vari rami industriali, 1970-75; e le relazioni delle Commissioni ind. sui bilanci annuali del min. dell'Industria.
Per i raffronti internazionali, v. le ultime edizioni di OCDE, Statistiques industrielles 1900-1952; id., Statistical accounts; CEE, Annuaire des statistiques industrielles; ONU, Statistical Yearbook.
Sulla legislazione nell'i. in Italia: F. Merusi, La legislaz. econ. italiana dalla fine della guerra al primo programma econ., Milano 1974 (cfr. in partic. di Pugliese, La legisl. a favore dell'industria, p. 171 segg.).
Sui singoli rami industriali innumerevoli sono gli articoli apparsi nelle principali riviste econ.: dei volumi citiamo: Confindustria, L'evoluz. strutturale dell'ind. italiana, I: Le ind. tessili, Roma 1964; IMI, L'industria tessile, ivi 1968; L'industria chimica, a cura della S. e R. Mediobanca, Milano 1970; La chimica secondaria, in Mondo economico, nov. 1973; G. Lamalfa, L. Coppola, Il futuro dell'ind. chimica, Milano 1974.