Infrastrutture
Il termine 'infrastrutture' viene usato per designare quel complesso di beni capitali che, pur non utilizzati direttamente nel processo produttivo, forniscono una serie di servizi indispensabili per il funzionamento del sistema economico: strade, linee ferroviarie, porti, scuole, ospedali, ecc. Anche l'espressione 'capitale fisso sociale' è spesso utilizzata per designare questo insieme di beni, e può quindi essere considerata un sinonimo di 'infrastrutture'.
L'importanza delle infrastrutture, anche considerando i soli aspetti quantitativi, può essere facilmente dimostrata da un semplice dato: lo stock di queste opere pubbliche, nei paesi industrializzati, si aggira attorno al 35-40% dello stock di capitale complessivo (v. tabella).
I servizi forniti dai beni infrastrutturali possono favorire i produttori (come quando, ad esempio, una strada viene utilizzata per il trasporto di merci) - ed è il caso più frequente - oppure i consumatori (quando la stessa strada è utilizzata dal turista per attraversare una regione paesaggisticamente attraente). L'interesse degli economisti, peraltro, si rivolge prevalentemente alla prima forma di utilizzo, in quanto il capitale fisso sociale è maggiormente in grado di influenzare la produttività dell'intero sistema economico nella sua funzione di bene intermedio.
Tra le infrastrutture si distinguono quelle 'a rete' e quelle 'puntuali': le prime sono sistemi presenti in modo diffuso sul territorio e caratterizzati da una serie di punti interconnessi. La significatività economica e l'importanza di questi sistemi dipendono, in modo cruciale, dal numero di persone e/o di luoghi collegati alla rete. È evidente che l'utilità di un sistema di telefonia dipende dal numero di abbonati e dai luoghi raggiunti dalla rete: nel caso limite di un solo abbonato l'utilità del sistema è infatti nulla.
Le infrastrutture puntuali (ad esempio un ospedale) presentano invece la caratteristica di essere utili in quanto unità singole.
Ai fini dell'analisi economica risulta comunque importante soprattutto la distinzione tra infrastrutture di base, infrastrutture di tipo economico e infrastrutture di tipo sociale.Le prime sono sostanzialmente le strutture edilizie che vengono utilizzate per l'assolvimento di compiti fondamentali per l'esistenza dello Stato, quali la difesa, la gestione della giustizia, l'attività legislativa, esecutiva e amministrativa in genere. Appartengono a questa categoria di infrastrutture gli edifici militari, ministeriali e governativi, gli aeroporti militari, le prigioni, i posti di polizia, ecc. Benché queste strutture siano importanti per la vita di qualsiasi comunità, esse non sono oggetto di uno studio particolare, perché non contribuiscono in via diretta allo sviluppo economico del sistema.
Le infrastrutture economiche si caratterizzano invece perché sono fattori di produzione che si affiancano al capitale direttamente produttivo - per lo più di proprietà privata - contribuendo alla produzione di beni e servizi: esempi di questo tipo di infrastrutture sono le reti stradali e ferroviarie, i porti, gli oleodotti, i metanodotti, le dighe, le opere di bonifica.
Le infrastrutture sociali - scuole, ospedali, acquedotti, ecc. - contribuiscono invece a determinare le condizioni di vita della collettività, incidendo su aspetti quali la salute e il livello di istruzione dei cittadini. Sono importanti non solo perché accrescono il benessere della società, ma anche perché indirettamente, agendo sulla qualità del capitale umano, accrescono la produttività complessiva del sistema.
Quasi tutte le infrastrutture hanno caratteristiche comuni che consentono di considerarle per molti aspetti come un fenomeno unitario. Innanzitutto sono in genere ad alta intensità di capitale: sono necessari cioè investimenti massicci per realizzarle. La costruzione di infrastrutture non richiede però sempre l'impiego di industrie ad alta intensità di capitale e ad avanzato grado di tecnologia (si pensi al settore delle costruzioni, fondamentale per la messa a punto di molti beni infrastrutturali); ciò significa che anche i paesi in via di sviluppo possono avere imprese in grado di provvedere alla costruzione di almeno parte del capitale fisso sociale. Ovviamente l'affermazione è valida solo limitatamente ad alcuni tipi di infrastrutture; per altri tipi invece - soprattutto nel settore delle telecomunicazioni - le conoscenze tecnologiche richieste possono essere molto sofisticate. L'alta intensità di capitale è accompagnata spesso, nel caso del capitale fisso sociale, da una rilevante indivisibilità. Ciò comporta una duplice serie di conseguenze: in primo luogo lo sforzo finanziario richiesto è di grande entità, e perciò il fabbisogno finanziario ha costituito e costituisce un ostacolo alla realizzazione di opere infrastrutturali; in secondo luogo la costruzione dei sistemi infrastrutturali (come, ad esempio, le ferrovie in alcuni paesi) si concentra in ondate relativamente brevi, dando luogo a un andamento ciclico degli investimenti e del reddito.Indivisibilità e alta intensità di capitale comportano in genere una lunga gestazione prima che il progetto sia messo a punto e poi realizzato. Questo rende le decisioni in materia in qualche modo irreversibili, in quanto cambiamenti di programmi e la rinuncia a completare l'opera, o addirittura la decisione di sostituirla, comporterebbero costi molto elevati. Il fatto che siano necessari molti anni per portare a termine i progetti infrastrutturali comporta, tra l'altro, anche elevati gradi di incertezza, dato che, nel frattempo, possono cambiare rispetto alle previsioni i prezzi assoluti e relativi, l'andamento della domanda, le tecnologie adottate.
L'indivisibilità può anche comportare che le infrastrutture create abbiano una capacità superiore a quella richiesta dal sistema quando l'opera entra in funzione. Spesso perciò, inizialmente, la domanda non è sufficiente a generare ricavi in grado di coprire le spese correnti di gestione. Solo successivamente, quando la richiesta del servizio sarà cresciuta, l'infrastruttura sarà in grado di autofinanziarsi.Le infrastrutture si caratterizzano anche perché sono collocate in determinati spazi geografici e sono inamovibili. Se vi è scarsità di un bene, sia esso di consumo o capitale, si può rimediare ricorrendo alle importazioni. Le infrastrutture non possono invece essere oggetto di importazione. Questo implica che, dati i lunghi tempi di realizzazione, le strozzature create da carenze infrastrutturali non sono rapidamente eliminabili. È evidente allora l'importanza che assume la politica degli investimenti seguita: bisogna combinare lungimiranza e flessibilità, ove possibile, per tener conto dei lunghi tempi di progettazione e costruzione dell'opera.
Le infrastrutture sono in genere utilizzate per una molteplicità di attività e da una molteplicità di individui. Ad esempio il telefono può essere usato da una stessa persona sia per una conversazione privata sia per scopi di lavoro, ed è a disposizione di moltissimi abbonati. Queste caratteristiche avvicinano le infrastrutture ai beni pubblici; in particolare il 'consumo' dell'infrastruttura da parte di un soggetto non esclude il contemporaneo 'consumo' da parte di altri. La 'rivalità' fra 'consumatori' di infrastrutture si presenta solo quando il capitale fisso sociale viene utilizzato oltre i suoi limiti di capacità, generando quindi congestione e code.
Più raramente si incontra invece la seconda caratteristica dei beni pubblici, che consiste nella difficoltà di regolamentare l'accesso all'uso del bene. Non è in genere difficile regolare e controllare l'utilizzo delle infrastrutture: si pensi alle autostrade, al telefono, ecc. Non mancano però importanti eccezioni: ad esempio le strade statali e quelle urbane (anche se in questo caso le recenti innovazioni tecnologiche consentono un controllo sull'utilizzo prima impossibile).
Un altro aspetto va sottolineato: in particolare per le infrastrutture a rete si è in presenza di rendimenti crescenti, e quindi di condizioni favorevoli al monopolio. In definitiva le caratteristiche di beni pubblici, la presenza di situazioni monopolistiche, l'importanza strategica del capitale fisso sociale rendono quasi inevitabile un controllo pubblico sulle infrastrutture, sia mediante l'assunzione della proprietà, sia mediante la regolamentazione delle attività private. La mano pubblica quindi finisce con l'essere sempre presente nel settore.
Viste le caratteristiche delle infrastrutture, si può tentare una valutazione della loro funzione economica. Appare ovvio che vi sia una certa correlazione tra dotazione di infrastrutture e livello di reddito: la storia del XIX secolo lo conferma ampiamente.
Nell'Europa continentale e negli Stati Uniti la costruzione di strade, ferrovie, canali navigabili, ecc. accompagna e sospinge la crescita del benessere economico. Come già detto, gli investimenti vengono realizzati a ondate successive, e ogni paese ha una propria storia: la costituzione del capitale fisso sociale avviene in periodi e per settori diversi a seconda del livello di sviluppo economico.
La crescita degli investimenti nel capitale fisso sociale produce un duplice effetto: amplia la capacità produttiva del sistema - agendo quindi sull'offerta - e provoca anche un forte aumento della domanda che, se non si disperde all'estero facendo aumentare le importazioni e provocando una crisi nella bilancia dei pagamenti, produce, attraverso il moltiplicatore, una reazione vigorosa anche in altri settori dell'economia legati al settore infrastrutturale. Le infrastrutture sono state un fattore importante specialmente nelle economie in fase di rapida industrializzazione; in ogni caso sono un elemento necessario, ancorché - come diremo più avanti - non sempre sufficiente, allo sviluppo. Possono peraltro diventare un freno quando non seguono l'espandersi del capitale privato.
Si può ragionevolmente sostenere, allora, che esiste, almeno nel medio-lungo periodo, una relazione tra l'aumento del reddito e l'aumento dello stock di capitale fisso sociale. Le infrastrutture infatti sono un tipo particolare di fattore di produzione, in quanto partecipano ai processi produttivi di quasi tutti i beni finali prodotti. L'affermazione è particolarmente vera per le infrastrutture di tipo economico: le strade, le ferrovie, i sistemi di telecomunicazione. Ad esempio non è pensabile la produzione di un bene o di un servizio che in qualche stadio del processo produttivo non utilizzi il sistema dei trasporti. Le attività di un moderno sistema produttivo non possono prescindere inoltre da un intenso scambio di informazioni, meglio se in tempo reale, il che presuppone un efficiente sistema di comunicazioni. Il fatto che l'abbondanza e la tempestività delle informazioni a disposizione degli operatori economici svolgano un ruolo essenziale ai fini della creazione di un mercato concorrenziale è stato tra l'altro sottolineato dalla recente dottrina economica. Infine anche le infrastrutture sociali, pur agendo in modo molto più indiretto, poiché condizionano la qualità del capitale umano, influenzano in modo pervasivo tutto il sistema economico.
Se il complesso delle infrastrutture è insufficiente rispetto alla domanda o se la sua gestione è inefficiente, ne risente la produttività dell'intero sistema. Infatti anche se le infrastrutture - considerate come fattori di produzione - sono in parte sostituibili, una loro carenza comporta un aumento dei costi e un allungamento della durata dei processi produttivi.
Un adeguato stock di capitale fisso sociale abbassa invece i costi di produzione, diminuisce i tempi necessari per il completamento dei processi produttivi, rende possibile e facilita lo scambio di merci su un territorio sempre più vasto. Le infrastrutture, quindi, aumentano la funzionalità del mercato, ne allargano i confini e consentono maggiori livelli di specializzazione, che, secondo la nota teoria smithiana, aumentano la concorrenzialità del sistema e consentono di sfruttare le economie di scala.
Ovviamente le osservazioni fatte riguardano fenomeni esaminati a livello macroeconomico; sappiamo che nel concreto l'apporto che il capitale fisso sociale può dare dipende dal tipo particolare di infrastruttura utilizzata. Non si può quindi parlare delle esigenze infrastrutturali di un'economia se non in prima approssimazione. Un esame più approfondito richiede un'analisi dettagliata che evidenzi quali tipi di infrastruttura siano carenti e in quali località.
Dopo un periodo di relativo declino verificatosi negli anni settanta, la teoria dello sviluppo è tornata a essere oggetto di attento esame. Uno dei temi ripresi non è tanto il rapporto - che si dà per scontato - tra infrastrutture e livello di reddito nel medio periodo, quanto piuttosto la possibilità di utilizzare gli investimenti in capitale fisso sociale come strumenti di politica economica, per aumentare il tasso di crescita dell'economia già nel breve periodo. Si vorrebbe cioè che le infrastrutture assumessero un ruolo importante nello stimolare il sistema: in questo caso un aumento della quota di investimenti pubblici riuscirebbe a imprimere un'accelerazione significativa al tasso di crescita del prodotto nazionale.
Nell'analizzare le ragioni della diminuzione del tasso di crescita e di produttività che ha interessato quasi tutti i paesi industrializzati a partire dagli anni settanta, alcuni economisti americani hanno cercato di verificare, ricorrendo a indagini econometriche, se il calo in termini relativi degli investimenti pubblici possa essere responsabile del peggioramento della performance dei paesi in questione. Le analisi non hanno riguardato solo gli Stati Uniti, ma numerosi altri paesi, e si sono estese anche ad altri periodi storici. Le prime indagini giungono a conclusioni molto nette in merito all'apporto dato dal capitale fisso sociale alla crescita del prodotto interno lordo: un aumento di un punto percentuale degli investimenti pubblici provoca un aumento del tasso di crescita di 0,3-0,4 punti percentuali. Gli studi successivi hanno di molto ridimensionato queste conclusioni (v. Munnell, 1990; v. Berndt e Hanson, 1991). Da un lato si sostiene che in molte circostanze la relazione non è confortata dai dati; dall'altro si afferma che comunque non è facile individuare il rapporto di causalità. In altri termini: è l'investimento pubblico a favorire la crescita del sistema o è quest'ultimo a indurre un aumento del capitale fisso sociale? Il quesito è cruciale: rispondervi in modo preciso significherebbe aver trovato una spiegazione quasi esauriente di quel fenomeno elusivo che è lo sviluppo economico e di conseguenza si saprebbe come favorirlo. Sono stati gli economisti del sottosviluppo, e in particolare Hirschman (v., 1958), ad affrontare in dettaglio la questione e a tentare di indicare quale tipo di sequenza sia da preferire: è più conveniente partire dagli investimenti direttamente produttivi o dal capitale fisso sociale? Ambedue le sequenze ipotizzate sono possibili e bisogna affidarsi all'analisi economica e alla storia per valutare quando sia conveniente l'una piuttosto che l'altra. Hirschman, in particolare, correggendo in parte la letteratura precedente, mette in dubbio che si debba prioritariamente ricorrere al capitale fisso sociale, e specialmente nei casi dei paesi sottosviluppati.
Se si segue una politica di sviluppo basata sull'eccesso di capacità delle infrastrutture, ci si attende che gli investitori si facciano attrarre dal territorio interessato (il paese, la regione, o la città) in quanto dotato di servizi adeguati che abbassano i costi di produzione. Si ritiene cioè che sia sufficiente una migliore offerta di 'servizi di base' per attivare nuove iniziative imprenditoriali. L'eccesso di offerta ha un ruolo sostanzialmente facilitante, ma non stimola necessariamente in modo diretto nuove iniziative.
Viceversa, nell'altra sequenza si parte dagli investimenti direttamente produttivi che, creando strozzature e scarsità di infrastrutture, inducono il governo a intervenire per superare le carenze che si manifestano. Il più acuto fautore di questa politica, Hirschman, riflettendo sull'esperienza dei paesi sottosviluppati, ritiene che in questi paesi il vero ostacolo allo sviluppo non sia tanto la scarsità di risorse quanto l'incapacità degli operatori pubblici e privati di combinarle a scopi produttivi: manca, in altri termini, la capacità imprenditoriale.Hirschman sostiene che la mancanza di adeguati sistemi infrastrutturali si fa sentire in modo acuto quando si espandono le capacità direttamente produttive, e conduce quindi quasi necessariamente a un'azione riequilibratrice. Quando le 'dotazioni' imprenditoriali sono scarse è meglio affidarsi a un processo di sviluppo che renda evidente la necessità di intervenire, invece di creare prioritariamente eccesso di capacità infrastrutturale.Non sembra tuttavia che questa conclusione sia accettabile in tutte le circostanze: è valida, quando è valida, nei paesi e nelle aree arretrate, dove le risorse imprenditoriali e organizzative sono molto scarse; è invece meno convincente se riferita ai paesi già industrializzati. Sono insomma, e questo pare ammetterlo lo stesso Hirschman, le circostanze specifiche a dettare le condizioni per la strategia migliore. Sul piano storico, ad esempio, è opinione prevalente che lo sviluppo delle infrastrutture - segnatamente le ferrovie - abbia costituito nel XIX secolo un potente elemento trainante della crescita economica degli Stati Uniti, dove non mancavano peraltro capacità imprenditoriali.
Merita attenzione anche la tesi di Hansen (v. i contributi del 1965), che ha sottolineato l'importanza di distinguere tra i diversi tipi di infrastrutture e di riconoscere che in ogni caso esse producono effetti differenti a seconda del livello di sviluppo delle aree in cui sono collocate. Hansen ritiene infatti che nelle aree arretrate si debbano privilegiare gli investimenti in infrastrutture di tipo sociale, in quanto queste incidono sul grado di istruzione raggiunto dalla collettività; una maggiore diffusione della cultura favorisce la crescita di uno spirito imprenditoriale, carente soprattutto nei paesi sottosviluppati e peraltro necessario per avviare processi di industrializzazione. Al contrario, in tali aree, le infrastrutture di tipo economico possono rimanere inutilizzate, anche se offerte con abbondanza, perché manca il prerequisito dello sviluppo, e cioè l'iniziativa imprenditoriale. L'esistenza di infrastrutture di per sé non rappresenta quindi necessariamente uno stimolo.
Le infrastrutture di tipo economico, invece, possono assumere un ruolo molto più positivo in aree 'intermedie', in cui esistono già elementi autonomi di crescita. Dove gli imprenditori sono numerosi e capaci di approfittare delle occasioni favorevoli, un aumento dell'offerta di infrastrutture economiche facilita e rende meno costose le attività economiche, favorendo la competitività dei prodotti. Nelle aree 'intermedie' le infrastrutture economiche si rivelano più importanti di quelle sociali. Il fatto che la strategia consigliata nel caso delle aree arretrate sia diversa da quella consigliata nel caso delle aree intermedie dipende dall'ipotesi che nelle prime non vi sia una robusta classe imprenditoriale e nelle seconde sì.
Nelle aree pienamente sviluppate la crescita economica è assicurata principalmente dalle attività direttamente produttive, che richiedono però nuovi investimenti infrastrutturali per poter garantire lo sviluppo del sistema, anche a lungo termine, senza incontrare fenomeni di congestione e di affollamento. In queste aree la migliore strategia consiste nel puntare a una crescita equilibrata, in cui gli investimenti produttivi e quelli infrastrutturali vadano di pari passo. Se l'area già sviluppata si trova all'interno di un paese dove coesistono diversi gradi di sviluppo, può essere opportuno adoperarsi per cercare di decentrare la produzione verso le aree che da un lato non presentano problemi di congestione e dall'altro hanno livelli di reddito pro capite inferiori.Impostare l'analisi secondo questi criteri è certamente importante, perché dagli aspetti meramente macroeconomici del problema si riesce in tal modo a passare a indagini più particolareggiate, che tengano conto delle caratteristiche degli investimenti e dell'economia in cui si inseriscono. Purtroppo le verifiche empiriche non hanno finora chiarito se l'ipotesi di Hansen possa essere ritenuta valida (v. Brosio e Piperno, 1989).
Sembra tuttavia che i punti da tener presente siano molto più di due: la crescita economica non può essere spiegata semplicemente facendo riferimento a categorie aggregate di infrastrutture e al livello di sviluppo dell'area considerata. Quando ad esempio si instaura un legame abbastanza preciso tra infrastrutture di tipo sociale e sviluppo, si semplifica oltre misura la varietà delle relazioni che esistono tra queste due variabili. Il rapporto tra istruzione e sviluppo, ad esempio, è un fenomeno troppo complesso per poter essere descritto compiutamente da un rigido legame di tipo temporale e quantitativo; è ovvio che, a seconda della particolare forma di intervento scelta e del livello culturale di partenza, i tempi e le modalità con cui si manifestano gli effetti sono diversi. Il limite di queste analisi sta nel fatto che molto spesso non ci si ferma a sufficienza a esaminare la specificità delle politiche adottate, accontentandosi di far riferimento al solo dato aggregato.
Si deve distinguere, ad esempio, nel comparto delle infrastrutture sociali, tra gli investimenti nel settore sanitario e quelli nel settore dell'istruzione. In linea di massima ci si può aspettare che i primi siano più importanti per la qualità della vita, mentre i secondi, incidendo sulla preparazione professionale della forza lavoro, possano più facilmente contribuire alla creazione di un clima più adatto allo sviluppo.
Analoghe riflessioni possono essere fatte sulle infrastrutture di tipo economico: è certo che il sistema economico reagisce in modo diverso a seconda che gli investimenti siano fatti nel settore dei trasporti o in quello delle telecomunicazioni; si noti inoltre che gli effetti dipendono sia dalla dotazione di infrastrutture all'inizio del periodo considerato sia dal grado di sviluppo economico già raggiunto.In sostanza le analisi basate su grandezze aggregate sono necessariamente di prima approssimazione. Se si devono prendere decisioni concrete è necessario un esame per individuare, aiutati dagli schemi interpretativi descritti, gli investimenti più idonei a favorire lo sviluppo complessivo del paese.
Si è già detto che la gestione delle infrastrutture non può prescindere da una qualche presenza dello Stato; questa è giustificata sia dal fatto che la forma di mercato prevalente è il monopolio sia dal fatto che i servizi offerti presentano aspetti di 'pubblicità' e sono spesso di importanza strategica. Tuttavia la presenza dello Stato ha assunto forme diverse. Nell'Ottocento ha prevalso, in molte circostanze, il regime della concessione; in questi casi imprenditori e capitali privati provvedevano a garantire il finanziamento e a gestire le reti infrastrutturali più importanti. Con l'inizio del nuovo secolo si è fatto maggior ricorso al regime della proprietà pubblica, a seguito di importanti operazioni di nazionalizzazione (si pensi al caso delle ferrovie), proseguite con diversa intensità almeno fino agli anni sessanta-settanta; a partire dagli anni ottanta si ha un netto cambiamento di clima e si fanno strada importanti politiche di privatizzazione. Due quindi sono state le principali soluzioni: la gestione affidata a un'impresa privata sottoposta a regolamentazione e la gestione affidata a un'impresa pubblica.
La prima forma di gestione si basa su un'impresa che, in quanto privata, massimizza il profitto. È noto tuttavia che, in presenza di monopolio, la produzione risulterà inferiore a quella ottimale e i prezzi saranno superiori a quelli puramente concorrenziali. Il potere monopolistico può inoltre consentire all'impresa privata di adottare linee di condotta discriminatorie, favorendo ad esempio alcuni gruppi a scapito di altri e modificando anche la posizione concorrenziale in altri settori. La regolamentazione dovrebbe impedire l'uso improprio di questo potere economico. Gli organi regolatori devono quindi controllare i prezzi per evitare profitti eccessivi, verificare la qualità del prodotto e infine garantire che vengano evitate pratiche di tipo discriminatorio. Non sempre, però, risulta agevole controllare le attività di un'impresa privata: infatti spesso non sono disponibili informazioni sufficienti sugli effettivi costi di produzione sostenuti dall'impresa, che ha tutto l'interesse a fornire dati non veritieri per poter massimizzare il profitto; analoghe difficoltà si incontrano nel controllare la qualità del prodotto. Infine vi è la possibilità, messa in luce da una parte della letteratura americana, che l'organo preposto alla regolamentazione sia fortemente condizionato dall'industria che dovrebbe controllare; in altri termini è possibile che gli interessi dell'industria controllata riescano a far breccia nella commissione regolatrice: in questo caso il controllo viene esercitato a favore del controllato e non a favore del cittadino.
D'altro canto l'utilizzo dell'impresa pubblica dovrebbe garantire l'applicazione di prezzi ottimali, l'adozione di politiche distributive e il soddisfacimento di esigenze sociali (ad esempio l'allacciamento di linee telefoniche a piccole località isolate), obiettivi tipici dei servizi pubblici.
In astratto si possono individuare regole che consentano di raggiungere gli obiettivi indicati; le difficoltà nascono quando si vogliono metterle in pratica.
Due sono le ragioni di possibili scostamenti dal comportamento ottimale auspicato: da un lato l'impresa pubblica, non essendo tenuta alla massimizzazione del profitto e non dovendo, in genere, rispettare vincoli di bilancio, può utilizzare processi di produzione non efficienti, che non minimizzano i costi di produzione; dall'altro lo stesso potere pubblico (la classe politica) può assegnare, anche implicitamente, obiettivi che riflettono non già l'interesse generale ma quello di gruppi ristretti, vuoi di produttori, vuoi di consumatori, vuoi di dipendenti dell'impresa pubblica stessa.
Si deve quindi concludere che ambedue le soluzioni adottate non sono prive di difetti. Nel caso della regolamentazione il pericolo consiste nell'incapacità di contrastare gli interessi del monopolista; nel caso dell'impresa pubblica invece vi è il pericolo di gestioni inefficienti e di soddisfacimento di interessi corporativi. La scelta, quindi, è tra due strumenti imperfetti e dipende da considerazioni di natura politica ed economica. Fino agli ultimi decenni del secolo scorso, almeno in Europa, ha prevalso la soluzione dell'impresa privata regolamentata, mentre il settore pubblico si trovava in posizione in qualche modo subordinata. Tuttavia, a poco a poco, si sono affermate forze politiche più favorevoli all'intervento pubblico e gran parte della gestione delle infrastrutture viene quindi assunta dalla mano pubblica (con l'importante eccezione degli Stati Uniti, che ricorrono prevalentemente al sistema della regolamentazione).
In periodi molto recenti si è affermata quasi ovunque una politica favorevole alle imprese private, attuata mediante dismissioni delle imprese pubbliche. Le ragioni di questa politica sono molteplici: tra queste il venir meno, in alcuni settori, dei presupposti tecnologici che portano al monopolio e il minor peso attribuito alle possibili politiche redistributive e alle esigenze di 'servizio pubblico'. Fondamentale però rimane la preoccupazione di avere un sistema infrastrutturale gestito secondo rigorosi criteri di efficienza. Si ritiene che l'impresa pubblica abbia, almeno nell'ultimo periodo, seguito comportamenti inefficienti e favorevoli a interessi settoriali.La ricerca di soluzioni efficienti è in gran parte determinata dall'emergere di forti pressioni concorrenziali che si esercitano oramai a livello planetario; benché le infrastrutture siano beni non importabili, la loro rilevanza per quasi tutti i processi produttivi è tale che una loro efficiente gestione garantisce una buona base di partenza per diventare competitivi.
Il finanziamento delle infrastrutture può incontrare rilevanti difficoltà: infatti quando si devono creare interi sistemi a rete o quando ci si debba impegnare in grossi interventi (non infrequenti, data la caratteristica di indivisibilità del capitale fisso sociale) è possibile che il mercato finanziario non riesca a soddisfare l'intero fabbisogno richiesto. Il differimento nel tempo della redditività dell'investimento aggrava le difficoltà: se la costruzione dell'infrastruttura, a causa dell'indivisibilità, genera un'offerta superiore alla domanda, i ricavi possono non essere in grado di coprire i costi di gestione, generando un'ulteriore necessità di finanziamento.
La maggiore o minore facilità di finanziamento è quindi funzione, da un lato, dell'ampiezza del fabbisogno e, dall'altro, delle capacità del mercato finanziario privato (interno e internazionale), della disponibilità di capitale pubblico (basato sul gettito di imposte o sull'indebitamento pubblico) e dell'offerta proveniente da organismi economici internazionali (ad esempio la Banca Mondiale).
Storicamente si sono viste e sperimentate diverse soluzioni: nell'Ottocento e nei primi anni del XX secolo le grandi infrastrutture ferroviarie (negli Stati Uniti, in India, in Argentina, ecc.) sono state prevalentemente finanziate da capitale privato internazionale. Successivamente nei paesi industrializzati l'intervento pubblico ha avuto il sopravvento, mentre per i paesi in via di sviluppo gli organismi internazionali hanno spesso avuto un ruolo non irrilevante; recentemente si torna a guardare con interesse alla possibilità di un apporto importante da parte del capitale privato, dovendosi prendere atto che la crisi della finanza pubblica ha limitato di molto la disponibilità di capitale pubblico. Esempi di questa nuova impostazione sono i progetti relativi al TEN (grandi piani di infrastrutture a rete nel settore dei trasporti e delle telecomunicazioni proposti dalla Comunità Europea) per i quali è previsto, a fianco di un contributo agevolativo della CEE, il prevalente finanziamento da parte del capitale privato. (V. anche Finanza pubblica; Incentivi economici; Investimenti; Produttività).
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