Produttività
Per produttività si intende normalmente un confronto tra quantità prodotte e quantità di fattori produttivi utilizzati. Spesso il confronto viene effettuato in termini di rapporto tra le due quantità. Ad esempio, la produttività media del lavoro è definita come la produzione per lavoratore o per ora lavorata; quella di altri fattori produttivi come produzione per unità di impiego del fattore considerato.
È chiaro che nella misurazione delle grandezze che servono - produzione e fattori - occorre utilizzare unità di misura soddisfacenti, che non è sempre facile individuare. Sorgono infatti difficoltà perché è necessario risolvere complicati problemi di aggregazione in modo logicamente coerente con l'uso che della misurazione si intende fare.
La misurazione di gran lunga più importante di produttività è quella media del lavoro. Essa può essere calcolata a livello di singola impresa, di singolo settore produttivo o di intera economia. Nell'ultima ipotesi, la produttività del lavoro può essere definita come il valore del prodotto nazionale per occupato o per ora lavorata e misura dunque il frutto del lavoro umano nella media dell'intero sistema economico. Naturalmente, per confrontare i livelli di produttività di un paese a date diverse, bisogna valutare il prodotto nazionale a prezzi costanti, mentre per comparazioni a livello internazionale debbono essere utilizzati opportuni tassi di cambio.
La produttività media del lavoro non dipende soltanto, e neppure principalmente, dall'abilità e dall'impegno dei lavoratori bensì, soprattutto, dagli strumenti di produzione che essi utilizzano: la produttività di un lavoratore agricolo che usa un trattore e un aratro è notevolmente superiore a quella che avrebbe se potesse operare soltanto con una vanga. In altri termini, la produttività media del lavoro non misura il contributo alla produzione fornito dal solo lavoro ma quello fornito dal lavoro assistito da altri fattori. Anche per questi vale un'affermazione analoga: la produttività media della terra (produzione per ettaro) dipende ad esempio dalle quantità di lavoro, di concime, di attrezzature impiegate. È l'insieme dei fattori combinati per l'ottenimento della produzione (ovvero lo stato della tecnologia) a determinare la produttività media di ciascun fattore.Il concetto di produttività media mette in relazione produzione e fattori produttivi rapportandone i rispettivi livelli. Il concetto di produttività marginale ne rapporta invece gli incrementi. Più precisamente, si definisce come produttività marginale del fattore x nella produzione di y il rapporto tra l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di y prodotte e l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di x utilizzate, ferme restando le quantità impiegate di tutti gli altri fattori produttivi. Supponiamo ad esempio di aver indicato con x il lavoro e con y il grano. La produttività marginale del lavoro è data dalla quantità aggiuntiva di grano che un lavoratore in più permette di produrre (Δy/Δx oppure, se si considera un incremento infinitesimo di x, dalla derivata parziale δy/δx).
La produttività marginale misura dunque il contributo alla produzione apportato dall'ultima unità impiegata del fattore produttivo. Per calcolare questo contributo si è ipotizzato di utilizzare un lavoratore in più, lasciando invariate le quantità degli altri fattori. Come però già sappiamo, la produttività di questo lavoratore aggiuntivo dipende, in modo determinante, dalle quantità degli altri fattori con cui si troverà a operare: se prima si impiegavano 10 lavoratori e 10 vanghe, è molto improbabile che la produzione possa aumentare significativamente impiegando un lavoratore in più senza fornirgli una vanga. L'impiego di quantità aggiuntive di un fattore richiede, in ogni caso, qualche mutamento nelle tecniche utilizzate e/o nell'organizzazione produttiva. Il livello della produttività marginale di un fattore è perciò influenzato dalla maggiore o minore facilità di realizzazione degli opportuni mutamenti. È probabilmente tanto più agevole trovare il modo di impiegare proficuamente una unità aggiuntiva di un fattore quanto minore è la quantità che, dello stesso, si utilizza relativamente a quelle degli altri fattori.
L'affermazione finale del capitolo precedente sta alla base dell'ipotesi, spesso chiamata legge, della produttività marginale decrescente. L'ipotesi, cardine della teoria neoclassica della produzione e della distribuzione, afferma che la produttività marginale di ogni fattore diminuisce quando la quantità utilizzata aumenta al di là di un certo limite. Fino a quando il limite non è raggiunto, la produttività marginale può crescere. È ad esempio possibile che un solo lavoratore che debba coltivare un vasto appezzamento di terreno non riesca a organizzare bene la propria attività e abbia quindi una produttività relativamente bassa. Aumentando invece il numero dei lavoratori, è possibile realizzare un'organizzazione produttiva più efficiente, tale da consentire aumenti di produzione più che proporzionali all'aumento dei lavoratori: i lavoratori aggiuntivi hanno cioè una produttività più elevata di quelli precedenti. La fase della produttività marginale crescente è però destinata a finire. Prima o poi, la limitatezza del terreno coltivabile fa sentire i propri effetti. All'inizio ciò non avviene perché i lavoratori sono pochi e non riescono a coltivare adeguatamente tutto il terreno disponibile, che è quindi sovrabbondante. Man mano che aumentano i lavoratori, però, il terreno diviene relativamente sempre più scarso per cui, al di là di un certo limite, la produzione cresce in misura sempre minore per ciascun occupato aggiuntivo. Da quel punto in avanti, la produttività marginale del lavoro presenta quindi un andamento decrescente.
Le stesse considerazioni possono essere ripetute con riferimento a tutti i fattori produttivi le cui produttività marginali incominciano, a un certo punto, a diminuire. L'ipotesi neoclassica afferma quindi l'inevitabilità di rendimenti decrescenti con l'aumento progressivo dell'impiego di ogni fattore produttivo se quello degli altri è mantenuto costante.
È facile comprendere come proprio l'esistenza di questi rendimenti decrescenti limiti l'impiego di ciascun fattore. La convenienza o meno dell'utilizzo di un'unità aggiuntiva di un fattore dipende infatti dal confronto tra il suo costo e il suo rendimento. Nel caso del lavoro, il costo unitario è dato dal tasso di salario w. Il rendimento di una unità aggiuntiva di lavoro è dato dal valore della sua produttività marginale: pπL, con πL che indica la produttività misurata in quantità del bene prodotto e p il suo prezzo. Converrà perciò impiegare un lavoratore aggiuntivo se pπL > w; mentre non risulterà conveniente nel caso contrario. Il limite della convenienza è fissato da pπL=w, ma bisogna notare che il limite opera quando πL si trova già nella sua fase decrescente. Se infatti πL stesse ancora crescendo, sarebbe ovviamente conveniente ampliare l'occupazione. Lo stesso ragionamento può essere ripetuto per ogni altro fattore produttivo che sarà utilizzato fino al punto di uguaglianza tra la sua remunerazione e il valore della sua produttività marginale. Nel caso della terra da destinare alla coltivazione del bene considerato, dovrà perciò essere pπT=τ, con τ che indica la rendita unitaria e πT la produttività marginale fisica della terra.
Dalle condizioni di equilibrio per l'uso del lavoro e della terra si può ottenere:
formula (1)
ovvero la nota condizione di uguaglianza tra le produttività marginali ponderate dei fattori produttivi che garantisce la minimizzazione dei costi di produzione.
La (1) può essere ottenuta anche seguendo un percorso interpretativo diverso e forse più diffuso nella manualistica. Supponiamo di dover ottenere un certo livello di produzione e che, a tal fine, esistano molte (al limite, infinite) tecniche produttive definite dalle quantità di fattori necessarie per ottenere quel dato volume di produzione. La differenza tra due tecniche efficienti deriva dal fatto che se una utilizza una maggior quantità di un fattore, deve necessariamente utilizzare minori quantità di almeno un altro fattore. Se così non fosse, si potrebbe infatti evitare di tenere in considerazione la prima tecnica che non potrebbe comunque comportare un costo inferiore all'altra.
Quanto appena affermato porta dunque a considerare il passaggio da una tecnica a un'altra come la sostituzione di un fattore con un altro. Lasciando ad esempio invariata la produzione, è possibile diminuire di ΔqT la quantità di terra e aumentare di ΔqL quella di lavoro. Il rapporto |ΔqL/ΔqT|, che misura il numero di unità delle quali qL deve aumentare (o diminuire) per compensare una diminuzione (aumento) unitario di qT, è chiamato saggio marginale di sostituzione tra lavoro e terra: SMSLT.
La sostituzione avviene a saggi diversi a seconda dell'impiego relativo dei due fattori. Quando si utilizza tanta terra e poco lavoro, la produttività marginale della prima è relativamente bassa mentre quella del secondo è alta. Un piccolo incremento di lavoro sarà quindi sufficiente a compensare una riduzione unitaria di terra. Quando invece quest'ultima è utilizzata relativamente poco, sarà necessario un consistente aumento del lavoro per compensare una sua ulteriore diminuzione unitaria. Il SMSLT decresce quindi al crescere della terra, e viceversa. L'affermazione può essere provata formalmente dimostrando che SMSLT=πT/πL.
Si consideri infatti l'effetto sulla produzione di un incremento ΔqL del solo lavoro e, separatamente, quello di un decremento |ΔqT| della terra. Nel primo caso la produzione aumenta di pLΔqL, cioè della produttività marginale dei lavoratori aggiuntivi moltiplicata per il loro numero, nel secondo caso diminuisce di πT|ΔqT|. Se, come si assume calcolando SMSLT, la produzione alla fine deve restare invariata, bisogna che l'aumento e la diminuzione siano di pari entità: πLΔqL=πT|ΔqT|. Si ha perciò:
SMSLT = ∣ ΔqL/ΔqTI = πT/πL.
Si considerino ora i costi di produzione, C=wqL+τqT, definiti come somma dei prodotti delle quantità dei fattori utilizzati per i rispettivi prezzi. I costi sono minimizzati quando ΔC=0. Bisogna infatti escludere che variazioni di qL e di qT ammissibili (quelle che permettono di mantenere inalterata la produzione) consentano di avere ΔC⟨0, cioè costi minori. Deve perciò essere
ΔC = wΔqL + τΔqT= 0,
da cui si ottiene:
formula (3)
che, sostituita nella (2), fornisce il risultato già ottenuto con la (1), vale a dire l'uguaglianza tra le produttività marginali ponderate. È questa uguaglianza che determina, per ogni dato livello di produzione, le quantità di ciascun fattore produttivo utilizzato. Se viene a variare il prezzo dei fattori, quello relativamente rincarato risulterà utilizzato di meno e l'altro di più. Se ad esempio w aumentasse e τ rimanesse costante, per ristabilire l'uguaglianza tra le produttività marginali ponderate occorrerebbe utilizzare meno lavoro e più terra, in modo che πL potesse crescere e πT diminuire.
Si arriva quindi alla conclusione, fondamentale per la teoria neoclassica, che le curve di domanda di fattori produttivi sono funzioni decrescenti dei rispettivi prezzi (relativi): la conclusione non fa nient'altro che riproporre, in forma diversa, ciò che è stato postulato, la decrescenza delle produttività marginali.
Occorre inoltre osservare che, come è ovvio, la domanda di fattori dipende dal livello di produzione, finora ipotizzato costante. Se invece, continuando con l'esempio di prima, l'aumento del salario avesse l'effetto di far crescere la domanda del bene considerato, e quindi la sua produzione, l'occupazione potrebbe non diminuire pur in presenza di una minor utilizzazione relativa di lavoro. Questa osservazione non ha molta rilevanza per l'occupazione di un singolo settore, ma a livello macroeconomico un aumento dei salari potrebbe avere, in certe condizioni, effetti positivi sull'occupazione, mentre una diminuzione potrebbe avere effetti negativi.
Si consideri ora il sistema economico in termini aggregati e si indichi con Y il livello della produzione (e del reddito reale). Si assuma che Y possa essere prodotto mediante l'impiego di due soli fattori, capitale K e lavoro L, secondo la funzione aggregata di produzione:
Y = F (K, L). (4)
La (4) descrive le tecniche produttive disponibili, indica cioè quali combinazioni dei due fattori consentano di ottenere diversi livelli di produzione. Seguendo l'impostazione neoclassica, si ipotizza che le produttività marginali di K e di L, indicate rispettivamente con FK e FL, siano decrescenti: FK rappresenta la derivata parziale di F rispetto a K, e FL quella rispetto a L. L'ipotesi di rendimenti decrescenti impone che FK e FL diminuiscano all'aumentare rispettivamente di K e di L.
Si assuma inoltre che la F abbia rendimenti di scala costanti. Ciò significa che, se entrambi i fattori variano nella proporzione μ>0 (ad esempio raddoppiano se μ=2), anche la produzione varia in egual misura (raddoppia). In termini matematici, vale la relazione:
μY = F (μK, μL) (5)
e si deice che F è omogenea di primo grado nei suoi argomenti. Ponendo μ=1/L, si ottiene Y/L=F (K/L, 1), che mostra come il livello della produttività media del lavoro dipenda dal valore di K/L e, come si può verificare, cresca al crescere di tale rapporto, cioè quando si sostituisca capitale a lavoro. Secondo la logica neoclassica, la sostituzione avviene come conseguenza dell'aumento del salario rispetto al tasso di interesse. Si tratta di sostituzione di tipo statico, riguardante cioè la scelta tra tecniche già disponibili che avviene nel tempo logico. Non riguarda invece la sostituzione dinamica di cui parla Sylos Labini (v. 1992, pp. 142-153), che si riferisce alle macchine nuove introdotte, nel tempo cronologico, come risposta delle imprese ad aumenti del salario superiori a quelli dei prezzi delle macchine.
Per funzioni omogenee di primo grado vale un noto teorema di Eulero che permette di scrivere:
Y = FkK + FLL. (6)
Si può ora osservare che nel capitolo precedente è stato dimostrato come, in condizioni di equilibrio (concorrenziale), il valore della produttività marginale di un fattore debba risultare uguale al suo prezzo. Poiché stiamo esaminando un sistema economico aggregato (in cui si immagina di produrre un unico bene), è possibile considerare la produzione come numerario, ponendo il suo prezzo uguale a 1. Le condizioni di equilibrio possono allora essere scritte così:
FK = r, FL = w, (7)
dove con r è stato indicato il prezzo per l'uso del capitale che è dato dal tasso di interesse assumendo, per comodità, che il capitale abbia durata infinita e non debba perciò essere ammortizzato. In equilibrio e in condizioni di certezza il tasso di interesse eguaglia poi quello di profitto.
Sostituendo ora la (7) nella (6), si ottiene la relazione:
Y = rK + wL, (8)
che mostra come tutto (e solo) il reddito prodotto venga distribuito ai fattori: rK al capitale e wL al lavoro.
La teoria neoclassica del capitale appare quindi coerente. Questa conclusione dipende però dall'ipotesi di rendimenti di scala costanti: se infatti fosse stata postulata l'esistenza di rendimenti crescenti (economie di scala), la remunerazione dei fattori alle rispettive produttività marginali non sarebbe stata possibile in quanto avrebbe richiesto un ammontare di reddito superiore a quello prodotto. Al contrario, nel caso di diseconomie di scala, dopo aver remunerato i fattori, sarebbe rimasta una parte di reddito non ancora distribuita che non si sarebbe saputo come distribuire.
L'ipotesi dell'esistenza di una funzione aggregata della produzione (4) è stata criticata sotto il profilo logico da P. Sraffa (v., 1960), da J. Robinson (v., 1954) e da altri. La critica riguarda la possibilità di misurare la quantità di capitale K che entra come argomento nella funzione di produzione.È evidente che non sorgerebbe alcun problema di misurazione se nel sistema economico si producesse un solo bene (grano) utilizzabile indifferentemente come bene di consumo e come capitale: l'unità di misura di Y varrebbe anche per K e sarebbe espressa in quantità fisiche (quintali di grano). In un sistema in cui vengono prodotti più beni, invece, questa semplice soluzione è preclusa. Capitale e produzione hanno infatti composizioni merceologiche diverse. Mentre è possibile misurare la produzione in termini fisici ricorrendo a opportuni numeri indici, lo stesso non vale per il capitale.
Bisogna infatti aggregare mezzi di produzione che risultano diversi a seconda delle tecniche utilizzate. Non sembra esserci altro modo di procedere all'aggregazione di questa varietà cangiante di beni capitali se non in termini di valore. Ma così facendo si va incontro a un'incongruenza logica.Il valore di equilibrio di un bene capitale è infatti dato dal valore attuale dei profitti che il suo uso permetterà di realizzare in futuro. Per procedere all'attualizzazione, occorre però conoscere il tasso di interesse: 105 lire disponibili tra 1 anno valgono infatti come 100 lire disponibili oggi, se il tasso di interesse è del 5%; se il tasso fosse invece del 10%, il valore di 100 lire oggi sarebbe uguale a quello di 110 lire tra 1 anno (o di 121 lire tra 2 anni).
Invece di guardare ai profitti futuri, si può alternativamente valutare il bene capitale sulla base dei costi sostenuti in passato per produrlo. Tali costi devono però essere capitalizzati, cioè aumentati dell'interesse per il periodo intercorso tra il momento nel quale sono stati sostenuti e quello attuale. Anche per questo calcolo è necessario conoscere il tasso di interesse.
La teoria neoclassica della distribuzione prevede però che il tasso di interesse (o di profitto) sia determinato dalla produttività marginale del capitale. Bisogna comunque essere in grado di misurare il capitale per poterne calcolare la produttività e, a tal fine, occorre conoscere preventivamente il tasso di interesse. Segue allora, secondo J. Robinson, la conclusione che la versione aggregata della teoria neoclassica è logicamente viziata dalla circolarità del ragionamento.
Secondo i neoclassici, invece, la critica della Robinson è del tutto fuori bersaglio, essendo priva di significato la discussione di problemi di circolarità in modelli che determinano simultaneamente tutte le variabili. Ciò tuttavia non implica l'assenza di difficoltà logiche provocate per la teoria dalla misurazione del capitale in valore. Sraffa (v., 1960) ha infatti dimostrato come, a successive diminuzioni del tasso di profitto, il valore del capitale non vari necessariamente sempre nella stessa direzione, ma possa alternativamente aumentare o diminuire. Ne deriva che non è possibile attribuire validità generale alla fondamentale affermazione neoclassica secondo la quale si utilizza più capitale e meno lavoro quando si riduce il tasso di interesse e aumenta quello di salario. Una conclusione che ha dovuto riconoscere lo stesso Samuelson (v., 1966) rispondendo alle critiche rivoltegli da Pasinetti (v., 1966), da Garegnani (v., 1966) e da altri.
Secondo Hahn (v., 1982), la teoria neoclassica della distribuzione non richiede affatto l'aggregazione: ogni bene capitale può essere misurato nell'unità fisica che gli è propria senza bisogno di una misurazione in valore del capitale (v. anche Ricossa, 1981 e 1991). La versione aggregata della teoria rappresenta soltanto una semplificazione e deve perciò essere giudicata valutando la dimensione degli errori dei quali può essere incolpata nei casi concreti. Ma né i neoclassici né i loro oppositori si sono particolarmente distinti su questo terreno. L'impostazione aggregata ha così continuato a dominare il campo sia nelle analisi teoriche che in quelle empiriche, pur senza alcuna (nuova) giustificazione della sua validità o del suo realismo.
Come è stato visto, la funzione aggregata della produzione (4) mette in relazione quantità prodotte e quantità di fattori utilizzate. La relazione, che descrive lo stato della tecnologia a una certa data, viene quindi modificata per effetto del progresso tecnico il quale, con il passar del tempo, consente normalmente di ottenere maggiori volumi di produzione a parità di fattori, di realizzare cioè aumenti di produttività. La crescita della produzione viene così a dipendere sia dal maggior utilizzo dei fattori, sia dall'aumentata produttività degli stessi. La misurazione dei rispettivi contributi è l'oggetto delle analisi di contabilità della crescita (growth accounting). La procedura può essere illustrata facendo riferimento alla trattazione di Solow (v., 1956 e 1957), la prima di innumerevoli trattazioni successive.
Si postula innanzitutto una funzione di produzione del tipo:
Y = A(t) F(K, L), (9)
che si differenzia dalla (4) soltanto per il parametro A che rappresenta lo stato della tecnologia come funzione crescente del tempo: si assume cioè che nuove tecniche diventino man mano disponibili e che la loro utilizzazione consenta di ottenere successivi incrementi di produzione, a parità di impiego dei fattori produttivi.
Utilizzando un opportuno procedimento matematico, è possibile misurare separatamente i contributi alla crescita della produzione da attribuire rispettivamente all'evoluzione tecnologica e al maggior impiego di ciascun fattore. Basta infatti differenziare logaritmicamente rispetto al tempo la (9) per ottenere:
formula. (10)
La (10) mostra come il tasso di crescita della produzione dY/Y possa essere scomposto in tre parti: il tasso di crescita di A e i contributi forniti dagli incrementi delle quantità utilizzate di ciascuno dei due fattori. Per capire come questi contributi siano effettivamente misurati dalle espressioni indicate, supponiamo che, nell'intervallo (infinitesimo) di tempo considerato, la quantità di lavoro aumenti di dL e non vi sia invece alcuna variazione nella tecnologia e nella quantità di capitale (cioè che dA=dK=0). Ne deriverà un incremento di produzione pari a dY=FLdL che, espresso in termini relativi, fornisce il risultato indicato nella (10). In modo analogo si ottiene il contributo della crescita della quantità di capitale.
Prescindendo da questi contributi, la produzione cresce per effetto dell'evoluzione tecnologica al tasso dA/A che dai neoclassici è spesso indicato come tasso di crescita della produttività globale dei fattori.Una particolare funzione di produzione, molto utilizzata nelle indagini empiriche, è la Cobb-Douglas:
Y = A(t) KαL1-α. (11)
Essa è a rendimenti di scala costanti (raddoppiando K e L raddoppia infatti Y) e ha la proprietà di determinare quote distributive costanti se i fattori sono remunerati alle rispettive produttività marginali. Ponendo infatti F (K, L)=KαL₁-α, è facile verificare che la quota che va al capitale è data da FKK/Y=α e quella che va al lavoro da FLL/Y=1-α. Sostituendo questi risultati nella (10) e riordinando i termini, si ottiene:
formula (12)
che mostra come il tasso di crescita della produzione sia dato dalla somma del tasso di crescita della produttività globale e di una media ponderata dei tassi di crescita dei due fattori produttivi, essendo le ponderazioni rappresentate dalle rispettive quote distributive.
L'analisi empirica svolta da Solow e da altri ha messo in luce come la crescita media dei fattori produttivi riuscisse a spiegare soltanto una piccola parte (circa 1/8) della crescita della produzione, ma non la parte di gran lunga maggiore, cioè la crescita della produttività globale (dA/A). Essa veniva perciò indicata con il nome di residuo, non rappresentando nient'altro che "una sorta di misura della nostra ignoranza delle cause della crescita economica", come Abramovitz (v., 1956, p. 11) aveva già affermato. Innumerevoli indagini successive si sono poste l'obiettivo di spiegare almeno una parte del residuo di Solow. Se ne indicheranno in seguito i principali risultati, ma è prima opportuno dire qualche cosa sui risultati empirici riguardanti la crescita della produttività media del lavoro che, da un lato, è la maggior responsabile della crescita della produzione e dall'altro, a differenza di quella globale, non richiede la misurazione del capitale e non è quindi soggetta alle critiche di cui si è detto in precedenza. Inoltre, se si accetta l'impostazione neoclassica, è facile vedere come ci sia una stretta relazione tra le crescite della produttività globale e di quella media del lavoro.
Quest'ultima infatti è, per definizione, uguale alla differenza tra i tassi di crescita della produzione e dell'occupazione. Intuitivamente, se ad esempio la produzione è aumentata del 3% e l'occupazione solo dell'1%, la produzione per lavoratore (la produttività media) dev'essere cresciuta del 2%. Indicando con π=Y/L la produttività media del lavoro, si ha dπ/π=dY/Y - dL/L. Nel caso particolare della Cobb-Douglas, ponendo k=K/L, si può allora ottenere:
formula (13)
che indica come la crescita della produttività media del lavoro possa essere scomposta in due parti: quella relativa all'incremento della produttività globale e quella dovuta all'incremento del rapporto K/L. Perciò, parlando della crescita della produttività media del lavoro, si parla implicitamente anche di quella della produttività globale che ne costituisce la componente più rilevante. Infatti, secondo molte stime (v. ad esempio Denison, 1967), il contributo dell'aumento di K/L alla crescita della produttività del lavoro non supera il 25% del valore di quest'ultima.
La ricchezza di un paese è inevitabilmente il risultato della crescita di lungo periodo della produttività media del lavoro. Salari reali e redditi pro capite elevati e crescenti possono infatti essere sostenuti soltanto da un'adeguata produttività. Che sia questo il fattore decisivo per il benessere economico di una collettività, è dimostrato dal fatto che i paesi ricchi hanno avuto per lungo tempo una crescita della produttività elevata, mentre quelli poveri l'hanno avuta bassa o nulla.Occorre molta cautela nell'effettuare confronti di produttività tra paesi notevolmente diversi e a date tra loro molto distanti, ma ciò che ne viene fuori è veramente impressionante. Baumol (v., 1986, p. 1074) ha calcolato che la produttività degli Stati Uniti nel 1870 era "comparabile a quella di Honduras e Filippine nel 1980, e un po' inferiore a quella di Cina, Bolivia ed Egitto". Sempre nel 1870, il paese economicamente più avanzato era ancora l'Inghilterra che, secondo dati di Maddison (v., 1991), aveva una produttività superiore del 4% a quella degli Stati Uniti. Tuttavia tra il 1870 e il 1950 il tasso di crescita della produttività degli Stati Uniti è risultato quasi il doppio di quello del Regno Unito, e pertanto, alla fine del periodo indicato, essi erano ampiamente primi in graduatoria, con una produttività di circa il 75% superiore a quella del Regno Unito.Tra il 1950 e il 1973 si è registrata una notevole accelerazione della crescita della produttività nei paesi sviluppati.
Sempre secondo Maddison (v., 1991, p. 51) il tasso di crescita è passato al 4,5% medio annuo, contro l'1,8% dei precedenti 80 anni. A differenza però di quanto accadeva prima, gli Stati Uniti hanno registrato una crescita sensibilmente inferiore a quella degli altri paesi: 2,5% contro il 7,6 del Giappone, il 5,9 della Germania, il 5,8 dell'Italia, il 5,0 della Francia e il 3,2 del Regno Unito. Nel 1973 il vantaggio degli Stati Uniti sul Regno Unito si era ridotto a circa il 50% e il livello inglese era stato raggiunto anche da Francia, Germania e Italia.
La tendenza dei paesi sviluppati ad avvicinarsi agli Stati Uniti è, negli anni successivi, proseguita (e si è anzi ulteriormente accentuata) in un contesto però di decelerazione generalizzata della crescita della produttività. Tra il 1973 e il 1987 per la media dei paesi sviluppati il tasso di crescita è sceso al 2,3%. Per gli Stati Uniti il valore è risultato pari a solo l'1% contro il 3,5 del Giappone, il 3,2 della Francia, il 2,6 di Germania e Italia, il 2,3 del Regno Unito. Alla fine del periodo il vantaggio degli Stati Uniti in termini di produttività si è perciò ulteriormente ridotto risultando, per la media dei paesi, attorno al 20%.
Dalla definizione di produttività del lavoro come π=Y/L, è facile ricavare dL/L=dY/Y - dπ/π, che mostra come il tasso di crescita dell'occupazione sia pari alla differenza tra i tassi di crescita della produzione (reale) e della produttività. Riprendendo l'esempio della fine del cap. 5, se la produzione è cresciuta del 3% e ciascun lavoratore ha prodotto in media il 2% in più, l'occupazione deve essere aumentata dell'1%. In generale, l'occupazione aumenta se dY/Y>dπ/π e diminuisce nel caso contrario. A maggior crescita della produttività, ferma restando quella della produzione, corrispondono quindi minori aumenti dell'occupazione e/o maggiori aumenti della disoccupazione.
Nell'Inghilterra degli inizi dell'Ottocento i processi produttivi erano soggetti a cambiamenti molto intensi a seguito della massiccia introduzione di macchine che sostituivano il lavoro. La produttività media di coloro che conservavano il posto di lavoro cresceva in misura decisamente superiore alla produzione, ma ciò determinava un aumento molto rilevante della disoccupazione. I lavoratori consideravano perciò le macchine come il nemico che rubava loro i posti di lavoro: nacque così il movimento luddista che proponeva, e praticava, la distruzione delle macchine (N. Ludd aveva infatti distrutto un telaio nel 1779) come difesa contro la disoccupazione. Gli industriali, naturalmente, sostenevano che il comportamento dei luddisti era dettato da ignoranza delle leggi economiche e che l'introduzione delle macchine era destinata, presto o tardi, a rivelarsi benefica per tutti i lavoratori. Ricardo però, smentendo una sua precedente opinione, sostenne che in realtà nulla garantiva che la disoccupazione così creata sarebbe stata riassorbita in tempi ragionevoli (v. Ricardo, 1821).
Sulla possibilità di riassorbimento di questo tipo di disoccupazione, detta tecnologica, si scontrano due grandi tradizioni economiche. La prima, quella di Ricardo, ripresa sia da Marx sia da altre scuole di pensiero, trova oggi molti sostenitori, preoccupati dalla comparsa di evidenti fenomeni di disoccupazione causati dall'introduzione delle nuove tecnologie. La seconda e molto più ottimistica tradizione pervade tutta l'impostazione neoclassica e ha trovato la sua espressione più completa e affascinante nell'opera di Schumpeter. Essa afferma che la disoccupazione tecnologica ha natura temporanea e rappresenta il costo da sostenere per realizzare benefici permanenti ottenibili abbastanza rapidamente. L'aumento della produttività si traduce infatti in incrementi dei salari e degli altri redditi, che provocano una più rapida crescita della domanda di beni e servizi e, per questa via, il riassorbimento della disoccupazione.
L'evoluzione economica effettiva ha visto fasi alterne: a periodi di disoccupazione prolungata sono succedute fasi di rapidi recuperi occupazionali. Per lo più, le innovazioni di processo (ad esempio l'introduzione delle macchine) hanno ridotto i posti di lavoro nei settori tradizionali; quelle di prodotto (ad esempio l'introduzione dell'automobile) li hanno aumentati nei settori nuovi. A seconda della prevalenza dell'uno o dell'altro tipo di innovazioni, l'andamento dell'occupazione è risultato crescente oppure decrescente.Stando all'esperienza passata, l'influenza negativa sull'occupazione dell'aumento della produttività può durare per periodi anche piuttosto lunghi. Tuttavia ciò non vuol dire affatto che, per creare più posti di lavoro, sia opportuno che un paese attui una politica volta a rallentare la crescita della produttività. Non solo si verrebbero in tal modo a perdere i benefici di lungo periodo altrimenti realizzabili, ma si verificherebbero effetti negativi anche nell'immediato, in quanto si perderebbe rapidamente competitività nei confronti dei paesi nei quali la crescita della produttività non fosse rallentata. Conseguentemente, la produzione interna aumenterebbe di meno, o addirittura calerebbe, con conseguenze sull'occupazione presumibilmente ancora più pesanti. L'unica alternativa a un tale esito sarebbe rappresentata da un freno alla crescita dei salari di dimensione tale da compensare la più debole dinamica della produttività: alternativa non piacevole, che per di più potrebbe non essere praticabile sul lungo periodo. Con molta probabilità, infatti, le richieste salariali tenderebbero a crescere più della produttività, e il costo del lavoro aumenterebbe per unità di prodotto, con preoccupanti conseguenze inflazionistiche. Come già detto, non si può avere crescita di lungo periodo delle remunerazioni reali in assenza di adeguati incrementi della produttività.
A proposito della relazione tra occupazione e produttività, va anche ricordata un'altra tendenza storicamente importante. In tutti i paesi sviluppati è risultata notevolmente più rapida la crescita della produzione per ora lavorata rispetto a quella per lavoratore occupato. Si è infatti verificata una forte riduzione delle ore pro capite lavorate annualmente: attorno alla metà degli anni ottanta del nostro secolo, esse risultavano pressoché dimezzate rispetto al 1870 negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale, e pari a circa il 70% in Giappone (v. Maddison, 1991, pp. 270-271). Una parte cospicua dell'aumento della produttività per occupato non si è dunque tradotta in maggiori remunerazioni per i lavoratori, ma in maggior tempo libero (meno ore giornaliere, ferie più lunghe, week ends non lavorativi, ecc.). Questa tendenza di lungo periodo ha rappresentato un sostegno molto importante per i livelli di occupazione che sarebbero altrimenti risultati drammaticamente più bassi.
L'attenzione è stata finora concentrata sulla produttività del lavoro per l'intero sistema trascurando gli aspetti settoriali, cosa particolarmente criticabile quando l'analisi riguarda periodi lunghi. Il processo di sviluppo economico è infatti caratterizzato da cambiamenti strutturali molto rilevanti.Innanzitutto si modifica la composizione settoriale delle produzioni perché, all'aumentare del reddito pro capite, la domanda che si rivolge ai diversi settori non cresce proporzionalmente ma varia a tassi tra loro differenti. Altri cambiamenti strutturali avvengono poi perché la produttività cresce a velocità diverse nei vari settori. Questo fenomeno, combinato con la differente crescita delle produzioni, provoca a sua volta importanti conseguenze sulla distribuzione settoriale dell'occupazione (v. Pasinetti, 1984). Infatti, dalla definizione della produttività del settore i.mo come πi=Yi/Li si può facilmente ottenere dLi/Li=dYi/Yi-dπi/πi, che mostra come il tasso di crescita dell'occupazione in un settore sia dato dalla differenza tra i tassi settoriali di crescita della produzione e della produttività.
Questi effetti strutturali, o di composizione, possono avere notevole importanza dato che le differenze di livello e di crescita delle produttività settoriali sono spesso molto cospicue. Si supponga ad esempio che un rilevante numero di lavoratori, prima impiegati in settori a produttività piuttosto bassa, trovi occupazione in settori a produttività ben superiore alla media: questa aumenterà quindi per un effetto di composizione. Allo stesso modo la crescita della media sarà tanto maggiore quanto più elevata sarà la quota dei lavoratori impiegati nei settori nei quali la produttività cresce più rapidamente.
Per fissare le idee, supponiamo di dividere il sistema in tre settori: 1 agricoltura, 2 industria, 3 servizi. La produttività media del lavoro per l'intero sistema è data dal rapporto tra la somma delle produzioni settoriali Yi e l'occupazione totale. Poiché Yi=πiLi, per definizione, risulta che:
formula, (14)
cioè che la produttività media del sistema è data dalla media delle produttività settoriali ponderata con le rispettive quote di occupazione. Differenziando logaritmicamente la (14) rispetto al tempo e ordinando opportunamente i termini, si ottiene:
formula (15)
avendo posto
formula (16)
formula (17)
La (15) mostra come la crescita della produttività media possa essere scomposta nelle due espressioni entro parentesi quadre. La prima misura l'effetto dei cambiamenti nella struttura della produzione e della crescita a tassi diversi delle produttività settoriali, la seconda quello dei cambiamenti nella struttura dell'occupazione per settori.
Per comprendere le affermazioni appena fatte, si noti innanzitutto che, avendo denotato con αi la quota di produzione del settore i.mo sulla produzione globale, si ha Σiαi=1.
Perciò l'espressione della prima parentesi della (15) è la media ponderata dei tassi di crescita delle produttività settoriali con pesi dati dalla quota di ciascun settore sulla produzione complessiva. Se questi pesi variano nel tempo (se si modifica cioè la struttura produttiva) la crescita della produttività media del sistema varia anche se non mutano le crescite settoriali.
Un po' più complicata è l'interpretazione dell'espressione contenuta nella seconda parentesi. I βi misurano le differenze relative tra il livello delle produttività settoriali e quello medio e hanno dunque natura di scarti dalla media, essendo Σiβi=0. Se ciascun βi fosse uguale allo zero (se non vi fossero cioè differenze tra le produttività settoriali) l'espressione della seconda parentesi quadra si annullerebbe. Lo stesso capiterebbe se l'occupazione dovesse crescere allo stesso tasso in tutti i settori. Nel primo caso non vi sarebbe alcuna conseguenza del passaggio di lavoratori da un'occupazione all'altra; nel secondo il fenomeno potrebbe riguardare solo i singoli lavoratori e non invece il sistema nel suo complesso, che non registrerebbe alcun cambiamento nella distribuzione settoriale dell'occupazione. Questi casi sono però irrealistici: l'espressione entro parentesi assume infatti valori positivi o negativi a seconda del tipo di modificazioni strutturali che avvengono nel sistema.
Nei primi decenni del dopoguerra nei paesi avanzati si è ridotta notevolmente l'occupazione in agricoltura mentre è aumentata quella nell'industria e nei servizi. Il divario di produttività a sfavore dell'agricoltura era piuttosto ampio. In termini formali, risultavano significativamente negativi dL₁/L₁ e β₁, e positivi invece gli altri termini contenuti nella seconda parentesi della (15). L'effetto di composizione esercitava perciò una rilevante influenza positiva sulla crescita della produttività media del sistema. Sulla base dei dati di Maddison (v., 1979) relativi al periodo 1950-1963, si può calcolare che tale effetto abbia contato per circa il 18% della crescita complessiva della produttività in Italia, per il 16% in Francia, per il 15% in Germania. Ha invece contato di meno negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove la caduta dell'occupazione agricola era iniziata prima e le differenze di produttività con altri settori erano meno rilevanti.
Successivamente l'effetto dell'esodo agricolo si è molto attenuato in Italia ed è scomparso del tutto negli altri paesi europei e negli Stati Uniti. Maggior importanza, specialmente negli ultimi tempi, ha invece assunto l'aumento dell'occupazione nei servizi e la riduzione di quella negli altri settori. Limitandoci al caso italiano, si può osservare che il livello della produttività nei servizi risulta (nel 1990) di circa il 7% superiore a quella media. Il vantaggio sta però riducendosi sensibilmente poiché, come si è verificato, la produttività dei servizi cresce in misura molto minore rispetto a quella degli altri settori (v. Fuà, 1993, parte III e appendice 2.2). Sussistono tuttavia gravi dubbi sull'interpretazione dei dati relativi ai servizi la cui misurazione in unità fisiche avviene sulla base di ipotesi, convenzioni ed espedienti spesso arbitrari. Per questa ragione Sylos Labini (v., 1992, p. 15) propone di riservare le misurazioni statistiche alla produzione di beni, lasciando da parte quella di servizi.
In base ai dati sopra riportati, si può notare come la crescita relativa dei servizi comporti effetti di segno opposto sulle due componenti del tasso di crescita racchiuse nelle parentesi della (15). La prima componente tende infatti a ridursi poiché il peso dei servizi, a debole crescita della produttività, aumenta. La seconda ha invece segno positivo, ma il suo valore diminuisce nel tempo se si riduce il divario tra i livelli delle produttività settoriali. Secondo i calcoli di Fuà (v., 1993, p. 156), nel periodo 1964-1975 questa componente ha contato per circa 1/2 punto percentuale sulla crescita complessiva della produttività, di poco superiore al 4%. Nel periodo 1982-1990 ha invece contribuito solo per 1/10 di punto su una crescita pressoché dimezzata, principalmente a causa della forte riduzione dei tassi di crescita delle produttività in tutti i settori, servizi in testa.
Se le tendenze indicate dovessero confermarsi per il futuro, cesserebbe l'effetto positivo della crescita dei servizi, anzi muterebbe di segno, mentre risulterebbe potenziato quello negativo. I cambiamenti strutturali, che in precedenza servivano ad accelerare la crescita della produttività media, verrebbero invece a rallentarla. Nei paesi più avanzati un'evoluzione di questo tipo si è già significativamente manifestata.
Per spiegare la crescita della produttività globale, si è cercato di individuare indicatori capaci di spiegare i miglioramenti qualitativi dei fattori di produzione. Per quanto riguarda il lavoro, particolare menzione merita l'aumento del livello di istruzione della manodopera. Denison (v., 1985) ad esempio ha calcolato che questo aumento ha contato da solo per il 23% della crescita della produttività del lavoro negli Stati Uniti nel periodo 1948-1979. Per i paesi dell'OECD è stato calcolato (v. Englander e Gurney, 1994) che ogni anno supplementare di istruzione determina un incremento di produttività compreso tra il 5 e il 10%. Considerando che, nel periodo 1960-1987, in Italia si è avuto un incremento di scolarità di un po' meno di tre anni, il suo contributo alla crescita annua della produttività dovrebbe essere risultato nell'ordine di 0,7 punti percentuali, pari ad almeno 1/5 della crescita complessiva.
Per quanto riguarda i miglioramenti qualitativi del capitale, si è cercato di tener conto del fatto che il macchinario incorpora la tecnologia prevalente alla data della sua installazione. I beni capitali sono stati quindi distinti per annate al fine di attribuire a quelli più recenti una produttività più elevata (v. Solow, 1960). Le tecniche di misurazione hanno però suscitato molte obiezioni e sono state praticamente abbandonate in tempi recenti a favore di indicatori dell'età media del capitale. A seconda delle procedure di stima utilizzate, il contributo del ringiovanimento del macchinario alla crescita della produttività può apparire trascurabile (v. ad esempio Maddison, 1987) oppure abbastanza rilevante (v. ad esempio Carré e altri, 1972).
Un contributo aggiuntivo alla crescita della produttività può derivare dalla migliore utilizzazione di possibili economie di scala escluse, per ipotesi, nell'impostazione neoclassica. Secondo stime di Denison (v., 1985), questo contributo ha pesato per il 17% della crescita della produttività registrata negli Stati Uniti nel periodo 1948-1979. Maddison (v., 1987) fornisce invece stime molto più basse, soprattutto perché distingue l'effetto delle economie di scala in senso stretto da quello che, a suo parere, dovrebbe essere attribuito all'aumentato peso del commercio con l'estero, che tuttavia ha consentito l'ampliamento dei mercati e quindi una più piena realizzazione delle economie di scala. Per quanto riguarda l'Italia, sembra che questo effetto sia stato tutt'altro che trascurabile: pari a oltre il 22% per il periodo 1950-1962 (v. Denison, 1967).
L'elenco delle cause potrebbe continuare, ma è forse opportuno fermarsi a riflettere sul significato delle analisi di contabilità della crescita. Come è stato detto, la logica che le guida è quella di individuare indicatori in grado di ridurre la porzione non spiegata della crescita. La parte che alla fine rimane inspiegata (il residuo di Solow ridotto), pari a poco meno della metà del totale secondo la maggior parte delle analisi, viene poi attribuita all'effetto detto di rincorsa (catch-up) e al progresso tecnico in senso stretto.
L'effetto di rincorsa riguarda la possibilità che hanno i paesi in ritardo di produttività di adottare le tecnologie e le forme di organizzazione produttiva utilizzate negli Stati Uniti. Per separare questo effetto da quello attribuibile al progresso tecnico, si assume che quest'ultimo sia, per ogni paese, uguale al residuo di Solow ridotto, stimato per gli Stati Uniti che non beneficiano di un effetto di rincorsa. Questa ipotesi, del tutto irrealistica, implica non solo che il progresso tecnico sia un bene pubblico, usufruibile dappertutto alle medesime condizioni, ma anche che i diversi paesi ne usufruiscano nella stessa misura degli Stati Uniti.
L'effetto di rincorsa dovrebbe rappresentare, soprattutto se si accetta l'ipotesi appena espressa, un'importante spiegazione del processo di convergenza tra i livelli di produttività dei paesi avanzati che si è manifestato nel secondo dopoguerra. Le stime empiriche, pur tra loro abbastanza discordanti, non danno però questa impressione. L'effetto di rincorsa è risultato infatti molto più debole di quanto ci si attendesse per molti paesi avanzati, compresi Giappone e Italia: probabilmente, è stato sovrastimato qualche altro effetto e ciò ha determinato la sottostima di quello di rincorsa.
Questa affermazione ha una portata più ampia, in quanto si riferisce alla difficoltà di separare i contributi dei diversi fattori alla crescita della produttività. Esistono infatti strette interdipendenze tra molti dei fattori considerati. Il progresso tecnico dipende dall'accumulazione di capitale per il già ricordato effetto di ringiovanimento, ma, a sua volta, l'accumulazione dipende dalla maggior redditività resa possibile dal progresso tecnico. Allo stesso modo l'istruzione permette alla manodopera di sfruttare più adeguatamente le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie che, a loro volta, influenzano il tipo di istruzione, la sua qualità e le modalità dell'apprendimento.
Alla difficoltà provocata da queste e altre interrelazioni, se ne può aggiungere una ancora più importante. L'intera procedura di stima porta infatti a far considerare il contributo del progresso tecnico alla crescita della produttività come del tutto esogeno, come un beneficio cioè che non deriva da particolari decisioni economiche né da condizioni generali più o meno propizie all'attuazione delle innovazioni e alla loro diffusione. Le decisioni di investire in ricerca e sviluppo maggiori o minori quantità di risorse, per introdurre nuovi beni o processi, o migliorare quelli vecchi, dipendono però da valutazioni di convenienza economica che sono influenzate dalle caratteristiche istituzionali e socioeconomiche dei singoli paesi: ambiente culturale, velocità di adattamento ai cambiamenti strutturali, mobilità sociale, funzionamento delle istituzioni politiche ed economiche, sostegno pubblico alla ricerca e alla diffusione delle nuove tecnologie, esistenza di infrastrutture, ecc. Sotto questi aspetti si riscontrano differenze molto marcate anche tra i diversi paesi avanzati e non solo tra questi e quelli in via di sviluppo.
Le indagini empiriche sulle cause della crescita della produttività nell'intero sistema economico, pur apprezzabili per la mole di dati, non hanno dunque tenuto conto di fattori esplicativi di notevole importanza. Innanzitutto, l'impostazione neoclassica le ha costrette entro binari molto rigidi trascurando gli aspetti socioistituzionali e l'importanza delle imperfezioni di mercato. Inoltre, la formulazione aggregata si è dimostrata inadatta all'analisi del progresso tecnico, non solo a causa delle modificazioni strutturali che esso provoca ma, e forse principalmente, per la difficoltà di valutare i nuovi beni e servizi incessantemente introdotti. Soprattutto, nelle analisi volte a interpretare il processo di convergenza dei livelli di produttività tra i diversi paesi, è stata trascurata la considerazione di tutti quei fattori culturali, socioeconomici e istituzionali che Abramovitz (v., 1986 e 1989) ha indicato con l'espressione "capacità sociale" (social capability) di assorbire le tecnologie avanzate. Una miglior comprensione dell'andamento temporale della produttività sembra richiedere sia modificazioni dell'impostazione e delle procedure di stima, sia un'attenta considerazione degli importanti fattori trascurati.
(V. anche Distribuzione della ricchezza e del reddito; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Lavoro; Macchine; Marginalismo; Prezzi; Produzione; Salari e stipendi; Sviluppo economico; Tecnica e tecnologia).
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