Marginalismo
All'inizio degli anni settanta del secolo scorso uscirono tre libri importanti: The theory of political economy (1871), di William Stanley Jevons, i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre (1871), di Carl Menger, e gli Éléments d'économie politique pure (I tomo nel 1874, II tomo nel 1877), di Léon Walras; tre libri che segnarono l'inizio di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la 'rivoluzione marginalista'. Questi tre libri sono così diversi tra loro che a prima vista potrebbe sembrare azzardato ogni tentativo di accostamento. In realtà essi avevano diverse cose fondamentali in comune, ma ci sarebbe voluto del tempo per accorgersene. I contemporanei non solo non si accorsero di ciò, ma quasi non si accorsero dei tre libri, oppure, come nel caso specifico della Theory, li attaccarono duramente. E sembrò che i loro autori fossero destinati a fare la fine di altri grandi eretici e precursori. In effetti per una decina d'anni ci fu quasi il silenzio completo. I tempi non erano ancora maturi perché il nuovo messaggio teorico e metodologico potesse venire percepito e apprezzato dai più. Poi all'improvviso, negli anni ottanta e nella prima metà dei novanta, esplose la rivoluzione. In Inghilterra A. Marshall, F.Y. Edgeworth, P.H. Wicksteed e A. Pigou, in Austria F. Wieser e E. Böhm-Bawerk, in Italia M. Pantaleoni e V. Pareto, in America J.B. Clark e I. Fisher, in Svezia G. Cassel e K. Wicksell, pubblicarono tutti delle opere fondamentali, nello spirito del nuovo modo di fare scienza economica. E nel giro di una decina d'anni la rivoluzione era fatta. Nel trentennio successivo si lavorò all'affinamento e alla generalizzazione delle teorie. Ma ormai il vecchio sistema classico era morto e sepolto, una nuova ortodossia si era affermata e, anche se perdurò a lungo una certa differenziazione tra scuole nazionali, era diventato chiaro a tutti che in ogni parte del mondo si coltivava un'unica scienza e si parlava un unico linguaggio; il sistema teorico neoclassico si era imposto. Occorrerà attendere Keynes perché il programma di ricerca marginalista riceva un primo serio attacco frontale.
Una caratteristica del nuovo sistema, che venne alla luce sin dall'inizio, è la scomparsa dell'interesse per il fenomeno dello sviluppo economico, il grande tema delle teorie economiche di Smith, Ricardo, Marx e di tutti gli economisti classici. L'attenzione, invece, si concentrò sui problemi dell'allocazione di risorse date. Certo le idee fondamentali dei classici sul problema della crescita continuavano a esercitare la loro influenza. Nella 36 lezione degli Éléments, ad esempio, Walras esponeva una teoria dell'evoluzione economica che si può ancora considerare ricardiana. Lo stesso potrebbe dirsi, per fare un altro esempio, del processo di 'crescita della ricchezza' esposto da Marshall nei suoi Principles. Ma è un fatto che, malgrado la presenza, qua e là, di considerazioni sulla dinamica dei sistemi economici, il pensiero dei fondatori del sistema teorico neoclassico trascurò sostanzialmente il problema della individuazione delle forze che spiegano l'evoluzione nel tempo delle economie industriali. Argomento centrale della ricerca teorica in tale periodo fu lo studio di un sistema in equilibrio statico, cioè di una economia, come poi avrebbe detto Clark, "libera di cercare i livelli finali di equilibrio dettati dai fattori operanti in ogni dato momento del tempo" (v. Clark, 1899, p. 29). Al centro del sistema neoclassico sta il problema dell'allocazione di risorse date fra usi alternativi. Scriveva Jevons nella Theory: "Il problema economico può essere formulato come segue: dato: una certa popolazione con vari bisogni e poteri di produzione, in possesso di certe terre e di altre fonti di materia; da determinare: il modo di impiegare il lavoro meglio atto a rendere massima l'utilità del prodotto" (v. Jevons, 1871, p. 202). Questa formulazione di Jevons diede l'impronta alla ricerca economica di tutta l'epoca.Nell'analisi delle condizioni che assicurano l'ottima allocazione di risorse date fra usi alternativi il pensiero neoclassico individuò un principio di validità universale, in grado, da solo, di abbracciare l'intera realtà economica. "Sul lato analitico - per dirlo con le parole di L. Robbins - l'economia dimostra di essere una serie di deduzioni dal concetto fondamentale di scarsità di tempo e di materiali. [...] Qui, allora, è l'unità dell'oggetto della scienza economica, le forme assunte dal comportamento umano nel disporre di mezzi scarsi" (v. Robbins, 1935², p. 15). La tendenza a estendere il modello di base a tutte le branche dell'indagine economica si rafforzerà nel corso di questo secolo fino a culminare nella tesi di P.A. Samuelson secondo cui ci sarebbe un principio semplice al cuore di ogni problema economico: una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli.
Un'altra caratteristica che accomuna i tre padri fondatori, e che resterà un pilastro del sistema teorico neoclassico, è la loro adesione all'approccio utilitarista, un approccio che annoverava tra i precursori Galiani, Beccaria, Bentham, Say, Senior, Bastiat, Cournot e, soprattutto, Gossen. In realtà il contributo teorico più importante di Jevons, Menger e Walras consisté, più ancora che in una riformulazione completa e coerente della teoria del valore-utilità e dell'ipotesi di utilità marginale decrescente, nel modo in cui essi modificarono le fondamenta utilitaristiche dell'economia politica. Il loro marginalismo accreditò una speciale versione della filosofia utilitaristica, quella per cui il comportamento umano è esclusivamente riducibile al calcolo razionale teso alla massimizzazione dell'utilità. A tale principio venne riconosciuta validità universale: da solo esso avrebbe consentito di comprendere l'intera realtà economica. In ciò soprattutto risiede l'aspetto rivoluzionario delle nuove teorie economiche e non tanto, come taluno ha sostenuto, nella tesi secondo cui i prezzi dei beni sarebbero determinati dall'utilità.
Un terzo elemento distintivo riguarda il metodo. Il metodo neoclassico è basato sul principio delle variazioni delle proporzioni, il cosiddetto 'principio di sostituzione': è un metodo che non ha equivalenti nel pensiero classico. Nell'ambito della teoria del consumo si assume sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nell'ambito della teoria della produzione sostituibilità tra una combinazione di fattori e un'altra. L'analisi è condotta nei termini delle possibilità alternative tra cui i soggetti, siano essi consumatori o produttori, possono scegliere. E l'obiettivo è il medesimo: ricercare le condizioni sotto le quali si arriva a scegliere l'alternativa ottimale. Tale metodo presuppone che le alternative in gioco siano 'aperte' e che le decisioni prese siano reversibili; diversamente il principio di sostituzione non avrebbe ragione d'essere.
Una quarta caratteristica distintiva dell'approccio neoclassico riguarda i soggetti economici. Se essi devono essere soggetti capaci di effettuare scelte razionali in vista della massimizzazione di un obiettivo individuale, quale l'utilità o il profitto, devono essere degli individui, al più degli aggregati sociali 'minimi', ma caratterizzati dall'individualità dell'unità decisionale, come le famiglie o le imprese. Così scompaiono di scena i soggetti collettivi, le classi sociali, i 'corpi politici', che invece i mercantilisti, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi.
Una quinta caratteristica del sistema neoclassico è rappresentata dal definitivo raggiungimento di un obiettivo cui molti classici avevano spesso aspirato, ma che nessuno aveva mai realizzato completamente: l'astoricità delle leggi economiche. Assimilata l'economia alle scienze naturali, e alla fisica in particolare, le leggi economiche vengono ad assumere finalmente quel carattere assoluto e obiettivo che si attribuisce alle leggi di natura. L'eternità stessa del problema economico posto dai neoclassici, il problema della scarsità, fonda la validità universale delle leggi economiche. Ma perché ciò abbia senso è necessario espungere dal dominio di studio dell'economia le relazioni sociali, esorcizzandole come una superstizione a un tempo inutile e non in linea con le nuove acquisizioni della scienza dell'epoca. Con la rivoluzione marginalista nacque quel progetto riduzionista del discorso economico che contraddistingue tutto il pensiero neoclassico successivo, un progetto in forza del quale all'economia non viene riconosciuto altro ambito di studio che quello delle relazioni tecniche (le relazioni tra uomo e natura). Così, mentre il riduzionismo individualista aveva portato all'eliminazione delle classi sociali, il riduzionismo antistoricista portò all'eliminazione delle relazioni sociali; con il che, poi, perse ovviamente di rilevanza anche lo studio del loro cambiamento. Mentre nei classici e in Marx l'apparato analitico è costruito con esplicito riferimento al sistema capitalistico, del quale si vogliono indagare le leggi di movimento, il paradigma neoclassico aspira a una completa astoricità. Naturalmente non è una cosa facile. Persino Walras, ad esempio, dovette servirsi di nozioni quali capitale, interesse, imprenditore, salario, ecc., nozioni che hanno un senso solo se riferite al sistema capitalistico.
Infine un sesto importante elemento distintivo della teoria neoclassica consiste nella sostituzione di una teoria soggettivista del valore a quella oggettivista. Alla base del principio del valore soggettivo sta la tesi secondo cui tutti i valori sono individuali e soggettivi. Individuali significa che vanno intesi sempre come fini di particolari individui. Non esistono cioè valori collettivi esprimibili come fini di gruppi o di classi sociali in quanto tali. D'altro canto i valori sono soggettivi, nel senso che scaturiscono da un processo di scelta: un oggetto ha valore se è desiderato da un soggetto. L'elemento della soggettività indica che un valore è tale perché qualcuno lo sceglie in quanto fine; l'elemento dell'individualità postula invece che deve esserci un particolare soggetto cui imputare quel fine. Viceversa, nell'opposta concezione, quella del valore oggettivo, i valori esistono indipendentemente dalle scelte individuali. L'individuo può accogliere o respingere i valori, ma non rientra nelle sue facoltà fissarne la cogenza. Una conseguenza immediata e importante dell'approccio neoclassico alla questione del valore è che la teoria della distribuzione del reddito diventa un caso particolare della teoria del valore, un problema di determinazione dei prezzi dei servizi dei fattori produttivi piuttosto che di ripartizione del reddito tra classi sociali.
Uno dei problemi più importanti che la rivoluzione marginalista pone agli storici del pensiero è se si sia trattato o meno di una vera rivoluzione. La denominazione con cui attualmente si designa il sistema teorico nato da essa, 'sistema neoclassico', sembra dar ragione a quanti sostengono la tesi della continuità con il precedente sistema teorico, quello 'classico'. Ma si tratta di una denominazione adeguata? Conviene partire proprio da questo problema.L'individuazione di un sistema teorico classico fu opera di Marx, il quale fu molto rigoroso nel definire l'approccio e molto selettivo nell'etichettare gli economisti. Il metro di giudizio era costituito da Ricardo, ma Marx risalì indietro fino a Petty e Boisguillebert per ritrovare le origini del sistema classico. In base a quel metro, gli antiricardiani inglesi non erano da considerare classici, mentre Malthus e Say avrebbero dovuto essere presi cum grano salis; e perfino a Smith veniva imputata qualche 'nozione volgare'. La definizione di sistema teorico neoclassico invece nacque con riferimento all'opera di Marshall, dalla quale poi si estese ad abbracciare tutta la teoria ortodossa moderna; ed è una definizione indipendente da quella marxiana di economia classica. Marshall ci teneva a sottolineare la continuità di una tradizione che lo collegava a Mill e a Smith senza escludere Ricardo; e si sforzava di ignorare l'esistenza di una eterogeneità sostanziale dell'economia ricardiana rispetto a quella tradizionale. Invece il carattere antiricardiano della rivoluzione marginalista era chiarissimo a Jevons e non c'è dubbio che, se il sistema teorico originato da quella rivoluzione fosse stato battezzato con riferimento all'opera di Jevons, si sarebbe chiamato 'anticlassico' piuttosto che 'neoclassico'.
Ora, se avesse avuto ragione Marshall nel rifiutare ogni elemento di rottura tra i due sistemi teorici, avrebbero anche ragione quegli storici moderni che negano l'esistenza di una rivoluzione marginalista. L'idea di questi storici è che sul continente il marginalismo si riallacciava senza rotture epistemologiche sostanziali a delle tradizioni 'classiche', come quella che univa Say a Bastiat, senza escludere Dupuit e Cournot, in Francia, o quella che univa Lotz e Soden alla German Manchester School, senza escludere von Thunen e Gossen, in Germania, o infine quella che univa Galiani a Ferrara, in Italia. L'Inghilterra invece sarebbe stata un caso particolare: a causa della sua insularità culturale, in questa nazione si sarebbe sviluppata una particolare versione dell'approccio classico, nella veste del ricardismo, che in qualche modo avrebbe giustificato le pretese di Jevons di aver avviato una rivoluzione. Ma poi, a cose fatte, avrebbe avuto ragione Marshall a rifiutare l'idea del salto qualitativo. Paradossalmente in questa interpretazione Marshall è presentato come uno che fece uscire l'Inghilterra dall'insularità.
Ma le cose non stanno proprio così. Bisogna tenere presente che i veri precursori del marginalismo non furono del tutto integrati nelle tradizioni classiche dei loro paesi, e anzi furono condannati alla marginalità dagli ambienti in cui si coltivavano le teorie ortodosse. E ciò è vero tanto per l'Inghilterra quanto per il continente (con l'eccezione dell'Italia), come dimostra il fatto che non solo Jevons identificava il nemico nella dannosa influenza dell'autorità di Smith, Ricardo, i due Mill, Fawcett, ecc., ma anche Walras si scagliava con violenza contro Smith, Ricardo e Stuart Mill, e quando mostrava un po' d'apprezzamento per Say si affrettava ad avanzare qualche distinguo (di segno opposto a quelli di Marx). E tanto Jevons quanto Walras erano consapevoli, quando tributavano riconoscimenti a Senior e a Gossen, di avere a che fare con degli eretici.In realtà nelle teorie economiche ortodosse premarginaliste, da Smith e Say a Mill e ai teorici delle armonie economiche, il pensiero economico classico si era evoluto conservando intatto il dualismo teorico smithiano. La metodologia degli aggregati restava ancorata a una spiegazione della produzione e della distribuzione basata sulle classi sociali e a una teoria del valore basata sul costo di produzione. La metodologia microeconomica invece restava ancorata a una teoria dell'equilibrio concorrenziale basata sulla razionalità, in senso utilitarista, delle scelte individuali. I due approcci continuarono a crescere insieme per quasi un secolo dopo Smith restando più o meno malamente intrecciati e intralciandosi a vicenda. Ricardo aveva fatto la sua rivoluzione, cercando di liberare il primo dal secondo. Ebbene i marginalisti fecero l'opposto. In questo consiste la loro rivoluzione: essi liberarono la microeconomia, intesa come teoria delle scelte individuali razionali, dalla macroeconomia classica. Non fu una rivoluzione solo contro Ricardo, ma contro tutto ciò che negli altri classici era presente in maniera confusa e che Ricardo aveva cercato di portare alla luce. In altri termini la tradizione 'classica', rispetto alla quale il sistema teorico neoclassico si poneva come continuazione, era costituita fondamentalmente da quella componente utilitaristica, in parte già presente in Smith e poi ripresa dalla reazione antiricardiana e soprattutto da Mill, che Marx invece, sulla scorta delle critiche ricardiane a Smith aveva definito 'volgare', cioè non classica. È contro i classici di Marx che i marginalisti fecero una rivoluzione, non contro quelli di Mill.Tanto diverso è il sistema teorico neoclassico da quello classico (nell'accezione marxiana) che la rivoluzione portò addirittura a modificare la stessa denominazione della scienza economica, la quale, a partire dal 1879, almeno nel mondo anglosassone, cominciò a chiamarsi economics invece che political economy. Il nuovo termine era stato già usato sporadicamente nel quarantennio precedente, ma nel 1877 e nel 1878 comparve addirittura nei titoli di un libro di J.M. Sturtevant e di uno di H.D. MacLeod. Dopo di che Marshall e Jevons lo proposero esplicitamente come sostituto più serio e scientifico del vecchio 'economia politica'.
Jevons ne parlò nella seconda edizione (1879) di The theory of political economy, e motivò la proposta di sostituire political economy con economics con ragioni di carattere, per così dire, economico: una parola sola è più comoda di due. Ma poi si lasciò sfuggire affermazioni che rivelavano una sorta di complesso di inferiorità, o di spirito di emulazione, verso la mathematics. D'altra parte ci tenne a chiarire che ciò cui aspirava era dare una denominazione nuova a "una scienza, che circa un secolo fa era nota agli economisti francesi come science économique" (p. 18).Marshall su questo punto aveva le idee più chiare. In The economics of industry, scritto in collaborazione con la moglie Mary, avanzò la proposta motivandola nel seguente modo: "Un tempo si usava chiamare la nazione 'il corpo politico'. Finché questa locuzione fu di uso comune [...] il termine 'economia politica' serviva abbastanza bene a indicare la nostra scienza. Ma oggi per 'interessi politici' si intende generalmente gli interessi di una sola parte o solo di alcune parti della nazione; per cui sembra preferibile abbandonare il termine 'economia politica' e parlare semplicemente di scienza economica o, più brevemente, di economica" (v. Marshall e Marshall, 1879, p. 12).
Ci sono qui, in realtà, due motivazioni diverse: una esplicita, ed è quella di evitare di confondere la scienza con gli interessi di parte, e una implicita, ma più profonda, che sarebbe emersa con chiarezza solo più tardi, man mano che il sistema neoclassico si fosse differenziato da quello classico, ed è quella di evitare di riferire la scienza ai 'corpi politici'. Questa seconda motivazione si risolve nel rifiuto di riconoscere quale oggetto d'indagine dell'economia il comportamento di agenti economici collettivi.Si ricordi che l'assunzione di tale oggetto era proprio ciò di cui si erano serviti i mercantilisti per fondare la loro scienza: non più economia domestica, ma economia politica; non più amministrazione della famiglia, ma dello Stato; non più studio delle cause dell'arricchimento degli individui, ma della nazione, del popolo, della classe dei mercanti. Ebbene, è significativo che, rifiutando il carattere 'politico' dell'economia, i neoclassici abbiano riproposto una concezione della scienza che aveva di nuovo a che fare con l'economia domestica. Infatti alla fine si scoprirà che ciò che questa scienza studia è proprio quella che Steuart chiamava "l'arte di provvedere con prudenza e frugalità a tutti i bisogni di una famiglia" (v. Steuart, 1767; ed. rid., p. 9), cioè l'opposto dell'economia politica. Oggi, invece che 'arte' si chiama 'scienza', ma tratta pur sempre di massimizzazione del benessere della famiglia, o dei profitti dell'impresa, cioè in definitiva di agenti economici individuali.
Un altro problema che la rivoluzione marginalista pone agli studiosi del pensiero economico è quello delle ragioni per cui essa si è verificata proprio in quel momento storico. Perché non ai tempi di Senior, Longfield, Dupuit, Cournot, von Thunen? E perché Jevons, Menger e Walras non rimasero dei geniali eretici ai margini dell'accademia, come sembrava stesse verificandosi nel decennio successivo alla pubblicazione delle loro opere? Perché ci fu, negli anni ottanta, una seconda generazione di marginalisti a dare a quell'eresia la forza di un'ondata rivoluzionaria? Il modo corretto di impostare il problema della collocazione storica della rivoluzione marginalista ci sembra essere questo: non si tratta di trovare le ragioni per cui nei primi anni settanta uscirono le fondamentali opere dei tre grandi economisti neoclassici, bensì di capire perché, nel giro di pochi anni, il messaggio contenuto in quelle opere fu accolto come il Nuovo Testamento dalla maggior parte degli economisti che contavano. Nella ricerca di spiegazioni plausibili si possono individuare, semplificando al massimo, due ordini di ragioni: ragioni 'interne' e ragioni 'esterne'.
Le prime hanno a che fare con l'incapacità dell'ortodossia classica di risolvere una serie di problemi teorici. Le teorie del valore-lavoro avevano cominciato a fare acqua sin dall'inizio e il tentativo dei ricardiani di uscire dalle difficoltà con una teoria del costo di produzione aveva peggiorato la situazione, inducendo John Stuart Mill ad aprire delle crepe in cui non ebbero difficoltà a infiltrarsi le critiche corrosive dei marginalisti.
Ma qui più che le critiche poterono le generalizzazioni. Ad esempio Jevons sostenne che i casi di produzione congiunta, che per Mill erano delle eccezioni alla teoria del valore basata sul costo di produzione, costituivano in realtà il caso generale. Marshall invece aveva cercato di generalizzare il caso delle merci la cui produzione non potrebbe essere aumentata senza aumento dei costi. Quanto alla teoria del valore-lavoro, era rimasto solo Marx ormai a farsene difensore. Era, quella di Marx, una versione piuttosto indebolita, ma non tanto da impedire alcune bordate critiche da parte dei neoclassici, come vedremo più avanti. E le deboli difese innalzate dai marxisti (ad esempio da Hilferding) servirono solo a screditare definitivamente la teoria, facendole perdere ogni decoro scientifico.Inoltre i classici non erano riusciti a produrre una teoria soddisfacente della distribuzione del reddito. E non è cosa da poco, visto che la teoria della distribuzione costituisce il nocciolo della teoria economica classica. Le difficoltà principali riguardavano la teoria dei salari, su cui poggiava tutto l'edificio. Una volta scartata la tesi che i salari restano ancorati al livello di sussistenza in virtù del meccanismo malthusiano della popolazione, tutta la teoria cade. Proprio questa era una delle tesi critiche di Jevons. D'altra parte la strada presa dai ricardiani per uscire da queste difficoltà, cioè la teoria del fondo-salari, era ancora più debole e indifendibile della teoria di Ricardo. Furono ancora Jevons e Walras a mettere il dito sulla piaga, mostrando il carattere tautologico (nel migliore dei casi) e l'inconsistenza logica (nel peggiore, caso che era poi quello delle interpretazioni più diffuse) della teoria del fondo-salari.Ma tutto ciò non basterebbe a spiegare il successo della rivoluzione marginalista e la sua rapida conquista dell'egemonia. Le ragioni 'esterne' sono forse altrettanto importanti di quelle 'interne'. Ormai già da tempo la teoria ricardiana veniva utilizzata con finalità critiche da economisti socialisti. In particolare la teoria del sovrappiù era stata posta alla base di una teoria dello sfruttamento capitalistico. Sappiamo che già negli anni trenta alcuni economisti della 'reazione antiricardiana' erano stati mossi, nel criticare il ricardismo, proprio dall'intento di contrastare le teorie socialiste. Le cose non erano cambiate quarant'anni dopo. Jevons non ebbe difficoltà a ricollegarsi proprio alla tradizione antiricardiana inglese. Ma Walras fu ancora più esplicito quando, a proposito della teoria dell'interesse, fece notare che "è un obiettivo sul quale i socialisti hanno fatto cadere frequentemente i loro attacchi e ai quali gli economisti non hanno sinora risposto in maniera completamente convincente" (v. Walras, 1874-1877; tr. it., p. 422): era ciò che intendeva fare lui.
Dagli anni settanta in poi il socialismo teorico tese rapidamente a identificarsi col marxismo e ad avanzare senza più esitazioni delle pretese di scientificità. Ed è proprio contro tali pretese che si scagliarono alcuni marginalisti della seconda e della terza generazione. Qui ci limiteremo a citare il poderoso attacco 'jevoniano' che Wicksteed portò alla teoria marxiana del valore in Das Kapital: a criticism (in "To-Day", 1884) e quello, ancora più duro, tentato da Böhm-Bawerk in Kapital und Kapitalzins (1884-1889) e in Zum Abschluss des Marxschen System (1896). Ma nel 1893 Pareto già guardava alla cosa con più 'distacco', convinto che "la critica del libro di Carlo Marx non ha più bisogno di essere fatta", essendo implicita ormai "nei perfezionamenti portati dall'economia politica alla teoria del valore" (v. Pareto, 1934, p. 141).Perché le critiche al socialismo, e al marxismo in particolare, non sapessero troppo di ideologia, era necessario rivolgerle ai suoi fondamenti scientifici. Ma questi erano gli stessi della teoria economica classica. Occorreva allora 'reinventare' la scienza economica, ricostruirla su fondamenta che consentissero di espungere dal suo corpo gli stessi concetti di 'classe sociale', 'forza lavoro', 'capitalismo', 'sfruttamento', 'sovrappiù', ecc. La teoria dell'utilità marginale fornì la soluzione cercata. Per di più sembrava che essa consentisse di dimostrare che nell'economia concorrenziale si realizza un tipo di organizzazione sociale prossimo all'ideale: un tipo di organizzazione nel quale le regole del mercato consentono di raggiungere una situazione di ottimo; in tale situazione si otterrebbe contemporaneamente l'armonia degli interessi e la massimizzazione degli obiettivi individuali.
D'altro canto fu la ripresa del conflitto sociale in forme endemiche e acute che rese particolarmente ricettivi gli ambienti accademici e i circoli politico-culturali nei confronti della nuova teoria. La I Internazionale dei lavoratori, nata a Londra nel 1864, tenne i suoi più importanti congressi in varie capitali europee tra il 1866 e il 1872, per sciogliersi col congresso di Filadelfia nel 1876. Ma già nel 1889 veniva fondata a Parigi una ben più agguerrita (e più fortemente influenzata dal marxismo) II Internazionale. Questi processi di aggregazione delle organizzazioni rivoluzionarie si verificarono in un periodo di poderosa ripresa delle lotte operaie in tutti i paesi capitalistici avanzati. Tutto il periodo che va dal 1868 fin verso la metà degli anni settanta fu un'epoca di conflittualità acuta, come se la rabbia repressa nel precedente ventennio di pace sociale fosse esplosa tutta insieme. La Comune di Parigi fu solo la punta di un iceberg, di un movimento ben più esteso e duraturo. E le violente repressioni con cui si soffocò questa esplosione internazionale di conflittualità (nel 1872-1873 in Francia, nel 1873-1874 in Gran Bretagna e in Germania, nel 1877 negli Stati Uniti e in Italia) ebbero effetti solo temporanei. La conflittualità riprese a manifestarsi in forme più o meno acute nel corso degli anni ottanta fin verso la metà del decennio successivo.
Non c'è dubbio quindi che Jevons, Menger e Walras, presentando una teoria capace di stornare completamente l'attenzione da problemi spiacevoli, lanciarono sul mercato delle idee proprio la teoria che veniva domandata. Negli anni ottanta e novanta, poi, quella domanda fu così forte che nessun economista marginalista dovette più temere di restare ai margini della cultura e dell'accademia. Un particolare curioso, ma eloquente, merita di essere segnalato qui. L'Entwicklung der Gesetze des menschlichen Verkehrs, pubblicato nel 1854, che anticipava buona parte dei risultati della rivoluzione marginalista, era stato un completo fallimento editoriale. Gossen morì nel 1858 senza gloria. Ma un trentennio dopo un perspicace editore di Berlino ristampò il libro con una breve prefazione e una nuova data: 1889. Fu un successo strepitoso. Un altro particolare curioso, che ci dice molto, se non altro sullo stato d'animo con cui i marginalisti si accingevano a costruire una scienza libera da valori, è fornito da una lettera che Auguste Walras indirizzò al figlio Léon il 6 febbraio 1859, nella quale si legge: "Una cosa che trovo perfettamente soddisfacente nel piano del tuo lavoro è la tua intenzione - che approvo sotto ogni punto di vista - di tenerti nei limiti più inoffensivi rispetto ai signori proprietari. Bisogna dedicarsi all'economia politica come ci si dedicherebbe all'acustica o alla meccanica" (v. Leroy, 1923, p. 289).
Vale la pena di osservare, infine, che il marginalismo, mentre si pose in alternativa all'approccio classico sul piano della teoria economica, ne conservò tuttavia la filosofia di fondo, almeno su una questione essenziale. Jevons, Menger, Walras e la stragrande maggioranza dei marginalisti delle generazioni successive furono accesi sostenitori delle ragioni del liberismo economico. Certo, mentre il liberismo dei classici era centrato sul problema dell'accumulazione, quello dei neoclassici era più orientato verso il problema dell'efficienza allocativa. Ma anche i tempi erano cambiati. I paesi capitalistici più avanzati avevano ormai risolto il problema del decollo industriale, cosicché le esigenze dell'accumulazione non si presentavano più nei termini in cui si erano presentate a Smith. D'altra parte gli anni settanta e ottanta furono marcati dalla 'grande depressione', una specie di prima grande dimostrazione dell'incapacità del capitalismo di avere ragione dell'anarchia del mercato.
La storia del marginalismo è in larga parte la storia della scienza economica nel suo ultimo secolo, tanto che si potrebbe pensare che la disciplina, entrata negli anni 1870 nella galassia marginalista, vi permanga come nel suo alveo naturale. Non sono pochi, infatti, gli economisti contemporanei che ritengono che, se anche non si può escludere una uscita dal marginalismo, questo non sia comunque un evento plausibile e quindi che interrogarsi sul suo significato e sulle sue prospettive sia superfluo e in ogni caso intempestivo.Eppure gli sviluppi più recenti della ricerca in campo economico vanno ponendo inquietanti interrogativi circa la rilevanza scientifica del modo marginalista di intendere e di interpretare i processi reali dell'economia. Anziché dedicarmi, in quel che segue, a considerare i singoli pezzi dell'edificio marginalista contemporaneo in cui tale disagio è principalmente avvertito - dall'approccio neowalrasiano alla teoria dell'equilibrio generale di K. Arrow e G. Debreu, al monetarismo di M. Friedman; dalla nuova macroeconomia classica di R. Lucas al neoistituzionalismo di R. Coase e O. Williamson; dalla teoria endogena della crescita di D. Romer e R. Lucas alla teoria dell'informazione di J. Stiglitz e O. Hart -, mi soffermerò a indicare quelle questioni aperte e quei nodi concettuali che rappresentano altrettante sfide teoriche al marginalismo.È un fatto degno della massima attenzione che, nel corso dell'ultimo ventennio, siano andate aumentando tra gli stessi economisti del mainstream le prese di distanza dalla cosiddetta 'finzione di Walras', dall'idea cioè che compito primario ed esclusivo dell'economia sia lo studio del rapporto fra uomo e natura, ovvero tra uomo e cose. Come si legge negli Éléments: "assumendo l'equilibrio possiamo anche spingerci ad astrarre dall'imprenditore e considerare semplicemente i servizi produttivi come se fossero scambiati direttamente fra loro" (v. Walras, 1874-1877; tr. it., p. 71). Non ci sono dunque problemi né di organizzazione né di informazione di cui l'economista debba preoccuparsi: nella posizione di equilibrio tutte le complicazioni che discendono dai rapporti tra uomo e uomo scompaiono; addirittura nell'equilibrio l'uomo in quanto tale si spoglia delle sue determinazioni storico-sociali.
Pareto estenderà poi la 'finzione di Walras' fino a ricomprendervi anche l'analisi del comportamento del consumatore. È rimasta celebre l'affermazione di Pareto secondo cui non c'è alcun bisogno di sapere chi è il consumatore; tutto quanto si richiede, ai fini della teoria, è la conoscenza della sola mappa di indifferenza e ovviamente del vincolo di bilancio.Ebbene, ritengo si possa a ragion veduta affermare che siamo entrati, oggi, nell'epoca post-walrasiana, un'epoca in cui si è ormai imposto un programma di ricerca che vede al suo centro lo studio delle relazioni tra uomo e uomo, con tutte le loro determinazioni, prima fra tutte quella istituzionale. Come si è arrivati a ciò? Una prima spinta verso questa nuova consapevolezza è rappresentata dalla presa d'atto che in una moderna economia di mercato i contratti sono tipicamente incompleti. Questo significa che la loro esecutorietà comporta l'attivazione di strategie di enforcement endogeno. La conseguenza di maggior rilievo di tale implicazione, ai fini del presente discorso, è che essa pone in luce la valenza politica dell'incompletezza contrattuale in quanto tale, come risulta chiaramente dalle considerazioni seguenti.In primo luogo il fatto che gli agenti economici siano coinvolti in interazioni strategiche fa sì che le posizioni di potere detenute dai soggetti conferiscano vantaggi agli stessi. (Si rammenti che nella concettualizzazione walrasiana dell'equilibrio economico generale la nozione di potere non ha alcuna salienza e ciò per l'ovvia ragione che in tale sistema teorico i contratti sono tutti, per ipotesi, completi). Per afferrare il senso preciso di tale constatazione si pensi a quanto avviene nei mercati del lavoro e del credito, mercati nei quali i contratti sono massimamente incompleti: la parte più abile nel processo di negoziazione finisce con l'acquisire un potere che le consentirà di ottenere vantaggi sull'altra parte.
Secondariamente l'ammissione dell'endogenità dell'enforcement implica che la teoria economica non può occuparsi solo del problema allocativo, ma anche di quello concernente il progetto delle istituzioni economiche in grado di assicurare un enforcement efficiente. A sua volta questo significa che il mercato non è semplicemente un meccanismo allocativo, ma anche un meccanismo di regolazione del potere. Ad esempio il mercato del lavoro non serve solo ad allocare in modo efficiente una data offerta di lavoro, ma anche a realizzare un certo sistema di relazioni industriali piuttosto che un altro. E così via (v. Bowles e Gintis, 1993).Da ultimo, in presenza di enforcement endogeno dei contratti, l'ipotesi fondamentale della teoria marginalista, secondo cui le preferenze degli agenti sono date esogenamente, non è più sostenibile. E ciò per l'ovvia ragione che, alla luce delle osservazioni precedenti, non è concepibile che le funzioni di preferenza dei soggetti possano rimanere immutate nel corso di un processo di interazione strategica.Una seconda forte spinta all'abbandono della finzione di Walras è derivata dai numerosi sviluppi recenti delle teorie delle decisioni e dell'utilità. Si tratta, in breve, di questo. Il termine 'utilità' può essere riferito o all'esperienza effettiva del risultato di una scelta operata da un individuo, oppure alla preferenza (o desiderio) per quel risultato. Come è noto, Bentham definisce l'utilità di un oggetto in termini edonistici come capacità di quell'oggetto di procurare effettivamente piacere; l'ordinalismo paretiano fissa invece l'attenzione sulla preferenza o desiderabilità per un oggetto, con il che l'utilità diventa un costrutto teoretico inferito dalle scelte osservate.Ora, è chiaro che le due nozioni di utilità finirebbero con l'avere la medesima estensione se fosse lecito ipotizzare che, in generale, gli individui vogliono o preferiscono ciò che alla fine essi otterranno o sperimenteranno effettivamente. Ma è ormai acquisito che questa ipotesi non può essere in alcun modo accolta e dunque che ci si deve servire di (almeno) due nozioni di utilità: l'utilità sperimentata (experienced utility) di un risultato e l'utilità decisionale (decision utility) di un risultato (v. Kahneman, 1993). Ebbene, il punto che merita attenzione è che una distinzione del genere apre nuove vie allo studio della razionalità.
Per afferrare il punto conviene porre mente al fatto che il criterio in base al quale si distingue, nel discorso comune, tra comportamento razionale e comportamento non razionale è di tipo sostantivo: ci si chiede, infatti, se le credenze del soggetto siano o meno supportate dall'evidenza e le decisioni prese assecondino o meno i suoi interessi. Al contrario la concezione di razionalità adottata dal marginalismo è di tipo logico: credenze e preferenze del soggetto sono razionali se esse obbediscono a un certo insieme di regole formali (transitività, completezza, principio della cosa sicura, indipendenza delle alternative irrilevanti, e così via). Questo significa che il contenuto delle credenze e delle preferenze non fa parte del discorso scientifico sulla razionalità: ciò che interessa è solamente la coerenza interna. Una posizione, questa, che Sen (v., 1993) contesta con forza quando sostiene che la razionalità non può non avere a che fare anche con le relazioni cogenti tra obiettivi perseguiti e scelte operate dal soggetto, da una parte, e tra scelte operate e conseguenze che ne derivano, dall'altra.Ora, la distinzione tra utilità sperimentata e utilità decisionale obbliga proprio ad affiancare al criterio logico-formale un qualche criterio sostantivo. Quest'ultimo resta esterno al sistema preferenziale del soggetto, in quanto presuppone un modo di valutazione dei risultati delle scelte come questi si materializzano e non tanto come essi vengono valutati dal soggetto al momento in cui la decisione viene presa. La questione centrale per il calcolo razionale diventa allora quella di accertare se le scelte di un individuo massimizzano o meno l'utilità (attesa) delle conseguenze derivanti da quelle scelte come queste saranno in realtà sperimentate dall'individuo. Previsione accurata delle preferenze future e valutazione esatta delle esperienze passate emergono quindi come elementi critici della capacità di un soggetto di essere razionale in senso sostantivo. Secondo tale prospettiva sono proprio le dimostrate incapacità da parte degli agenti economici di prevedere le esperienze future e di imparare dal passato a costituire le nuove sfide all'assunto di razionalità.
È agevole cogliere le implicazioni 'politiche' di questo vasto programma di ricerca. Quanto sanno gli individui dei loro gusti futuri? È possibile che un osservatore esterno (o un'autorità di governo) possa fare predizioni più accurate di quanto possano fare i singoli individui? Sono in grado gli agenti economici di tenere in adeguata considerazione l'incertezza delle loro preferenze future quando prendono decisioni? In caso negativo, quali istituzioni economiche possono essere concepite per diminuire tale incertezza? Come si comprende, interrogativi del genere minacciano seriamente la salienza economica del celebre principio della sovranità del consumatore, vera pietra angolare della costruzione marginalista (v. Zamagni, 1987).
Infine, un terzo insieme di circostanze che vale a farci comprendere le difficoltà del programma di ricerca marginalista è legato agli sviluppi dell'approccio path dependence. Con tale espressione ci si riferisce a processi economici il cui esito finale dipende dalla storia del processo o, meglio, dal percorso seguito dal processo nel tempo storico. La nozione di 'dipendenza dal percorso' è stata variamente impiegata in economia per spiegare fenomeni quali l'evoluzione di particolari tecnologie (v. David, 1988; v. Arthur, 1989), la distribuzione dei patterns degli scambi internazionali (v. Krugman, 1991), l'emergere di equilibri multipli in modelli aggregati (v. Durlauf, 1991), e così via. Qui preme porre in risalto la rilevanza dell'approccio path dependence ai fini di un discorso critico sul marginalismo.
Tale rilevanza è legata al fatto che i sistemi economici, a differenza di quelli fisici, sono tipicamente sistemi caratterizzati dall'esistenza di feedbacks positivi, cioè di agenti volitivi le cui azioni riflettono intenzioni basate su aspettative. Questo significa che l'agente economico non è semplicemente un meccanismo in grado di rispondere a degli impulsi: tra stimolo ricevuto e reazione espressa si interpone quell'ampia area che include giudizi di valore, intenzioni, aspettative, e così via.Discendono da ciò alcune importanti conseguenze. La prima è che, poiché le situazioni transeunti lasciano un'influenza persistente - i cosiddetti fenomeni di isteresi -, la sequenza temporale e le condizioni iniziali non possono essere ignorate, né trattate alla stregua di semplici espedienti retorici. Non può essere preso sul serio un modello del mutamento economico che non specifichi quello che accade anche lontano dalla posizione di equilibrio. La caratterizzazione delle reazioni degli agenti a cambiamenti imprevisti dell'ambiente non può dunque essere considerata un'operazione marginale. In secondo luogo, in non poche situazioni gli agenti possono influenzare il corso della storia nel lungo periodo. Invero, in presenza di feedbacks positivi, le personalità degli agenti autodiretti e le propensioni ideologiche dei policy makers finiscono con l'esercitare un'influenza talvolta decisiva sugli esiti finali. Ciò implica, fra l'altro, che occorre prestare grande attenzione alla eterogeneità delle credenze e al grado in cui gli agenti sono autodiretti anziché eterodiretti nel manifestare le proprie preferenze. Nei sistemi con feedbacks positivi sono gli agenti autodiretti a esercitare un'influenza decisiva sul movimento complessivo del sistema, come già Schumpeter aveva convincentemente indicato.
In terzo luogo l'analisi dei processi stocastici non ergodici, dotati della proprietà di convergere a uno dei tanti attrattori stabili, mostra che shocks comparativamente lievi che si verificano all'inizio del percorso dinamico possono effettivamente 'selezionare' l'esito finale. D'altro canto quando, per una ragione o per l'altra, il sistema si va a collocare in un qualche bacino di attrazione, esso acquista un'inerzia tale che per 'ridirezionare' il suo movimento occorre intervenire con azioni economicamente costose. Nel concreto ciò significa che un intervento pubblico è molto spesso più una questione di timing ottimale che non di livello ottimale di intervento. Questo significa che interventi pubblici quantitativamente modesti in termini di risorse impiegate, ma realizzati nel momento opportuno, sono in grado di determinare risultati di gran lunga superiori a quelli di interventi ad alto contenuto di spesa ma effettuati in tempi sbagliati. Sotto il profilo teorico risultati del genere indicano che la tradizionale economia del benessere, centrata com'è sulla considerazione del solo livello degli interventi, necessita, quantomeno, di una revisione profonda.Per chiudere, il senso ultimo del dibattito corrente sul significato e la portata del marginalismo può essere colto riflettendo sui seguenti interrogativi. L'oggetto di studio dell'economia è assimilabile a una macchina, a un meccanismo che si limita alla stabilizzazione di una certa struttura, entro ben determinati confini e sulla base di precise regolarità e leggi, o piuttosto a un organismo vivente, il cui funzionamento è compatibile con l'adozione di scelte creative, anzi le presuppone? Oppure, altra possibilità, l'oggetto di studio dell'economia va riportato a un qualcosa di intermedio tra questi due estremi, con caratteristiche da individuare e precisare? E che ruolo ha, per i sistemi sociali e le organizzazioni che agiscono nel loro ambito, lo scambio con l'ambiente? Di che natura è, e come avviene, tale scambio?
Inoltre nelle sue analisi l'economia deve prestare attenzione soprattutto (o magari esclusivamente) ai meccanismi omeostatici, che assicurano stabilità ai sistemi, o è suo specifico compito interessarsi anche del cambiamento e analizzare se e come introdurre nell'organizzazione dei sistemi medesimi variazioni in grado di incrementarne la funzionalità e l'efficienza? Hanno cioè ragione coloro che sostengono che il vero problema del sistema economico è la stabilizzazione delle sue strutture, o si tratta invece di favorire in qualche modo e di indurre il cambiamento, soprattutto quando questo appare necessario per far sì che il sistema acquisisca prestazioni migliori attraverso le quali conservare meglio la sua stabilità? Infine gli shocks esterni (tanto più numerosi quanto più ampia è l'apertura del sistema verso l'esterno) e gli shocks interni (tanto più intensi quanto più vivace è il conflitto sociale) vanno considerati puri elementi di disturbo da attenuare e reprimere oppure devono essere visti come elementi che esercitano una funzione di stimolo per lo sviluppo del sistema economico?Come si comprende, si tratta di interrogativi affascinanti e formidabili a un tempo, per affrontare i quali pare necessario un radicale cambiamento della rotta marginalista, anche se non è tuttora chiaro quale debba essere la direzione in cui bisogna muoversi.
(V. anche Bisogni; Consumi; Economia; Prezzi; Produttività; Produzione; Utilità; Valore, teorie del).
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