CONSUMI
Economia
di Stefano Zamagni
Definendo il consumo come l'atto economico mediante il quale i beni vengono distrutti per soddisfare bisogni oppure per produrre nuovi beni, si ha una prima distinzione importante tra il consumo realizzato nella sfera personale, il cosiddetto consumo finale, e il consumo intermedio che si realizza nella sfera della produzione, cioè l'impiego di beni o servizi per produrre altri beni o servizi. Qui ci si occuperà soltanto della prima accezione, cioè del consumo come attività di fruizione di beni o servizi da parte di un soggetto economico.
La teoria economica si è occupata del consumo da un punto di vista prevalentemente funzionale, soffermando l'attenzione su funzioni che si possono far rientrare in tre categorie generali: 1) il consumo come mantenimento della capacità produttiva umana; 2) il consumo come componente della domanda di merci; 3) il consumo come attività volta al conseguimento degli obiettivi di un agente economico.
La concezione del consumo come condizione della conservazione della capacità produttiva umana, e dunque come costo di riproduzione della forza lavoro, ha grande rilievo nell'economia politica classica e in Karl Marx. I concetti di sussistenza e di salario naturale trovano infatti la loro ragion d'essere in questa concezione, che genera automaticamente anche la distinzione fra consumo necessario - quello di cui è evidente la funzione produttiva - e consumo superfluo (o di lusso), che non ha funzioni produttive. Tale distinzione non deriva dall'applicazione di categorie morali, ma è un risultato dell'analisi della struttura sociale che, fin dal Settecento, individuava le principali classi sociali servendosi della linea di divisione tra classe produttiva e classe oziosa. Il consumo necessario è allora il consumo effettuato dai membri della classe produttiva, mentre il consumo superfluo è quello dei componenti della classe oziosa.
La posizione teorica che mira a spiegare il livello del consumo globale, le sue determinanti e il suo ruolo come componente della spesa aggregata in rapporto all'occupazione e alla produzione di ricchezza è soprattutto legata al nome di John Maynard Keynes, anche se essa ha una lunga storia che risale ai mercantilisti del XVII secolo e percorre il pensiero fisiocratico e il dibattito sul sottoconsumo della prima metà dell'Ottocento.
Infine, la nozione del consumo come espressione delle libere scelte di mercato di individui il cui obiettivo è il soddisfacimento, al più alto grado, di bisogni o preferenze è tipica del pensiero neoclassico, per il quale la teoria del consumo si riduce senz'altro alla teoria del comportamento del consumatore. Vedremo più avanti che la scuola neoclassica ha sviluppato, a partire dalla rivoluzione marginalista, tre diversi approcci alla teoria del consumatore.
Il consumo, momento marginale e residuale del comportamento nei sistemi che precedono la nascita della moderna economia di scambio, diviene in quest'ultima uno dei momenti di maggior rilievo. Non è quindi casuale che l'inizio di una riflessione sistematica sul problema del consumo coincida proprio con la nascita della scuola di pensiero classica. Con le parole di Adam Smith: "Il consumo è il solo fine di ogni produzione, e non ci si dovrebbe mai prendere cura dell'interesse del produttore se non in quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del consumatore" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 301). E Ricardo, in modo ancora più marcato: "Nessuno produce se non allo scopo di consumare o di vendere, e non vende mai se non con l'intenzione di comprare qualche altra merce che possa essergli immediatamente utile o che possa contribuire alla produzione futura" (v. Ricardo, 1817; tr. it., p. 290).
Una prima osservazione si rende a questo punto necessaria. Da queste due citazioni parrebbe doversi dedurre che nel sistema classico il consumo è lo scopo del processo economico. Eppure nell'economia classica manca, per quanto ciò possa apparire paradossale, una vera e propria teoria del consumatore. Per risolvere il paradosso, vediamo di capire in quale accezione gli autori classici impiegano il concetto di consumo.
Come sappiamo, uno dei pilastri dell'edificio teorico classico è la distinzione, introdotta da Smith, tra consumo produttivo e consumo improduttivo. Il primo è quello necessario alla sopravvivenza di coloro (i lavoratori produttivi) che assicurano la riproducibilità del processo economico; il secondo è il consumo di coloro che non concorrono alla formazione del sovrappiù (siano essi lavoratori che consumano più di quanto strettamente richiesto dalla sussistenza oppure capitalisti e rentiers). La distinzione tra consumo produttivo e non produttivo segue dunque, in parallelo, l'analoga distinzione tra lavoro produttivo - quello che si scambia direttamente col capitale e crea quindi un profitto per il capitalista che lo impiega - e lavoro improduttivo - quello che si scambia direttamente con un reddito, e genera semplicemente la soddisfazione di un bisogno del consumatore.
Il consumo viene quindi qualificato in rapporto alla produzione, così che questa e non quello è la categoria fondamentale, il riferimento obbligato per l'analisi. E, infatti, il criterio con cui viene in realtà giudicata l'attività economica non è la massimizzazione dei consumi, e dunque del grado di soddisfacimento dei bisogni che ne sono la causa, ma la massimizzazione di quanto resta del prodotto sociale, una volta dedotta la quota necessaria alla produzione: il sovrappiù, appunto. Ciò equivale a dire che il consumo è solo un momento intermedio, seppure necessario, del processo mediante il quale il sistema persegue il suo proprio fine, che è la formazione e l'estensione del sovrappiù. È quindi rispetto a tale fine che si giudica la positività o negatività dell'attività di consumo. Ecco perché al consumatore, come agente che sceglie fra beni diversi disponibili sul mercato, non viene assegnato alcun ruolo né nella teoria del valore, né in quella della distribuzione del reddito, né, più in generale, nella spiegazione della dinamica del sistema.Il ruolo subordinato del consumo rispetto alla produzione - quantunque non sia mai esplicitamente affermato dagli economisti classici - risulta evidente dalla scarsa attenzione che gli autori classici e Marx dedicano, nei loro scritti, ai problemi riguardanti il lato della domanda e, primo fra tutti, la sua stessa definizione. Non solo il termine 'domanda' significa cose diverse per autori diversi, ma addirittura abbiamo esempi in cui uno stesso autore impiega nel corso di una medesima analisi la nozione di domanda con significati assai diversi.
Come spiegare l'apparente contraddizione tra la dichiarazione esplicita del consumo come fine dell'attività economica e la mancanza, nel pensiero classico, di un qualche serio tentativo di sistemazione teorica del problema del consumatore? Quali assunti o quali circostanze consentono ai classici di prescindere dalla domanda nella costruzione del loro edificio teorico?
Per rispondere è necessario tener presente che una caratteristica saliente della metodologia classica è quella di adottare un principio di separazione in forza del quale la determinazione del prodotto - il cui livello è regolato dalla domanda effettiva e la cui composizione dipende da fattori di natura socioeconomica - precede logicamente la determinazione dei prezzi relativi. Questi ultimi risultano fissati una volta note una delle variabili distributive e la struttura del prodotto. Le condizioni della domanda non concorrono minimamente alla determinazione dei prezzi naturali, i quali risultano funzionalmente indipendenti dal sistema delle quantità prodotte. Dove la domanda viene chiamata in causa è nella determinazione del livello e della composizione del prodotto. Senonché il tipo di società e le condizioni storiche che i classici si trovano a osservare sono tali da legittimare una sottovalutazione, per così dire, del ruolo della domanda rispetto a tale uso teorico.
Non è difficile rendersene conto. Relativamente alla domanda di investimento, la teoria classica, con la notevole eccezione di Malthus, fa propria la versione iniziale della legge di Say, secondo cui la figura del capitalista racchiude in sé le funzioni sia del risparmiatore che dell'investitore: in questo modo essa non ha più alcun bisogno di affrontare problemi di adeguamento tra risparmio e investimento. D'altra parte, per quanto concerne l'altro segmento della domanda, quello relativo ai beni di consumo, la realtà che i classici osservano è quella tipica di una società multicentrata. I beni finali sono classificati in categorie distinte - merci salario, merci di lusso, beni strumentali - gerarchizzate in base al ruolo specifico che esse ricoprono nel mantenimento di ben definiti rapporti sociali. In un quadro del genere, eccezion fatta per la sezione opulenta della società, la gran massa degli individui è titolare di un reddito a livello di sussistenza, storicamente determinato. È allora comprensibile che anche in riferimento a questo segmento della domanda non abbia molto senso parlare di una composizione del prodotto che muta in seguito alle libere scelte dei consumatori sul mercato: la forza che le preferenze dei singoli possono esercitare sulla composizione del prodotto non può che apparire modesta agli occhi degli autori classici. Inoltre i modelli di spesa delle masse che i classici osservano restano sostanzialmente inalterati nel tempo. Come non scelgono il tipo di lavoro, così i lavoratori che i classici, e Ricardo in particolare, si trovano di fronte non scelgono né i beni con cui soddisfare i loro bisogni né i bisogni stessi da soddisfare. Ciò aiuta a comprendere perché nell'economia classica non vi sia posto per alcuna ipotesi di razionalità del consumatore. Fino a Mill, nessuno dei classici è sfiorato dall'idea che la domanda di un bene possa dipendere dai prezzi di tutti i beni, come la considerazione del semplice vincolo di bilancio lascia chiaramente intendere.
Due sono gli aspetti sotto i quali si può considerare il consumo come determinante della domanda globale. Il primo è quello del consumo visto nella sua funzione di sostegno dei livelli complessivi di attività e prosperità del sistema economico. Come si è anticipato nel cap. 1, questo aspetto ha una lunga storia e, dopo un periodo di relativa latenza durante la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, è tornato in evidenza soprattutto per opera di John Maynard Keynes. Il secondo aspetto è quello del consumo considerato all'interno della problematica riguardante le conseguenze del passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo monooligopolistico, ed è l'aspetto studiato, in epoca recente, soprattutto da Paul Baran e Paul Sweezy.
L'interesse preminente di Keynes per la spesa monetaria aggregata come determinante dei livelli di attività e di occupazione lo porta a considerare non problematica la composizione del prodotto e dunque irrilevante l'analisi dei fattori da cui essa dipende. Poiché tutte le decisioni riguardanti la domanda vengono racchiuse nell'unica decisione riguardante la spesa monetaria, il problema principale che deve affrontare una teoria della domanda effettiva è la determinazione del vincolo sulla domanda. La scuola neoclassica aveva posto il reddito come vincolo, ma ciò non poteva certo soddisfare le esigenze di chi - come Keynes - si prefiggeva di spiegare i livelli del prodotto. La soluzione accolta da Keynes consiste nel sostituire la teoria tradizionale della domanda basata sull'utilità e sul principio di sostituzione con quello che Marshall aveva chiamato il "punto di offerta", cioè l'insieme delle decisioni di offerta dei produttori.
Il disinteresse di Keynes per il problema della composizione del prodotto è dunque la conseguenza diretta della separazione netta che egli istituisce tra le determinanti della spesa monetaria aggregata e quelle delle funzioni microeconomiche di domanda delle merci. Tale separazione, su cui poggia il principio della domanda effettiva, trova la sua ragion d'essere nella scoperta della legge di decrescenza della propensione al consumo, scoperta che autorizza Keynes a relegare in posizione di secondo piano la componente consumi della domanda aggregata e a porre al centro dell'analisi la componente investimenti. A questo punto non deve essere difficile comprendere - e non lo fu certo per Keynes - come le armi dell'analisi tradizionale della domanda si spuntino contro l'esigenza di spiegare il livello dell'investimento. La moneta e i vari mezzi finanziari sono le effettive variabili esplicative della domanda di investimento, e sono dunque queste le determinanti ultime dei livelli del prodotto e dell'occupazione.
Keynes non parla in modo specifico delle decisioni di consumo individuali. Si limita a enunciare una "legge psicologica fondamentale" ricavata "a priori dalla nostra conoscenza della natura umana" e da "minuti fatti dell'esperienza quotidiana", secondo cui "come regola generale e in media" gli individui aumentano il proprio consumo all'aumentare del proprio reddito, ma in misura minore dell'aumento di questo. Anzi, di regola, gli incrementi di reddito provocano incrementi percentuali di consumo via via inferiori, cosicché il consumo viene a crescere meno che proporzionalmente rispetto al reddito.Chiamando propensione media al consumo il rapporto tra il livello del consumo e il livello del reddito e propensione marginale al consumo il rapporto tra l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che l'ha provocato, dalle affermazioni precedenti deriva che la propensione marginale al consumo è inferiore a quella media.La più semplice funzione algebrica che abbia le caratteristiche indicate è data da una retta di equazione
Ci = ai + ciYi, ai>0 e 0<ci<1, (1)
dove Ci è il consumo e Yi è il reddito dell'individuo i-mo e ai e ci sono parametri, il primo dei quali rappresenta l'intercetta della retta sull'asse verticale e il secondo la pendenza della retta rispetto all'asse orizzontale. In base alle definizioni precedenti, si ha che ci, che rappresenta la propensione marginale al consumo, è inferiore alla propensione media. La fig. 1 può servire a illustrare le proprietà della (1). Nel tratto in cui il reddito è compreso tra 0 e Ȳi l'individuo consuma più del proprio reddito, e cioè attinge al proprio patrimonio, si indebita o vive di sussidi. A livelli di reddito superiori i suoi consumi aumentano, ma aumenta anche il risparmio dato dalla differenza tra reddito e consumo. Nel generico punto P, la propensione media è misurata dal rapporto P=Yi/0=Yi, cioè dall'ampiezza dell'angolo α. La propensione marginale è invece misurata da Ci/ΔYi, cioè dall'ampiezza dell'angolo β. Come si vede immediatamente, α>β.
Se sono note le funzioni individuali del consumo, per passare da queste a una funzione che leghi il consumo globale di una collettività al suo reddito globale è necessario fare delle assunzioni piuttosto restrittive riguardanti la distribuzione del reddito tra i diversi individui. È evidente, infatti, che l'effetto sul consumo aggregato sarà diverso se il reddito è variamente distribuito tra individui con differenti propensioni al consumo. Nel caso più semplice, ma anche meno realistico, in cui la distribuzione del reddito non muti al mutare dello stesso, cioè nell'ipotesi in cui il reddito individuale sia sempre una certa percentuale del reddito nazionale, si dimostra facilmente che la funzione del consumo globale è ottenibile come somma delle funzioni del consumo individuali supposte dello stesso tipo (per esempio lineari):
C = a + cY (2)
dove
(n è il numero dei consumatori e γi la quota costante del reddito dell'individuo i-mo sul reddito globale, cioè Yi =γiY). Quindi, nel caso particolarissimo di una distribuzione del reddito invariata, è possibile ricavare per la collettività una funzione del consumo univoca rispetto al reddito. Non così però in generale, quando siano previsti mutamenti significativi nella distribuzione.
L'affermazione che la propensione marginale al consumo è sempre inferiore alla propensione media implica che quest'ultima diminuisca al crescere del reddito, come si evince dalla fig. 1. Senonché, parecchie indagini empiriche, e in particolare il monumentale lavoro di Simon Kuznetz, degli anni quaranta e cinquanta hanno dimostrato che, se si esaminano le serie temporali di redditi e consumi di un sistema economico, si osserva che la propensione media al consumo tende a rimanere costante nel tempo anche se, nel periodo considerato, il reddito è aumentato di molto. È chiaro che risultati del genere contraddicono l'ipotesi su cui è basata la funzione keynesiana del consumo, il che ha spinto non pochi studiosi a elaborare teorie del consumo basate su assunti meno generici della "legge psicologica fondamentale" di Keynes. In particolare, si è cercato di dare ragione dei risultati contraddittori da una parte facendo esplicito riferimento a fattori soggettivi determinati dall'educazione, dalle convenzioni sociali, dal contesto istituzionale e così via - fattori esplicitamente considerati come dati da Keynes ai fini della determinazione della propensione marginale al consumo ("la forza di tutti questi motivi varierà enormemente secondo le istituzioni e le organizzazioni della società presa in considerazione [...]. Per quel che riguarda questo libro [...] prenderemo come dato il retroterra dei motivi soggettivi per risparmiare e consumare rispettivamente": v. Keynes, 1936; tr. it., pp. 109-110) -, dall'altra facendo riferimento al ruolo svolto dalla ricchezza nelle decisioni di consumo individuali, sulla base del modello fisheriano di ottimizzazione intertemporale.
Le teorie del primo tipo vengono usualmente indicate come teorie del reddito relativo, quelle del secondo tipo come "nuove teorie del consumo", con un'espressione introdotta da M.J. Farrell (v., 1959).
Alla base delle teorie del reddito relativo, la più celebre delle quali è quella di J.S. Duesenberry (v., 1949), sta l'idea secondo cui le scelte di consumo individuali sarebbero influenzate dalle scelte fatte dagli altri (il cosiddetto effetto del 'mantenersi al passo con il vicino'). Ne consegue che coloro che fruiscono di un più basso livello di reddito avrebbero una più alta propensione media al consumo rispetto ai soggetti che beneficiano di un livello di reddito più elevato. Poiché l'effetto ricordato agisce sulla propensione media al consumo delle classi a più basso livello di reddito, non v'è alcun motivo per aspettarsi che, nel lungo periodo, un incremento del reddito comporti un aumento del consumo aggregato.
D'altro canto, sul consumo aggregato agirebbe, nel breve periodo, un'ulteriore determinante, il cosiddetto 'effetto aggancio' (ratchet effect), in virtù del quale l'individuo, date le abitudini di consumo contratte nei periodi precedenti, anche in presenza di diminuzioni cicliche nel livello del reddito tenderebbe a mantenere il consumo sui livelli dei periodi precedenti: quanto a dire che la propensione marginale al consumo durante tali fluttuazioni tenderebbe a oscillare. Da quanto precede si ricava che nel caso in cui la serie dei dati osservati fosse molto lunga, la propensione media al consumo tenderebbe a risultare stabile in forza dell'effetto di emulazione, mentre risulterebbe oscillante, in forza dell''effetto aggancio', qualora si considerassero periodi brevi.In termini geometrici i fattori illustrati tendono a spostare verso l'alto la funzione del consumo, il che rende possibile conciliare i risultati delle indagini sui bilanci familiari con quelli che si ricavano dai dati forniti dalle serie storiche. Si consideri, infatti, la fig. 2. Le rette indicate con Ct, Ct+1, Ct+2 rappresentano le funzioni di consumo empiricamente stimate mediante indagini su bilanci familiari effettuate alle date t, t+1, t+2. Ciascuna di tali funzioni rispetta le ipotesi keynesiane. Per comodità esse sono state tracciate parallele tra loro, il che implica che la propensione marginale al consumo rimanga costante nel tempo. Si indichino ora con Yt, Yt+1, Yt+2 e con C(t), C(t+1), C(t+2) i redditi e i consumi delle famiglie rappresentative, alle rispettive date, quali essi appaiono dalle serie storiche relative all'intero sistema. È possibile che, come è indicato nella fig. 2, i punti così individuati (cioè C0, C1, C2) giacciano tutti lungo una retta uscente dall'origine. In tal caso la stima basata sulle serie storiche non può che portare a individuare come funzione del consumo la C(Y) che ha per equazione C = cY (0<c<1), dove il coefficiente c misura sia la propensione media sia quella marginale (infatti formula).
In definitiva, si può avere una propensione media al consumo che non decresce col passare del tempo e all'aumentare del reddito, pur avendosi, in ogni singolo momento o periodo, una propensione marginale inferiore a quella media (il che lascerebbe presumere una riduzione di quest'ultima al crescere del reddito). Dunque una funzione come la (2) si presta meglio alla descrizione degli andamenti di breve periodo, mentre una del tipo C = cY è più adatta alle analisi di lungo periodo.
Gli elementi chiave nelle teorie del reddito relativo sono dunque le ipotesi di emulazione e di persistenza negli standard di consumo degli individui, e ciò implica che i soggetti economici, all'atto di prendere le proprie decisioni, abbiano un orizzonte temporale limitato al solo periodo corrente.Al contrario, le nuove teorie del consumo si caratterizzano per l'ipotesi di un orizzonte temporale lungo, e quindi per l'assunto che un reddito futuro scontato abbia, nelle scelte effettuate dal soggetto, la stessa importanza di un flusso equivalente di reddito corrente. In altri termini, ciò che queste teorie (la teoria del ciclo vitale del consumo - di Franco Modigliani, Robert Brumberg e Anthony Ando - e la teoria del reddito permanente - di Milton Friedman) hanno in comune è l'interpretazione del consumo come risultato della scelta, da parte dei soggetti, di piani intertemporali di consumo e risparmio - entro un orizzonte temporale tanto lungo da coincidere con la vita attesa - vincolati dalla ricchezza disponibile e dal reddito atteso. Vediamo invece le differenze specifiche.Secondo la teoria del ciclo vitale gli individui programmano le proprie decisioni di consumo in modo da garantirsi un livello di consumo soddisfacente, cioè non troppo variabile, lungo tutto l'arco della propria vita. Sulla base di ipotesi adeguate, Modigliani giunge alle seguenti conclusioni: a) le persone anziane tendono ad avere una propensione al consumo più elevata di quella dei consumatori in età lavorativa; b) il consumo dipende non solo dal reddito corrente ma anche dalla ricchezza; perciò, se con il passar del tempo e come effetto della crescita economica la ricchezza degli individui e del sistema aumenta, ci si deve aspettare uno spostamento verso l'alto della funzione del consumo, che ostacolerà l'altrimenti inevitabile caduta della propensione media; c) se con l'andar del tempo si registra un innalzamento dell'età media della popolazione, senza un corrispondente aumento dell'età di pensionamento, nel sistema aumenterà la quota della popolazione che consuma le risorse finanziarie accumulate in precedenza e diminuirà quella di coloro che risparmiano e accumulano risorse. Si avrà cioè, a livello di sistema, un aumento della propensione al consumo e una diminuzione di quella al risparmio. Pertanto i sistemi economici soggetti a un rapido invecchiamento della popolazione rischiano di veder aumentare nel tempo la propensione al consumo pur in presenza di aumenti, anche rilevanti, del reddito.
La teoria del reddito permanente di Friedman parte da un'ipotesi empirica simile a quella di Modigliani, e cioè che i consumatori preferiscono un profilo temporale del consumo stabile piuttosto che uno molto variabile in relazione alla variabilità del reddito. Inoltre anche Friedman accetta l'impostazione secondo cui il consumo dipende, quasi esclusivamente, dal reddito, ma si chiede di quale reddito si tratti. Non certo di quello corrente, perché questo può avere una notevole variabilità nel tempo. La tesi di Friedman è che l'individuo decida il proprio consumo tenendo conto del reddito di lungo periodo o reddito permanente, che egli stima calcolando una media ponderata dei redditi passati e attribuendo maggior peso ai redditi più recenti e pesi via via minori a quelli più lontani.
Questa procedura di stima fa sì che il reddito permanente risulti meno disturbato dei redditi passati da fluttuazioni di carattere accidentale, così che l'andamento temporale del consumo dovrebbe risultare più uniforme di quello del reddito corrente. La maggior instabilità verrebbe invece a riflettersi sull'andamento del risparmio corrente: una conclusione che vale anche per la teoria del ciclo vitale, in quanto le fluttuazioni accidentali del reddito corrente verrebbero a compensarsi nel lungo periodo.
Le nuove teorie del consumo, oltre a far dipendere il consumo da fattori strutturali come la composizione demografica della popolazione e il tasso di crescita della ricchezza, si distaccano da Keynes soprattutto perché ipotizzano che la scelta dei piani di consumo sia influenzata in modo determinante dal tasso di interesse e dai prezzi dei beni, fattori cui Keynes assegnava invece un ruolo secondario. La base di queste teorie sta nella teoria microeconomica del comportamento del consumatore in situazioni di mercato date, di cui diremo più avanti. In questo senso entrambe le reinterpretazioni della funzione del consumo di Keynes possono essere definite neo-fisheriane piuttosto che keynesiane, dal momento che il loro vero principio ispiratore è tratto da Irving Fisher.
Un'altra posizione critica nei confronti di Keynes, sostenuta da autori come Joseph Steindl (v., 1952), Paul Baran e Paul Sweezy (v. Baran e Sweezy, 1966), è quella che in qualche modo si rifà alle tesi sottoconsumistiche, ispirandosi a Karl Marx e a Michał Kalecki. In un passo del Capitale Marx scrive: "La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive a un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluta della società" (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, p. 569). Non pochi commentatori hanno interpretato il brano come un'adesione da parte di Marx alle tesi sottoconsumistiche. In realtà Marx respinge la teoria sottoconsumistica di tipo ingenuo, secondo cui le masse sfruttate non possono comperare ciò che un apparato produttivo, che si deve espandere continuamente, produce senza sosta. Marx considera ingenua la posizione di Rodbertus e di Proudhon secondo cui in periodi di prosperità la quota dei salari sul reddito nazionale diminuisce determinando una caduta del potere d'acquisto dei lavoratori e perciò una crisi di sottoconsumo. In effetti, Marx accoglie ed elabora la tesi della sovrapproduzione secondo cui la crisi si verificherebbe non perché si siano prodotte relativamente troppo poche merci destinate al consumo (degli operai o dei capitalisti), ma al contrario perché se ne sono prodotte troppe, rispetto non al consumo, ma all'esigenza di mantenere la giusta proporzione tra consumo e valorizzazione del capitale. Dunque, l'intero processo di accumulazione si risolve in sovrapproduzione, la quale pone, a sua volta, le premesse per l'insorgere delle crisi. Pertanto la ripresa, in epoca recente, della tesi sottoconsumistica ad opera di Baran e Sweezy si può far risalire a Marx solo in parte e in senso molto lato. In effetti, l'analisi dei due autori si pone come un tentativo di aggiornamento del quadro concettuale in cui si muoveva Marx, un quadro che non poteva certo tener conto delle conseguenze derivate dal prevalere di forme di capitalismo monopolistico. Se il consumo è sistematicamente incapace di utilizzare tutta la capacità produttiva creata con l'accumulazione del capitale, la radice del problema va ricercata - secondo Baran e Sweezy - nel modo in cui il capitalismo contemporaneo risolve i problemi legati alla produzione e distribuzione del reddito.
L'idea fondamentale è che sia il grado di concentrazione mono-oligopolistica dell'industria a determinare la distribuzione fra profitti e salari. D'altra parte, è un fatto che la propensione al consumo dei percettori di salari è più alta di quella dei percettori di profitti. E ciò per due ragioni distinte. In primo luogo i lavoratori hanno in media un reddito più basso di quello dei percettori di altre forme di reddito e perciò, come indicano gli studi sui bilanci familiari, hanno una propensione al consumo più elevata. In secondo luogo i profitti non affluiscono direttamente e nella loro totalità alle famiglie. La quota dei profitti non distribuiti viene integralmente risparmiata (e investita) dalle imprese determinando, indirettamente, soltanto un debole aumento della propensione al consumo delle famiglie proprietarie di azioni che vedrebbero aumentare il valore del proprio patrimonio. Si ha pertanto che una variazione nella distribuzione del reddito a favore dei lavoratori provoca un aumento della propensione media al consumo della collettività; e viceversa quando la distribuzione varia contro i salariati e a favore dei percettori di altri redditi.
Come si comprende, la critica implicita a Keynes è di aver trascurato il collegamento strutturale fra sottoconsumo e distribuzione del reddito, quale si realizza per il tramite dell'organizzazione dell'industria. È la crescita del 'capitale monopolistico' a far sì che la quota del sovrappiù tenda ad aumentare in misura maggiore dell'aumento della produzione totale, senza che al tempo stesso entri in funzione un adeguato meccanismo per il suo assorbimento.
La spiegazione che Baran e Sweezy offrono della tendenza del sovrappiù ad aumentare deriva dal modo in cui essi intendono il meccanismo della determinazione dei prezzi. La struttura sempre più oligopolistica dei mercati contemporanei è tale che i prezzi non sono determinati in base alle forze della domanda e dell'offerta (come appunto avviene nei mercati perfettamente concorrenziali) ma - come è efficacemente spiegato da Paolo Sylos Labini (v., 1957) - in base a regole del tipo 'costo pieno' (full cost pricing). Ciò comporta una tendenza alla crescita dei margini lordi di profitto delle imprese e quindi della quota di profitti sul reddito. Secondo Baran e Sweezy nel capitalismo contemporaneo la tendenza del sovrappiù a crescere sostituisce la tendenza del saggio di produzione a cadere, caratteristica quest'ultima del capitalismo concorrenziale cui pensava Marx. Ne deriva che nel capitalismo monopolistico le cause della crisi vanno individuate nella sfera della realizzazione piuttosto che in quella della produzione di plusvalore. Il sovrappiù può essere consumato, investito oppure sprecato. Ma in un'economia oligopolistica solo una parte del sovrappiù può essere assorbita dagli investimenti dei capitalisti e dai consumi dei lavoratori. Infatti, è bensì vero che nuovi investimenti potrebbero assorbire il sovrappiù, ma - in quanto aumentano la capacità produttiva - i nuovi investimenti tenderebbero ad accrescere i profitti, aumentando così il sovrappiù, il che aggraverebbe il problema. L'unica valvola di sfogo è rappresentata dalle varie forme di 'spreco': le spese crescenti di pubblicità da parte del sistema delle imprese; il consumo opulento dei ceti medio-alti della popolazione; la spesa militare e civile dello Stato. Come si intuisce, ricompare dietro queste forme di 'spreco' la categoria classica del consumo superfluo visto come la risposta del capitalismo maturo al problema del sottoconsumo.
Se ci si interroga sull'uso specifico della categoria 'consumo' all'interno dell'economia neoclassica, nella versione walrasiana, si trova che il ruolo a essa assegnato è, in primo luogo, quello di cardine della teoria simmetrica del valore. È infatti sul principio unificante della domanda e dell'offerta che il programma neoclassico fonda la determinazione dei prezzi relativi delle merci unitamente alla distribuzione e alla composizione dell'output.
Di qui l'esigenza di formulare una teoria che sappia spiegare, in primo luogo, come gli individui arrivino a manifestare i loro piani di consumo (teoria del consumatore) e, secondariamente, come i messaggi dei consumatori vengano inviati al mercato per costituire la domanda complessiva di merci (teoria della domanda). Ma, a ben considerare, le teorie del consumatore e della domanda sono chiamate ad assolvere anche un'altra funzione all'interno del sistema teorico neoclassico.
Per comprendere tutto ciò è necessario tenere a mente che il pensiero neoclassico non si propone semplicemente di spiegare il funzionamento di un'economia di mercato di tipo capitalistico, ma anche di dimostrare che questa forma di organizzazione è, tra quelle possibili, la forma che realizza un 'ottimo sociale': ottimalità da intendersi nel duplice senso di equità dei risultati che il sistema garantisce a ogni individuo e di efficienza economica della configurazione produttiva che esso realizza. Relativamente al primo aspetto, si tratta di dimostrare che in un'economia perfettamente concorrenziale non esiste alcuna forma di sfruttamento, né a livello di classi sociali, né a livello di rapporti intersoggettivi. A ciò provvede la teoria neoclassica della distribuzione del reddito, fondata sul principio della produttività marginale: poiché a ciascun agente viene assegnata una quota di reddito correlata al contributo che questi ha dato alla sua formazione, non ha senso parlare di redditi privilegiati e, tanto meno, di appropriazione indebita - da parte di alcuni - di quote del prodotto sociale spettanti ad altri. Relativamente al secondo aspetto dell'ottimalità, si tratta invece di dimostrare che un'economia capitalistico-concorrenziale realizza una configurazione produttiva che corrisponde in pieno alle preferenze dei consumatori. Si può in tal modo affermare che sono i consumatori - quali destinatari finali dell'intera attività produttiva - a determinare in ultima istanza, con le loro decisioni di consumo, le scelte in campo produttivo. Conviene soffermare ora l'attenzione su tale aspetto, che è centrale nel sistema teorico neoclassico.
Con l'avvento della rivoluzione marginalista (gli anni settanta del secolo scorso) si assiste a una radicale riformulazione dei termini del discorso economico. Ciò che muta è, in particolare, il giudizio di economicità dell'attività produttiva, che trova il suo fondamento nel momento del consumo, cioè nella soddisfazione dei bisogni: una certa configurazione produttiva dovrà preferirsi a un'altra se soddisfa meglio della seconda i bisogni degli individui. Solo il punto di vista di questi ultimi in quanto consumatori conta al momento di stabilire il funzionamento di una data economia. Le imprese e gli altri centri decisionali sono entità anonime e 'senza volto'. Che un'impresa consegua profitti o fallisca non ha, di per sé, alcuna implicazione in termini di benessere; ma che un consumatore peggiori o migliori la propria situazione è della massima rilevanza. Il consumatore è dunque la figura centrale, tanto centrale da risultare sovrano. Il celebre principio della 'sovranità del consumatore', infatti, equivale nella sostanza all'affermazione secondo cui il consumatore, consapevolmente e razionalmente, mediante la sua domanda di mercato orienta l'offerta in modo tale che questa soddisfi i suoi bisogni sulla base di ben definite scale di priorità, graduate dal prezzo.
Che poi, talvolta, la composizione merceologica della domanda non corrisponda alla composizione in merci dell'offerta - così che possono prodursi, alternativamente, fenomeni di sottoproduzione o di sovrapproduzione parziale - non compromette la validità della teoria, dal momento che non vi sono livelli permanenti di reddito e di produzione in corrispondenza dei quali la domanda non è in grado di assorbire l'offerta. Quest'ultima è sempre collegata alla propria domanda perché, come insegnava J.-B. Say, "i prodotti si scambiano con prodotti". Il consumatore è sempre libero sul mercato, sa quello che vuole e si comporta razionalmente per ottenerlo.
Naturalmente, non mancano rigorose obiezioni a questa linea interpretativa. A parte Marx, una voce di dissenso è già presente nel pensiero classico. Per Malthus, domanda e offerta non tendono necessariamente ad adeguarsi. Di qui la ben nota tesi secondo cui il consumo improduttivo (il consumo, cioè, della classe improduttiva dei proprietari terrieri) deve essere visto come elemento indispensabile allo svolgimento del processo economico. Occorrerà tuttavia attendere Keynes perché la constatazione di un possibile divario tra produzione e spesa assurga a proposizione teorica in grado di togliere fondamento al principio stesso della sovranità del consumatore.Invero, una volta riconosciuta (perché empiricamente accertata) la possibilità di squilibri permanenti tra domanda e offerta, il comportamento razionale e la libertà di scelta del consumatore non sono più in grado di assicurargli il soddisfacimento pieno dei suoi bisogni, secondo le priorità da lui fissate in base al suo reddito e ai prezzi delle merci. Al contrario, egli dovrà adeguare il suo comportamento alle fluttuazioni dell'offerta, vale a dire alla quantità e qualità delle merci disponibili sul mercato - quantità e qualità che possono, anche nel lungo periodo, non corrispondere affatto alle sue scelte.
Quanto detto indica il posto di rilievo occupato dal principio della sovranità del consumatore nel dibattito tra le varie scuole di pensiero economico, anche per le implicazioni di politica economica che da esso inevitabilmente discendono. In particolare, si riesce ora a comprendere perché il pensiero neoclassico, nella misura in cui accoglie in pieno quel principio, non può fare a meno di una teoria del comportamento del consumatore.
Nella spiegazione della curva della domanda compaiono due insiemi di variabili: quelle osservabili (i prezzi delle merci, le quantità acquistate, il reddito dei soggetti) e quelle che non possono essere osservate (le preferenze o, più in generale, tutto quanto ha a che fare con la sfera decisionale del soggetto). Obiettivo centrale della teoria neoclassica è stabilire un collegamento, una sorta di relazione causale, tra i due ordini di variabili.
L'idea di base è che il consumatore possegga una ben definita struttura di preferenze esprimibili mediante una certa relazione di preferenza tra panieri alternativi di beni. Il problema della domanda è allora teoricamente risolto se si riesce a dimostrare che la funzione di domanda, la quale sintetizza tutte le variabili osservabili, deriva da una certa relazione di preferenza, nel senso che, quali che siano i prezzi dei beni e il reddito del soggetto, il paniere acquistato è veramente quello preferito. Stando così le cose, si dirà che la relazione di preferenza genera la funzione di domanda. L'esigenza di un'analisi del comportamento del consumatore nasce dunque dalla necessità di individuare quali restrizioni occorre imporre alla relazione di preferenza affinché essa sia in grado di generare una funzione di domanda dotata di certe proprietà.
Il problema del consumatore può essere sinteticamente posto nei seguenti termini: data una certa configurazione dei prezzi e del reddito, il consumatore è tenuto a scegliere tra panieri alternativi di beni - tutti appartenenti al suo campo di scelta - quello che il criterio di razionalità gli indica come ottimale. Ora, poiché prezzi, reddito e beni rappresentano, dal punto di vista del singolo, variabili esogenamente determinate, cioè dei parametri, il problema del consumatore si riduce a quello di attribuire un contenuto specifico al criterio di razionalità.
La teoria neoclassica ha sviluppato, nel corso del tempo, tre diversi approcci alla formulazione del criterio di razionalità del consumatore. Il primo, in senso storico, è quello dei fondatori della scuola soggettivista (Hermann Gossen, William S. Jevons, Carl Menger, Friedrich von Wieser). Sua caratteristica centrale è di esprimere la struttura preferenziale del consumatore mediante una funzione di utilità cardinale. Il secondo approccio, legato ai nomi di Vilfredo Pareto, Eugen Slutsky, John Hicks, Roy G. Allen, ha il suo fondamento nella nozione di utilità ordinale. La versione moderna di questo approccio, nota come teoria delle scelte, è stata sviluppata, a partire dal secondo dopoguerra, da Kenneth Arrow, William M. Gorman, Hirofumi Uzawa, Gerard Debreu. Lo schema di analisi adottato dai teorici del modello della rational choice è quello tipico di ogni assiomatizzazione: si parte da un certo insieme di postulati riguardanti la struttura delle preferenze del consumatore e poi, per deduzione logica, si arriva alla dimostrazione della legge della domanda. Il terzo approccio, infine, è quello delle preferenze rivelate, originariamente dovuto a Paul A. Samuelson e a Hendrik S. Houthakker.
Allo scopo di mettere a fuoco i tratti essenziali dei tre approcci, si pensi a un ipotetico consumatore. Le sue decisioni di spesa per un certo arco di tempo, poniamo un anno, determinano il suo bilancio, che eguaglia il reddito corrente più i risparmi passati più i prestiti meno i risparmi correnti. I panieri di beni che il consumatore può acquistare sono limitati dal suo vincolo di bilancio e dai prezzi dei beni stessi, in sostanza dal suo potere reale d'acquisto.Se per semplicità assumiamo che i beni acquistabili siano due soli - cibo e vestiario - possiamo rappresentare le loro varie combinazioni come nella fig. 3. Così, se il soggetto ha un bilancio, R, di 1.000 lire, e se il prezzo, p₁, del cibo è 40 lire e il prezzo, p₂, del vestiario è 20 lire, egli può acquistare 25 unità di cibo (punto A), oppure 50 unità di vestiario (punto B), oppure combinazioni come 8 unità di cibo e 34 di vestiario (punto C), e così via. Tutti i punti situati sul segmento AB denotano combinazioni di beni per il cui acquisto il consumatore spende interamente il suo bilancio. Pertanto p1x1 + p2x2 = R, dove x2 sta per la quantità acquistabile del primo bene e x2 per la quantità acquistabile del secondo bene. Un punto interno al triangolo 0AB, quale H, è tale per cui non tutto il bilancio viene speso; mentre un punto esterno al medesimo triangolo, quale K, è un punto irraggiungibile con quel dato bilancio. La linea AB, che possiamo chiamare linea di bilancio, rappresenta dunque la frontiera che separa l'insieme dei panieri economicamente accessibili dall'insieme di quelli economicamente non accessibili al consumatore. La pendenza (negativa) della linea di bilancio è misurata dal rapporto tra i prezzi dei beni (p1/p2).
La fig. 3 mostra anche le implicazioni delle variazioni dei prezzi dei beni. Se i prezzi dei due beni raddoppiano, la linea di bilancio diventa la DE, che è parallela alla AB dal momento che il rapporto dei prezzi non è mutato. Dunque variazioni equiproporzionali dei prezzi non mutano la pendenza della linea di bilancio, mentre modificano la sua posizione, cioè a dire la sua distanza dall'origine. Un aumento equiproporzionale dei prezzi, con il bilancio immutato, equivale, nella sostanza, a una diminuzione del bilancio con prezzi invariati. Pertanto, se il bilancio a disposizione del consumatore aumenta, fermi restando i prezzi, la linea di bilancio si sposta verso destra parallelamente a se stessa e viceversa. Infine, se il prezzo del cibo resta immutato, mentre raddoppia il prezzo del vestiario, la linea di bilancio diventa la AE, la cui pendenza è doppia della AB.
Assumendo che reddito e bilancio di un consumatore si eguaglino sempre, si può studiare la relazione tra andamento del reddito di un consumatore e quantità domandate dei vari beni.
Un importante punto di partenza è rappresentato da un pionieristico contributo dello statistico tedesco Ernst Engel, pubblicato nel 1857 e dedicato all'analisi delle connessioni tra livello del reddito e struttura dei consumi. In tale lavoro viene enunciata la celebre 'legge di Engel': "Più povera è una famiglia, maggiore è la percentuale della spesa totale destinata all'acquisto di generi alimentari"; e inoltre: "Più ricca è una nazione, più piccola è la percentuale di generi alimentari nella spesa totale". Ciò significa che all'aumento del reddito i soggetti mutano la proporzione in cui domandano i vari beni. Si osservi la fig. 4, in cui sono tracciate tre diverse curve di domanda rispetto al reddito.
Le curve D2 e D3 evidenziano l'esistenza di un livello di saturazione, geometricamente rappresentato dalla linea orizzontale tratteggiata. Nel caso della D2 si parla di saturazione assoluta: una volta arrivato al livello di reddito ¯R, il consumatore, anziché aumentare, diminuisce la quantità domandata del bene. Nel caso della D3 ci troviamo di fronte a una saturazione relativa: al crescere del suo reddito il soggetto aumenta la quantità domandata del bene ma, superato il livello di reddito =R, tende a stabilizzare i suoi consumi. Infine, il caso della D1 è quello in cui all'aumentare del reddito diminuisce la quantità domandata del bene. Al di là delle forme specifiche sopra indicate, è importante sottolineare che non esiste una forma unica della curva di domanda rispetto al reddito, valida per qualsiasi categoria di beni. Esiste piuttosto un ventaglio di curve engeliane di domanda: per certe categorie di beni, i cosiddetti beni di lusso, la domanda aumenta più che proporzionalmente rispetto al reddito; per i beni di primaria necessità, la quantità consumata aumenta meno che proporzionalmente rispetto al reddito; infine, per i cosiddetti beni inferiori, la quantità domandata dal consumatore diminuisce all'aumentare del reddito.
Dopo i pionieristici contributi di Engel, la ricerca empirica ha notevolmente esteso la conoscenza dei nessi tra domanda di beni e livelli di reddito. Da un lato, si è constatato che per diversi gruppi di beni è diverso l'ammontare del reddito in corrispondenza del quale viene raggiunto il livello di saturazione (assoluto o relativo a seconda dei casi); dall'altro, si è scoperto che quanto più alto è il reddito di un soggetto tanto più diversificata è la struttura dei suoi consumi. Il che significa che, all'aumentare del reddito, si verifica soprattutto un mutamento qualitativo, e cioè strutturale, dei consumi: il soggetto diminuisce, in senso assoluto o relativo, il consumo di certi beni per dirigere la sua scelta su altre categorie di beni, sempre più diversificate.
Cosa accade alla quantità consumata di un bene al variare del suo prezzo? Si consideri una situazione in cui il consumatore ha un bilancio di lire 1.000 da spendere nell'acquisto di due beni, cibo e vestiario. Il prezzo del vestiario rimane fermo a lire 20, mentre il prezzo del cibo passa da lire 40 a lire 50. Nella fig. 5 la AB denota la 'vecchia' linea di bilancio, la AC la 'nuova' linea di bilancio. Come si può notare, l'aumento del prezzo del cibo produce due effetti sulla linea di bilancio: ne modifica la pendenza (muta, infatti, il rapporto dei prezzi) e ne sposta la posizione verso l'origine, così da restringere il campo di scelta del consumatore.Il secondo effetto della variazione del prezzo è, in un certo senso, simile all'effetto di una riduzione del reddito del consumatore, nel senso che entrambi riducono il suo potere d'acquisto, ma è opportuno separare i due effetti. A tale scopo si assuma che quando il prezzo del cibo è di lire 40, il consumatore scelga la combinazione di beni indicata nella fig. 5 dal punto D. In seguito all'aumento del prezzo del cibo a lire 50, la medesima combinazione verrebbe a costare lire 1.150, quanto a dire che 150 è la variazione compensativa del reddito necessaria a controbilanciare l'effetto della variazione del prezzo del cibo. La linea di bilancio EF rappresenta una situazione compensata in cui il prezzo del cibo è di lire 50, il prezzo del vestiario è di lire 20 e il bilancio della famiglia è di lire 1.150. Siamo ora in grado di analizzare separatamente i due effetti della variazione del prezzo.
Nella situazione compensata il consumatore è in grado di acquistare, se lo desidera, il paniere D, così che, rispetto alla situazione iniziale, la sua posizione di benessere non risulta peggiorata. Ora, il confronto delle due situazioni - iniziale e compensata - ci consente di esaminare la misura in cui il consumatore sostituisce l'un bene all'altro in seguito a variazioni del rapporto dei prezzi, senza però che il suo potere reale d'acquisto risulti minimamente ridotto. Questa variazione della quantità domandata è l'effetto di sostituzione della variazione dei prezzi relativi.
Si è detto che nella situazione compensata il consumatore può acquistare D, cioè lo stesso paniere acquistato nella situazione iniziale, e questo significherebbe che non vi è sostituzione alcuna tra i beni, e che l'effetto di sostituzione è nullo. Se acquista un paniere situato sul segmento DE - poniamo G - l'effetto di sostituzione sulla domanda di cibo è negativo: il prezzo del cibo è aumentato e la quantità domandata dello stesso è diminuita. Infine, se acquista un paniere situato sul segmento DF - ad esempio H - l'effetto di sostituzione sulla domanda di cibo è positivo: è aumentato il prezzo del cibo, ma anche la quantità domandata dello stesso.
In realtà, se l'effetto di sostituzione risulta positivo, il consumatore si comporta in modo incoerente. Infatti, nella situazione iniziale egli sceglie D pur potendo acquistare H, e questa scelta rivela che il soggetto preferisce D ad H; d'altro canto, nella situazione compensata egli sceglie H, anche se potrebbe continuare a scegliere D, rivelando di preferire ora H a D. Di qui l'incoerenza di comportamento.
Ebbene, l'assioma delle preferenze rivelate esclude tale possibilità: se il consumatore sceglie il paniere x in una situazione in cui il paniere y è pure accessibile, egli non procederà poi a scegliere y in una qualunque altra situazione in cui x sia ancora accessibile. L'assioma implica perciò che il consumatore non sceglierà alcun paniere situato sul segmento DF nella situazione compensata, dato che D è ancora accessibile. In altri termini, esso esclude che l'effetto di sostituzione possa risultare positivo e quindi assicura che la quantità domandata del bene diminuisce (o resta invariata) quando il suo prezzo aumenta.
Nella situazione compensata la linea di bilancio è EF; nella nuova situazione, quella cioè che viene a determinarsi dopo l'aumento del prezzo del cibo, la linea di bilancio è AC. Come si nota, AC ed EF sono tra loro parallele; infatti i prezzi sono gli stessi nelle due situazioni. Ora, l'analisi engeliana della domanda ci dice che la domanda di beni normali (beni di lusso e beni di primaria necessità) è più bassa nella situazione nuova che non nella situazione compensata, dal momento che la AC è più vicina all'origine della EF; la domanda di beni inferiori è invece maggiore nella situazione nuova che non in quella compensata. Per definizione, la variazione della domanda di un bene dovuta al passaggio dalla situazione compensata alla situazione nuova è l'effetto di reddito associato alla variazione del prezzo di quel bene. Pertanto, se nella situazione compensata il consumatore domanda il paniere G, nella nuova situazione egli acquisterà: 1) un paniere situato sul segmento KA se il cibo è un bene normale (il punto K ha la medesima ordinata del punto G), in quanto ogni paniere su KA include quantità minori di cibo rispetto a G e, come già sappiamo, la domanda di un bene normale decresce quando il reddito diminuisce; 2) un paniere situato sul segmento KC se il cibo è un bene inferiore, dato che ogni paniere su KC contiene quantità maggiori di cibo rispetto a G e la domanda di un bene inferiore aumenta al diminuire del reddito.
La variazione della domanda di un bene dovuta alla variazione del suo prezzo, vale a dire l'effetto prezzo, è la somma algebrica degli effetti di reddito e di sostituzione. Ora, poiché l'effetto di sostituzione è sempre negativo e l'effetto di reddito fa diminuire la domanda di un bene normale il cui prezzo è aumentato, si conclude che la domanda di un bene normale diminuisce all'aumentare del suo prezzo e viceversa: è la celebre legge della domanda, la quale resta valida nel caso di beni normali. Per un bene inferiore, invece, mentre l'effetto di sostituzione continua a risultare negativo, l'effetto di reddito risulta positivo. L'effetto prezzo dipende perciò da quello dei due effetti che sarà dominante: la domanda di un bene inferiore diminuisce all'aumentare del suo prezzo e viceversa qualora l'effetto di sostituzione prevalga sull'effetto di reddito.
D'altro canto, nel caso in cui sia l'effetto di reddito a dominare quello di sostituzione, si ha una violazione della legge della domanda, perché all'aumentare del prezzo del bene la domanda dello stesso aumenta. È questo il 'paradosso di Giffen', dal nome di Robert Giffen, l'economista statistico inglese del XIX secolo che per primo attirò l'attenzione degli studiosi su una plausibile eccezione alla legge della domanda. Dunque la domanda di un bene inferiore aumenta all'aumentare del suo prezzo quando l'effetto di reddito supera quello di sostituzione.È chiaro che, perché si possa verificare la situazione del paradosso di Giffen sono necessarie due condizioni: che si tratti di un bene inferiore e che la percentuale di reddito destinata all'acquisto del bene in questione sia piuttosto rilevante.
La conoscenza del solo assioma delle preferenze rivelate ci permette di predire la direzione delle variazioni di domanda dei beni conseguenti alle variazioni dei prezzi degli stessi. Se fossimo in grado di conoscere i gusti ovvero la struttura preferenziale del consumatore, potremmo conoscere anche l'entità delle variazioni di domanda e non solo la direzione.Per descrivere le preferenze del soggetto, la teoria delle scelte parte dalla nozione di relazione di preferenza o di indifferenza tra panieri di beni. L'assunto è che il consumatore sia in grado di confrontare fra loro coppie qualsiasi di panieri, poniamo x e y, e di decidere, a confronto avvenuto, se preferisce x a y oppure y a x, oppure ancora se x e y sono per lui indifferenti nel senso che entrambi i panieri soddisfano allo stesso modo quei bisogni al cui soddisfacimento è orientata la sua attività di consumo.
Indicando con P la relazione di preferenza e con I la relazione di indifferenza, scriveremo xPy per significare che il soggetto preferisce x a y, e xIy per indicare che egli non ha motivo di preferire x a y. Quando un consumatore è sempre in grado di decidere quale delle seguenti relazioni tra due panieri qualsiasi è per lui rilevante - xPy, yPx, xIy - si dice che egli possiede un campo ordinato di preferenze. Una proprietà importante delle relazioni P e I è quella che si riferisce alla coerenza delle scelte del soggetto, e viene resa esplicita mediante il postulato di transitività dell'ordinamento di preferenza: dati tre panieri, x, y, z, se xPy e yPz, allora xPz e, se xIy e yIz, allora xIz. Il significato operativo del postulato è di scongiurare la formazione di cicli nel campo ordinato di preferenze dell'individuo. Infatti, se si avesse, poniamo, xPy, yPz, zPx, si verrebbero a creare situazioni nelle quali il soggetto dichiarerebbe di preferire x a z e altre nelle quali dichiarerebbe di preferire z a x, cosa che manifesterebbe un comportamento incoerente e contraddittorio.
Sulla base di quanto precede è possibile formulare il criterio razionale di scelta del consumatore: data libertà di scelta, il soggetto sceglie, tra tutti i panieri appartenenti al suo campo di scelta, il paniere x* tale che x*Py, dove y denota un qualsiasi paniere. La qualificazione di razionalità discende dal presupposto che la preferenza denoti benessere: se il consumatore preferisce x a y si deve presumere che il consumo di x aumenti il suo benessere più di quanto non faccia il consumo di y. Ecco perché egli è razionale se sceglie il paniere x. Negli scritti dei primi autori marginalisti il criterio di razionalità del consumatore viene formulato in termini diversi, e precisamente in termini di massimizzazione della funzione di utilità del soggetto. Dopo aver definito l'utilità di un bene come la capacità dello stesso di soddisfare bisogni, i marginalisti assumono l'esistenza di una funzione che associa a quantità consumabili di beni un valore che ne misura l'utilità totale. Così, se con U si indica l'utilità che il soggetto è in grado di derivare dal consumo di x, U=U(x) indica la sua funzione di utilità.
Inoltre, poiché man mano che si consumano quantità successive di un certo bene per appagare un bisogno, quest'ultimo decresce di intensità e poiché, come si è detto, l'utilità di un bene dipende dall'intensità del bisogno da soddisfare, ne deriva che l'incremento di utilità conseguente all'incremento della quantità consumata di un bene è via via decrescente. È questo il significato del celebre principio dell'utilità marginale decrescente, dove per utilità marginale si intende l'incremento di utilità totale dovuto a un incremento unitario del bene consumato. Tale principio ci suggerisce una spiegazione del comportamento razionale del consumatore. Questi, infatti, comincerà ad acquistare il bene che possiede la più elevata utilità marginale, ma via via che egli procede nel consumo di questo bene, l'utilità marginale decresce progressivamente. Non appena questa scende al di sotto dell'utilità marginale del bene che, tra quelli considerati, possiede ora la più alta utilità marginale, il soggetto passa a consumare quest'ultimo bene e così via.
Ora, poiché ciascun bene ha un prezzo di mercato, il ragionamento di cui sopra ci porta a concludere che, nella situazione di equilibrio, il consumatore spenderà interamente il suo reddito eguagliando le utilità marginali dei diversi beni ai rispettivi prezzi.
La soluzione del problema della massimizzazione dell'utilità da parte del consumatore presenta però una grave difficoltà. Nella condizione che definisce l'equilibrio del soggetto i prezzi sono espressi in unità monetarie; ma in quale unità di misura sono espresse le utilità marginali dei beni che eguagliano quei prezzi? Si può parlare di utilità marginale di un bene se l'utilità che il soggetto deriva dal consumo dello stesso è una grandezza misurabile in senso cardinale. (Matematicamente è cardinale una misurazione che è unica a meno di una trasformazione lineare). L'utilità cardinale ci dà informazioni non solo circa l'ordine delle preferenze, ma anche circa la loro intensità. Senonché, come si può ragionevolmente assumere che un attributo essenzialmente qualitativo come quello di utilità possa essere assoggettato a una misurazione di tipo cardinale?
La prima critica sistematica al concetto di utilità cardinale risale a Vilfredo Pareto. Secondo Pareto l'utilità, non essendo una proprietà fisica dei beni consumati, non è esprimibile mediante un'unità oggettiva di misura. Non è infatti possibile ipotizzare che il consumatore, per quanto perfetta si possa considerare la sua conoscenza, sia in grado di stabilire di quanto l'utilità del paniere x superi l'utilità del paniere y. Egli potrà senz'altro avvertire che l'intensità della sua situazione di bisogno è diversa nelle varie circostanze, ma non sarà mai in grado di pronunciarsi in modo univoco sull'ampiezza delle differenze di intensità.
Ma v'è di più. La misurazione cardinale dell'utilità, osserva Pareto, oltre che concettualmente impossibile è anche non necessaria ai fini dello studio del comportamento razionale del consumatore. A tale riguardo è sufficiente conoscere il modo in cui il soggetto ordina le varie alternative di consumo aperte alla sua scelta. In sostanza, occorre solo conoscere la sua funzione di utilità ordinale. Se il consumatore sceglie x piuttosto che y, ciò è dovuto al fatto che x è preferito a y; dunque se con u si indica l'utilità in senso ordinale avremo: u(x) > u(y) se e solo se xPyu(x) = u(y) se e solo se xIy. Vale a dire che, se xPy, l'utilità di x dovrà risultare maggiore di quella di y, mentre se xIy, ai panieri x e y verrà associato lo stesso indice di utilità. Nella misurazione ordinale (che è unica a meno di una trasformazione monotona crescente) è rilevante solo il segno delle differenze tra grandezze, non le differenze stesse, come è invece il caso con la misurazione cardinale.In definitiva, il consumatore risolve il suo problema - e si comporta in modo razionale - quando sceglie il paniere di beni cui è associato il più elevato indice della funzione ordinale di utilità. La novità dell'approccio ordinalista rispetto a quello cardinalista sta nel fatto che, pur rinunciando all'attributo della misurabilità in senso cardinale dell'utilità, è egualmente possibile arrivare a conoscere l'entità delle reazioni del consumatore a variazioni dei prezzi dei beni e/o del suo reddito. (V. Decisioni, teoria delle).
La teoria del consumo sta vivendo una situazione di crisi, cioè di passaggio: mentre si accresce l'insoddisfazione per il vecchio e glorioso paradigma dell'ordinalismo paretiano, essa non dispone ancora di un'alternativa soddisfacente. È però possibile indicare alcune significative linee di tendenza verso un nuovo paradigma.
Una prima importante presa di distanza dall'ordinalismo paretiano è costituita dall'abbandono del postulato della comparabilità completa delle preferenze, secondo il quale, se si creano condizioni anche minime per ritenere y migliore di x, la valutazione distinta di queste due alternative fornisce una misura capace di valutare tutte le altre. La distinzione tra x e y dovrebbe cioè fornire un metro capace di esaurire, considerando le alternative migliori di x e quelle peggiori di y, l'insieme delle alternative accessibili. Cosa implica il postulato in questione? Quando vale la condizione di comparabilità completa, non vi è alcuna differenza tra la scelta come processo e la scelta come funzione di scelta e ciò perché i massimali sono anche dei massimi e quindi il punto finale del processo di scelta non dipende dal sentiero che è stato in effetti percorso. Invece, quando i massimali non sono anche dei massimi, diventa indispensabile prendere in considerazione l'elemento da cui ha inizio il processo di scelta, dato che è questo che decide quale massimale verrà alla fine raggiunto. In circostanze del genere, pur senza alterare la struttura preferenziale del soggetto, è possibile influire sullo stato finale che questi potrà raggiungere guidando opportunamente la scelta della posizione iniziale e/o di quella per cui passa il sentiero di scelta. Come si può comprendere, parecchie e di grande momento sono le conseguenze che discendono da un'impostazione che non presupponga la comparabilità completa (v. Zamagni, 1986).
Un'altra linea di ricerca che innova radicalmente rispetto all'ordinalismo paretiano è quella che inserisce l'attività di consumo in un profilo temporale. Nell'impostazione tradizionale si assume che il consumatore agisca secondo uno schema a due stadi: nel primo egli decide quanto reddito ottenere dalla vendita dei suoi servizi lavorativi, nel secondo massimizza la propria utilità attraverso la spesa del reddito così ottenuto nei vari beni di consumo. In questo modo il tempo sottratto al lavoro e la spesa in consumi vengono considerati argomenti separabili della funzione di utilità. In un recente contributo G.G. Winston (v., 1983) studia le decisioni di consumo entro un esplicito contesto temporale che, da un lato, rende possibile ricavare il timing ottimale delle attività di consumo e di lavoro e, dall'altro, consente di ricavare le conseguenze del fatto che il soggetto fa cose diverse in momenti diversi dell'unità di tempo presa come riferimento. L'idea base è che vi sono cose che è piacevole fare e altre che è piacevole aver fatto, un'idea che consente a Tibor Scitovsky (v., 1976) di abbozzare una nuova teoria del consumo.
Un insieme di contributi recenti rompe con l'impostazione tradizionale su un punto di centrale importanza: la sua incapacità di fornire una teoria delle credenze in grado di dare sostanza al principio, che pure essa accoglie, secondo cui le scelte di consumo vanno spiegate in termini di preferenze e di credenze. È un fatto evidente che i soggetti hanno preferenze non solo riguardo agli stati del mondo, ma anche alle proprie credenze circa quegli stati. Inoltre gli individui hanno un certo potere di controllo sulle loro credenze e cioè possono manipolarle selezionando opportunamente le fonti di informazione in grado di confermare le credenze desiderate e smentire quelle non desiderate. Infine, le credenze, una volta scelte dal soggetto, tendono a durare nel tempo, mostrando una certa stabilità. La 'teoria dei prospetti' (prospect theory) di Kahneman e Tversky (v., 1979), le ricerche di Akerlof e Dickens (v., 1982) sulla dissonanza cognitiva e i lavori recenti di H. Simon (v., 1986) costituiscono promettenti passi in questa direzione.Infine, un'altra interessante linea di ricerca è quella seguita da autori che, da angolature diverse e con strumenti diversi, studiano la formazione dei gusti e il loro mutamento endogeno. L'idea di base, sottolineata con forza da A. O. Hirschman (v., 1982), è che attività di consumo intraprese perché ci si attende che procurino soddisfazione possono procurare anche delusione e insoddisfazione. Il consumatore che desidera una cosa può, ottenendola, scoprire con disappunto di non desiderarla quanto pensava e di desiderare realmente qualcos'altro di cui non era bene a conoscenza. Nella misura in cui la delusione non è completamente eliminata da un aggiustamento verso il basso delle aspettative, ogni modello di consumo porta dentro di sé i semi della sua distruzione. Ora, lo studio dei processi di apprendimento e di formazione di abitudini nel consumo conduce a modifiche sostanziali della teoria tradizionale. In primo luogo perché, negando il principio dell'autonomia delle preferenze, si viene a intaccare il fondamento utilitaristico dell'economia neoclassica; in secondo luogo perché, se i gusti sono malleabili, il primo teorema fondamentale dell'economia del benessere (il teorema che, in breve, dimostra che un equilibrio competitivo è un ottimo paretiano) si riduce a un corollario della proposizione, di per sé banale, secondo cui i soggetti desiderano ciò che in effetti riescono a ottenere.
La matematica - dichiarò John von Neumann - quando perde il contatto con le scienze fisiche tende a diventare 'barocca', nel senso che si contrappone allo stile 'classico' di pensiero che è continuamente rivitalizzato dal contatto con la realtà. L'ordinalismo paretiano ha raggiunto oggi lo stadio barocco, perdendo sempre più terreno proprio in rapporto a quei problemi che originariamente - agli inizi del secolo - rappresentarono la sua ragion d'essere. Di qui le aporie, i risultati controintuitivi, le smentite empiriche che la più recente letteratura sull'argomento ha posto in evidenza. Quello che da più parti viene sollecitato - e le linee di ricerca sopra ricordate ne sono una chiara testimonianza - è un paradigma per l'analisi della scelta individuale sufficientemente ricco, quanto a struttura informativa incorporata, da consentire di spiegare in modo non tautologico i più significativi fenomeni connessi al comportamento di consumo di soggetti che operano in economie a sviluppo avanzato. (V. anche Bisogni; Domanda).
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di Gerardo Ragone
1. Introduzione
Lo sviluppo della sociologia dei consumi è avvenuto lungo tre direttrici: la prima di carattere socioeconomico, orientata in prevalenza a integrare l'analisi economica del consumo e, in particolare, la teoria della domanda; la seconda di ispirazione sociopolitica, indirizzata invece a un'analisi critica dei consumi e del 'consumismo' nelle società economicamente avanzate; la terza, infine, di tipo socioculturale, mirante all'elaborazione di una teoria del consumo interamente al di fuori degli schemi dell'analisi economica. Nel primo caso l'attenzione è stata posta sul consumatore, sulle sue motivazioni, i suoi atteggiamenti, quindi sui fattori non economici che influenzano le sue decisioni di acquisto. Al centro invece della discussione sociopolitica è stato posto il problema del rapporto tra produzione e consumo e, in particolare, la questione del condizionamento dei bisogni da parte della produzione. Quanto alla direttrice socioculturale, essa ha posto in prevalenza l'accento sulle funzioni simboliche dell'attività di consumo e sul ruolo dei beni nei rituali di comunicazione e di integrazione sociale. Questa tripartizione non va intesa, però, rigidamente. Essa intende proporre uno schema degli sviluppi di una disciplina dai confini estremamente incerti, in quanto il consumo è una nozione al crocevia tra economia, sociologia, psicologia e antropologia. Non è raro, infatti, incontrare autori che, pur occupando un posto centrale in una delle tre direttrici, hanno tuttavia esercitato un'influenza considerevole anche nelle altre due. Essa però è anche utile per porre bene in risalto il fatto che, nella sua lunga storia, la sociologia dei consumi ha seguito strade molto diverse e che la fragilità concettuale e teorica che talvolta le viene contestata dipende probabilmente proprio da questa pluralità di percorsi. Come infatti vedremo più avanti, a una ricchissima produzione sul piano della ricerca empirica non ha mai fatto riscontro un'adeguata riflessione teorica, pur essendo il cammino di questa disciplina costellato di acute osservazioni e di intuizioni talvolta geniali. Osservava alcuni anni fa Francesco Alberoni (v., 1964) che "la mancanza di un sistema di riferimento sociologico valido ha impedito la collocazione dei risultati di ricerche sui consumi entro un sistema di riferimento concettuale passibile di elaborazione teorica e di verifica sperimentale".
C'è però anche un altro motivo alla base delle difficoltà che la sociologia dei consumi ha incontrato - e tuttora incontra - lungo il suo cammino, ed è la costante presenza nelle sue analisi di variabili di tipo qualitativo, di variabili cioè che presentano in genere non poche difficoltà di trattamento, e che pongono poi seri ostacoli quando devono interagire con grandezze quantitative, come quelle che sono comunque al centro della problematica dei consumi. Di qui, probabilmente, il difficile rapporto con gli economisti e il fallimento dei non pochi tentativi di integrazione tra questi due diversi approcci allo studio del consumo (v. Leibenstein, 1950, p. 186).
Se però è vero che è stata proprio questa considerazione degli aspetti qualitativi ad accentuare le difficoltà sia teoriche che di ricerca della sociologia dei consumi, ostacolandone anche l'incontro con l'analisi economica, è anche vero che sono proprio questi aspetti qualitativi del consumo ad assumere oggi, nelle società del benessere, un peso considerevole nella formazione delle preferenze e delle decisioni di spesa dei consumatori e che quindi è proprio con questo tipo di problemi che qualunque approccio al consumo è costretto a misurarsi. Come ha infatti osservato Zamagni (v., 1986, p. 458) "proprio perché cosa e quanto il consumatore trae dai beni dipende da parecchi fattori e circostanze e non solo dalla quantità disponibile degli stessi, è necessario andare oltre le sole informazioni di utilità, se si vuole dar conto dei comportamenti effettivi di consumo". Ciò che, quindi, poteva essere tranquillamente accantonato in passato dalla teoria economica della domanda, acquista invece oggi anche per essa un particolare rilievo, lasciando così intravvedere nuove possibilità di convergenza tra l'analisi economica e quella sociologica dei consumi.
Ecco perché, delle tre direttrici prima indicate, quella socioeconomica appare oggi certamente la più fertile e promettente ed è, pertanto, a essa che converrà dedicare la maggiore attenzione. Tratteremo invece solo limitatamente l'approccio socioculturale dal momento che le accentuazioni etno-antropologiche in esso presenti, per quanto suggestive e stimolanti (v. in particolare Douglas e Isherwood, 1980), rischiano in realtà di alterare radicalmente la nozione di consumo, nozione che, per quanto suscettibile - come si è detto - di integrazioni qualitative, non può tuttavia essere collocata completamente al di fuori della problematica economica. Per quanto riguarda, infine, la direttrice sociopolitica, ci sembra che si possa soprassedere in questa sede, dato che le principali tematiche in essa presenti vengono trattate in altre parti di questa opera (v. Bisogni; v. Produzione).
2. La direttrice socioeconomica
Le origini di questo primo indirizzo della sociologia dei consumi risalgono al XVIII secolo, quando, in seguito alla rivoluzione industriale, cominciano a costituirsi nelle città europee i primi nuclei di popolazione operaia. Anche se l'interesse degli studiosi dell'epoca verso i consumi delle nuove classi emergenti era in realtà strumentale, trattandosi più che altro di indagini tese a individuare nuove misure di politica sociale, non c'è dubbio però che furono proprio queste prime rilevazioni - condotte attraverso i 'bilanci' delle famiglie - ad aprire la strada alla riflessione sociologica sul consumo. Già nel 1672 William Petty aveva studiato i consumi delle famiglie operaie inglesi allo scopo di individuare nuovi criteri di tassazione. Circa cento anni dopo il reverendo David Davies ripeté l'operazione raccogliendo centocinquanta bilanci di famiglie contadine inglesi, al fine di definire un livello minimo di salario calcolato sul costo della vita. E qualche anno dopo, sempre in Inghilterra, Frederick Eden svolse indagini analoghe allo scopo, questa volta, di riformare le leggi inglesi sulla povertà.
Malgrado l'importanza delle finalità sociali che le ispiravano, queste prime esplorazioni sociologiche del consumo non andavano però molto al di là di una semplice registrazione ed elencazione di spese. Per trovare infatti osservazioni più accurate e sistematiche su questi temi, occorrerà attendere le famose monografie sui redditi e sui consumi delle famiglie operaie europee che Frédéric Le Play pubblicò intorno alla metà del secolo scorso e che costituiscono senz'altro le prime vere indagini sociologiche sul consumo. Furono proprio i risultati di queste ricerche a sollecitare l'interesse di Ernst Engel, uno statistico prussiano che, perfezionando la metodologia dei bilanci familiari, riuscì a raccogliere dati ancora più dettagliati sulle entrate e le uscite delle famiglie, individuandone anche alcune importanti regolarità di fondo. Risale infatti proprio a Engel (1895) la prima 'legge generale sul consumo' - nota appunto come 'legge di Engel' - secondo cui la quota percentuale di spesa per l'alimentazione di una famiglia o di una collettività è tanto più elevata rispetto alla spesa totale, quanto più basso risulta il reddito di quella famiglia o di quella collettività, e viceversa.
Queste prime analisi sulla ripartizione delle spese delle famiglie vennero ulteriormente approfondite da Maurice Halbwachs che, circa quarant'anni dopo Engel, puntualizzò quelli che sicuramente costituiscono i due punti centrali dell'approccio socioeconomico al consumo, e cioè: a) a parità di reddito, i consumi delle famiglie sono influenzati da numerosi fattori sociali, come, ad esempio, l'occupazione del capofamiglia, la zona di residenza, ecc.; b) i bisogni, e per conseguenza i modelli di consumo e gli stili di vita, non dipendono dal livello del salario, ma sono piuttosto un prodotto storico, determinato cioè dalle condizioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano una determinata epoca, e pertanto è impossibile pensare a salari fissi - come in precedenza avevano sostenuto economisti classici come Turgot e Ricardo - dal momento che non esistono bisogni essenziali fissi.
Ciò che, quindi, questo primo tipo di studi cominciava a mettere in luce era l'insufficienza delle tradizionali variabili prezzo e reddito nella spiegazione del comportamento del consumatore. Iniziava cioè a farsi strada l'ipotesi che, prima ancora che dal prezzo dei beni e dal reddito personale, le scelte del consumatore fossero fortemente condizionate dal sistema di relazioni sociali in cui questi era inserito e che, pertanto, il problema del tipo di beni da possedere e dello stile di vita da adottare poteva in molti casi sovrastare quello delle singole quantità desiderate di ciascun bene. Halbwachs aveva, ad esempio, mostrato come i modelli di consumo degli operai e degli impiegati differissero notevolmente anche quando il reddito era lo stesso, nel senso che, mentre gli operai destinavano gran parte del loro reddito ai consumi alimentari, gli impiegati tendevano a contenere questo tipo di spesa allo scopo di incrementare quelle per l'abbigliamento e per l'abitazione. E prima di Halbwachs anche Le Play era giunto a conclusioni analoghe, evidenziando appunto il ruolo centrale che lo status individuale giocava nella formazione dei gusti e delle preferenze degli individui.Oltre a intaccare i due cardini centrali della teoria neoclassica della domanda, quelli cioè dell'utilità e della razionalità, l'introduzione di questo nuovo fattore nella problematica del consumo consentiva di affermare che non solo la domanda poteva variare in alcuni casi in funzione diretta anziché inversa del prezzo, ma che la stessa ripartizione del reddito individuale tra consumo e risparmio poteva realizzarsi in modi diversi da quelli previsti dalla teoria economica.La ricerca nordamericana degli anni quaranta e cinquanta del nostro secolo confermò ampiamente il peso dei fattori extraeconomici nelle scelte di consumo. Una delle più note indagini di questo periodo fu quella che Warner e Lunt condussero a Yankee City. Oltre a confermare le leggi di Engel, come appare chiaramente dalla fig. 1, l'indagine di Warner e Lunt mise appunto in luce il ruolo che i fattori di status giocano nella determinazione della domanda individuale; nella fig. 2 si può infatti osservare il diverso comportamento di spesa delle nuove e delle vecchie élites in relazione a fattori di prestigio come l'istruzione o come l'automobile, nonché il notevole distacco tra strato sociale 'inferiore-inferiore' e strato sociale 'inferiore-superiore' per quanto riguarda le spese culturali e ricreative. In realtà la questione delle pressioni di status sulle scelte di consumo era già stata magistralmente teorizzata da Thorstein Veblen alla fine del secolo scorso. Nella sua celebre opera La teoria della classe agiata Veblen aveva infatti mostrato non solo che i beni di consumo servono per rappresentare la posizione sociale degli individui e che, pertanto, la 'razionalità' del consumatore ha più a che fare con la massimizzazione del prestigio che non con la massimizzazione dell'utilità, ma che questi comportamenti di esibizione competitiva, certamente caratteristici degli strati sociali privilegiati, avrebbero finito per essere assunti anche dagli altri strati sociali tramite quel processo di diffusione (che i sociologi chiameranno trickle effect, ossia 'caduta', 'gocciolamento': v. in particolare Fallers, 1954) in base al quale ogni gruppo o strato sociale adotta come modello di riferimento per i propri consumi il gruppo o lo strato sociale che lo precede nella gerarchia degli status.
La teoria di Veblen meriterebbe certamente più spazio di quanto non sia consentito in questa sede, in considerazione appunto dell'influenza che l'ipotesi del 'consumo vistoso' ha esercitato sia in campo economico che sociologico. Basterà tuttavia mettere qui in luce solo un punto centrale, e cioè che Veblen introduce nell'analisi del comportamento del consumatore una categoria di razionalità assolutamente estranea alla logica economica, quella cioè di razionalità dello spreco, dello sperpero, una razionalità quindi in negativo rispetto al fondamento utilitaristico della teoria economica della domanda. Secondo Veblen, infatti, il fine che il consumatore persegue attraverso le sue strategie di spesa sarebbe in realtà quello di ottenere sempre più stima e apprezzamento da parte di coloro con cui egli entra in contatto. Ma poiché nelle società capitalistiche questa stima e questo apprezzamento sono strettamente legati alle capacità di spesa dell'individuo, ecco che l'ostentazione e lo spreco finiscono per costituire i criteri di fondo per le sue scelte di consumo. È questo il motivo per cui, secondo Veblen, il consumo dei beni costosi sarebbe particolarmente apprezzato in questo tipo di società, al punto che "i beni che contengono un elemento di costo notevolmente superiore a ciò che loro conferisce l'utilità per il loro evidente scopo meccanico, sono onorifici" (v. Veblen, 1899; tr. it., p. 127).
Non è difficile immaginare quali conseguenze derivino dall'assumere, nella teoria del consumo, l'ipotesi vebleniana dell'esibizione competitiva. La prima, e forse più importante di tutte, è che, venendo a cadere il presupposto dell"indipendenza' delle scelte - presupposto che, come è noto, è alla base sia della microeconomia che della macroeconomia del consumo - sorgono serie difficoltà per l'individuazione della domanda collettiva. La possibilità infatti di sommare curve individuali di domanda è condizionata all'ipotesi che i consumatori non si influenzino reciprocamente. In caso contrario la somma delle scelte individuali non indica più la quantità totale domandata di un certo bene e, quindi, la curva collettiva risulta indeterminabile (v. Leibenstein, 1950).
La seconda conseguenza è che diventa inevitabile, nella teoria della domanda, affrontare un problema sul quale gli economisti hanno sempre preferito sorvolare (v. Weizsäcker, 1971; v. Pollak, 1978), quello cioè della formazione dei gusti e del loro mutamento endogeno. La variabilità dei gusti mette infatti in discussione alcune proprietà delle funzioni individuali di domanda, ed è questo, appunto, il motivo per cui, come è stato osservato, "una lunga pratica scientifica ha sempre ritenuto che l'economia non avesse nulla a che fare con l'approfondimento delle ragioni per cui le preferenze sono quelle che sono e ancor meno con l'indagine sul come e perché esse possono cambiare" (v. Zamagni, 1986, p. 447).
Va infine ricordato che una conseguenza più generale derivante dall'assunzione delle ipotesi di Veblen è il radicale spostamento della problematica del consumo dal livello micro a quello macro. Se infatti si ritiene che, nelle sue scelte, il consumatore sia rigidamente condizionato da un complesso sistema di vincoli sociali, perdono interesse le questioni attinenti alle motivazioni, agli atteggiamenti e alle aspettative, e si pone in primo piano il circuito strutturale di diffusione dei beni tra i vari strati che compongono la società. Nello schema di Veblen, in altre parole, oggetti, beni di consumo, valori, abitudini e stili di vita transiterebbero da uno strato sociale all'altro secondo le caratteristiche del sistema di stratificazione sociale. In questa prospettiva lo studio dei consumi verrebbe a coincidere con lo studio dei fenomeni di 'moda': è, come vedremo più avanti, la tesi sostenuta dal sociologo francese Jean Baudrillard, che in passato era già stata formulata da Pitirim Sorokin nella sua famosa opera sulla mobilità sociale. Va ricordato, infine, che questa nuova prospettiva dello studio dei consumi ha trovato interessanti applicazioni all'interno di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di 'diffusionismo' e, in particolare, nello studio dei processi di diffusione delle innovazioni (v. Rogers, 1962; v. Mahajan e Peterson, 1985).
Per quanto dibattuto e controverso, sia in campo economico che sociologico (v. Alberoni, 1964; v. Fabris, 1970), il contributo di Veblen ha comunque segnato una tappa fondamentale nella storia dell'analisi del consumo, una tappa che ha reso possibile, a distanza di molti anni, l'avvio di due distinti filoni di ricerca: quello socioeconomico, di cui ci stiamo appunto ora occupando e che, come vedremo tra poco, ha trovato in Duesenberry uno degli esponenti più rappresentativi, e quello, invece, socioculturale dove, come si è detto, viene particolarmente esaltata la funzione simbolica esercitata dai beni e dai consumi in generale. Nel primo caso la nozione vebleniana di 'consumo vistoso' è stata semplicemente utilizzata per aprire la strada all'ipotesi dell'interdipendenza; nel secondo caso, invece, questa nozione viene dilatata al punto da sostenere che i beni, più che alla sussistenza e all'esibizione competitiva, servirebbero in realtà per "rendere visibili e stabili le categorie della cultura" (v. Douglas e Isherwood, 1980).
Come accennato in precedenza, quest'ultimo indirizzo di studi, per quanto suggestivo, altera tuttavia in modo così sostanziale la nozione di consumo da renderla poi difficilmente ricollegabile con le categorie economiche di prezzo, di reddito e di risparmio che, comunque, definiscono nei suoi tratti centrali la problematica del consumo. Di ciò parleremo più avanti, mentre ora converrà accennare a quello che è stato sicuramente lo sviluppo più interessante dell'ipotesi di Veblen, cioè la teoria di Duesenberry (v., 1949).Secondo questo autore, nelle società caratterizzate da alti livelli di benessere - qual era la società nordamericana degli anni quaranta, quella, appunto, che Duesenberry aveva sotto gli occhi quando elaborò la sua teoria - il consumatore verrebbe sottoposto a continue sollecitazioni all'acquisto derivanti dal confronto tra i beni da lui posseduti e quelli di qualità superiore posseduti dai consumatori di status superiore al suo con i quali, in questo tipo di società con labili confini di classe, egli sicuramente entra in contatto ('privazione relativa'). L'insoddisfazione derivante da questi continui confronti, da ciò che Duesenberry chiama "effetto dimostrativo", provocherebbe l'impulso a migliorare continuamente il proprio tenore di vita, sostituendo appunto i beni posseduti con beni di qualità superiore. Di qui un'espansione notevole delle spese di consumo a scapito del risparmio, che è la conclusione esattamente opposta a quella cui perviene la teoria economica e, in particolare, la teoria keynesiana del consumo. Quest'ultima, infatti, partendo dall'assunto dell'indipendenza delle scelte di consumo, sostiene che al crescere del reddito - stante una certa difficoltà del consumatore a modificare subito il proprio tenore di vita - il consumo crescerebbe in misura inferiore al risparmio. Duesenberry, al contrario, accogliendo l'ipotesi vebleniana dell'interdipendenza delle scelte, sostiene che, al crescere del reddito, il consumatore, oltre a desiderare quantità maggiori degli stessi beni, desidera anche beni di qualità superiore e, pertanto, grazie a questa ulteriore sollecitazione, la crescita del consumo può risultare proporzionale alla crescita del reddito.
La tesi di Duesenberry ha due importanti implicazioni, una di tipo sociologico, l'altra di tipo economico. Sotto il profilo sociologico l'ipotesi dell'effetto dimostrativo pone subito il problema del rapporto tra crescita dei consumi e stratificazione sociale: dire infatti che i bisogni, e quindi i consumi, sono continuamente stimolati dai rapporti interindividuali e, in particolare, dai rapporti tra soggetti con status differente, significa in realtà sostenere che questa crescita trova la sua causa principale proprio nella disuguaglianza sociale, o comunque nella presenza di margini ottimali di disuguaglianza all'interno della società, ed è facile immaginare quali interrogativi di tipo politico ed etico sollevi questo assunto. L'implicazione economica è altrettanto importante, dal momento che l'ipotesi dell'effetto dimostrativo viene di fatto a infirmare la tesi keynesiana circa la possibilità di stimolare il consumo (e, quindi, il reddito e l'occupazione) attraverso una redistribuzione del reddito nazionale. Nello schema keynesiano, infatti, una situazione di depressione economica dovuta a insufficienza della domanda interna potrebbe esser risolta con una redistribuzione di reddito dalle classi più ricche a quelle più povere, considerando appunto che la propensione marginale al consumo di queste ultime è maggiore di quella delle prime. Per Duesenberry, invece, gli effetti sul consumo di questa redistribuzione sarebbero estremamente incerti. Riducendosi infatti la disuguaglianza tra i redditi, verrebbe a restringersi il margine in cui opera l'effetto dimostrativo, con la conseguenza che le classi che ricevono reddito addizionale potrebbero anche non destinarlo all'incremento del consumo nella misura in cui la propensione marginale lasciava prevedere.Il binomio Veblen-Duesenberry costituisce, dunque, sul piano teorico, l'asse portante dell'indirizzo socioeconomico. Collocando infatti il consumo all'interno del sistema di stratificazione e introducendo il problema della 'qualità' dei beni, Veblen prima e Duesenberry in un secondo momento spostano l'intera problematica dal piano dei beni e dei valori d'uso a quello più ampio, anche se più complesso e incerto, degli stili di vita. In un saggio dal titolo I limiti sociali allo sviluppo l'economista Fred Hirsch ha teorizzato una categoria di beni, i beni 'posizionali', che è assai vicina a quella dei consumi vistosi di Veblen e che, allo stesso tempo, prevede processi di influenza tra i consumatori analoghi all'effetto dimostrativo di Duesenberry.
Il ragionamento di Hirsch parte dalla considerazione che, nelle società economicamente avanzate, una parte consistente della domanda dei consumatori si rivolge verso beni non fondamentali, beni, cioè, che in parte sono rappresentati dai tradizionali beni di lusso, in parte da quei prodotti e servizi che assicurano un alto livello di qualità della vita (si pensi al comfort abitativo, alla disponibilità di verde, di aria pura, ecc.), in parte infine da quelle opportunità e da quei privilegi, quali ad esempio i lavori ben remunerati e ad alta responsabilità, che pur non essendo beni di consumo si collocano tuttavia ugualmente al centro delle aspirazioni dell'uomo della società 'affluente'. La tesi di Hirsch è che mentre l'offerta dei beni materiali tradizionali cresce regolarmente al crescere della relativa domanda, l'offerta di beni 'posizionali' è invece limitata, sia perché essi scarseggiano in senso assoluto (un terreno panoramico) o sociale (i prodotti della moda), sia perché il loro godimento si deteriora man mano che aumenta il numero delle persone che vi accedono. Hirsch li definisce 'posizionali' appunto perché l'accesso a essi è funzione dello status dell'individuo, vale a dire del suo reddito 'relativo'. Il vero problema dello sviluppo sarebbe pertanto quello di spingere inesorabilmente la domanda dei consumatori verso beni la cui offerta è limitata, generando così insoddisfazioni e frustrazioni nella maggior parte degli individui.
L'idea di un settore posizionale di beni ripropone, dunque, la questione delle ineguaglianze strutturali nella crescita dei consumi. Veblen aveva posto in luce le funzioni sociali di queste disuguaglianze; Duesenberry ne teorizza, alla fine degli anni quaranta, gli effetti diretti sulla domanda e sul risparmio; Hirsch ne trae le conseguenze in termini di sviluppo economico. Nell'indirizzo socioeconomico si può dunque parlare più propriamente di un 'asse' Veblen-Duesenberry-Hirsch, al quale sembrano oggi guardare con interesse non solo i sociologi, ma anche gli economisti e i politologi (v. Sen, 1982; v. Scitovsky, 1976; v. Hirschman, 1982).
L'approccio socioculturale cui ora accenneremo costituisce, come si è detto, una variante di questa prospettiva, nel senso che la tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva viene qui portata alle estreme conseguenze, considerando il consumo come un'attività di produzione e di manipolazione di significati sociali e, quindi, come un vero e proprio linguaggio.
3. La direttrice socioculturale
In realtà la tesi secondo cui gli oggetti e i beni di consumo servono anche per soddisfare esigenze di comunicazione e di integrazione sociale non si può attribuire unicamente a Veblen. Gli antropologi si sono infatti sempre occupati di questo tipo di problemi, mostrando come i prodotti della 'cultura materiale' possano favorire i processi che sono alla base della coesione sociale. D'altronde lo stesso Veblen, nel suo saggio sulla "classe agiata", fa un costante riferimento a materiali e a riflessioni di tipo antropologico. Pertanto, il tentativo condotto da sociologi come Jean Baudrillard e da antropologi come Mary Douglas, di costruire una teoria 'culturale' del consumo, va in parte ricondotto all'analisi vebleniana, ma va anche collocato nella tradizione di studi dell'antropologia economica.
Per Baudrillard (v., 1970 e 1972) il consumo non sarebbe altro che uno scambio socializzato di segni. Poiché infatti nelle società del benessere diventa vitale per l'individuo collocarsi nel modo migliore possibile all'interno della gerarchia sociale - dal momento che, come aveva mostrato Duesenberry e come ha sostenuto Hirsch, è proprio da questo posizionamento che dipende l'accesso ai beni e ai servizi cosiddetti 'superiori' - la funzione principale che i beni di consumo finiscono per svolgere è proprio quella di rappresentare questa posizione, di mostrare, cioè, al meglio, la capacità di spesa dell'individuo. Ecco perché in società di questo tipo i beni non verrebbero più tanto desiderati e acquistati per ciò che possono fornire in termini di uso, quanto soprattutto per ciò che possono dare in termini di prestigio e quindi di posizione sociale. Alla base del consumo non vi sarebbe pertanto, secondo Baudrillard, una logica economica di soddisfazione dei bisogni, quanto una logica sociale di differenziazione, la stessa, cioè, che governa i fenomeni di moda.
Tre aspetti di questa tesi vanno qui sottolineati. Il primo è che, una volta posto alla base del consumo il bisogno di 'differenze' (sociali) piuttosto che il bisogno di beni, il problema della razionalità delle scelte, così com'è inteso dalla teoria neoclassica della domanda, esige una sostanziale revisione. Il secondo aspetto è che, poiché i bisogni di beni possono comunque trovare un punto di saturazione, mentre ciò è da escludere per i bisogni di 'differenze', si comprende bene perché nelle società capitalistiche avanzate le domande dei consumatori si spostino verso livelli sempre più elevati. Il terzo aspetto da sottolineare è che, ragionando in tal modo, Baudrillard, esattamente come Veblen, sposta il problema del consumatore dal campo micro a quello macro, nel senso che la quantità di beni che questi riesce a ottenere non dipenderebbe né dal suo reddito, né dalle sue motivazioni, ma sarebbe strutturalmente determinata dalla logica stessa della differenziazione di classe.
Nel saggio dal titolo Il mondo delle cose, anche l'antropologa Mary Douglas e l'economista Baron Isherwood sostengono una tesi del genere. Anche per loro, cioè, l'attività di consumo sarebbe qualcosa di più del semplice uso di beni per il soddisfacimento di bisogni umani; solo che, mentre per Baudrillard, come d'altronde per Veblen, questo 'di più' riguarderebbe esclusivamente l'esibizione competitiva, per i due studiosi inglesi si tratterebbe di una funzione più ampia e complessa, riguardante, come si è detto, la visibilità e la stabilità delle categorie della cultura.
Dal 'consumo vistoso' di Veblen, dunque, alla manipolazione di beni-segno secondo Baudrillard, ai beni, infine, intesi come 'accessori rituali' per dare un senso al mondo degli eventi. Come si vede, l'indirizzo socioculturale si è andato via via arricchendo di nuove ipotesi e di nuove interpretazioni, certamente suggestive e stimolanti per la ricerca sui consumi. Il rischio tuttavia è che, con questa alterazione sostanziale della nozione di consumo, l'indirizzo socioculturale si allontani talmente dai tradizionali interrogativi che sono alla base della problematica dei consumi, da compromettere ogni possibilità d'integrazione con l'approccio socioeconomico. (V. anche Bisogni; Società di massa).
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