In economia, sia il metodo di analisi basato sul principio marginalistico e, in particolare, sull’individuazione delle scelte ottime degli agenti economici attraverso il confronto tra beneficio e costo marginale (relativo all’ultima unità di produzione o consumo), sia un particolare indirizzo teorico basato sul medesimo principio.
Il principio marginalistico afferma che un soggetto economico decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio iniziale gli appare minore della soddisfazione iniziale e persiste nell’azione fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. La sua validità è subordinata alla possibilità di dividere in dosi uguali e infinitamente piccole il sacrificio e la soddisfazione, alla decrescenza degli incrementi di soddisfazione con il procedere dell’azione e all’aumento progressivo del sacrificio o per lo meno a una decrescenza meno rapida di quella della soddisfazione. In attuazione di questo principio e della naturale tendenza a massimizzare il vantaggio o a minimizzare il costo, l’imprenditore si procura fattori produttivi fino al punto in cui l’aspettativa del ricavo dovuto all’incremento del prodotto che deriva dall’incremento d’impiego dei singoli fattori (produttività marginale) è uguale al prezzo che deve pagare per ottenerli, e spinge la produzione fino al punto in cui l’incremento del sacrificio (costo marginale) è uguale al ricavo marginale (che in concorrenza perfetta coincide con il prezzo, quest’ultimo essendo, per il singolo produttore, indipendente dalla quantità offerta: tutte le unità della stessa merce sono vendute al medesimo prezzo, dunque il ricavo derivante dall’ultima unità venduta è eguale a quello delle precedenti unità); il consumatore ha convenienza d’altra parte ad accrescere la richiesta fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione che ricava da una nuova dose del bene, o utilità marginale, eguaglia l’incremento del sacrificio, o spesa marginale ecc.
In tale schema concettuale le situazioni di equilibrio (quelle che assicurano il massimo vantaggio per tutti) sono caratterizzate dalle eguaglianze dei valori marginali delle grandezze economiche ponderati con i rispettivi prezzi (cioè rapportati ai prezzi). Si eguaglieranno dunque tra loro: le produttività marginali ponderate dei singoli fattori di produzione impiegati da ogni imprenditore (cioè saranno eguali i rapporti fra le produttività marginali e i prezzi dei fattori stessi); il prezzo di mercato e il costo marginale delle singole imprese; le utilità marginali ponderate dei beni consumati dallo stesso consumatore e così via.
La formulazione analitica delle proposizioni marginalistiche riferentisi a posizioni di massimo e di minimo si fonda su nozioni di calcolo infinitesimale. Il prodotto totale, il costo totale, il ricavo totale, l’utilità totale ecc. possono infatti considerarsi variabili dipendenti in funzione del variare della quantità impiegata, prodotta, venduta o consumata, e prodotto marginale, costo marginale, ricavo marginale, utilità marginale ecc. non sono altro che le variazioni infinitesime di dette funzioni in corrispondenza di variazioni pure infinitesime delle rispettive variabili indipendenti, e quindi sono i differenziali totali delle funzioni stesse. Le posizioni di equilibrio relative al consumatore, al produttore ecc. si ottengono risolvendo problemi di massimi e minimi (in generale vincolati) per determinate funzioni, il che richiede appunto la considerazione delle loro derivate.
La corrente di pensiero chiamata economia marginalistica, conosciuta anche come scuola neoclassica (in opposizione alla scuola classica di A. Smith, D. Ricardo, J.S. Mill) o scuola viennese o austriaca, con riferimento alla nazionalità dei fondatori, è legata soprattutto ai nomi di C. Menger, W.S. Jevons, L. Walras e successivamente di E. Böhm-Bawerk e F. Wieser. Questo indirizzo ha suscitato nuovo interesse nella scienza economica alla fine del 19° sec. e ha conosciuto ulteriori sviluppi grazie a economisti quali P.H. Wicksteed, V. Pareto, K. Wicksell, M. Pantaleoni, E. Barone, A.C. Pigou, i quali hanno accettato la teoria dell’utilità marginale estendendola a situazioni di equilibrio economico generale e non soltanto all’equilibrio parziale dei mercati (analizzato da A. Marshall attraverso l’analisi della domanda e dell’offerta). A differenza della scuola classica i marginalisti ritengono che il valore di un bene non sia dovuto al costo oggettivo del lavoro sostenuto per la produzione dello stesso, bensì all’utilità o valore d’uso soggettivo che il consumatore attribuisce al bene. Pertanto si mettono in rilievo i problemi della misurabilità dell’utilità per un singolo individuo e della confrontabilità tra le utilità per soggetti diversi.
Molte critiche sono state portate al m., rivolte soprattutto all’individualismo sul quale questa teoria si basa, in quanto sostiene che il singolo consumatore o la singola impresa tendono alla loro maggiore soddisfazione, non tenendo in alcun modo conto dei fattori sociali (resistenze dell’ambiente istituzionale, intervento dei gruppi, reazioni possibili della società sulle preferenze degli individui). In seguito, per opera soprattutto di J.M. Keynes e di altri economisti, l’impostazione macroeconomica ha assunto sempre maggiore importanza e lo studio economico si è rivolto prevalentemente al funzionamento del sistema nel suo complesso anziché considerare, come nella microanalisi, i fenomeni al livello dei singoli individui o imprese. I fondamenti microeconomici di questa teoria sono stati sviluppati dai neokeynesiani. Successivamente l’impostazione marginalistica è stata criticata da diversi autori (P. Sraffa, J. von Neumann), i quali sostengono che i prezzi dei beni non sono determinati dalla domanda, ma dalle condizioni tecniche di produzione. Ciò rappresenta uno sviluppo delle idee degli economisti classici, in particolare della teoria del valore lavoro, secondo cui il prezzo di un bene è determinato dalla quantità del lavoro necessaria per produrlo.
Dopo la parentesi keynesiana e postkeynesiana, quindi dagli anni 1950 in poi, il pensiero marginalista ha praticamente dominato su qualunque altra impostazione teorica ed è oggi la lingua universalmente parlata dagli economisti, pur con le dovute sfumature e caratterizzazioni. La sempre maggiore ricerca di strumenti matematici (economia matematica) e statistici a supporto dell’analisi marginale ha reso la disciplina estremamente complessa e variegata. Lo stesso concetto di razionalità dell’individuo è oggi analizzato e studiato anche con esperimenti sul campo (economia sperimentale) oltreché attraverso sofisticati astrazioni matematiche (economia comportamentale) e approfondimenti delle interazioni strategiche tra individui (teoria dei giochi).
Il m. oggi si avvale di una lingua molto più sofisticata rispetto a quella pensata dai suoi fondatori ma ancora oggi identifica l’economia con lo studio, sempre più dettagliato, dei comportamenti individuali tesi al raggiungimento della massima utilità (pur con una definizione più ampia) in un contesto di interazione strategica e caratterizzato da incertezza.