Inquisizione
Tribunale speciale ecclesiastico per la repressione dell’eresia.
Le origini dell’I. vanno collocate tra la fine del 12° sec. e gli inizi del 13°, quando la Santa Sede – ritenendo insufficienti alla repressione dell’eresia (soprattutto catara e valdese) i mezzi ordinari e l’autorità vescovile – cominciò a nominare delegati con l’incarico specifico di ricercare e giudicare gli eretici: il giudice inquisitor, giudice straordinario la cui competenza non annulla, ma si affianca a quella del giudice ordinario. Mentre il vescovo deriva il suo potere giurisdizionale dalla sua stessa investitura, l’inquisitore lo deriva da una espressa delega del potere centrale, dal papa, nel quale risiede la pienezza di ogni giurisdizione. Mentre il vescovo è competente a conoscere universitatem causarum, l’inquisitore è un giudice permanente che ha per oggetto normale della sua competenza solo l’haeretica pravitas; mentre il vescovo non ha giurisdizione fuori dei limiti della sua diocesi, l’inquisitore ha giurisdizione universale quanto alle persone nei limiti fissati dalle lettere di delega: quasi mai questi limiti coincidono con quelli di una diocesi. L’origine dell’I. si lega in particolare a Gregorio IX, che nel 1231-35 istituì in varie parti d’Europa tribunali dell’I. presieduti da inquisitori permanenti e nel 1235 affidò definitivamente l’I. ai domenicani; il privilegio fu esteso da Innocenzo IV ai frati minori (1246). L’azione dell’I. era rivolta (almeno fino al sec. 14°) più che a contrastare sul piano della discussione teologica l’eresia, a colpirla nel suo pratico e pubblico manifestarsi. Lo stesso invito, rivolto dagli inquisitori ai colpevoli, di rinunciare alla haeretica pravitas mirava soprattutto a far rientrare l’eretico in armonia con la legalità che con i suoi atti esterni egli aveva violato. Bernardo di Guido, uno dei più famosi teorici dell’I., asseriva essere compito dell’inquisitore la persecuzione di coloro che si allontanavano dalla comunità degli altri e non riconoscevano l’autorità del papa e della Chiesa. Otto sono – secondo Raimondo di Peñafort – le categorie di imputabili presso l’I.: haeretici (coloro che persistono nel loro errore); suspecti (coloro che hanno udito prediche o discorsi di eretici, o hanno partecipato alle loro preghiere); celatores, occultatores, receptatores, defensores (tutti coloro cioè che conobbero, nascosero o difesero eretici); fautores; relapsi (i recidivi). L’I. ebbe inizialmente il diritto di perseguire le pratiche di stregoneria e magia quando queste manifestassero un chiaro aspetto di eresia: ma presto questa limitazione cadde, per risorgere soltanto all’inizio del Seicento.
La procedura dell’I. medievale, non fissata in alcun testo ufficiale, presenta nelle varie epoche difformità spesso notevoli. In linea di massima l’inquisitore era coadiuvato da un vicario, alcuni commissari, alcuni probi viri, ufficiali subalterni (in parte forniti dal signore laico), guardiani della prigione (se l’I. ne aveva una propria), notai ecc. A fianco dell’inquisitore o del suo vicario sedeva il vescovo o il suo delegato. Tutti coloro che la voce pubblica, l’inchiesta segreta d’ufficio, una denuncia, la deposizione di testimoni ecc., designavano come eretici erano citati a comparire davanti all’inquisitore. Interrogato, il convenuto poteva confessare subito e in tal caso la causa era già istruita. Ma se negava si ricercava la confessione con mezzi vari, dalla prigione alla tortura, usata in alcuni processi dell’I. già nella prima metà del sec. 13° e definitivamente autorizzata da Innocenzo IV (bolla Ad extirpanda del 15 maggio 1252); l’uso fu confermato da Alessandro IV (1259) e Clemente IV (1265). Se l’imputato, reiteratamente torturato, non confessava, era in generale assolto, almeno dalle accuse più gravi. Prima di formulare la sentenza l’inquisitore era tenuto a consultare una specie di giuria composta di probi viri che, avendo assistito all’interrogatorio o dopo aver preso cognizione degli atti processuali, si pronunciavano sulla questione di fatto e di diritto nonché sulla pena da applicare. In pratica, senza esservi (sembra) astretti di diritto, l’inquisitore e il vescovo, nell’emettere la sentenza, si conformavano al giudizio dei probi viri. Le condanne variavano dalla semplice imposizione di una formula di abiura, fino al carcere perpetuo o alla consegna secolare (per gli eretici recidivi): questa era accompagnata dalla preghiera che la curia secolare formulasse la sua sentenza citra sanguinis effusionem et mortis periculum. In realtà non si ha un solo esempio di eretico consegnato al braccio secolare che abbia scampato la morte; in generale erano bruciati vivi solo gli eretici impenitenti (il pentimento poteva avvenire anche ai piedi del rogo); i pentiti erano uccisi per impiccagione o taglio della testa e arsi morti. Molto spesso alle penitenze si aggiungevano pene pecuniare sino alla confisca totale dei beni: ciò fu causa di gravi abusi. La sentenza era di regola pronunciata pubblicamente e solennemente durante una cerimonia detta sermo generalis, ma più nota col sostantivo autodafé.
L’I. medievale svolse la sua attività durante un periodo non facilmente determinabile. Quando verso la metà del sec. 16° fu organizzata l’I. romana, la vecchia I. papale sorta nel Medioevo sussisteva ancora, ma non esercitava più un’azione di rilievo notevole. A eccezione dell’Inghilterra, dove l’I. propriamente detta fu introdotta solo a proposito del processo dei Templari e fece altra comparsa, nel sec. 16°, durante il regno di Maria la Cattolica, già nel sec. 13° l’I. fu stabilita in quasi tutti i Paesi d’Europa: in Spagna, dove fu introdotta in Aragona (1232) ed estese presto la sua azione alla Navarra e alla Castiglia; in Germania, dove fu organizzata dal domenicano Corrado di Marburgo; in Boemia, dove fu introdotta da Alessandro IV (1257), ma dove aveva già cessato di funzionare verso la metà del secolo seguente; negli Stati balcanici due tentativi di Bonifacio VIII (1298) e di Giovanni XXII (1323) rimasero pressoché senza successo; in Francia, fin dal 1235, nella persona di Roberto il Bulgaro (un domenicano convertito dal catarismo), fu nominato un inquisitore generale per universum Franciae con giurisdizione anche sulle Fiandre e sui Paesi Bassi. Fra la seconda metà del sec. 14° e la prima metà del 15° l’attività dell’I. andò gradatamente diminuendo d’intensità.
Alla fine del 15° sec., concluso il processo di unificazione territoriale della Penisola Iberica, fu ripristinato in Spagna, su richiesta di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, il tribunale inquisitoriale ecclesiastico, in qualche modo prosecuzione del tribunale medievale. Attraverso l’opera dell’I., inscindibilmente legata al potere politico e finalizzata all’eliminazione delle minoranze etniche e religiose ebraiche e arabe, i sovrani intendevano garantire al Paese una salda unità religiosa che potesse favorire il processo di coesione nazionale. Sisto IV con la bolla del 1° nov. 1478 autorizzava i monarchi spagnoli a nominare inquisitori di loro fiducia, organizzati su scala nazionale e sotto il diretto controllo della monarchia. Dopo altre trattative con la Santa Sede, nell’ag. 1483 Sisto IV autorizzò la nomina a inquisitore generale di un prelato spagnolo. Nell’ottobre dello stesso anno anche l’Aragona, la Valenza e la Catalogna, fino ad allora sottratte alla giurisdizione degli inquisitori nominati dai sovrani, furono sottomesse al nuovo regime. Con questi provvedimenti e con le Istruzioni emanate dal primo inquisitore generale T. de Torquemada, l’I. spagnola (definita correntemente come el Santo oficio) può considerarsi definitivamente stabilita. La lotta contro ebrei e arabi, considerati elementi perturbatori della riconquistata unità cristiana, fu assolta con estrema durezza da de Torquemada e prima di lui da Miguel Morillo, Juan de San Martín, Juan Ruiz de Mendoza. Agli ebrei, numerosissimi in Spagna, già dal 1492 era stata imposta l’alternativa tra l’espulsione dal Paese e la conversione forzata, e l’azione dell’I. si rivolse in un primo tempo principalmente contro gli ebrei convertiti (marrani), che si riteneva continuassero a praticare segretamente il loro culto simulando esteriormente l’adesione al cattolicesimo. Furono ugualmente perseguitati i moriscos, mori convertiti soprattutto dopo la conquista di Granada, i quali, fedeli all’islam, si sottomettevano apparentemente ai precetti cattolici. Nel 16° sec. l’I. si rivolse anche contro gli alumbrados e la diffusione della Riforma. È rimasto celebre il processo intentato dall’I. spagnola e concluso a Roma contro il cardinale Bartolomé de Carranza. Nei secc. 17° e 18° l’azione del Sant’Uffizio divenne molto più mite. L’I. spagnola fu introdotta anche nei domini spagnoli dell’America, specialmente in Messico e Perù. Fallirono invece i tentativi dei sovrani spagnoli d’introdurla a Milano e a Napoli; in Sicilia fu introdotta nel 1518. Il tribunale che Carlo V istituì arbitrariamente nei Paesi Bassi (1522) per reprimere il protestantesimo è rimasto tristemente celebre per la sua crudeltà. Un tribunale assai simile a quello dell’I. spagnola fu fondato nel 1531 in Portogallo su richiesta del re Giovanni III per procedere contro gli ebrei portoghesi. L’I. spagnola fu soppressa da Napoleone nel dicembre 1808 e la soppressione fu confermata dalle Cortes il 12 febbr. 1813. Restaurata da Ferdinando VII (luglio 1814), soppressa nuovamente dalla rivoluzione del 1820, fu di nuovo ristabilita nel 1823 e definitivamente eliminata nel 1834; quella portoghese fu soppressa durante il regno di Giovanni VI (1816-26).
La Sacra congregatio Romanae et universalis inquisitionis seu Sancti officii (poi semplicemente denominata sia nella costituzione di Pio X del 1908 sia nel Codex iuris canonici del 1917 come Congregatio Sancti officii) fu istituita da Paolo III (bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542), che nominò una commissione centrale, composta di sei cardinali inquisitori, competente in materia di fede e con giurisdizione su tutto il mondo cristiano. Era prerogativa del papa accordare la grazia ai pentiti. La caratteristica di questa istituzione nei riguardi dell’I. medievale consisteva nella centralizzazione del suo potere e nella facoltà accordatale di procedere prescindendo completamente dai tribunali vescovili. La genesi dell’istituzione va posta nel quadro generale della Controriforma e quindi della repressione dell’eresia, ma va cercata anche nel desiderio di opporre all’I. spagnola, che operava indipendentemente dalla Santa Sede, un antagonista ben altrimenti efficace che non i residui della vecchia I. medievale. La competenza, la composizione e la procedura dell’I. romana furono oggetto di numerosi provvedimenti da parte dei successori di Paolo III. Ma il vero organizzatore dell’I. romana fu Sisto V, che pose (1588) la Congregazione dell’I. come prima delle 15 congregazioni romane. Tra i papi che si servirono dell’I. come di uno strumento di ferreo controllo della vita e della cultura del tempo va ricordato Paolo IV, che perseguitò duramente gli eretici: i suoi provvedimenti contro gli ebrei e il processo contro il cardinale Giovanni Morone sono tra gli atti più discussi del suo pontificato. Pio IV rappresenta una battuta di arresto sulla via della severità. Pio V Ghislieri, che durante il pontificato di Paolo IV era stato nominato inquisitore generale per la Chiesa di Roma, tornò a intensificare l’azione del tribunale e prese una serie di provvedimenti che ne garantirono la più larga e sollecita azione: in sei anni (1566-71) furono celebrati 12 autodafé; salirono il patibolo fra gli altri Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario; fu istituito a Faenza un commissario generale dell’I. che in poco tempo istruì circa 150 processi; a Milano lo stesso arcivescovo cardinale Borromeo dovette intervenire contro una bolla che permetteva il procedimento giudiziario dietro semplice denuncia segreta; si intensificò la repressione della magia e della stregoneria e furono sistematicamente perseguitati gli ebrei. Durante i pontificati di Gregorio XIII (1572-85), Sisto V (1585-90) e Clemente VIII (1592-1605), l’I. rallentò la sua azione: solo una cinquantina di eretici, fra i quali Giordano Bruno (condannato al rogo nel 1600), furono abbandonati al braccio secolare. Con Paolo V (1605-21), Gregorio XV (1621-23) e Urbano VIII (1623-44) questa tendenza alla mitezza si rafforzò: l’attività del tribunale si esercitava ormai contro la stampa, attraverso una stretta vigilanza sui testi anche indirettamente pericolosi per la dottrina cattolica. Col tempo l’I. si ridusse a un’istituzione di ordinaria amministrazione per la tutela del buon ordine, della fede e dei costumi nella vita interna della Chiesa, ma nonostante ciò seguitò a vivere e le soppressioni che la colpirono tra il Settecento e l’Ottocento segnavano soprattutto il rifiuto degli Stati a rendere esecutive le sue sentenze; l’unificazione dell’Italia le diede, in questo senso, l’ultimo colpo. La Congregazione del Sant’Uffizio, competente per tutto il mondo cattolico dopo l’abolizione delle I. iberiche all’inizio dell’Ottocento, processò agli inizi del Novecento i modernisti, teologi che volevano rinnovare lo studio della Bibbia e la storia della Chiesa. Il 7 dicembre 1965, giorno precedente la conclusione del Concilio vaticano II, la Congregazione è stata trasformata in Congregazione per la dottrina della fede, con l’intenzione di attribuirle compiti più connessi alla promozione della ricerca teologica che alla repressione degli errori. Il 12 marzo 2000, «giornata del perdono», papa Giovanni Paolo II ha recitato un mea culpa per i peccati compiuti dalla Chiesa nel corso dei secoli: fra questi figuravano anche quelli commessi durante l’Inquisizione.