INTELLETTUALI
di Zygmunt Bauman
Il termine 'intellettuali' fece la sua prima comparsa nel linguaggio del pubblico dibattito in Francia, con la pubblicazione della lettera aperta di Émile Zola al presidente della Repubblica Félix Faure (su L'Aurore del 13 gennaio 1898), in cui lo scrittore protestava contro l'ingiusto processo a Dreyfus, in nome dei valori superiori di giustizia e verità. Nelle settimane successive alla pubblicazione della lettera di Zola, sull'Aurore continuarono a comparire per due dozzine di numeri altre protestations firmate da centinaia di illustri personalità. Si trattava soprattutto di professori universitari di diverse discipline, insigniti di numerosi titoli accademici e onorifici, ma accanto agli accademici figurava anche una nutrita schiera di artisti, architetti, giuristi, medici, scrittori e musicisti. Già nel numero del 23 gennaio l'editore Georges Clemenceau poteva annunciare la comparsa di una nuova, potente forza politica, il cui atto di nascita era stato segnato dal comune sostegno dato a un'idea politica. Egli definì 'intellettuali' questa nuova forza: "Non è forse un segnale, tutti questi intellettuali venuti da ogni angolo, che si raccolgono attorno a un'idea?".
Clemenceau si riferiva a specialisti di prim'ordine, luminari delle rispettive professioni, i quali ritenevano fosse loro diritto e loro dovere raccogliersi in difesa di valori importanti qualora, a loro avviso, questi non venissero adeguatamente tutelati, o fossero addirittura messi in pericolo, dalle azioni delle autorità statali. Compiendo questo passo, i firmatari delle lettere di protesta diedero espressione a due taciti assunti.In primo luogo, nonostante le differenze di specializzazioni e di funzioni professionali, accademici, artisti, giuristi, scrittori o musicisti eminenti sono accomunati da un'importante caratteristica: in virtù del loro eccezionale sapere precluso alla gente comune, un sapere acquisito e dimostrato nei rispettivi campi professionali, essi sono tutti particolarmente vicini ai valori essenziali che fondano e determinano la qualità di tutta la società; essi sono, per così dire, i tutori della verità e dell'obiettività, e ciò consente alle loro idee di trascendere gli interessi legati a un gruppo ristretto e i pregiudizi partigiani. In quanto esponenti più eminenti delle rispettive specializzazioni, in quanto godono della pubblica fiducia e della pubblica stima per la loro eccellenza professionale, gli intellettuali sono anche depositari dei valori culturali universali che trascendono ogni singola specializzazione e ogni specifica funzione sociale. Essi pertanto hanno il diritto di godere dell'enorme considerazione in cui sono tenuti per le loro competenze professionali e di far sentire il peso della loro influenza nelle questioni di pubblico interesse: hanno il diritto di esprimere il proprio parere autorevole su materie che non rientrano direttamente nell'ambito delle loro competenze professionali. Essi sono l'"haute intelligencija" di cui parla Régis Debray - "l'insieme degli individui socialmente legittimati a esprimere pubblicamente un'opinione personale concernente le questioni pubbliche, indipendentemente dalle regolari procedure civiche alle quali si devono attenere i cittadini comuni" (v. Debray, 1979, pp. 43-44). Nel loro insieme gli intellettuali detengono un potere che, sebbene derivi da fonti diverse, può affiancarsi e all'occorrenza contrapporsi a quello della classe politica.
In secondo luogo, prendere posizione su materie di pubblico interesse, in particolar modo su materie di rilevanza etica, diventa un dovere di questa categoria ogniqualvolta i politici - i professionisti della sfera pubblica - vengono meno alle proprie responsabilità. Agli intellettuali come gruppo spetta la responsabilità di controllare e vagliare le azioni dei tutori designati dei valori pubblici, nonché il dovere di intervenire qualora ritengano che tali azioni siano inadeguate. Così facendo gli intellettuali trascendono gli interessi legati al proprio gruppo o alla propria professione; essi sono, o perlomeno si reputano, una categoria 'disinteressata' e quindi non partigiana, obiettiva nei propri giudizi e legittimata a parlare in nome dell'intera società. Solo gli intellettuali, per citare il pregnante giudizio di Lucien Herr, "sono capaci di anteporre il diritto e un ideale di giustizia ai loro interessi personali, ai loro istinti naturali e ai loro egoismi di gruppo" (v. Ory e Sirinelli, 1986, p. 18).
In altre parole gli intellettuali sono coloro che hanno sia il diritto che il dovere di agire come 'coscienza collettiva' della nazione e di trascendere, quindi, tanto le divisioni specialistiche nei propri ranghi quanto le divisioni settoriali legate a interessi particolari all'interno della nazione, della quale tutelano e promuovono i valori supremi. Gli intellettuali sono definiti per ciò che fanno al di sopra e al di là dei loro obblighi professionali. Essere un intellettuale significa svolgere un ruolo peculiare nella vita della società. Gli intellettuali sono tali in virtù di questo ruolo, non in quanto membri della 'classe colta' o in virtù dei titoli formali conseguiti nel corso della loro carriera o dell'appartenenza a uno specifico gruppo professionale (quest'ultima infatti è una condizione necessaria ma non sufficiente per appartenere alla categoria degli intellettuali). Una volta formulato da Clemenceau, il concetto di intellettuali assunse più il carattere di un postulato, di un progetto, di un appello alla mobilitazione che non quello di una definizione empirica, 'oggettiva', di una determinata categoria della popolazione. Nonostante assumesse una forma descrittiva, il vero significato del concetto era quello di un invito aperto cui rispondere con una scelta di impegno personale: si trattava di un appello rivolto a determinati gruppi prestigiosi della società perché riconoscessero di essere investiti di una speciale responsabilità globale e perché l'accettassero e la esercitassero al servizio dell'intera società. Nello stesso tempo si trattava di un meccanismo di legittimazione, atto a giustificare l'intervento politico a posteriori. Questa idea di una speciale responsabilità politica e di una missione sociale degli intellettuali avrebbe dominato - sia pure tra critiche e dissensi - l'autocoscienza delle classi colte.
Sin dall'inizio, quindi, il concetto di intellettuali implicava un appello alla militanza e alla mobilitazione, opponendosi polemicamente a due tendenze: la crescente frammentazione della classe colta, determinata dalla specializzazione professionale, e il declino della rilevanza politica delle professioni liberali (e del 'pubblico' in generale) in un'epoca in cui la politica era divenuta essa stessa un'occupazione separata, a tempo pieno, riservata a una classe specifica di professionisti. Per quanto apertamente progressista, il concetto di intellettuali aveva pertanto una connotazione nostalgica: si trattava di un'esortazione a riaffermare e a ricostituire quell'unità e quell'autorità pubblica di cui un tempo godevano o si presumeva godessero gli uomini colti e che ora apparivano minate e sul punto di andar perdute.Una volta che il concetto venne formulato e si consolidò la parallela autocoscienza della vocazione intellettuale, fu del tutto naturale cominciare a ricercare i precedenti storici di quella funzione che andava ora 'recuperata', al fine di dimostrare che la presenza e il ruolo delle categorie equivalenti agli intellettuali odierni hanno sempre costituito un ingrediente indispensabile della società umana in tutte le sue forme conosciute. Questa nuova sensibilità fece sì che sciamani, scribi, sacerdoti ed ecclesiastici venissero ridefiniti dagli storici e dagli antropologi come protointellettuali, i quali in società di tipo diverso svolgevano un ruolo analogo a quello della moderna élite della classe intellettuale.
Le analogie tuttavia hanno i loro limiti, e si può affermare a buon diritto che gli intellettuali moderni sono per molti aspetti unici nel loro genere, e che il ruolo che essi svolgono o reclamano il diritto di svolgere non esisteva per i loro 'equivalenti' premoderni.Secondo Robert Muchembled (v., 1978, pp. 13 e 220 ss.) il 'processo di civilizzazione' - che viene universalmente riconosciuto come uno dei principali fattori nella nascita della modernità - fu soprattutto un processo di 'desincronizzazione culturale' tra le élites e le masse. Più precisamente, a partire dal XVI secolo, nell'Europa occidentale si verificò un'autoseparazione culturale delle élites. Tale separazione fu un processo acutamente autocosciente, che cristallizzò il resto della popolazione in una 'massa', definita per lo più come ignorante, irrazionale, 'volgare', degradata, non sufficientemente emancipata dalla natura animale e schiava di passioni che occorreva soggiogare o addomesticare. Sebbene nei secoli precedenti nascita e ricchezza avessero creato profonde divisioni nella società europea, fu solo alle soglie dell'epoca moderna che si verificò un estraniamento culturale tra dominanti e dominati, e i primi definirono 'colto' (nel senso di raffinato, distinto, civilizzato), e quindi giusto o superiore, il proprio modo di vita. Tale autodefinizione trasformò il dominio concreto - politico, economico e sociale - in un progetto di egemonia culturale (o meglio, rese l'egemonia culturale un'integrazione e un supporto necessari del dominio). Ciò a sua volta fece della massa dominata il futuro oggetto di una prolungata crociata di civilizzazione oppure, in alternativa, di una attività di controllo e di stretta sorveglianza. Qualunque fosse la strategia prescelta, la natura umana delle masse era considerata incompleta sotto importanti riguardi, e le masse stesse erano ritenute incapaci di perfezionare tale natura con le proprie forze. L'autoseparazione delle élites aveva quindi diviso la società in tre piuttosto che in due gruppi: l'élite, che si autoproclamava modello dell'honnête homme, dell'homme civilisé o dell'homme de lumières; le masse - l''Altro' rispetto all'élite - rozze, incivili e non illuminate; e infine la categoria dei missionari - istruttori o insegnanti il cui compito era quello di dirozzare, civilizzare e illuminare le masse (questa terza categoria, sia pure con un certo ritardo, divenne il complemento dei tutori dell'ordine incaricati di rendere inoffensive, sorvegliare e neutralizzare le 'classi pericolose', 'incolte' e quindi imprevedibili).
Gli insegnanti erano destinati a diventare lo strumento più importante del nuovo ordine - un ordine diverso da ogni altro conosciuto nel passato. L'ordine moderno era unico nel senso che fin dall'inizio fu consapevole della propria natura di prodotto umano, di forma artificiale destinata a plasmare la materia grezza, malleabile eppure riottosa, della società. Si trattava di un ordine capace di autoriflessione e di autocontrollo, che si considerava come unica alternativa alla natura cieca e informe e come unica protezione - sempre precaria - contro il caos. Era un ordine non sicuro di sé, conscio che ogni allentamento della vigilanza avrebbe potuto ripristinare l'anarchia naturale. Civilizzare la potenziale 'bestia umana', controllare le passioni e coltivare le facoltà razionali costituiva il principale rimedio contro il caos e il bellum omnium contra omnes.
Fu quest'ultimo imperativo a schiudere uno spazio sociale funzionalmente significativo ai responsabili della produzione e della diffusione delle idee. Questi, dal canto loro, fecero del loro meglio per assicurare a tale imperativo il ruolo strategico più importante nei processi di costituzione e di mantenimento dell'ordine. La cultura come teoria dell'ordine sociale e come prassi sociale di educazione fu un prodotto di questo sostegno reciproco. La teoria postulava che gli uomini in se stessi sono incapaci di convivere pacificamente e impreparati ad affrontare le esigenze complesse e vincolanti della vita sociale; essi non potrebbero superare queste manchevolezze senza un aiuto qualificato, e di conseguenza devono essere assistiti da persone 'competenti'. Gli uomini devono essere educati, ed educati in modo tale da adottare le idee e i comportamenti che i depositari del sapere indicano come giusti e appropriati. La prassi, d'altra parte, avrebbe istituito il governo degli uomini d'ingegno, elevando l'indottrinamento al rango di meccanismo decisivo per la creazione e il mantenimento dell'ordine sociale. Una volta che la teoria sia accettata e messa in pratica si può affermare, citando Ernest Gellner, che "alla base dell'ordine sociale moderno non vi è il boia ma il professore. Non la ghigliottina, ma il doctorat d'État (come viene appropriatamente definito) è il principale strumento e il simbolo del potere statale. Il monopolio dell'educazione legittima è ora più importante, più decisivo del monopolio della violenza legittima" (v. Gellner, 1983, p. 34).
Si crearono così le condizioni per una cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra i 'professori' e il loro datore di lavoro, lo Stato. Essi avevano bisogno gli uni dell'altro, giacché per definizione il potere senza conoscenza è acefalo e la conoscenza senza potere imbelle. Governanti e insegnanti vedevano il mondo nella stessa prospettiva 'manageriale', come una distesa vergine e informe da coltivare e plasmare, e concepivano se stessi in modo analogo, come conferitori di forma, progettatori, architetti, legislatori, giardinieri. Gli uni erano incompleti senza gli altri, solo insieme potevano considerarsi portavoce e tutori dell'intera società, depositari e realizzatori dei suoi valori supremi e dei suoi destini. Restava poco spazio per gli attriti, e quando questi mancano vi sono scarse probabilità che ciascuna delle due parti prenda le distanze dall'altra e 'oggettivi' se stessa come entità separata.
Finché permangono queste condizioni i titolari della funzione intellettuale non hanno motivo di dissociarsi dalla struttura dell'ordine sociale, non si contrappongono come intellettuali, distinti o addirittura antagonistici, rispetto ai governanti, cui spetta il diritto e il dovere di guidare la vita e il progresso della società; non avanzano la pretesa di essere un gruppo unitario chiamato a svolgere una missione collettiva e accomunato dalle stesse rivendicazioni di categoria. Senza dubbio non viene loro in mente di affermare ciò che disse Valéry: "Il pungolo di tutta la vita intellettuale è la convinzione del fallimento, del carattere abortivo, dell'insufficienza delle vite intellettuali del passato" (v. Valéry, 1943, p. 9). Per fare un'affermazione del genere essi devono essere prima diventati critici nei confronti dei responsabili dell'ordine sociale dai quali si sentono estraniati; devono aver concepito se stessi come gli unici responsabili della promozione dei valori che i governanti non possono o non vogliono inculcare o tutelare. Essi possono costituirsi come intellettuali (un gruppo separato caratterizzato da qualità, titoli, responsabilità e compiti suoi propri) solo attraverso l'esercizio di una critica (ossia di un'attività percepita e classificata come critica in quanto rivolta contro l'ordine ufficialmente sancito, o contro l'amministrazione ufficiale dell'ordine esistente, non semplicemente l'ordine col quale si confrontano le autorità ufficiali della società per smantellarlo e rimpiazzarlo).
Ma i germi di tale conflitto, che sta alla base dell'autoestraniamento e dell'autoaffermazione, erano presenti nella posizione sociale e nel ruolo degli 'educatori' colti perlomeno dal XVIII secolo. Fu questa l'epoca dell'affermarsi della 'sfera pubblica' (v. Habermas, 1962) - uno spazio relativamente libero che si collocava tra le strutture di potere in rapido disfacimento dell'ancien régime aristocratico e la classe capitalistica in via di formazione ma non ancora consolidatasi. Tale spazio era occupato dalle sociétés de pensée, istituzionalizzate nella moltitudine di club, salotti e iniziative editoriali, che si incentravano sulla discussione e per la prima volta nella storia offrivano a pensatori e scrittori una relativa indipendenza dagli obblighi di servizio diretto verso le strutture di potere secolari o ecclesiastiche. Il senso di indipendenza degli intellettuali si cristallizzò presto nel postulato dell'indipendenza di pensiero, e in seguito nella richiesta di influenza politica - basata sull'idea che il sovrano, legislatore supremo, avesse bisogno di essere illuminato e guidato dai philosophes, unici portavoce della Ragione secondo i principî della quale doveva essere costituita la nuova società razionale e civilizzata. Questa relativa autonomia strutturale e questa richiesta di autorità legislativa misero la classe intellettuale emergente in competizione con i governanti politici, e il controllo delle 'masse', il vero oggetto della 'civilizzazione', costituì la principale posta della competizione. Il famoso scontro tra Napoleone e gli accademici dell'Institut National dopo la fallita cospirazione di Malet è passato alla storia come il primo caso in cui le potenzialità del conflitto vennero alla luce.
Le condizioni per l'estraniamento e l'antagonismo tra i governanti e le classi colte - e quindi per l'autoproclamazione degli intellettuali come protagonisti di una critica socioculturale - si verificarono tuttavia nel modo più evidente alla periferia del mondo modernizzato. Per i paesi periferici - che, pur non avendo ancora intrapreso la strada delle profonde trasformazioni sociali, potevano constatarne gli effetti osservando l'invidiabile esperienza del nucleo già 'modernizzato' del mondo contemporaneo - la modernità non era un risultato spontaneo e casuale del mutamento sociale, ma esisteva nel pensiero prima di diventare realtà, e quindi non poteva essere che un progetto deliberatamente scelto, un obiettivo consapevolmente perseguito. In quanto 'periferici', tali paesi erano considerati dal centro avanzato non ancora 'civilizzati', 'relativamente arretrati', 'rimasti indietro', 'in ritardo nello sviluppo'. Allorché questo giudizio, avallato dall'autorità di paesi indubbiamente 'avanzati' e palesemente 'superiori' (in quanto egemoni sul piano politico e militare), fu accettato dalle società periferiche 'più deboli', la loro situazione, fino a quel momento considerata normale (o troppo normale e familiare perché se ne avesse coscienza), venne improvvisamente ridefinita come aberrante, ritardata, 'impastoiata in una tradizione obsoleta', o altrimenti vergognosa, oltraggiosa, umiliante e infine intollerabile. La realtà, o la presunta realtà del centro 'evoluto' (di cui si dava sempre un'immagine in qualche modo abbellita ed emendata), divenne l'utopia della periferia 'sottosviluppata'.
La condizione di inferiorità di cui si era da poco presa coscienza diede l'avvio a quel processo che gli antropologi definiscono 'diffusione dello stimolo': un processo in cui l'idea di una forma sociale 'superiore' si diffonde autonomamente senza essere accompagnata dalle condizioni socioeconomiche in cui è potuta nascere, acquisendo così lo status di un'esortazione chiliastica - un sogno da trasformare in realtà con un consapevole sforzo da parte dell'uomo. Se nel caso dei paesi 'guida', dai quali aveva avuto origine lo stimolo, il carattere di prodotto dell'uomo del nuovo modello poteva a volte passare inosservato (come in effetti avvenne in principio), o essere concettualizzato retrospettivamente come frutto di un processo spontaneo, per quanto concerne i paesi 'guidati' non poteva esservi alcuna ambiguità. Qui tale processo non poteva essere concepito se non in forma apertamente culturale: come il prodotto di una legislazione radicale e rivoluzionaria ma accuratamente progettata, di un'intensa attività umana finalizzata, di uno 'smantellamento' delle vecchie forme e della costruzione di nuove. Esito e nel contempo presupposto di tale processo era l'edificazione dell''Uomo Nuovo', capace di sostenere il 'Nuovo Ordine' e di vivere in esso (è questo il motivo per cui le lotte degli intellettuali della 'periferia' - ad esempio dei paesi comunisti dell'Est o del Terzo Mondo - hanno sempre esercitato un intenso fascino, spesso misto a invidia, sugli intellettuali del 'centro', apparentemente meglio integrati nel sistema, che fungevano da modello: gli imitatori periferici del centro sembravano avere quel livello di coinvolgimento nella prassi sociale e di influenza sul corso della storia che per gli intellettuali meglio integrati del centro, oggetto di emulazione, restava un ideale irrealizzato).
L'adesione a modelli stranieri in base ai quali d'allora in poi la situazione locale si sarebbe dovuta valutare (per poi condannarla inevitabilmente) faceva di coloro che li abbracciavano dei critici della propria società. Costoro si collocavano, perlomeno idealmente, al di fuori della propria realtà locale, e tale distanza mentale trasformava la 'realtà' e la loro propria condizione in entità 'oggettive' nettamente contrapposte e in lotta tra loro. In questa contrapposizione la realtà locale diventava l'oggetto di una trasformazione radicale e deliberata e/o un ostacolo che occorreva abbattere se si voleva realizzare tale trasformazione, mentre il loro ruolo diventava quello di artefici della trasformazione, di agenti civilizzatori, di educatori, di legislatori. La realtà appariva carente, imperfetta, destituita di autorità, un mero materiale grezzo e del tutto passivo al quale l'azione futura doveva ancora imprimere una forma.
Storicamente lo stimolo proveniente dall'Europa occidentale, centro del processo di modernizzazione-civilizzazione, raggiunse prima l'Europa orientale, l'area geograficamente più vicina al luogo d'origine della modernità. Non c'è da stupirsi quindi che il concetto di intelligencija sia stato ideato e applicato nella pratica per la prima volta in questa parte del mondo (il termine stesso è entrato nel vocabolario internazionale nella sua forma russa), stabilendo un modello incessantemente ripreso in seguito in un'infinità di aree più o meno distanti del globo, pervase dallo zelo missionario di una civilizzazione sicura della propria universalità. Apparentemente si trattava di un termine puramente tecnico, che denotava un esiguo strato di persone istruite la cui attività richiedeva l'impiego di capacità intellettuali più che fisiche. Tuttavia il vero significato del nuovo termine (un significato che determinò in larga misura la relativa prassi) può essere colto meglio nell'opposizione semantica in cui apparve originariamente: la contrapposizione tra 'intelligencija' e 'popolo'. L'intelligencija era, per così dire, l'elemento definitorio nell'opposizione; il 'popolo' era definito come l''Altro' rispetto all'intelligencija. Esso era la creta inerte rispetto allo zelo creativo dell'intelligencija, cui si contrapponeva come l'ignavo si contrappone all'attivo, il superstizioso all'istruito, l'ottenebrato all'illuminato, l'ignorante al colto: in breve, l'arretrato al progressista. Il popolo era una massa ancora informe, pronta a ricevere qualsiasi forma l'azione abile ed esperta dell'intelligencija le avesse conferito, una forma che peraltro si riteneva non avrebbe mai conseguito se l'intelligencija avesse dimostrato scarso zelo e mancanza di determinazione.
Arnold J. Toynbee (v., 1939) sosteneva che l'intelligencija, in quanto "classe di ufficiali di collegamento" e per ciò stesso "classe di trasformatori", era "destinata a essere infelice". Essa era condannata a essere considerata nel proprio paese "una creatura ibrida e bastarda", "odiata e disprezzata dalla sua stessa gente"; nessun onore le veniva tributato nel paese di cui conosceva a fondo "gli usi, le abitudini e le particolarità" e per il quale nutriva "una devozione senza riserve". Un amaro destino che Toynbee riteneva inevitabile, in quanto l'intellettuale abitava una terra di nessuno sospesa tra la propria società, dalla quale aveva deciso di estraniarsi, e la 'società modello', di cui aveva scelto di farsi appassionato portavoce, ma dalla quale non sarebbe mai stato accettato come partner su un piano di eguaglianza. L'intelligencija delle società periferiche si trovava quindi in una situazione dilemmatica: guardata da un lato con sospetto e spesso derisa dal 'popolo' che si proponeva di rendere felice, trattata dall'altro lato, nel migliore dei casi, con condiscendente tolleranza da parte dell'élite di cui pure aveva contribuito a rafforzare l'autorità che riteneva incontestabile, era probabile che finisse per maledire entrambe le parti. Il suo orientamento critico era, per così dire, sovradeterminato, al pari della sua acuta consapevolezza del proprio isolamento e della propria solitudine. Soprattutto, l'intelligencija vedeva se stessa come la classe trasformatrice: una classe sulla quale gravava la responsabilità di ristrutturare la società facendone qualcosa di completamente diverso, di cambiare il corso della sua storia mettendola sulla 'giusta via'.
Fu la coscienza, propria del mondo periferico, di una 'missione trasformatrice', associata alla cocente esperienza di solitudine e alienazione, di libertà e nel contempo di impotenza, a costituire il modello in base al quale si definì e si sviluppò il dibattito del XX secolo sulla collocazione, sull'identità e sul ruolo sociali degli intellettuali. Probabilmente nessun autore influenzò il corso di tale dibattito più di Karl Mannheim, il quale mise in relazione lo 'sradicamento' sociale della classe intellettuale, il suo evidente estraniamento da tutte le classi integrate nel sistema con il suo eccezionale potere di ergersi a giudice di tutti i settori della società, compresa la classe dei governanti. Nella sua analisi del concetto mannheimiano di freischwebende Intelligenz ('intelligencija liberamente fluttuante') Maurice Natanson osserva che l'intellettuale, proprio perché "non è vincolato da alcun impegno formale" e può "muoversi a suo agio tra le nozioni tradizionali di causalità, controllo e previsione sociali", diventa "uno smascheratore di menzogne e ideologie, in grado di relativizzare e svalutare il pensiero immanente, di disintegrare Weltanschauungen" (v. Natanson, 1962, p. 170). L'eccezionale capacità di penetrazione e di discernimento degli intellettuali indipendenti, che conferisce loro quella perspicuità, veridicità e autorità di giudizio che le classi più 'integrate' non potranno mai possedere, deriva, secondo Mannheim, proprio dalla libertà con cui i membri della classe intellettuale si muovono tra i diversi settori della società: è impossibile infatti avere una visione globale dei problemi se l'osservatore o il pensatore è confinato in un determinato punto della società; l'elaborazione di una decisione è realmente possibile solo in una condizione di libertà basata su una possibilità di scelta che continua a sussistere anche dopo che la decisione è stata presa (v. Mannheim, 1929). Il fatto che gli intellettuali non appartengano ad alcuna delle classi bloccate in un mutuo conflitto di interessi, il fatto che siano respinti da queste classi e si rifiutino di aderire pienamente a una qualsiasi di esse è la garanzia dell'imparzialità e quindi della verità del loro giudizio. Una società che aspiri a una politica autenticamente 'scientifica', che voglia regolamentare le proprie questioni sulla base di una conoscenza sicura e conformemente ai dettami della ragione, deve ammettere questo fatto e affidare di conseguenza la funzione decisionale ai suoi intellettuali.
Le affermazioni di Mannheim (in diretta contrapposizione a quelle di Weber, contrario al coinvolgimento politico della classe intellettuale, depositaria di saggezza, che gode di prestigio scientifico solo in quanto resta wertfrei, neutrale, e non interferisce nella scelta dei valori che i politici intendono perseguire) costituivano essenzialmente una richiesta di potere avanzata in nome della classe intellettuale, o, perlomeno, la richiesta che venisse riconosciuto ai membri di quest'ultima il ruolo di autorevoli consiglieri e controllori dei detentori del potere nonché di 'pubblici giudici' della razionalità delle loro decisioni. Tale rivendicazione era espressa nel linguaggio tipico del XX secolo, in quanto veniva invocata l'autorità delle 'scienze esatte' per sostenere la saggezza politica degli uomini colti. Nella sostanza, però, la tesi di Mannheim riaffermava un'autoimmagine del potere e della missione degli intellettuali risalente perlomeno all'idea baconiana della 'Casa di Salomone' - il luogo in cui vengono elaborate le leggi della società - e sviluppata in seguito dalla filosofia illuminista (v. Bauman, 1987, cap. 2). Tale autoimmagine implica l'idea che nessun'altra classe sociale, dati i suoi limiti intrinseci, è effettivamente in condizione di decidere ciò che è giusto e appropriato per l'intera società. Illustrando al suo pubblico inglese la concezione illuministica del compito che gli intellettuali promotori della cultura sono chiamati ad assolvere, Matthew Arnold afferma che le altre classi sono incapaci di promuovere "la soavità e la luce" che la cultura è in grado di offrire: gli aristocratici in quanto 'barbari' (preoccupati unicamente della raffinatezza esteriore e dell'etichetta), i borghesi in quanto 'filistei' (i quali pretendono di avere una capacità di comprensione che non possiedono), le classi lavoratrici in quanto 'volgo' (in balia degli istinti e dei bisogni, aliene da ogni principio). Solo i pochi individui autoselezionati, che si distaccano dall'habitat della classe in cui sono nati e si dedicano pienamente alla promozione della cultura, possono assicurare il trionfo finale dell'armonia, senza più egoismi e conflitti di classe. Costoro devono essere pronti a lottare contro l'ignavia e l'inerzia che rendono tutte le classi restie o incapaci di accettare e mettere in pratica i valori che essi propugnano: "la cultura indefessamente si studia non già di erigere a norma su cui modellarsi ciò che possa piacere a qualsiasi persona incolta; ma di avvicinarsi sempre più a un senso di ciò che è veramente bello, grazioso e decoroso, e di far sì che esso piaccia alla persona incolta" (v. Arnold, 1869; tr. it., p. 48).
La rivendicazione di una competenza suprema in ciò che concerne la definizione della migliore organizzazione della società e la scelta dei contenuti dell'educazione universale pone gli intellettuali in competizione con le classi politiche, rendendo nel contempo ambivalente il loro rapporto con le masse. Queste ultime sono, per così dire, la raison d'être degli intellettuali e della elevata posizione sociale che essi rivendicano; come afferma Pierre Bourdieu, "nella mitologia degli artisti e degli intellettuali, riportati a volte dalle proprie strategie di aggiramento e di doppia negazione a gusti e opinioni 'popolari', il 'popolo' assume spesso un ruolo non dissimile da quello dei contadini nelle ideologie conservatrici dell' aristocrazia al tramonto" (v. Bourdieu, 1979, p. 62). Il 'popolo' è il naturale alleato degli intellettuali nella loro competizione con i detentori del potere, accusati di trascurare i propri doveri verso quanti sono affidati alla loro tutela. D'altro canto troppo spesso gli intellettuali giudicano il 'popolo' eccessivamente lento o del tutto restio ad accettare i loro giudizi in materia di convenienza e di gusto - un atteggiamento che essi sono pronti a deprecare e condannare al punto che la loro posizione nei confronti del 'popolo' diventa un miscuglio di paura e di disprezzo. Gli intellettuali inoltre non sono in condizione di superare la resistenza del 'popolo' poiché non dispongono degli strumenti di coercizione e di persuasione amministrati dalla classe politica, e ciò li condanna a una situazione di ambivalenza permanente. Come afferma Adorno, "la cultura subisce un danno quando viene pianificata e amministrata; quando è lasciato a se stesso, tuttavia, tutto ciò che è cultura rischia di perdere non solo la sua efficacia, ma la sua stessa esistenza [...]. Lo spirito nella sua forma autonoma non è meno alienato dai bisogni manipolati e ormai saldamente fissati dei consumatori di quanto lo sia dall'amministrazione" (v. Adorno, 1978). Da ciò deriva l'ambiguità frequentemente osservata che gli intellettuali dimostrano nei confronti della forma che dovrebbe assumere la guida del 'popolo'. La prospettiva di poteri forti che perseguano un modello di 'società ideale' contro i desideri della popolazione ancora 'immatura' per apprezzarne le virtù ha suscitato l'entusiasmo degli intellettuali altrettanto spesso quanto le rivendicazioni di autonomia e di libertà democratica dall'interferenza dello Stato nelle scelte compiute dai cittadini; né i regimi totalitari né quelli democratici hanno mai dovuto lamentare una carenza di intellettuali disposti a sostenere e a promuovere la loro causa.
L'autoaffermazione degli intellettuali come forza sociale non è possibile senza un'autonomia istituzionale delle professioni intellettuali. Il modo di vita da essi condiviso, racchiuso nelle istituzioni specifiche della categoria e riprodotto al loro interno, si rispecchia di conseguenza nelle loro concezioni della vita sociale e in particolare nei loro modelli della 'società buona' (modelli tali da offrire, per quanto diversi sotto altri riguardi, piena libertà e condizioni favorevoli al modo di vita intellettuale).
In Francia, ad esempio, l'autocoscienza della classe intellettuale e l'idea della sua funzione sociale di promozione del progresso si sviluppò nel corso del XVIII secolo all'interno di sociétés de pensée relativamente libere ma selettive e con una forte capacità di autoaggregazione, i cui membri "appaiono liberi, svincolati da ogni legame, da ogni obbligo, da ogni funzione sociale" (v. Cochin, 1924, p. XXXVI). Per svolgere il loro ruolo, essi "devono liberarsi di ogni concretezza e particolarità, della propria esistenza sociale reale [...]. Per i suoi membri la société de pensée è caratterizzata dal fatto di essere collegata esclusivamente alle idee" (v. Furet, 1978, p. 223). Svincolate dai problemi e dalle preoccupazioni della vita quotidiana, senza subire alcuna interferenza da parte dei governanti in carica, le sociétés de pensée costituivano una sorta di serra in cui poteva germogliare e svilupparsi l'idea dell'imparzialità e l'imminente dominio della Ragione. Con tutto ciò la corte reale costituì in Francia un centro di promozione della cultura, imitata da numerosi salotti parigini che coltivavano l'arte della discussione e del dibattito vis-à-vis. In Germania, invece, paese caratterizzato da "numerose capitali relativamente piccole", non esisteva "una 'buona società' centralizzata e unificata. Qui l'intelligencija è dispersa in tutto il paese [...]. I più importanti mezzi di comunicazione sono i libri" (v. Elias, 1939). A causa della dispersione, era la scrittura più che la discussione il tramite che univa i membri della classe intellettuale. Questa stessa dispersione accresceva la sua consapevolezza di essere investita di una missione eccezionale: per un lungo periodo la cultura tedesca fu l'unico segno tangibile di una unità tedesca. Goethe, Lessing o Schelling, più che gli inni nazionali, le bandiere, gli eserciti o i sovrani, furono le personificazioni e i simboli di una unità nazionale altrimenti incerta e controversa. La responsabilità degli intellettuali nel processo di unità nazionale non era condivisa da alcuna altra classe: "Attraverso l'educazione vogliamo fare dei Tedeschi un organismo unitario [...]. La fondamentale ricostruzione della nazione si presenta come un compito delle classi colte" (v. Fichte, 1808). La Kultur, dominio incontrastato delle classi colte, era considerata l'unica sfera in cui si svolgeva l'esistenza autentica della nazione. Il Kulturstaat divenne per le classi colte il prototipo della 'società buona' e il sistema di riferimento della storia e della teoria sociale; come è stato osservato, "molti scolari tedeschi hanno sviluppato la convinzione che sia stato Fichte a sconfiggere Napoleone" (v. Ringer, 1969, pp. 116 e 118).In Inghilterra non si affermò né l'uno né l'altro di questi due contesti istituzionali: il fatto che le classi colte fossero ben integrate nel sistema del potere politico ed ecclesiastico ritardò notevolmente, rispetto al continente europeo, il processo di autoseparazione degli intellettuali.
Secondo Régis Debray, i centri istituzionali dell'integrazione degli intellettuali e dell'influenza pubblica si sono spostati via via dalle università (18801930) alle case editrici (1920-1960) e ai mass media (a partire dal 1968: l'attuale stadio, non ancora terminato, viene definito da Debray uno stadio di 'mediocrazia'). I criteri dell'autorevolezza pubblica cambiarono con il mutare dei contesti istituzionali; il potere di fare e disfare le reputazioni pubbliche passò agli editori, e il prestigio e la considerazione di cui prima godevano principalmente gli studiosi e gli accademici divennero prerogativa degli scrittori. Il cambiamento più decisivo, comunque, è stato l'avvento dei mass media, divenuti l'ambito principale in cui viene decretata la fama (o meglio la notorietà) o la condanna all'oblio, nonché la pubblica influenza (sempre immediata ma di breve durata) degli intellettuali. I criteri sostanziali hanno lasciato il posto al fattore della visibilità - dipendente a sua volta in larga misura dal valore di intrattenimento del dibattito intellettuale in atto: "il valore di verità degli enunciati viene subordinato al valore-spettacolo dei loro argomenti [...]. Non è il livello d'istruzione che fa l'intellettuale, bensì il proposito di influenzare il pubblico" (v. Debray, 1979, pp. 98 e 147).
Il mutamento del contesto istituzionale dell'attività intellettuale più gravido di conseguenze è stato determinato dalla progressiva specializzazione delle professioni liberali. Le possibili ripercussioni culturali delle divisioni professionali sono state individuate e analizzate all'inizio del secolo da Georg Simmel. Secondo Simmel la divisione è salutare dal punto di vista della capacità di risolvere i problemi da parte degli esperti: quanto più le competenze professionali sono specializzate e circoscritte, tanto maggiore può essere la loro efficacia pratica immediata. Nello stesso tempo, tuttavia, la rigida delimitazione degli interessi conoscitivi rischia di far perdere di vista problemi più generali di rilevanza culturale. Si assiste invece a una proliferazione di prodotti sostanzialmente superflui, indotta unicamente dalla coazione al pieno utilizzo del meccanismo creato. Viene prodotta così una 'domanda artificiale', del tutto inutile dal punto di vista della cultura del soggetto e che non coincide più con la domanda di cultura come completamento della vita (v. Simmel, 1918). La tragedia della cultura moderna, secondo Simmel, è l'accumulazione di prodotti culturali che si presentano all'individuo come una forza aliena ed esteriore che egli non ha né la necessità né la possibilità di assimilare e di rivestire di significato culturale. La classe intellettuale di conseguenza perde sempre più la sua importanza culturale, e ciò probabilmente decreterà la fine della sua leadership spirituale.Il tema simmeliano delle conseguenze culturali della specializzazione fu sviluppato cinquant'anni più tardi e integrato con una nuova dimensione politica da Michel Foucault (v., 1977). Egli diagnosticò la scomparsa degli intellettuali universali, ormai generalmente soppiantati da una grande varietà di intellettuali specifici, i quali operano nei settori specialistici di un ambito professionale ramificato e diviso e raramente - se mai lo fanno - trascendono i confini della propria sfera di interessi. Se l'intellettuale universale del passato discendeva dalla figura del giurista - dedito alla formulazione di leggi universalmente vincolanti - l'intellettuale specifico ha a che fare con una verità 'locale'. Egli è innanzitutto e soprattutto un professionista: ove mai sia politicamente attivo, il suo interesse e il suo impegno politico si focalizzano sulla difesa e sulla promozione del benessere della propria categoria, spesso in contrasto con altri intellettuali specifici che lottano per difendere gli interessi del proprio settore. Foucault sperava che il cambiamento non segnasse inevitabilmente la fine del ruolo politico degli intellettuali: gli intellettuali specifici sono coinvolti volenti o nolenti nella politica al livello dei 'punti dolenti'. Resta da vedere comunque in che modo le schermaglie politiche specifiche possano cumularsi trasformandosi in un impegno globale. Se la nozione di intellettuali evoca l'immagine di una classe relativamente omogenea caratterizzata da una missione comune e dalla tendenza a un'azione unitaria, la nozione di intellettuali specifici sembra a molti una contraddizione in termini.
In base alla recente analisi delle categorie professionali inglesi condotta da Harold Perkin, la trasformazione dell'élite colta in una categoria di esperti-professionisti ha influenzato profondamente l'atteggiamento degli intellettuali nei confronti dei loro 'oggetti umani', percepiti ora come destinatari passivi delle loro competenze specialistiche e trattati con arroganza e disprezzo. Non si riscontra alcuna disponibilità a instaurare un dialogo con il pubblico dei profani, visti esclusivamente come un insieme di 'oggetti' sui quali 'operare'. Solo altri esperti-professionisti sono considerati potenziali partners di un dialogo, ma i rapporti tra gli esponenti di differenti campi di specializzazione (e di differenti contesti istituzionali) sono improntati innanzitutto e soprattutto alla competizione per i fondi pubblici e alla rivalità professionale. Così "un professionista non può aprir bocca senza essere liquidato in modo sprezzante da un altro"; screditare gli altri esperti è considerato il mezzo più sicuro per aumentare il proprio prestigio, la critica collegiale nel complesso è impregnata di malevolenza e di invidia, e la prospettiva che le diverse categorie professionali si uniscano per assumersi collettivamente la responsabilità propria degli intellettuali è assai incerta e remota (v. Perkin, 1989, pp. 390-398). A conclusioni analoghe giunge Russell Jacoby dopo aver analizzato la crescente perdita di importanza del ruolo degli intellettuali americani nella vita pubblica del loro paese. L'ambiente intellettuale newyorkese autonomo e fortemente indipendente dell'era di Roosevelt e degli anni immediatamente successivi è venuto meno, i suoi esponenti più influenti hanno ottenuto una cattedra universitaria e si sono trasformati in 'accademici di professione'. Il risultato è che "mentre i marxisti e i critici radicali del passato [...] non disertavano mai il pubblico", i loro attuali discendenti accademici "lo disdegnano costantemente": le loro opere "sono destinate ai seminari". "Il pubblico è stato rimpiazzato dai colleghi, e il gergo specialistico ha soppiantato l'inglese". L'effetto globale sulla mentalità dominante è che "per molti professori in molte università la libertà accademica non significa altro che libertà di essere accademici" (v. Jacoby, 1987, pp. 167, 180 e 119).
L'opinione generale espressa in alcune analisi contemporanee della situazione è notevolmente pessimistica per quanto riguarda l'eventuale rinascita di una influenza pubblica degli intellettuali come 'coscienza collettiva della società' analoga a quella che essi esercitavano negli anni precedenti e immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. L'epoca della gloria e della influenza politica degli intellettuali come gruppo responsabile della cultura e delle norme etiche di una nazione, come esponente collettivo di valori umani universali, è finita e appare improbabile che possa tornare.
Per queste ragioni sono ampiamente contestate le tesi contrarie di Daniel Bell (v., 1973) e di Alvin Gouldner (v., 1979), i quali sostengono che con lo straordinario sviluppo della società della 'conoscenza' o 'dell'informazione', dominata dalla scienza, la posizione delle professioni liberali nella struttura sociale diventa sempre più strategica e la loro influenza - o meglio il loro dominio - è destinata a crescere. Secondo Bell la conoscenza diventa il 'principio assiale' dell'era postindustriale, ponendo in una posizione di dominio i suoi operatori, ossia coloro che creano, praticano e diffondono la conoscenza. Secondo Gouldner, "la nuova classe dei depositari della conoscenza" è una nuova "classe universale" in embrione (v. Gouldner, 1979, p. 7), il cui ruolo politico deriva dal capitale culturale fonte della sua forza e del suo "potere contrattuale nei confronti della vecchia classe" (ibid., p. 85). Contro questa concezione, tuttavia, è stato rilevato che a seguito della dispersione occupazionale e istituzionale delle professioni liberali, i cui esponenti ora si presentano più come 'esperti' che non come 'intellettuali' nel senso affermatosi nella prima metà del secolo, l'attuale penetrazione della scienza nella vita economica, politica e sociale conduce a una situazione descritta da Hannah Arendt come "regno di nessuno", piuttosto che alla trasformazione della classe intellettuale in una nuova classe dominante.
La storia degli intellettuali moderni ha avuto inizio con l'ambizioso progetto di sostituire le cieche forze della natura con un ordine costruito artificialmente e 'migliore', un ordine atto a garantire una maggiore felicità individuale e sociale e basato a tal fine sui due pilastri della legislazione - che definisce il contesto in cui la condotta umana può essere guidata dalla ragione piuttosto che da passioni egoistiche, asociali - e dell'educazione - destinata a fornire a tutti i membri della società quelle conoscenze che consentono loro di agire in modo ragionevole e razionale. Per edificare questi due pilastri e per conservare la loro forza occorrevano pensatori e insegnanti; il loro ruolo nel garantire l'ordine razionale della società era in effetti determinante. Diversamente dallo stato di natura, l'ordine razionale e 'migliore' poteva essere solo il risultato di un consapevole progetto umano, un prodotto della cultura; esso richiedeva una costante e deliberata promozione - attraverso buone leggi e una educazione adeguata - di norme e valori prescritti dalla Ragione. In questa attività di promozione le classi colte devono svolgere la duplice funzione di legislatori (definendo il progetto della società buona e i principî in base ai quali costruirla) e di 'giardinieri' (favorendo il prevalere dei principî giusti e l'eliminazione di quelli sbagliati).
L'idea della società come qualcosa da costruire e da coltivare con cura costante, anziché come qualcosa di già dato e immutabile che ci si limita ad assecondare e perpetuare, non era un semplice parto dell'immaginazione dei filosofi, ma rifletteva la situazione in cui si trovavano le società alle soglie di quella che in retrospettiva sarà chiamata 'l'era moderna'. L'ancien régime - la rete tradizionale di istituzioni di controllo sociale e di riproduzione della comunità per lo più a base locale - gradualmente si disintegrava perdendo la sua influenza sulla condotta del singolo. Il potere sempre più centralizzato del monarca assoluto (il 'despota illuminato' teorizzato dai philosophes dell'illuminismo francese) doveva riempire il vuoto lasciato dall'indebolimento della capacità regolatrice dei poteri locali, intervenendo direttamente in quegli aspetti della vita sociale che nel regime tradizionale erano lasciati a se stessi, quasi mai percepiti come 'problemi' che richiedono un controllo cosciente e un intervento sistematico. Lo Stato moderno fu sin dall'inizio uno Stato che interveniva attivamente, trasformando in materia di regolamentazione giuridica, di interesse pubblico e di legislazione politica questioni che in precedenza erano soggette ai controlli disseminati delle comunità e di conseguenza non erano mai concepiti dall'opinione pubblica come compiti che richiedono un'azione competente. Ciò che restava dei meccanismi tradizionali di controllo era ora considerato un ostacolo all'efficienza della regolamentazione statale. Lo Stato moderno, preoccupato dell'efficacia della sua attività legislativa, cercava di estirpare les pouvoirs intermédiaires. "Lo Stato moderno nella sua prima fase si dava un gran daffare per regolamentare la vita quotidiana dei suoi sudditi"; "un intero sistema di vita sembrava ora preso di mira" (v. Lotte, 1984, pp. 167 e 162). "Non si trattava più di rispettare le norme del proprio gruppo di appartenenza, ma di sottomettersi a un modello universale, valido ovunque e per chiunque. Ciò implicava una forma di repressione culturale" (v. Muchembled, 1978, p. 230).
Il compito intrapreso dallo Stato moderno era di proporzioni titaniche secondo tutti i criteri tradizionali. Due obiettivi erano particolarmente impegnativi: quello di assicurare l'obbedienza alle leggi emanate dai poteri centrali, e quello di superare le differenze locali di diritto consuetudinario, di usanze e di modi di vita, istituendo norme uniformi e universali all'interno del territorio statale. Nella realizzazione di questi obiettivi assumevano un ruolo decisivo quei professionisti che in seguito sarebbero stati definiti collegialmente 'intellettuali'. Tali professionisti - definiti 'mandarini' da Fritz K. Ringer ("un'élite sociale e culturale che deve il proprio status principalmente alle qualifiche professionali piuttosto che a diritti ereditari o alla ricchezza") - erano per questo motivo "collegati in un modo o nell'altro all'amministrazione dello Stato" (v. Ringer, 1969, pp. 5 e 7): in qualità di funzionari, consiglieri legislativi, divulgatori delle politiche statali o dirigenti e funzionari delle istituzioni educative gestite dallo Stato, oppure come loro 'ombre' all'interno dei partiti politici e dei movimenti sociali al momento all'opposizione, ma che si preparavano a formare o a influenzare i governi del futuro e ad assumersi la responsabilità della attuazione delle funzioni dello Stato.
Per quanto riguarda il primo aspetto - la promozione dell'obbedienza e del rispetto delle norme dello Stato e del sistema normativo costruito progressivamente attraverso la legislazione statale - la classe intellettuale doveva svolgere una duplice funzione. Per assicurarsi l'obbedienza del popolo lo Stato moderno utilizzava da un lato il metodo 'panottico' della sorveglianza, della supervisione e del controllo della condotta socialmente rilevante e quindi di interesse pubblico; dall'altro il metodo della 'legittimazione', che consisteva nell'inculcare la convinzione che la volontà dello Stato va rispettata, merita di essere rispettata per il semplice fatto di essere volontà dello Stato (lo Stato ha il diritto di emanare ordini e di esigere che vengano eseguiti). Il primo metodo richiedeva l'intervento di specialisti della regolamentazione normativa della condotta umana (penalisti, psichiatri) e più in generale del controllo del comportamento, ossia della manipolazione del contesto esterno dell'azione umana, mirata a sollecitare la condotta desiderabile con uniforme regolarità. Il secondo metodo richiedeva innanzitutto e soprattutto l'azione dei creatori e divulgatori di idee, e fornì così il contesto in cui poté svilupparsi e cristallizzarsi l'identità degli intellettuali moderni.
Nella sua prima fase lo Stato moderno, posto di fronte al compito di screditare e sostituire i poteri tradizionali e di assoggettare a una regolamentazione esterna ambiti della vita mai regolamentati in precedenza, sentì acutamente la necessità dell''accumulazione primitiva di autorità'. Oltre che di affermare il proprio potere materiale attraverso il dispiegamento del suo potenziale coercitivo, lo Stato aveva urgente bisogno di una giustificazione ideologica del proprio diritto di istituire e definire 'la legge e l'ordine' universalmente vincolanti. La sfera culturale divenne di conseguenza il terreno su cui doveva decidersi il destino dell'integrazione sociale e della riproduzione del sistema; in questa battaglia gli intellettuali (creatori e divulgatori della cultura) assunsero il ruolo di generali, mentre il sistema educativo rappresentava la caserma in cui le truppe venivano istruite e addestrate. Tale funzione conferiva un'immensa e incontestabile importanza sociale alle professioni intellettuali. Analizzando in retrospettiva la storia dello Stato moderno, Antonio Gramsci considerava la società civile - l'autentico fondamento della stabilità e della continuità dello Stato - come un ambito controllato principalmente dagli intellettuali, produttori e distributori di idee egemoniche che vanno dalle formule filosofiche dominanti sino al folklore popolare della vita quotidiana (v. Forgacs, 1988).
In Europa la formula di legittimazione più diffusa e più efficace fu quella dello Stato come espressione dell'unità e dell'unicità della nazione. Gli Stati moderni europei erano Stati nazionali, in cui i presunti confini 'naturali' delle nazioni avevano preso il posto dei 'diritti ereditari' delle dinastie dominanti, tipici dell'era premoderna. La pretesa di rappresentare unità nazionali che si presumevano antiche e ormai pienamente formate mascherava l'intenso sforzo per la costituzione della nazione, l'essenza della lotta per l'autorità del primo Stato moderno. Il XIX secolo fu l'epoca delle diffuse crociate culturali mirate a tramutare in realtà un'unità nazionale proclamata ma di fatto non ancora esistente. Le diverse lingue parlate dalle popolazioni residenti nel territorio nazionale vennero dichiarate 'dialetti locali' cui occorreva sostituire la versione unificata e 'standard' di una lingua nazionale attraverso l'istruzione e l'imposizione della lingua 'corretta' nelle sedi e nelle occasioni pubbliche. Le diverse memorie storiche delle comunità locali vennero soppresse e rimpiazzate da un curriculum storico unificato, finalizzato alla preservazione del 'patrimonio nazionale comune'. Le tradizioni, i costumi, le feste, i rituali locali vennero ridefiniti come residui di ignoranza e pregiudizio e sostituiti da festività nazionali registrate in un calendario unico e da 'usanze nazionali' imposte d'autorità, oppure sottratti all'amministrazione locale, riadattati e investiti di un nuovo significato globale-nazionale. Soprattutto, la costituzione della nazione richiedeva uno sforzo intenso e prolungato per sviluppare e inculcare una 'coscienza nazionale' sovralocale, sovraprovinciale, che abbracciasse l'estensione attuale o programmata dello Stato nazionale. In questo processo si rendeva necessario combattere e sconfiggere le rivendicazioni concorrenti di altre aspiranti nazioni, che gareggiavano per l'appropriazione e l'assimilazione delle medesime vicende storiche, lingue e culture locali. Tutto ciò conferiva ai membri dell'élite colta, nel loro nuovo ruolo di 'leaders spirituali della nazione' o di 'tutori del patrimonio nazionale', una funzione centrale nel processo di costituzione dell'autorità dello Stato moderno.
Le cose tuttavia cambiarono allorché l'autorità degli Stati nazionali fu saldamente stabilita e la riproduzione 'della legge e dell'ordine' venne assicurata regolarmente con metodi diversi dalla mobilitazione ideologica. Con il crescente benessere e con lo sviluppo di una società orientata verso il consumatore anziché verso il produttore, l'integrazione sociale venne riprodotta attraverso l'impatto allettante del mercato dei beni, mentre nello stesso tempo l'intensità del coinvolgimento politico dei cittadini da parte dello Stato diminuì. L'uniformità culturale perse gradualmente gran parte della sua importanza politica, e lo Stato perse gran parte del suo originario interesse per le scelte di ordine culturale e per la promozione di una determinata entità culturale; il dominio politico era assicurato anche senza il sostegno dell'egemonia culturale. Ciò determinò il graduale ritiro del controllo politico dalla sfera della cultura. Anche nei paesi in cui, come la Francia, le agenzie statali continuano a sovvenzionare e a promuovere attivamente la vita culturale e a divulgarne i prodotti, si evita accuratamente di prender posizione e di favorire un'alternativa culturale anziché un'altra: "La 'cultura' è divenuto un enorme conglomerato di 'culture', ognuna delle quali è su un piano di uguaglianza rispetto a tutte le altre [...]. Lo Stato culturale, nel volersi nazionale, vuole essere anche tutto per tutti, pluralistico, cicogna e camaleonte nello stesso tempo, secondo il flusso e il riflusso delle mode e delle generazioni" (v. Fumaroli, 1992, pp. 171-172).
La nuova neutralità culturale dello Stato implicava l'emancipazione dell'élite intellettuale creatrice di cultura dalla lamentata e spesso capillare interferenza della politica, e si sperava fosse in grado di elevare ulteriormente la posizione e di accrescere l'influenza pubblica degli intellettuali, lasciando esclusivamente nelle loro mani il controllo sociale della cultura, che essi avevano sempre rivendicato come propria sfera naturale. Ciò tuttavia non si è verificato - o così ritengono gli intellettuali stessi - per almeno due ragioni. In primo luogo la separazione tra Stato e cultura e l'abbandono delle politiche culturali imposte dallo Stato privavano l'attività culturale della rilevanza pubblica di cui godeva un tempo; la produzione, la scelta e il consumo della cultura erano ormai relegati nella sfera privata. La gioia di una libertà creativa senza precedenti, acquisita grazie al riconoscimento ufficiale della neutralità politica della cultura, era avvelenata dalla sensazione che le scelte artistiche o letterarie contassero poco o nulla se non per gli artisti o gli scrittori stessi: la libertà della cultura si accompagnava alla sua irrilevanza sociale. In secondo luogo il controllo della cultura lasciato vacante dal ritiro dello Stato non è passato nelle mani degli intellettuali, ma è stato assunto, semmai, dalle forze del mercato. Se il controllo politico si è radicalmente allentato, l'influenza dei criteri di redditività del mercato si è dimostrata altrettanto se non più condizionante di quanto non lo fosse il controllo politico. Gli intellettuali condividevano con i responsabili della cultura del passato - l'élite politica dello Stato nazionale - la fede nella 'gerarchia obiettiva' dei valori culturali, la convinzione che determinate scelte culturali fossero migliori di altre e la volontà di intervenire attivamente affinché venissero effettuate le scelte 'migliori' scongiurando il pericolo che prevalessero quelle di valore inferiore. Né questa convinzione né questa volontà si ritrovano nel mercato culturale che ha preso il posto delle politiche culturali dello Stato; di fatto ogni favoritismo culturale è contrario per natura alla filosofia e alla prassi del mercato. Quest'ultimo non riconosce alcuna gerarchia culturale eccetto quella della vendibilità: le classifiche dei prodotti più venduti costituiscono gli unici ordini di preferenza culturale riconosciuti, e di fatto gli unici criteri di valore. Le scelte decretate dal mercato non sono necessariamente quelle che avrebbero compiuto gli intellettuali in base ai loro rigorosi e sofisticati criteri; già questo fatto sarebbe un sufficiente motivo di allarme, ma ancora più grave è il fatto che per il mercato - in pratica, se non in teoria - è inconcepibile o inutile ogni criterio rigoroso che non sia quello del potenziale di vendita. Questo atteggiamento dei nuovi responsabili della diffusione culturale ha minato il fondamento stesso della rilevanza sociale degli intellettuali. In questa nuova situazione "l'aspirazione filosofica a poter decidere in modo definitivo ciò che è arte e ciò che non lo è non può essere soddisfatta"; ma "l'intento degli intellettuali non è mai stato semplicemente quello di classificare le cose in utili categorie [...] bensì piuttosto quello di distinguere - in modo definitivo - ciò che ha valore da ciò che ne è privo" (v. Becker, 1982, pp. 151 e 137). È proprio questo diritto che viene ora negato, e anche se non viene negato esplicitamente, è vanificato nella pratica. L'avvento del dominio del mercato sulla cultura di conseguenza è stato percepito in generale dagli intellettuali come un'espropriazione; la condanna incondizionata della cultura commercializzata - espressa dalla teoria della 'cultura di massa', che a partire dagli anni cinquanta ha dominato per tre decenni le scienze sociali - è stata la prima reazione degli intellettuali. Tale teoria accusava le forze del mercato e i commercianti di beni culturali che perseguono unicamente il profitto di causare un'uniformità culturale, l''omogeneizzazione' di prodotti culturali distinti, e di favorire, così facendo, l'affermarsi di un nuovo tipo di 'cultura media' banale e anonima, nella maggior parte dei casi a spese della qualità, della 'cultura alta' e della creatività culturale in generale.
L'omogeneizzazione di cui gli intellettuali paventavano l'avvento, comunque, non si è verificata. Al contrario, il mercato della cultura sembra trarre profitto dalla diversità e dal rapido avvicendarsi delle mode. La scena culturale definita dalle forze del mercato evoca più un caleidoscopio di prodotti e modelli variegati e spesso reciprocamente esclusivi che non un'avvilente uniformità e standardizzazione. È proprio questa assenza di modelli privilegiati, non l'uniformità della 'cultura media', che si è rivelata la sfida più seria al ruolo tradizionale degli intellettuali e alla loro autorità un tempo indiscussa in materia di gusto e di scelte culturali. Le scelte sono state privatizzate, diventando un attributo della libertà e della formazione dell'identità personale. La promozione di un determinato modello culturale come essenzialmente migliore, o in qualche modo 'superiore' rispetto alle alternative presenti o possibili, è stata aspramente condannata e sdegnosamente rifiutata come atto di oppressione. Con una svolta inaspettata il mercato è stato promosso al rango di principale sostegno della libertà. Il fondamento moderno del potere collettivo degli intellettuali è stato eroso: vi è ben scarsa richiesta ormai per le funzioni di cui essi sono andati orgogliosi per tutto il corso della storia moderna, quelle di legislatori culturali, di progettatori e tutori di modelli culturali adeguati.
Ma il fatto che ai 'progetti di vita' uniformati si siano sostituite le scelte del consumatore ha avuto anche un altro impatto negativo sul ruolo tradizionale degli intellettuali. A seguito della privatizzazione della formazione dell'identità personale, anche la frustrazione causata dal fallimento dei propri sforzi e la conseguente scontentezza tendono a essere 'privatizzate', disperse e non cumulabili, refrattarie a tutti i tentativi di conglomerarle in una 'causa pubblica' unificante, e ancor più a quelli di indirizzarle verso una visione sociale alternativa. Chi si sforza di continuare a svolgere il ruolo intellettuale tradizionale si trova diviso tra innumerevoli partiti, cause, sette religiose, ecc. I diversi motivi di scontento non hanno alcun 'denominatore comune'; a nessun singolo conflitto può essere ricondotta l'intera gamma di rivendicazioni e richieste. Le alleanze politiche che mirano all'appoggio della maggioranza possono configurarsi solo come 'coalizioni temporanee' che hanno scarse probabilità di sopravvivere al problema specifico che per un breve momento le ha fatte nascere. Cosa ancora più importante, i motivi di scontento determinati dal mercato, se elaborati entro i canali di un'esistenza privatizzata, provocano un'ulteriore domanda di servizi offerti dal mercato e rafforzano anziché minare l'influenza di quest'ultimo sulla sfera sociale e su quella culturale. Un altro pilastro dell'importanza sociale degli intellettuali - il loro ruolo di portavoce di cause comuni, di teorizzatori della 'società buona' e di progettatori di ordinamenti sociali alternativi - è stato ormai completamente distrutto.Il mercato, inoltre, favorisce una cultura di "massimo impatto e di obsolescenza istantanea" (v. Steiner, 1972, p. 174). Il mercato non può prosperare senza l'avvicendarsi sempre più rapido di mode e tendenze; l'attenzione del pubblico, bombardato da offerte contraddittorie, è diventata la posta più alta nel gioco del mercato, il più ambito e il più raro dei beni. La mutevolezza dell'attenzione sostituisce al senso di un processo storico quello di un agglomerato di episodi irrelati e incongruenti, appiattendo la dimensione storica in un 'eterno presente' (esperienza che ha trovato un riflesso perverso nei recenti proclami della 'fine della storia'). Come ha sintetizzato in modo pregnante George Steiner, ci troviamo in un "casinò cosmico" in cui si giocano solo giochi retorici. A volte questi possono avere un significato profondo, ma per poter essere giocati in pubblico e avere almeno una parvenza di impatto devono sempre essere divertenti, devono avere un 'valore di intrattenimento' per poter catturare, sia pure per un breve istante, l'attenzione del pubblico. "Un individuo esiste solo nella misura in cui gli altri parlano di lui: lo lodano, lo citano, lo criticano, lo diffamano, lo deridono, ecc." (v. Debray, 1979, p. 168).
La fama è stata rimpiazzata dalla notorietà: non un ponderato riconoscimento per i risultati conseguiti, il ripagamento di un debito per i servizi resi alla causa pubblica, ma il fatto di imporsi con ogni mezzo a disposizione all'attenzione del pubblico. Se gli intellettuali annoveravano se stessi tra la minoranza scelta che poteva rivendicare uno speciale diritto alla fama, essi non possono rivendicare alcun diritto privilegiato alla notorietà. Al contrario le tradizionali attività degli intellettuali - principale causa della loro gloria passata - non si prestano a essere esibite davanti agli occhi del pubblico né a riscuotere un applauso immediato. Quando la notorietà anziché la fama diventa il criterio dell'influenza pubblica, gli intellettuali si trovano in competizione con i campioni sportivi, le pop stars, i vincitori di lotterie, i terroristi e i serial killers. In questa competizione non hanno molte speranze di vincere, ma per gareggiare devono giocare il gioco della notorietà seguendone le regole, ossia adeguando la propria attività al principio di "massimo impatto e di obsolescenza istantanea". La giustezza o la verità delle idee sono sempre più irrilevanti come richiamo nei confronti dell'attenzione pubblica; ciò che conta sono le loro ripercussioni, la quantità di tempo e di spazio che a esse dedicano i media, e ciò dipende principalmente dal loro 'valore di intrattenimento'.
È probabile che la gloria di cui godevano un tempo gli intellettuali fosse legata ad altri fattori - ora in gran parte scomparsi - caratteristici dell'età moderna: le grandi utopie di una società perfetta, i progetti di una ingegneria sociale globale, la ricerca di criteri di verità, giustizia e bellezza universali, nonché la presenza di poteri istituzionali con aspirazioni ecumeniche che avevano la volontà e la capacità di agire in base a tali criteri. L'elevata posizione degli intellettuali in quanto artefici e arbitri del progresso storico nonché tutori della coscienza collettiva di una società che si autoperfeziona non poteva sopravvivere alla fede nel progresso e alla privatizzazione del processo di autoperfezionamento (questa, secondo alcuni autori, è la ragione per cui gli intellettuali non hanno mai goduto di un prestigio sociale di tipo europeo nell'atmosfera del 'sogno americano', che rappresenta il progresso come un'impresa e un risultato privati più che sociali). Gli intellettuali hanno poco da offrire alla 'maggioranza soddisfatta' dei paesi ricchi, a meno che non si lascino fagocitare dalla 'scena culturale' commercializzata offrendo le proprie idee come un prodotto fra i tanti nel sovraffollato supermercato dei prodotti culturali. Indubbiamente essi hanno perso il loro ruolo di legislatori della cultura, tutt'al più resta loro la speranza di rendere indispensabile la loro nuova funzione di interpreti culturali, di mediatori nell'attuale scambio tra stili culturali autonomi, differenziati ma equivalenti. Il crollo dell'alternativa comunista alla società dei consumi ha inferto un ulteriore colpo alla posizione di cui godevano gli intellettuali come arbitri di una scelta reale e tangibile tra modelli sociali alternativi.
Esistono nondimeno due ambiti in cui gli intellettuali possono ancora svolgere il loro tradizionale ruolo 'legislativo' definitosi nel corso della storia moderna. Il primo è l'ampia periferia del ricco centro postmoderno: l'Est postcomunista e il vasto Sud 'sottosviluppato' (l'idea stessa di sottosviluppo suggerisce la presenza di un modello precostituito di sviluppo adeguato, modello che può e deve essere consapevolmente perseguito). In questa periferia è assai forte la domanda - una domanda pressoché scomparsa nelle società postmoderne - di una categoria sociale di intellettuali come guide collettive di un mutamento storico consapevolmente progettato e controllato, come artefici dell'unità nazionale e dell''illuminazione' delle masse. È probabile quindi che in quest'area l''élite' colta - gli 'ufficiali di collegamento' di cui parlava Toynbee - continui a essere guidata dal profondo senso di una missione e di una responsabilità collettive, dalla consapevolezza del proprio ruolo di 'artefice del progresso storico' e del 'destino nazionale'.
L'altro ambito è costituito dalle minoranze svantaggiate nelle società ricche del centro postmoderno. L'economia di mercato non avvantaggia tutti i gruppi allo stesso modo. Alcuni non hanno le risorse per approfittare delle possibilità di scelta e di autorealizzazione offerte dal mercato, e sono relegati nella categoria dei consumatori sistematicamente 'difettosi'. Altri gruppi si ritengono svantaggiati dai valori promossi dalla rutilante pubblicità del mercato e hanno bisogno di cambiare la posta del gioco per conferire maggiore importanza alla diversità che rappresentano. Alcuni autori, in particolare Michel Maffesoli, hanno osservato a questo proposito il riaffermarsi di una sorta di 'tribalismo', di un nuovo interesse per la delineazione di confini, per la separazione, per l'esclusione degli 'altri', il tutto finalizzato alla creazione e alla difesa di una fragile identità di gruppo. Nel caso di queste 'neotribù' sono richieste prestazioni analoghe a quelle già fornite dagli intellettuali (sebbene sotto differenti bandiere e all'interno di un diverso discorso) all'epoca della costituzione degli Stati nazionali e della ricerca di principi universali. L'analogia deriva dal fatto che gli interessi trascurati dei gruppi emarginati hanno una possibilità di essere affermati e presi in considerazione solo se le rivendicazioni specifiche vengono rielaborate in forma di istanza critica nei confronti dell'ordine sociopolitico esistente nel suo complesso. Il mutamento osservato da più parti nella filosofia e nella sociologia contemporanee - che ora mettono l'accento sulle origini 'locali' della conoscenza e dei modelli culturali e attribuiscono una funzione positiva, anziché considerarla una limitazione, alla dimensione particolaristica, legata a un determinato gruppo, della visione del mondo e dei modelli culturali in generale - può essere interpretato come un riflesso di questi nuovi sviluppi. Sempre più spesso i filosofi e i sociologi esaltano il valore di quelle stesse tradizioni locali e di quel 'radicamento' nelle singole comunità che i loro predecessori deprecavano auspicandone l'estinzione in quanto d'ostacolo alla progressiva acquisizione di una verità, di un'etica e di un'estetica universali e condivise da tutta l'umanità. La teorizzazione della permanenza e del carattere positivo della differenziazione culturale è uno dei tratti più significativi dell'autocoscienza postmoderna delle professioni intellettuali nei paesi ricchi del mondo.
(V. anche Filosofia e società; Ideologia; Illuminismo; Modernità).
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di Bruno Bongiovanni
La comparatistica indoeuropea, con gli studi e le ricerche sul campo dello storico delle religioni e linguista Georges Dumézil, ha ritenuto di individuare, non senza qualche contestazione nella comunità scientifica, una 'ideologia' tripartita degli Indoeuropei, vale a dire una concezione della struttura sociale fondata sulla distinzione e sulla gerarchizzazione di tre funzioni fondamentali, cui corrispondono, in forme rese diverse dal periodo storico e dall'area geografica, tre gruppi sociofunzionali assimilabili alle caste assai più che alle classi: i sacerdoti, i guerrieri, i produttori, vale a dire i brāhmaṇa, gli kṣatriya e i vaiśya dell'India vedica. Alla prima funzione, quella che in questa sede ci interessa, compete l'obbligo religioso di rifornire di senso il mondo esercitando la sovranità derivata dal sacro, la potenza sacerdotale e la magia, ma anche elaborando il diritto, la politica, la scienza e le tecniche della saggezza.
Nella Grecia classica tuttavia - si pensi soprattutto alla mobilità del tessuto civile e sociale di Atene - la tripartizione, anche sul terreno del materiale mitologico a noi pervenuto, era assai poco marcata, tanto è vero che Dumézil, addebitando questo fatto al 'razionalismo' ellenico, si è soffermato soprattutto su Indiani, Iraniani, Sciti, Caucasici, Romani, Germani, Scandinavi e Celti. In Platone si arriva sì infatti all'auspicabilità dell'ipotesi trifunzionalistica, ma non partendo dall'ordine originario del cosmo bensì, come si evince dal II libro della Repubblica, dalla constatazione della non autosufficienza dell'individuo e della necessità della divisione del lavoro: da ciò derivano la produzione associata dei beni e lo Stato. All'inizio, dentro una fenomenologia politica che viene fatta iniziare dal basso, vi sono dunque i produttori. I bisogni a questo punto si accrescono, la popolazione aumenta, la comunità si estende e il ricorso alla guerra diventa inevitabile. È necessaria un'ulteriore specializzazione, una specializzazione che si configura però come separazione. I cittadini-produttori infatti non sono di per sé idonei ai nuovi compiti imposti dalla complessità crescente della vita associata. Si rendono ora indispensabili i protagonisti della seconda funzione, i guerrieri, gli esperti nell'arte della guerra. Dall'ambito del descrittivo Platone, giunto alla soglia della terza e di gran lunga più importante funzione-separazione, passa poi decisamente all'ambito del prescrittivo. Nel libro V sostiene infatti che "a meno che i filosofi non regnino negli Stati o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e valida filosofia, e non si riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia, [...] non ci può essere una tregua di mali per gli Stati e, credo, nemmeno per il genere umano" (Rep., 473d). Il filosofo non si disperde, del resto, come accade ai demagoghi, nella selva delle pulsioni particolari che attraversano le moltitudini: abituato a cercare devotamente e a guardare negli occhi la verità - è questa la sua missione -, esso si pone sempre dal punto di vista del 'generale', dal punto di vista, direbbero i moderni, della 'totalità'. È ciò che, legittimandolo, lo autorizza a porsi alla testa del reggimento della cosa pubblica.
Si ha dunque con Platone la prima teoria dell'intellettuale-filosofo inteso come scienziato del 'collettivo' e dell'interesse generale, una teoria destinata a percorrere una lunga strada nei secoli a venire, pur disincagliandosi in età moderna dall'identificazione obbligatoria, nelle stesse persone fisiche, tra politica e intellettualità. Il mondo della produzione, un mondo costituito da artigiani e da commercianti, in Platone è comunque preda del movimento, dei particolarismi e quindi del disordine. Né bastano i guerrieri-guardiani, per quanto educati al servizio del bene, a portare l'ordine. La potenza politica, d'altra parte, lungi dall'essere tutt'uno con il sacro come nel presunto trifunzionalismo originario, è rimasta impigliata - o è tornata a impigliarsi - nel movimento inevitabilmente caotico e sottomesso al principio particolaristico dell'utile che ha prodotto la cosa pubblica. Il filosofo-intellettuale è così colui che, sottraendosi in modo disinteressato, per la propria natura e per la natura della verità di cui è servitore, al principio dell'utile, un principio necessario e nel contempo dissolutore se non governato dall'alto, può emancipare la politica stessa dall'imperio del particolare e del molteplice. Si profilano sin d'ora, come si vede, alcune caratteristiche di quello che sarà, nel paesaggio politico moderno e contemporaneo, l'intellettuale propriamente detto: la conoscenza militante del bene e del vero, la separazione strutturale dal mondo della produzione, il disinteresse personale nei confronti delle passioni 'economiche' del magma sociale sottostante, il rapporto inevitabile con una politica sconsacrata e quindi priva di bussola nella navigazione verso la giustizia e verso la verità, la disponibilità infine all'impresa di redimere la politica e con essa, come sostiene appunto Platone, il genere umano. Sottolineare queste caratteristiche si rivela fondamentale perché ha già fatto la sua comparsa, con il sofista, la figura dell'intellettuale-filosofo 'negativo', che accompagnerà sempre e quasi braccherà, nel corso del tempo, come la sua cattiva coscienza, la figura dell'intellettuale 'positivo', suscitando, come vedremo, periodiche prese di posizione antintellettualistiche da parte per lo più di altri intellettuali. I sofisti, infatti, indipendentemente dalla loro reale esistenza storica, si concentrano, secondo la vulgata subito diffusasi, sull'uomo contingente e non sulle idee che resistono al tempo, riducendo altresì la conoscenza a opinione e il bene all'utile: relativizzano cioè tutti i valori e abbandonano il sapere nelle spire dei particolarismi sociali e morali. Esercitano insomma una critica meramente distruttiva, non sono organici ad alcun valore, corrompono il popolo, confermandolo nella sua idolatria utilitaristica, e in particolare la gioventù.
Con la civiltà romana repubblicana e imperiale, regolata dalla codificazione giuridica, e con il Medioevo cristiano, attraversato dal primato universalmente riconosciuto alla cultura religiosa e alle gerarchie intellettuali ed ecclesiastiche da questa espresse, non si ebbero teorie paragonabili alla riflessione di Platone e in grado di individuare per l'uomo di cultura, autonomamente considerato, un rapporto privilegiato con la vita civile e, contestualmente, con il reggimento politico. Tra alto e basso Medioevo si ripresentò inoltre in Europa e in particolare in area anglosassone, come modello ideale utilizzato a fini 'ideologici' dal potere regio e da quello ecclesiastico, lo schema trifunzionalistico degli oratores, coloro che intercedono al cospetto di Dio, dei bellatores e dei laboratores. È quindi naturale che, partendo da questa tripartizione, taluni studiosi vi abbiano rilevato un'analogia con i 'tre stati' (clero, aristocrazia, terzo stato) e con la stessa 'società per ceti' (ständische Gesellschaft) della storiografia tedesca, fenomeni istituzionali sviluppatisi a partire appunto dal basso Medioevo e protrattisi sino al tramonto politico dell'antico regime. È questo, del resto, il periodo della razionalizzazione delle gerarchie, del giuoco permanente tra potere civile e potere ecclesiastico, nonché della ristrutturazione istituzionale condotta dai giuristi. È poi la volta, tra autunno del Medioevo e alba dell'età moderna, dei maestri di retorica, degli umanisti, dei letterati, dei teologi, degli eretici, dei catechisti della Controriforma, dei realisti e degli utopisti. In un capitolo celebre di Capitalismo, socialismo e democrazia Joseph Schumpeter pone proprio in questo periodo la nascita dell'intellettuale moderno, anzi dell'intellettuale propriamente detto, creatura consustanziale con le origini del capitalismo, una formazione economico-sociale, questa, che sottrae l'uomo di cultura alla claustrofobia del monastero fornendogli, con il torchio da stampa, l'eccitante e universalizzante riproducibilità tecnica delle opere dell'ingegno. In sintonia con il capitalismo gli umanisti, originariamente intellettuali-filologi, cominciano a invadere in modo irreversibile, nonostante le censure e le persecuzioni, i campi del costume, della politica, della religione e della filosofia. Nulla è a loro veramente estraneo, perché potenzialmente è del tutto che si occupano. Ciò che li mobilita è il pubblico, frutto della combinazione rivoluzionaria tra libro e mercato, tra Gutenberg e Fugger. Già gli umanisti hanno un pubblico, ma è soprattutto con gli illuministi che il pubblico 'borghese' diviene il mecenate collettivo dell'intellettuale, un personaggio la cui libertà è corazzata, secondo Schumpeter, dalla fortezza privata del business. Di questa libertà spesso l'intellettuale capricciosamente abusa facendo della critica il proprio esclusivo e talora nichilistico ufficio. Tanto sa che la borghesia deve prima o poi difenderlo perché così facendo essa difende la propria visione della vita. Viene così delineato il paradosso dell'intellettuale moderno, figura corrosiva che, sorta dal grembo della società borghese, perviene in età contemporanea a mettere in discussione, sospinta dalla propria natura e dal proprio pubblico, le basi stesse della società capitalistica che l'ha generata. È questa, del liberale Schumpeter, nostalgico nel 1942 della forse perduta innovatività mercantile, una teoria sociologica e storiografica delle origini dell'intellettuale moderno, figura che ora viene precisandosi assai meglio. Al di là del pur seducente determinismo economico, non meno energico e onniesplicativo nei liberisti radicali che nella concezione materialistica della storia, soprattutto alcuni corollari dell'analisi schumpeteriana risultano infatti persuasivi: solo l'intellettuale moderno, si può dedurre, appare veramente tale, in quanto il suo campo d'azione pare essere una società in cui si afferma e domina la mobilità sociale, in cui le classi mobili si sostituiscono progressivamente agli 'ordini' rigidi, in cui la libertà di pensiero si rivela un valore diffuso condiviso e finanziato da una parte almeno della classe economicamente in ascesa, in cui, infine, grazie alla critica diffusa e al processo di secolarizzazione, la funzione intellettuale non è più monopolisticamente esercitata dalla sola gerarchia ecclesiastica. Sarebbe stato dunque il mercato, e ancor più la tendenza della società ad autoregolarsi laicamente con il mercato, a scuotere le ultime vestigia dell'antico schema trifunzionalistico e a disancorare irreversibilmente la vita intellettuale dalla vita religiosa.
All'inizio del XVIII secolo - la data precisa non è nota - iniziò a circolare, in forma manoscritta e naturalmente anonima, un breve trattato dal titolo Le philosophe. Fu poi attribuito, anche se sussiste tuttora qualche dubbio in proposito, al grammatico e linguista Du Marsais, e venne riprodotto, molti anni dopo, con indicato il nome dell'autore, nelle pagine dell'Encyclopédie. L'importanza di questo testo non può essere sottovalutata, non fosse altro per il fatto che consegnò al secolo una parola destinata a enorme fortuna e a subire un provvisorio e più che significativo slittamento di significato. Il termine philosophe, disancoratosi congiunturalmente dalla tradizione filosofica in senso stretto, equivale infatti, nel contesto peculiare del XVIII secolo, al termine 'intellettuale', di conio e soprattutto di uso, come vedremo, più recente. All'inizio del secolo siamo del resto in un ambiente culturale più 'libertino' che 'illuministico'. Il philosophe di Du Marsais si caratterizza così per la ragione, di cui dispone allo stesso modo in cui l'uomo di sant'Agostino dispone della grazia, e per l'ideale di vita da honnête homme fiducioso nelle virtù della riflessione e nella naturale socievolezza umana, propugnatore insieme dell'ordine civile e del benessere collettivo. A metà strada tra il 'saggio' libero pensatore degli ultimi decenni del XVII secolo (affascinato dagli exempla antichi di epicurei e stoici) e lo spirito critico e attivo delle Lumières (in febbrile contatto con le novità politiche, religiose e scientifiche che giungono dall'Inghilterra contemporanea), il modello del philosophe protosettecentesco fu interpretato in modo inevitabilmente più radicale e più consono ai tempi nuovi - tempi in cui Voltaire ribattezzava Lettres philosophiques le sue Lettres anglaises - non appena il trattatello attribuito a Du Marsais comparve, e circolò, a stampa.
Così, quando nel 1753 Jean-Baptiste d'Alembert pubblicò, a ridosso dell'Encyclopédie e nel fuoco delle polemiche, l'Essai sur la société des gens de lettres et des grands, i tempi erano ormai maturi anche per una riflessione dell'intellettuale su se stesso. Gens de lettres, in questo contesto, era praticamente sinonimo di philosophes, anche se sussisteva una sfumatura quasi sociologica che ne accentuava il carattere di 'gruppo', se non proprio di 'ceto': il traduttore italiano, con una forzatura esclusivamente storico-lessicale e non certo concettuale, ha ritenuto nel 1977 di dover volgere, sin nel titolo, gens de lettres in 'intellettuali'. Era d'altra parte accaduto, nella Francia dei primi decenni del XVIII secolo, che l'assolutismo aveva ulteriormente accelerato la divaricazione in atto tra lo spazio occupato dalla politica e lo spazio occupato da una società civile sempre più complessa: dentro la società civile, sfera di contatto e non di rado di frizione tra il 'privato' e il 'pubblico', si sviluppava contemporaneamente il territorio, assai difficile da delimitare e anche da definire, della pubblica opinione. Questo territorio era il vero campo d'azione dei philosophes. D'Alembert ne era consapevole e l'Essai si presentò come un manifesto che si proponeva la tutela appunto del territorio conquistato dalla pubblica opinione, rivendicando altresì agli intellettuali la guida - due secoli dopo si sarebbe parlato di 'egemonia' - della medesima. Come già in Platone, il philosophe di d'Alembert doveva mirare sempre alla verità, ma non per insediarsi, in quanto sacerdote laico di una teocrazia immanentistica, alla testa dello Stato, bensì per controllarne l'operato negli interessi di un pubblico che si attendeva giudizi davanti al permanere dei pregiudizi. La verità, poi, non era un assoluto immutabile, ma un obiettivo da perseguire con l'ausilio della ragione. Il philosophe, in altre parole, non era colui che già la possedeva, ma colui che la cercava. La verità era inseparabile inoltre dalla libertà, condizione irrinunciabile del buon esito di ogni ricerca e di ogni impresa scientifica e culturale. Né l'intellettuale doveva aspettarsi qualcosa da verità e libertà: la sua indipendenza doveva essere pagata al prezzo della povertà e del rifiuto del mecenatismo corruttore, vero bersaglio polemico dell'Essai di d'Alembert. Le relazioni tra intellettuali e potenti venivano così fondate su un piano di assoluta parità e di accettazione delle reciproche funzioni: la filosofia infatti rifuggiva dalle corti - insediata com'era nella società stessa - e l'intellettuale cortigiano, prigioniero del denaro e del potere, non era da considerarsi un vero philosophe. Perdendo l'indipendenza, l'intellettuale non perdeva solo la libertà: perdeva l'anima e mutava di natura.
L'autonomia dell'intellettuale, dunque, a ben valutare il contributo fondamentale di d'Alembert alla tipologia dell'uomo di lettere, deriva non solo da un astratto e pur orgogliosamente esibito ideale, ma soprattutto dalla morfologia dell'intellettuale stesso, separato in quanto tale dal potere e dai potenti, così come la società è ormai separata dallo Stato. L'intellettuale, tuttavia, si distingue sì dal grado zero dell'uomo di scienza e di cultura per l'esercizio della libertà, che mira a trasformare in indipendenza la separazione, ma anche per il fatto di occuparsi criticamente e attivamente, sempre in ossequio alla propria morfologia, della sfera pubblica e delle questioni inerenti il governo politico e il rapporto generale esistente tra politica e società. Caratteristica peculiare dell'intellettuale-philosophe è dunque l'essere lontanissimo e vicinissimo ai potenti: la lontananza alimenta l'autonomia, la vicinanza lo spirito critico e la presenza nel mondo. Se dunque il cortigiano non è un vero intellettuale, perché privo di libertà, neppure l'erudito appartato, per quanto dotto sia, è un vero intellettuale, in quanto diserta la milizia dell'intelligenza, che rende gli intellettuali gens de lettres e cioè 'gruppo' socialmente visibile, e rinuncia al diritto-dovere di porsi dal punto di vista del tutto. La questione degli intellettuali, d'ora in poi, si pone dunque ben oltre il semplice rapporto con la produzione scientifica e letteraria, per insediarsi dentro il rapporto con la politica e il potere. Voltaire, nel secolo di d'Alembert, diventa allora il prototipo dell'intellettuale ambizioso e nel contempo libero, attratto e disgustato dal dispotismo, scettico e appassionato, venale e idealista, pronto a occuparsi di tutto, insaziabile per curiosità e indomito per vitalità. Schumpeter, nel 1942, con ammirazione e insieme con scarsa simpatia, lo vedrà ancora così. Nel 1910, del resto, Heinrich Mann, in uno dei primi testi in cui fece la sua comparsa in lingua tedesca la nuova parola d'origine francese Intellektuelle, aveva contrapposto il terreno e talvolta mediocre Voltaire al più grande e troppo olimpico Goethe: Voltaire, tuttavia, con i suoi difetti e con il suo disprezzo per il popolaccio, restava fecondamente - laddove Goethe era stato assai più sterile - un eroe dello spirito, in quanto in lui Geist e Tat - spirito e azione - non si erano trovati disgiunti. E lo restava evidentemente anche per Romain Rolland, il quale, nel 1915, scrivendo Au-dessus de la mêlée, invitava il mondo della cultura a riprendere, contro la barbarie dell'imperialismo, l'impresa di Voltaire.
Con il trattato Del principe e delle lettere, progettato e scritto tra il 1778 e il 1786, Vittorio Alfieri si pose sulla stessa lunghezza d'onda dell'Essai di d'Alembert. Ancor più che gli scienziati, meno danneggiati dalla tirannide, proprio i poeti e i letterati, secondo Alfieri, dovevano per primi sottrarsi alle seduzioni del mecenatismo corruttore. Potevano accettare incarichi da eventuali Stati liberi e illuminati, ma anche in questo caso dovevano combattere contro la vanità e contro ogni tentazione conformistica. Nel 1794, inoltre, con le fortunatissime lezioni tenute a Jena über die Bestimmung des Gelehrten, pubblicate nello stesso anno anche per difendersi dall'accusa di giacobinismo e note in Italia con il titolo La missione del dotto, lo stesso Fichte, dopo aver esposto l'ideale kantiano dell'uomo legislatore di se stesso, propose, non senza una polemica contro il presunto 'naturalismo' primitivistico e ostile alla cultura di Rousseau, la fondazione di una scienza della società da parte degli 'intellettuali' - questo diventano i 'dotti' di Fichte in una traduzione italiana del 1982 -, con la qual cosa, nelle nuove condizioni dettate dall'irrompere della Rivoluzione francese, si poteva obbedire all'imperativo categorico di appagare tutti i bisogni e di sviluppare tutti i talenti. L'intellettuale-dotto, lungi dall'essere l'erudito isolato suggerito dal termine Gelehrte, si trovava così sulle spalle, una volta entrata nel gran dibattito anche la giovane filosofia tedesca, l'impegnativo compito, evidentemente 'collettivo', vale a dire proprio degli intellettuali in quanto 'ceto', di avanguardia etica del corso del mondo.
Proprio con la Rivoluzione francese, peraltro, le caratteristiche sin qui enunciate degli intellettuali cominciarono a essere il bersaglio di una fitta e roventissima polemica, la quale contribuì a sua volta, pur elaborando teorie 'negative' dell'intellettuale moderno, a chiarirne lo statuto e il carattere. Edmund Burke, sin dalle Reflections on the Revolution in France del 1790, cercando precocemente le cause dell'evento inaudito, individuò infatti, a fianco dell'azione sovversiva di una 'lobby finanziaria' avida di confiscare le terre ecclesiastiche, una cospirazione rivoluzionaria condotta da gens de lettres e philosophes, vale a dire da 'chierici' laici desiderosi a loro volta, in nome della religione civile dell'umanità, di espropriare e rimpiazzare il clero. La pubblica opinione, abilmente manipolata e artificialmente ricostruita da potenti società letterarie e da accademie sfuggite di mano alla Corona, divenne così il luogo di partenza della sovversione. L'intellettuale cominciò allora, sulla falsariga di Burke, a essere disegnato, da parte dei controrivoluzionari e in modo particolare dopo i tredici drammatici mesi dell'esperienza giacobina, come un personaggio preda di fantasmi astratti - i diritti dell'uomo, l'égalité, la legge naturale - e dell'impulso irrefrenabile di calare tali fantasmi nella realtà politica e sociale. La storia stessa poteva dunque essere fatta deragliare dal percorso che le era stato assegnato. Responsabili di quest'immensa impresa sgretolatrice vennero considerati, in ambiente controrivoluzionario e quasi sempre con livorosi risentimenti nutriti da altri intellettuali carichi di frustrazioni ereditate da decenni, appunto i philosophes, organizzati in societés de pensée e in gruppi di pressione e di potere lungo tutto un secolo che, con i Lumi, aveva predicato, magari nella quiete dei salotti, sino all'esplosione rivoluzionaria, la sovversione e l'ateismo. In nessuna svolta storica, come in quella giacobina, è stata del resto ossessivamente denunciata la congiura delle logge massoniche, dei club e delle associazioni pubbliche e soprattutto segrete di intellettuali. È un tema che si troverà ripetuto nelle opere di Barruel, de Maistre, Bonald, insieme al ritornello "c'est la faute à Voltaire" e all'interpretazione dell'intera Rivoluzione francese ed europea come complotto e addirittura come castigo divino atto a riparare l'empietà delle Lumières. L'intellettuale, d'altra parte, veniva fatto apparire come un sofista disintegratore, per interesse e per perfida invidia, di tutti i valori consacrati dalla tradizione e dall'ordine sociale, ma anche - e contemporaneamente - come un filosofo fanatico in grado di perseguire, per amore di astratti furori e per esibizionistica vanità, valori estranei alla natura delle cose e ostili alle consuetudini del retto vivere civile. Nell'intellettuale, in altre parole, contraddittoriamente si annidava, per i controrivoluzionari, il relativismo di chi non ha verità e l'assolutismo ideocratico di chi possiede una sola e semplicistica verità, priva peraltro di qualsivoglia contatto con la realtà. Veniva così accolta e rovesciata come un guanto - non senza la deriva paranoica che talvolta assume la cultura del sospetto - l'ambizione, esplicitamente e orgogliosamente enunciata dai philosophes, di chi, in odio alle corti e per amore di indipendenza, si era proposto come 'gruppo' totalmente autonomo e privo di radici, se non quelle legate alla scienza, nella società presente: un ceto senza legami sociali e senza nulla di sacro in cui credere era così diventato una macchina da guerra scagliata contro tutti i legami sociali e contro tutto ciò che vi era di sacro. Sul terreno storiografico, nonostante l'allontanarsi nel tempo dell'evento inaudito, il positivista Hippolyte Taine, dopo la Comune di Parigi, e il cattolico tradizionalista Augustin Cochin, dopo l'affaire Dreyfus, ripeteranno, in forma più sofisticata, le analisi dei controrivoluzionari sugli intellettuali nel secolo dei Lumi e nella Rivoluzione francese.
Lo stesso Tocqueville, ormai lontano dalla tempesta rivoluzionaria, ne L'ancien régime et la Révolution del 1856, riprese, con serenità di giudizio e con immaginazione storiografica, il tema degli hommes de lettres destinati a diventare, nella più letterata tra le nazioni, dopo il 1789, i principali uomini politici della Francia. A differenza che in Inghilterra, essi non si erano occupati di affari nel XVIII secolo e, a differenza che negli Stati tedeschi, si erano invece attivamente occupati dall'esterno, in una realtà ancora complicata dalle bizzarre forme dell'antico regime, dei problemi del governo. La loro passione fu una "politique abstraite et littéraire" che si proponeva di "substituer des règles simples et élémentaires [...] aux coutumes compliquées" (III, 1). La monarchia aveva inoltre accentrato il potere politico e favorito l'obsolescenza progressiva dell'aristocrazia, una classe che si trovò a dover rinunciare, di fatto, pur essendo dotata ancora di rango e di privilegi, ad avere voce in capitolo nel dirigere le opinioni. Lontano dagli affari e dall'amministrazione, senza l'ostacolo dell'aristocrazia, con davanti agli occhi il modello seducente e a sua volta 'semplice' della monarchia assoluta voluta da Richelieu e dal Re Sole, gli hommes de lettres, brillantissimi nell'argomentazione, esercitarono quasi impuniti una critica corrosiva, discussero, manovrando facili teoremi, di una società immaginaria (con la monistica libertà astratta al posto delle pluralistiche libertà concrete) e trasformarono l'irreligiosità nella passione dominante del secolo: così, quando l'antico regime cedette il posto alla Rivoluzione, nel vuoto inevitabile si inserirono le loro idee e dentro il cambiamento che di fatto sanciva la continuità del pur inarrestabile processo di centralizzazione-eguaglianza, le classi più incolte e più rudi, prive del fattore d'incivilimento costituito dalla religione, portarono a termine, con rumore e con furore, tra l'anarchia e la dittatura popolare, ciò che era stato iniziato dalle classi più colte che mai l'Europa moderna avesse avuto. Queste ultime furono dunque il detonatore che trasformò il liberale e politico 1789 in una reazione a catena popolare e sociale. Se dunque nella lunga marcia attraverso l'età dell'illuminismo i philosophes, nel rivendicare autonomia, si erano attribuiti un ruolo importante e naturalmente positivo di critica e di rischiaramento, addirittura enorme e onnicomprensivo fu il ruolo, pur negativo, che loro tributarono i controrivoluzionari dopo il 1793-1794. Tocqueville, da liberale moderato, vide in loro un effetto del prosciugarsi dell'antico regime per opera della monarchia che iperpoliticizzava lo Stato e spoliticizzava la società, nonché la causa, più indiretta che diretta, del surriscaldarsi del processo e del tracimare della Rivoluzione verso il fatale 1793. A questo punto quasi tutti i temi del dibattito contemporaneo sull'intellettuale erano già stati affrontati. Mancava solo la parola.
L'aggettivo 'intellettuale' è certamente presente sin dalle origini nelle lingue moderne, soprattutto nel lessico della teologia e della filosofia, ed è di derivazione latina. "L'abito di vertude, sì morale come intellettuale", scrive Dante nel Convivio (XI, 7); e ancora, nel Paradiso (XXX, 40), "luce intellettual, piena d'amore". Diverso è il caso del sostantivo. Dopo un'apparizione isolata nell'Inghilterra del XVII secolo, ricompare sporadicamente, sempre in Inghilterra, in uno scritto del 1813 di Byron (con una sfumatura vagamente ironica), in uno di Ruskin del 1847 e in uno di Watts del 1884, con poco anticipo sulla gran fortuna francese del termine. Equivale genericamente a 'uomo di cultura', ma allude anche al non isolamento del medesimo: in tutti questi contesti il sostantivo è infatti sempre usato al plurale e designa una riunione, un circolo o un cenacolo. Nel frattempo in Russia, negli anni sessanta del XIX secolo, a opera dello scrittore Pëtr Boborykin, compare il termine intelligencija, subito ripreso e diffuso, anche all'estero, dall'assai più noto e autorevole Turgenev. Il termine russo, rilanciato con gran fortuna nel secolo successivo grazie all'uso che ne fece lo stesso Lenin, pur non mancando socialisti come il polacco Machajski che condannarono in tale strato sociale un gruppo parassitario e antipopolare, indica un nucleo di persone professionalmente impegnate nel lavoro intellettuale e nella produzione o nella trasmissione del sapere. In una situazione di grande arretratezza, come quella russa, fornita, com'è noto, di un paesaggio sociale assai rigido e poco mobile, l'intelligencija appare come un gruppo separato dal popolo e magari, secondo alcuni, autoinvestitosi di doveri pedagogici, quando non si lasci vincere dal senso d'impotenza e dall'oblomovismo, nei confronti soprattutto dei contadini. Il far parte dell'intelligencija, quindi, è un fatto sociale insormontabile, non una scelta che scaturisce da un retroterra fluttuante che consente anche, come negli scenari delineati dai philosophes, la cortigianeria e la torre d'avorio. L'intellettuale dell'intelligencija è dunque di per sé tale - con il che l'uomo di cultura e l'intellettuale ipso facto si identificano - in quanto, per l'istruzione di cui dispone, entra a far parte, lo voglia o meno, di un particolarissimo segmento sociale che si differenzia per la sua essenza stessa all'interno della struttura prevalentemente rigida di una società contrassegnata dall'autocrazia politica e dal patriarcalismo comunitario nelle campagne. Diverse, come si è già anticipato, sono invece la configurazione e anche l'identità dell'intellettuale 'per vocazione' - laddove la professione da sola non basta a renderlo tale - delle società mobili.
In francese, tramontato il philosophe e rientrato il termine, con gli idéologues dell'età napoleonica, nei ranghi disciplinari della filosofia in senso proprio - pur permanendo il significato precedente per connotare in sede ormai storiografica l'intellettuale critico della sola e irripetibile stagione dei Lumi -, si registra un 'intellectuel' sostantivo in Saint-Simon nel 1820 e in Maupassant nel 1879: sono però casi isolati e il significato è ancora generico, improprio e senza vera fortuna, come negli autori inglesi sopra citati. Si susseguono, nel lessico impiegato per alludere all'uomo di cultura, dopo l'homme de lettres di impianto settecentesco e ancora utilizzato da Tocqueville, il poète e l'artiste del periodo romantico e poi il savant e l'écrivain del periodo positivistico. La parte, in questi casi, come nella nota figura retorica, vale per il tutto. Nel 1886, tuttavia, lo scrittore cattolico tradizionalista Léon Bloy, nel romanzo a tinte autobiografiche Le désesperé, usa l'espressione "groupe intellectuel", dove intellectuel è ovviamente aggettivo, ma designa una comunità ideologica tenuta insieme da poche parole d'ordine e da alcuni principî estetici e di gusto. È nell'ambiente del decadentismo aristocraticistico, ma anche tra le avanguardie artistiche e persino in alcune sette dell'anarchismo individualistico, che negli anni successivi la parola si diffonde, questa volta come sostantivo, in contrapposizione ai soggetti anonimi della folla. Le cose cambiano radicalmente nel gennaio del 1898, quando, imperversando in Francia l'affaire Dreyfus, viene pubblicato sul quotidiano "L'Aurore" il Manifeste des intellectuels a favore del capitano Dreyfus: pare che il termine sia stato suggerito da Clemenceau. La forma-manifesto si fregia d'altra parte della lunga tradizione delle battaglie letterarie francesi del XIX secolo, da Madame de Staël a Stendhal e soprattutto a Hugo e oltre: la battaglia dei dreyfusardi non è certo letteraria, ma vi aderiscono grandi scrittori come Émile Zola, Anatole France e Marcel Proust.
Il capovolgimento è netto. D'ora in poi il termine 'intellettuale', oltre a entrare irreversibilmente nel linguaggio comune e a ricoprire lo spazio semantico già occupato dal philosophe settecentesco e dal Gelehrte di Fichte - cioè uno spazio relativo al rapporto complesso da instaurare tra cultura, idee, società e politica -, acquisisce una sfumatura prevalente, anche se non sempre presente, che consegna l'intellettuale stesso, come del resto già nel XVIII secolo, allo schieramento democratico e progressista. Se ne accorgono subito, sin dai primissimi anni del Novecento, gli intellettuali conservatori o reazionari, come Barrès e Maurras, e gli intellettuali diffidenti nei confronti del primato del razionalismo riformista e borghese sui movimenti sociali, come Sorel e Péguy: tutti costoro, accusando gli intellectuels di essere una fazione che vuole ribadire la propria distanza dalla folla, stigmatizzano la parola e la cosa, ma soprattutto la pretesa degli autoproclamatisi intellettuali di possedere la verità e comunque la buona fede. D'ora in poi, comunque, la parola non viene più abbandonata, anche se, come la nottola di Minerva, emerge e si afferma sul far del crepuscolo, cioè mentre la funzione intellettuale, così straordinaria nella fase eroica del secolo dei Lumi, smarrisce lentamente, ma progressivamente, il carattere elitario autoevidente, affondando nella società in fase di massificazione e trasformandosi quindi, con l'allargarsi a dismisura degli strati sociali intermedi, in funzione diffusa. A maggior ragione, dunque, è la 'vocazione', e la rete di relazioni culturali, editoriali, giornalistiche e accademiche (così invisa agli antintellettuali), e non la semplice e sempre più affollata 'professione', a distinguere e quindi a legittimare l'intellettuale. In Italia, peraltro, dove la questione è stata a lungo dibattuta, il sostantivo, forse per la resistenza del purismo linguistico, si afferma con un relativo ritardo, tanto è vero che nel 1922 Ferdinando Martini lo definisce ancora "di recentissimo conio", mentre in Inghilterra, dove un uso smodato non ne è mai stato fatto, il sostantivo entra nel lessico giornalistico sin dal battesimo ufficiale - nella Francia dreyfusarda - del 1898. Nei paesi anglosassoni, del resto, grazie alla precocità delle tradizioni e delle istituzioni liberali e grazie anche alla tradizione puritana che, promuovendo e imponendo l'approccio sola scriptura - senza mediazione intellettuale - al testo sacro, ha assai spesso contrapposto, in particolar modo negli Stati Uniti, il buon senso dell' 'uomo comune' alle pretese dell'uomo di scienza, vi sono spesso stati fermenti antintellettualistici - si pensi alla diffidenza americana nei confronti delle 'teste d'uovo' - che non hanno certo favorito il dibattito sulla questione degli intellettuali, considerato non di rado una merce d'importazione, ideologica e universitaria, proveniente dall'Europa continentale.
È però con il consolidarsi del movimento socialista europeo che la questione degli intellettuali diventa appunto tale, vale a dire interrogativo sociologico e politico sulla possibile o meno utilizzazione - e in qual modo - degli intellettuali stessi in vista dei fini ultimi della lotta di classe proletaria. Negli ultimi decenni del XIX secolo appare del resto sempre più chiaro, nonostante le resistenze dell'ortodossia teorica del socialismo scientifico, che lo sviluppo capitalistico non è giunto al capolinea e che l'oggettività del processo economico non si incarica di produrre meccanicamente la trasformazione socialista. Gli intellettuali a questo punto diventano, tramontata di fatto la fiducia riposta nell'oggettività, l'elemento soggettivo e cosciente del processo stesso. Sin dal 1895 Karl Kautsky, mentre Bernstein inizia la riflessione revisionistica sui nuovi presupposti del socialismo, si pone il problema della natura della Intelligenz, la quale, pur avendo elaborato, grazie all'ampio orizzonte teorico di cui dispone, la teoria stessa del socialismo, rimane tuttavia, come gruppo sociale, estranea al proletariato e può essere apparentata, per l'equidistanza tra borghesi e proletari, ai contadini e ai piccolo-borghesi. Nel 1901, in una critica poi comparsa sulla "Neue Zeit" del programma del Partito Socialdemocratico Austriaco, Kautsky, ormai avversario 'ortodosso' di Bernstein, sostiene infine che socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all'altra e non l'uno dall'altra: per l'elaborazione del socialismo ci vuole la scienza degli "intellettuali borghesi", dal che si deduce che la coscienza socialista è un elemento importato nella lotta di classe dall'esterno (von Aussen hineingetragenes) e non "qualche cosa che ne sorge spontaneamente" (urwüchsig). Da queste considerazioni parte nel 1902 il Che fare? di Lenin, un testo che è all'origine della teoria comunista del partito politico e che nasce dalla convinzione profonda, anche se non confessata, che il revisionismo di Bernstein abbia colto nel segno e abbia dimostrato che dallo sviluppo economico non ci si possa e non ci si debba aspettare la spontanea catastrofe del capitalismo. È così necessario un partito di tipo nuovo - centralistico e coeso - per scardinare un sistema altrimenti immortale e per intervenire nel corso della storia. Ben vengano dunque gli intellettuali borghesi, divenuti socialdemocratici, a impedire che i proletari restino incarcerati nel proprio tradeunionismo e quindi nella trappola preparata dal processo in atto. La storia non va assecondata, come pensavano i socialisti del XIX secolo, ivi compresi Marx, Engels e ancora lo stesso Kautsky, non è cioè un'alleata: la storia è un avversario che va domato e ricondotto ai principî che gli intellettuali socialisti hanno indicato al proletariato prigioniero della propria stessa lotta di classe. La soggettività degli intellettuali, tuttavia, va per Lenin disciplinata, raggrumata nel Partito Socialdemocratico - dopo il 1918 Comunista - e trasformata in scienza oggettiva e organizzata di quello sbocco finale che Bernstein considerava essere 'nulla' o quantomeno una semplice e kantiana idea regolativa della ragione. Il volontarismo 'etico' di Bernstein diventa insomma in Lenin una realistica macchina politica inglobante la scienza del corso della storia. Teorico rivoluzionario delle élites, contemporaneo dei teorici conservatori come Mosca e Pareto, Lenin assegna alla minoranza organizzata - detentrice del programma socialdemocratico - il compito immane di governare il tragitto storico: gli intellettuali, tuttavia, vengono subito oggettivizzati e costretti a essere a loro volta un meccanismo della logica della partiticità. Il loro ruolo enorme - essere custodi del futuro e trasmettere la scienza alla classe 'materiale' - è infatti compensato e penalizzato dal primato assoluto della macchina politica collettiva sul singolo intellettuale. Eredi in Lenin assai più dell' 'arretrata' intelligencija di Boborykin che dei philosophes, ma nel contempo presenza sempre più spaesata nella geografia dell'incipiente e modernissima società di massa, gli intellettuali, da depositari dello spirito critico, si trasformano e ancor più si trasformeranno in una funzione che smarrirà sempre più la carica critica originaria, sino a essere insidiata, avversata e, nell'età di Stalin, mummificata dalla burocrazia, che assai meglio svolge il compito, gradito ai potenti, di ripetere e applicare le decisioni del partito. Il 'punto di vista della totalità', esplicitato nel 1923 in Geschichte und Klassenbewusstsein da Lukács come sinonimo della scienza rivoluzionaria e come caratteristica dello sguardo intellettuale, è destinato ben presto a ridursi a 'punto di vista della partiticità'. Il primato oggettivo della funzione trasforma i philosophes appunto in funzionari.
Non ci si deve dunque stupire se le teorie novecentesche sullo statuto, il destino e i compiti dell'intellettuale saranno soprattutto, in forme sempre cangianti, teorie - e anche precettistica - dell'indispensabile e sempre più difficile - forse impossibile - autonomia. L'insidia a quest'ultima, infatti, fatto arretrare vistosamente l'illiberalismo clericale che aveva contrastato i philosophes, proviene non solo dalla 'partiticità' politica, ma anche, secondo le diverse interpretazioni, dalla meccanica della società totalmente amministrata che rovescia e perverte l'Aufklärung in logos del dominio, dalla burocratizzazione universale, dai totalitarismi, dai nuovi oscurantismi, dallo strapotere del denaro sulla cultura e sulla ricerca, dalla volgarità dei nuovi ceti sociali emergenti di origine plebea, dall'industria culturale, dal 'quarto potere' e in genere dai mezzi di comunicazione di massa, dalla scienza contemporanea che si articola in specializzazioni estreme trasformando il sapere in tecniche sempre più tra loro separate. In realtà è in questione, come fantasma non sempre manifesto di gran parte del dibattito novecentesco, proprio l'affermarsi-universalizzarsi e quindi l'eclissarsi dell'intellettuale, una figura che viene negata, nella sua ieratica ed esclusiva insularità, proprio dal progressivo intellettualizzarsi della società.
È però la grande guerra, con al proprio interno l'episodio centrale della Rivoluzione bolscevica, che apre la fase nuova della riflessione sugli intellettuali. Nel classico Wissenschaft als Beruf, del 1919, Max Weber sradica con forza la scienza dalla politica e indica quale massimo dovere dell'intellettuale la chiarezza di chi si propone, senza mai ergersi a profeta, di aiutare il prossimo a rendersi conto del senso ultimo del proprio operare. Ne La trahison des clercs del 1927, il testo più famoso del dibattito sull'autonomia dell'intellettuale del periodo tra le due guerre mondiali, Julien Benda, senza predicare agnosticismo o indifferenza, denuncia il precipitare degli intellettuali nel gorgo delle passioni politiche avendo in mente soprattutto quella negazione del cosmopolitismo culturale che è il dilagante nazionalismo aggressivo. Sempre nel 1927, in The public and its problems, John Dewey, negli Stati Uniti, prende atto pragmaticamente del fatto che c'è bisogno, a fini educativi, di un'intelligenza capillare e diffusa e che quindi, senza gemiti apocalittici e senza fremiti di Kulturpessimismus, così diffusi in Europa, occorre trasformare in democratico patrimonio collettivo il sapere 'privato' degli intellettuali. Karl Mannheim, a sua volta, nel 1929, in Ideologie und Utopie, ritorna almeno in parte sul terreno descrittivo e individua negli intellettuali, approfondendo un giudizio di Alfred Weber, un gruppo sociale relativamente omogeneo e "liberamente fluttuante" (freischwebende) rispetto alle altre classi, il che consente loro di dar vita a conoscenze e valori, dalla qual cosa può scaturire una cultura della mediazione, della convivenza armonica e della pianificazione razionale. Max Horkheimer, in Traditionelle und kritische Theorie del 1937, riprende in qualche modo l'analisi di Mannheim, ma la rovescia in chiave pessimistica, individuando nell'intellettuale un soggetto né indipendente sul terreno sociale né veramente integrato o radicato, il cui compito di conseguenza non può essere altro, se vuole mantenere intatta la propria identità, che l'esercizio, privo di un immediato e neppure auspicabile riscontro pratico, della "teoria critica", una teoria che ha un riscontro 'positivo' solo se mantiene un carattere 'negativo' e si ritrae da un eccesso di istituzionalizzazione, esiziale per l'intellettuale che rischia perennemente di perdere la propria identità e di farsi inghiottire dalle logiche dominanti. Nessuno, comunque, suggerisce - e neppure si augura - il governo politico degli intellettuali: caratteristica degli intellettuali resta infatti sempre il rapporto dall'esterno con le dirette responsabilità pubbliche e non l'identificazione con esse. Se un intellettuale diventa politico, il che ovviamente capita spesso, il suo caso fuoriesce dalla questione vera e propria degli intellettuali e investe altri problemi, primo tra tutti il meccanismo della formazione della leadership e, più in generale, della classe politica.
In Italia, si è visto, la parola ha stentato ad affermarsi. Viene però consacrata nel 1925 grazie al Manifesto degl'intellettuali italiani fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, steso da Giovanni Gentile e riveduto dallo stesso Mussolini. La risposta di Croce, tutta tesa a difendere l'autonomia laica e liberale dell'uomo di cultura, non si fa attendere, anche se Croce, nel contromanifesto, usa la parola 'intellettuali' con riferimento ai fascisti, mentre, per la parte propria, che è quella dell'autonomia e non quella della 'partiticità' e della statolatria, usa le parole 'scrittori', 'professori' e 'pubblicisti'. Nel 1932, invece, Mussolini, memore forse della tradizione illuministica e razionalistica che investe la parola stessa 'intellettuale' e desideroso di superarla, nel Discorso tenuto al Congresso degli intellettuali non ha paura di dire che "bisogna essere antintellettuali per essere intellettuali". Allo stesso 1932 significativamente, tra rivelazione totalitaria dello stalinismo e consolidamento del fascismo, risalgono tuttavia le riflessioni probabilmente più note tra quante tenute in Italia sulla questione. Negli appunti sulla storia degli intellettuali e in altri passi dei Quaderni del carcere Antonio Gramsci scrive che i "funzionari delle superstrutture" sono in realtà i commessi del gruppo dominante per l'esercizio dell'egemonia sociale e del governo politico, ma sono anche uno strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, il che, "grazie alla concezione umanistica storica", può far sì che anche lo "specialista" sia in grado di divenir "dirigente", ovverossia "specialista+politico" (III, § 3): il fatto è che gli intellettuali - e lo stesso Partito Comunista è un "intellettuale collettivo" - hanno il compito, una volta disancoratisi dalla classe dominante, di conquistare l'egemonia nell'ambito della società civile, settore intermedio in Gramsci tra ambito strutturale della produzione e Stato, e di lavorare quindi sul terreno della cultura e della pubblica opinione, come un tempo i philosophes, ma non in proprio, bensì su rigido incarico del Partito Comunista in vista della dittatura del proletariato. La 'forma' dell'azione del philosophe è ancora necessaria ai 'contenuti' del programma comunista del dirigente e del funzionario. Tale forma presuppone tuttavia libertà e pluralismo, il che evidenzia come Gramsci sia nello stesso tempo fuori e dentro al leninismo, o che comunque apra spazi agli intellettuali, sia pure in forma subordinata, che il leninismo, malgrado assegni loro compiti enormi, non prevede. In Gramsci, così, la riflessione sull'intellettuale, in anni di grandi chiusure dogmatiche, diventa il primo e probabilmente involontario contributo a quel 'revisionismo comunista' che incrinerà progressivamente, anche se lentamente, la monoliticità della dottrina marxista-leninista.
Negli anni successivi al 1945, in Italia, ma anche fuori d'Italia, gran parte delle discussioni ruoteranno proprio su questi punti e sui residui margini di autonomia degli intellettuali. Celebri diverranno gli interventi di Vittorini, Togliatti e Bobbio. Quest'ultimo, in particolare, tenterà a più riprese di uscire dalla logica delle contrapposizioni e dal ruolo imposto agli intellettuali proprio dal panorama politico internazionale. In un primo tempo, immediatamente dopo la guerra, mentre grandi discussioni suscitano anche in Europa i temi del saggio dell'americano James Burnham, The managerial revolution (1941), erroneamente ma significativamente tradotto in Italia nel 1946 con il titolo La rivoluzione dei tecnici, Bobbio, consapevole dell'eredità gobettiana e in sintonia con il revival neoilluministico della cultura laica, auspica il superamento delle figure del 'tecnico apolitico', facile preda dell'indifferentismo, e del 'politico incompetente', prigioniero del politicantismo fine a se stesso: il futuro deve appartenere al tecnico-politico, ovvero al politico competente. Modello illustre di questa sintesi intellettuale e civile è Carlo Cattaneo, maestro di scienza sperimentale e insieme promotore di una politica che non perde mai di vista il bene comune. Successivamente, tuttavia, lo stesso Bobbio, nei saggi scritti tra il 1951 e il 1955 e poi riuniti nel volume Politica e cultura, pone il centro della riflessione, più che sul nesso competenza-politica, sulla necessità di superare le due figure dell'intellettuale che si stanno affermando nel presente, l'uno devoto alla cultura apolitica e quindi appartato egoisticamente rispetto al corso del mondo, l'altro impegnato nella politica culturale e quindi di fatto arruolato dall'uno o dall'altro schieramento: il destino dell'intellettuale che non vuole rinunciare alla propria fisionomia, e qui la temperie neoilluministica ha ancora modo di far sentire la propria voce, è invece la politica della cultura, vale a dire la difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura stessa. Grande è tuttavia il timore che, in un secolo in cui la forza ha avuto spesso la meglio sulla ragione, anche una tale posizione possa rivelarsi sterile e nobilmente impotente, come fu in parte la pur fremente denuncia contenuta nella Trahison des clercs di Benda: resta per Bobbio la possibilità, certo mai la certezza, che possa sussistere, o che sappia emergere, una 'filosofia militante' in grado di riconciliare la cultura e la politica facendo sì che da una parte esse non risultino irrimediabilmente separate, il che accade per l'intellettuale puro, e che dall'altra la cultura non si faccia catastroficamente fagocitare dalla politica, il che accade per l'intellettuale ideologicamente e aprioristicamente impegnato. Le preoccupazioni di d'Alembert, come si vede, sono ancora ben presenti in chi, in piena guerra fredda, non si stanca di ragionare e di preservare l'identità stessa dell'intellettuale, una strana creatura che rischia di soccombere sia se si pone integralmente al riparo dal mondo, sia se si annulla nelle passioni che dividono e divorano il mondo.
In Francia, soprattutto intorno all'intrecciarsi della questione degli intellettuali con la questione comunista, lo scontro mobiliterà, tra le altre, le personalità di Jean-Paul Sartre e di Raymond Aron. Sartre, che non per nulla sarà spesso criticato duramente dai comunisti francesi, pur ponendosi in molte circostanze come loro compagnon de route, farà 'esistenzialmente' derivare l'impegno, negli scritti del dopoguerra, non dalla superiorità di una determinata concezione del mondo, ma dall'ineludibilità della scelta nella situazione data: anche il silenzio e l'erudizione asserragliata nei propri ambiti specifici sono una forma d'impegno, una parola spesa pro o contro la politicità insormontabile e onniavvolgente del mondo contemporaneo. Tanto vale, dunque, pur non schierandosi pregiudizialmente con alcun partito, e anzi perorando la causa della smilitarizzazione della cultura, accettare consapevolmente la milizia della scelta e il conseguente impegno politico. Aron, invece, denunciando la facilità e l'impunità, nelle democrazie occidentali, della critica meramente intellettuale, farà più d'un richiamo, ne L'opium des intellectuels del 1955, alla responsabilità degli intellettuali e alla necessità di un impegno non astratto, non ideocratico, non esibizionistico, ma concreto, razionale, ancorato agli ambiti propri della conoscenza e quindi inevitabilmente liberale.
In Germania Jaspers e Adorno, tra il problema della 'colpa' degli intellettuali tedeschi e le contraddizioni della cultura nell'età della mercificazione dello spirito, affronteranno con toni drammatici ancora il problema dell'autonomia, mentre, negli Stati Uniti, Wright Mills, Bell, Chomsky e Marcuse riprenderanno il dibattito dal punto di vista rispettivamente della legittimazione del potere, della presunta 'fine delle ideologie', delle responsabilità davanti alla guerra dell'uomo di scienza e delle inedite possibilità insite nella dialettica della liberazione. È Michel Foucault, tuttavia, a intravedere, negli anni settanta, l'eclisse dell'intellettuale democratico, e anche 'rivoluzionario', che si è tradizionalmente proposto come rappresentante dell'universale. Quest'intellettuale deriva infatti dall'uomo di giustizia e di legge, da colui che ha inventato l'eguaglianza di tutti davanti alla solenne maestà della norma e che ha di conseguenza scavato nel territorio dell' 'esemplare' e del 'giusto e vero per tutti'. Modello di quest'intellettuale, ancora una volta, è Voltaire, il depositario della cultura che si è appellato all'universalità della legge giusta anche contro i professionisti del diritto. La sua battaglia è stata quella del 'generale' contro il 'particolare'. Dopo la seconda guerra mondiale, secondo Foucault, si è però sviluppata la figura dell'intellettuale 'specifico', dell'intellettuale che, come lo scienziato Oppenheimer, partendo appunto da un ambito consapevolmente settoriale - dalla 'microfisica' - ha investito temi e problemi che concernevano il destino dell'uomo e del mondo. Perché questo è avvenuto, o è giunto a definitivo compimento, non è facile da spiegare. Sembra però che si possa dire, seguendo Foucault, che l'intellettuale portatore in quanto tale di valori universali diventa tanto più obsoleto quanto più tende a occupare posizioni specifiche e a installarsi nei saperi socialmente utili che la società complessa organizza e dispiega secondo una strategia diffusiva e non necessariamente universalizzante. L'intellettuale 'universale' tende cioè a monumentalizzarsi e a museificarsi proprio mentre l'intellettuale 'specifico' si afferma in modo molecolare: inoltre la forza di gravità delle competenze attrae inevitabilmente il letterato-scienziato dei tempi passati trasformandolo in 'esperto', vale a dire in operatore della scienza e della cultura che si professionalizza nella scuola, negli ospedali, nei laboratori, nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende, nelle pratiche organizzative, nelle arti, nel mondo del commercio e del business, nella ricerca, nei mass-media. L'esperto, tuttavia, non è l'erudito autosegregatosi o il 'competente apolitico': racchiude potenzialmente, infatti, disperdendosi nei mille rivoli della microfisica sociale e politica, la tensione, frammentata e insieme moltiplicata, verso la giustizia e la verità che era propria dell'intellettuale 'universale'. Questa tensione, peraltro, non è facilmente riconoscibile, talvolta è muta, talvolta è nascosta tra le pieghe del tessuto civile.
La questione degli intellettuali, del resto, pur diventando in certi anni ossessiva, si slabbra e tende, nella seconda metà del XX secolo, a confondersi, più che in passato, con i problemi oggettivi di interesse generale, quali, per citarne solo alcuni, la guerra e la pace, la questione nucleare, la decolonizzazione, l'indipendenza dei popoli, l'ecologia, la moralità pubblica e privata, i limiti dello Stato e del mercato, la bioetica. L'intellettuale, inflazionato sino all'implosione dalla chiacchiera massmediologica, si allontana sullo sfondo: i grandi temi lo sovrastano. Con la fine della divisione del mondo in blocchi contrapposti e con la caduta del cosiddetto comunismo, la questione degli intellettuali, alimentata e prolungata artificialmente proprio dal contrapporsi degli schieramenti, sembra infine essere proprio tramontata. In una società dalla complessità insormontabile il 'punto di vista della totalità' è del resto enormemente problematico. È auspicabile, tuttavia, che non ci si arrenda davanti all'eterogeneità tumultuosa del reale e all'esiziale trionfo 'naturalistico' e talvolta 'etnicistico' delle differenze. L'universale ha forse smarrito il veicolo privilegiato, e anche elitario, che lo imponeva all'attenzione del mondo. Può però - e probabilmente deve - continuare a sussistere, in ogni ambito specifico, come idea regolativa della ragione, come norma immanente di ogni tentativo di comprendere e di trasformare, se possibile, il mondo. Prenderne laicamente atto, anche a costo dell'eutanasia, e nella prospettiva di una resurrezione in forme diverse, è forse l'ultima chance della funzione intellettuale.
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