Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Premessa
Se raramente il passaggio da un secolo all’altro viene a coincidere con effettive modificazioni nella vita e nella cultura degli uomini, rimanendo un’astratta partizione a uso delle sintesi storiche, ciò è ancora più vero nel caso del Settecento che, per quanto riguarda la musica, non ci rivela bruschi mutamenti rispetto agli ultimi anni del Seicento, piuttosto si presenta quale continuazione di tendenze già vitalmente in atto entro quel “movimento” – definito con il termine forse troppo suggestivo di “barocco” – che recentemente è stato posto giustamente in discussione (o quanto meno in “revisione”).
Virtuosismo e continuità
Il nuovo secolo vede lo sviluppo dell’opera in musica, con il crescente predominio italiano secondo linee già tracciate alla fine del Seicento, e la sua progressiva involuzione virtuosistica. La musica vocale, sia da camera sia sacra, trova nuovi sviluppi attraverso il progressivo abbandono del madrigale e lo sviluppo della cantata, ma non riesce a nascondere le sue ascendenze ancora tardorinascimentali; la musica strumentale, che ha le sue radici nella sonata da camera secentesca e nel concerto grosso, avvia – con il contributo determinante della pratica italiana, basti pensare ad Antonio Vivaldi e a Giambattista Sammartini – la sua evoluzione verso il concerto solistico e la sinfonia concertante.
Nei primi anni del Settecento il violino e il clavicembalo trovano la via per manifestarsi nelle loro massime possibilità e mentre il primo godrà di immutata fortuna per tutto il secolo (e anche oltre), il secondo dovrà soccombere (dopo aver espresso tutte le sue potenzialità con autori quali François Couperin e Domenico Scarlatti) innanzi all’invenzione da parte di Bartolomeo Cristofori del “gravicembalo col piano e forte”.
Persistenze e novità
Le “novità” del nuovo secolo non si rivelano così nel segno di una rottura con il passato, quanto piuttosto nel fecondo confluire dell’esperienza dell’età barocca nell’opera dei due massimi maestri della musica tedesca della prima metà del Settecento: Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel, i quali aprono la strada alle effettive innovazioni che segneranno la seconda metà del secolo.
Se Bach e Händel si pongono certamente – non soltanto per la loro grandezza musicale – al di là dell’orizzonte secentesco, tuttavia un filo ben evidente continua a legare i due musicisti tedeschi a un “insegnamento” musicale e a una “visione della musica” che risale alla seconda metà del secolo precedente, o che comunque ha le sue radici e le sue premesse in quegli anni.
Come tutte le manifestazioni della cultura, anche il percorso della musica è intimamente connesso nella continuità come nelle innovazioni rispetto al secolo precedente; alle vicende sociali della vita europea di quegli anni, che per un verso assiste alla nascita di situazioni politiche, economiche e di pensiero che emergono in modo anche violento nella seconda metà del secolo, ma che d’altronde registra anche una forte persistenza di modelli del passato.
Questa dicotomia trova chiara esemplificazione nelle vite di Bach e di Händel. La prima è rappresentazione d’una Germania in gran parte ancorata all’eredità luterana, al paesaggio volutamente ristretto della Chiesa e della città, alla prerogativa d’una moralità con poche aperture, mentre la seconda è figurazione esemplare delle nuove caratteristiche anche economiche e mercantili della vita musicale in un’Europa nella quale si va costruendo un’egemonia borghese.
Trasformazioni stilistiche
Il “nuovo” appare dunque nella seconda metà del secolo, agitato e trascinato dal vento innovativo e presto rivoluzionario che percorre l’Europa e penetra anche negli ambiti più conservatori. Ed è Vienna lo spazio culturale entro il quale si opera la sintesi dell’esperienza musicale della prima metà del secolo e nel quale nascerà una straordinaria produzione musicale che, senza ragioni di logica storica, ma forse per segnare un modello di perfezione sulla misura degli antichi, verrà poi definita “classica”.
Nel volgere di pochissimi decenni nella capitale di quell’impero che “aveva un grande nome ma era più grande del suo nome”, non soltanto vedono la luce alcuni capolavori che ancor oggi dominano la nostra sensibilità musicale, ma vengono definiti quei modelli che i compositori del secolo seguente continueranno anche involontariamente a utilizzare, pur sforzandosi di superarli, ristrutturarli e distruggerli.
La codificazione della cosiddetta “forma-sonata” nella sua forma bitematica tripartita, l’abbandono del basso continuo per l’affermazione di precise relazioni tra melodia e armonia, la scelta di un sistema gerarchico dei temi entro una logica al tempo stesso razionale e comunicativa sono procedimenti – riconducibili all’opera di Haydn – che giungono fino a noi.
Subito dopo la morte di Bach si manifestano nella musica tedesca chiari segni di trasformazione stilistica e, in gran parte, proprio i figli del Kantor contribuiscono a questo processo.
Pare difficile, a prima vista, considerare quali premesse all’opera di Haydn e di Mozart le leggere e miniaturistiche esercitazioni nello “stile galante” di Johann Christian Bach e anche le più dense, ma non certo più emozionanti, pagine di Philip Emmanuel, nonostante queste siano talora percorse da una certa aria romantica.
Eppure è proprio nei fermenti della musica tedesca dopo Bach, e a lui in un certo qual modo legata, che si giunge alla cosiddetta “scuola di Mannheim” la quale, per merito del violinista boemo Jan Stamitz, sperimenta quell’orchestra moderna su cui si fonderà il sinfonismo viennese di Haydn e di Mozart.
La Vienna di Mozart e di Haydn, dunque, ma anche la Vienna di Gluck, che proprio qui all’inizio degli anni Sessanta rappresenta Orfeo ed Euridice, risultato delle sue riflessioni di riforma dell’opera in musica, destinate a non trovare fortuna duratura nella capitale asburgica, ma che, al contrario, susciteranno un acceso dibattito in Francia, influenzando il destino del melodramma.