Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento le tecnologie e le scienze diventano il motore e il carburante delle economie occidentali. Anche nei Paesi in via di sviluppo, in particolare quelli che nel corso degli anni Ottanta del Novecento assurgono al rango di Paese “sviluppato”, come per esempio la Cina o l’India, i miglioramenti dell’economia e della qualità della vita sono largamente dipesi dall’acquisizione passiva o attiva di competenze scientifiche e tecnologiche, anche se l’efficacia con cui il progredire della scienza e della tecnologia ha favorito un’equa distribuzione dei benefici è dipeso comunque dai livelli di democrazia e di partecipazione politica all’interno delle stesse nazioni.
Paradossalmente, negli ultimi anni scienza e tecnologia sono state sempre più percepite, soprattutto nelle democrazie occidentali (nei Paesi cioè che più hanno goduto del benessere e dei livelli culturali sostenuti dallo sviluppo delle conoscenze) come una minaccia per l’ambiente, per la salute e per la libertà. In più occasioni gli scienziati si sono sentiti sottoposti a forti pressioni, e al rischio di non poter continuare liberamente il loro lavoro. Si tratta di un fenomeno rispetto al quale si è cercato di reagire con politiche culturali volte ad aumentare il tasso di alfabetizzazione scientifica dei cittadini e della società nel suo insieme. Si sconta al tempo stesso un ritardo culturale e formativo che scaturisce da una scarsa percezione storica del ruolo che la scienza ha svolto per lo sviluppo economico e civile dell’umanità. In tale situazione la storia della scienza e della tecnologia, e in particolare delle acquisizioni conoscitive e delle articolazioni socio-politiche della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, può aiutare a capire cosa è accaduto e cosa sta accadendo. È chiaro però che le conseguenze di un rallentamento dei processi di innovazione scientifica e tecnologica nei Paesi occidentali sarebbero (e in parte già sono) devastanti dinanzi alla crescita esponenziale del megasistema tecnologico-produttivo dell’area cinese e indiana.
Non si può non dar ragione a Gerald Holton, storico della scienza di Harvard, quando afferma che la scienza e la sua storia rappresentano l’unica vera dimostrazione della capacità dell’uomo di ragionare; più problematico, forse, è dar seguito al suo invito agli scienziati e agli storici affinché assumano come una sorta di dovere civile il compito di diffondere questa verità. Perché negli ultimi decenni – anche nell’ambito della stessa storia della scienza, e soprattutto a livello di storiografia della scienza contemporanea – si è affermata la tendenza a privilegiare la contestualizzazione socio-economica e istituzionale dell’attività scientifica, piuttosto che l’idea che la scienza possiede delle peculiarità dovute al fatto di fondarsi su una metodologia che produce risultati meglio controllabili e controllati rispetto a qualsiasi altra attività conoscitiva umana.
Descrivere l’impresa scientifica prevalentemente in termini di rapporti tra persone, istituzioni, oggetti o apparati e asserti, ovvero ampliando i contesti di riferimento che gli approcci sociologici ritengono possano concorrere a costruire l’attendibilità di una teoria o di un programma di ricerca scientifico, non ha migliorato la comprensione di come funziona la scienza. Si è certamente arricchito l’apparato interpretativo storiografico e sono proliferate le interpretazioni critiche delle dinamiche sociali, economiche e culturali che si producono intorno e all’interno delle modalità concrete di produzione dei dati scientifici o delle valutazioni di pertinenza ed efficacia di particolari sviluppi tecnici; ma questo processo ha portato anche a relativizzare e marginalizzare la portata conoscitiva e metodologica dei risultati prodotti dalla ricerca di base.
La scienza accelera: i nuovi sviluppi tecnologici e scientifici
Nel contesto di questa opera sulla storia della cultura occidentale si è cercato di favorire una percezione articolata degli sviluppi del sapere scientifico, nonché degli strumenti, degli apparati, delle istituzioni e delle politiche che hanno alimentato le ricadute di quella che è stata chiamata la seconda rivoluzione scientifica, e che ha avuto luogo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Una rivoluzione che ha creato le condizioni affinché dopo la seconda guerra mondiale si realizzasse un’ulteriore accelerazione e radicale trasformazione dei modi e dei contenuti della pratica scientifica: forse una terza rivoluzione scientifica.
Si è innanzitutto cercato di dare un’idea dell’imponente mole di conoscenze scaturita dalla ricerca di base, ovvero degli straordinari avanzamenti metodologici e tecnici che hanno consentito di meglio definire o scoprire principi e meccanismi implicati, a vari livelli di organizzazione e su differenti scale temporali, nella produzione delle fenomenologie osservate, nonché nella definizione degli strumenti logico-matematici utilizzati per strutturare i ragionamenti. E di descrivere come sono state sfruttare le spiegazioni e il controllo delle fenomenologie naturali per sviluppare tecnologie che hanno radicalmente cambiato la vita quotidiana dell’uomo occidentale. Gli avanzamenti a livello delle spiegazioni e delle tecniche vengono quindi contestualizzati in riferimento alle implicazioni filosofiche e alle interazioni che il sapere scientifico e tecnico ha stabilito durante il Novecento con le altre attività culturali umane.
A partire dalla fine dell’Ottocento cambiano i rapporti tra scienza, potere politico, stato e industria, e ambiti e programmi di ricerca hanno sperimentato, in contesti geografici differenti, nuove forme di collaborazione. Ciò è avvenuto sotto l’impulso di eventi socio-politici che hanno mobilitato la scienza e gli scienziati (in particolare le due guerre mondiali, e soprattutto la seconda) sia in rapporto alle trasformazioni intervenute nel modo di produrre conoscenza scientifica, sia alla crescente sensibilizzazione sociale per i risvolti etici della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. Non è ovviamente possibile analizzare in questa sede tutti i fattori e le scelte politiche che hanno concorso all’emergere delle differenti tipologie di sistemi scientifico-tecnologici che nei diversi Paesi, sulla spinta di istanze e condizioni locali, hanno consentito l’affermarsi dei programmi di ricerca più produttivi. Ci si è dunque limitati a illustrare alcuni momenti, per mettere in evidenza le differenti logiche e i diversi ruoli che hanno giocato in contesti e tempi diversi i finanziamenti pubblici e privati. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno guidato la riorganizzazione della ricerca scientifica e tecnologica attraverso la creazione di complessi apparati in cui gli scienziati vengono impiegati in imprese e agenzie statali, in stretta connessione con il mondo universitario. Questa organizzazione della ricerca ne ha fatto anche lievitare i costi e ha determinato l’intervento massiccio di interessi commerciali che hanno imposto nuove strategie di collaborazione con l’industria; con la rivoluzione biotecnologica abbiamo assistito all’apertura dell’università stessa allo sfruttamento commerciale dei risultati della ricerca.
I conflittuali rapporti tra scienza e società
Nel corso del Novecento è anche cambiato il rapporto tra scienza e società; si sono succedute diverse rivolte culturali contro la scienza articolate in modi, in tempi e luoghi diversi. Mentre con la prima guerra mondiale entrava in crisi l’immagine della chimica come scienza dedicata al progresso umano e in grado di creare prodotti artificiali migliori di quelli naturali (dato che in quell’ambito erano stati messi a punto gli esplosivi e i gas venefici utilizzati come armamenti di distruzione), le scienze biologiche applicate all’agricoltura, all’igiene e alla medicina conservavano ancora tra le due guerre un valore positivo, e si riteneva che potessero svolgere una funzione importante per realizzare un progresso a misura d’uomo e rispettoso della natura. L’invenzione della bomba atomica e il contributo dei ricercatori allo sviluppo degli armamenti durante la guerra fredda, così come l’ingresso nei teatri di battaglia, durante la guerra del Golfo, di una raffinata tecnologia da tempo al servizio della “guerra intelligente”, hanno coinvolto la scienza e la tecnologia in quanto tali nella critica politica alle logiche di dominio sociale e internazionale. Lo sfruttamento civile dell’energia atomica è stato invece oggetto di critiche per i rischi ambientali e sanitari associati a una tecnologia ritenuta pericolosa. Una serie di incidenti, in particolare quelli alle centrali di Three Miles Island (USA) e di Cernobyl (Ucraina) hanno alimentato un’irrazionale paura, e favorito il proliferare di movimenti politici ambientalisti che attraverso la propaganda antinucleare prima e contro le biotecnologie poi, hanno guadagnato la scena e condizionato negativamente la percezione del ruolo della scienza e della tecnologia nella società.
Con la fine della seconda guerra mondiale si scoprono anche gli abusi e le limitazioni delle libertà individuali perpetrate nell’ambito della medicina e delle scelte di sanità pubblica sulla base di pseudogiustificazioni scientifiche, come nel caso delle dottrine eugeniche o razziali.
Le pressioni esercitate dalla nuova organizzazione della ricerca biomedica e dalla crescente domanda sociale di prestazioni e successi medici non hanno favorito l’emergere di un’etica medica professionale non più paternalistica, in grado di corrispondere ai nuovi valori delle democrazie occidentali. Sotto l’impulso di casi sensazionali o clamorosi e di riflessioni religiose, filosofiche, politiche e giuridiche si è affermata un’etica biomedica incentrata soprattutto sul riconoscimento dell’autonomia decisionale del paziente.
La percezione sociale delle scienze biomediche nel secondo dopoguerra rimane a lungo ambivalente. Per cui se da un lato la scoperta e la produzione industriale degli antibiotici e lo sviluppo di nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche alimentano un’immagine ancora positiva delle scienze biomediche, la vicenda del DDT, l’insetticida largamente utilizzato per distruggere le zanzare portatrici dell’agente responsabile della malaria, mostra che quella che può inizialmente apparire come la soluzione di molti problemi sanitari può successivamente diventare l’emblema delle conseguenze avverse che possono scaturire dalla scienza applicata alla sanità pubblica. È questo il clima che prepara le controverse reazioni all’invenzione della tecnologia del DNA ricombinante e alle applicazioni della biotecnologie in campo agricolo e zootecnico.
Questi fenomeni hanno prodotto a livello culturale la transizione da una “ideologia del progresso” a una “ideologia del limite” – per usare le espressioni di Gerald Holton – diffondendo per la prima volta l’idea che vi possa essere una contraddizione tra scienza e democrazia, tra avanzamento della scienza e miglioramento della qualità della vita umana. Con l’emergere delle istanze etiche, e in modo particolare della bioetica, soprattutto le scienze biologiche e mediche vengono percepite come una minaccia, fonti di catastrofi e attentati alla dignità umana. In Europa, in particolare, si è affermato, anche a livello normativo, un atteggiamento precauzionale rispetto alla politica della ricerca e dell’innovazione. Il principio di precauzione, formulato per la prima volta nel 1992 alla conferenza di Rio sulla biodiversità, è stato ripreso in uno specifico documento dalla Commissione Europea (2000). Tale principio sottomette l’applicazione delle tecnologie a un attento esame di valutazione – condotto su dati scientifici e statistici – che garantisca l’assenza di rischio a danno delle persone e dell’ambiente. Esso riflette certamente l’atteggiamento di una popolazione benestante desiderosa di fermare il tempo e ritiene che limitare la scienza e la tecnologia rappresenti una garanzia per mantenere le conquiste ottenute. Si tratta di un atteggiamento tutt’altro che sensato.
Le risposte della comunità scientifica ai cambiamenti della percezione della scienza sono oggi lontane dall’idea, emersa negli anni Trenta del Novecento, che sia una precisa “responsabilità sociale” dello scienziato battersi perché gli avanzamenti scientifici si traducano rapidamente in progresso sociale, e che in questo senso sia un dovere morale e sociale per gli scienziati divulgare attivamente e direttamente il risultato del proprio lavoro, poiché questo rappresenta un livello di conoscenza fondamentale indipendente dal contesto sociale. Per cause complesse, non ultime quelle legate al coinvolgimento della scienza nella creazione degli armamenti atomici, e nella messa a punto di brevetti industriali o farmaceutici, negli ultimi tre decenni si è privilegiata una strategia volta a persuadere il pubblico sui benefici che la scienza può recare alla società.
In realtà la comunità scientifica ha assunto acriticamente e unilateralmente l’esistenza di una domanda sociale di informazione e di un “golfo” di ignoranza da riempire, dando per scontata l’esistenza di un’audience passiva, pronta ad ascoltare con interesse. A partire dagli anni Ottanta – soprattutto in Gran Bretagna – si è assistito alla nascita del movimento del public understanding of science, che ha ben presto progressivamente modificato la propria filosofia comunicativa, orientandosi verso il public engagement with science and technology. In altre parole si è riconosciuto che la presente fase critica nei rapporti tra scienza e società dipende da una sostanziale mancanza di fiducia nella scienza e negli scienziati, una mancanza di fiducia che si esprime soprattutto quando entrano in gioco incertezza e rischio. Nel contesto delle moderne democrazie la scienza non può ignorare l’arena pubblica e i suoi valori, per cui diventa necessario promuovere e intensificare le occasioni di dialogo tra la comunità scientifica e la società, allo scopo di garantire che la scienza e la tecnologia continuino a essere riconosciute come fonti di benefici economici e sociali e di sviluppo civile e culturale. Al tempo stesso, la comunità scientifica deve riconoscere che timori ed esitazioni di parti consistenti dell’opinione pubblica non possono venire disattesi o considerati mero frutto di ignoranza e pregiudizio.
In questa situazione un ruolo importante nella valorizzazione della portata culturale e civile della scienza può svolgerlo anche lo storico della scienza. Di fatto sia la formazione degli scienziati sia le argomentazioni prodotte nel corso delle controversie pubbliche sui temi scientifici mancano sempre più di spessore storico. E l’affermarsi di una percezione astorica della scienza può essere facilmente fonte di pregiudizi e determinare un’incapacità di collocare i problemi all’interno di una rete sufficientemente ampia di riferimenti puntuali capaci di favorire atteggiamenti più sobri e pragmatici.
La ricerca e la formazione storica possono invece fornire le coordinate epistemologiche e socio-culturali per comprendere meglio i termini delle controversie in corso sui cambiamenti che stanno interessando all’alba dell’era genomica soprattutto la biologia e la medicina. Inoltre, una maggiore contestualizzazione storica dei temi che sono oggetto di comunicazione scientifica nei media può contribuire a collocare i problemi della scienza e della tecnologia in una prospettiva culturale più ampia, valorizzando le dimensioni conoscitive oltre che quelle applicative della ricerca. La formazione di aspettative meno estreme nei riguardi della scienza contemporanea, ovvero il superamento delle percezioni di minaccia o delle attese di traguardi sensazionali, a favore di prospettive ragionevolmente ottimistiche, passa probabilmente attraverso un’alfabetizzazione non solo scientifica ma anche storico-culturale della società.