MEDICI, Ippolito de’ (Pasqualino)
Nacque a Urbino nel marzo del 1511, figlio illegittimo di Giuliano, duca di Nemours, e di Pacifica Brandano. Fu legittimato il 4 maggio 1519 da Franceschetto Cibo, cognato di Leone X.
Della sua educazione si occupò Clarice de’ Medici, moglie di Filippo Strozzi. Successivamente fu condotto a Roma alla corte di Leone X e iniziato alla cultura umanistica e alle più raffinate maniere cortigiane. Carattere esuberante e irrequieto, mostrò fin da piccolo inclinazione per le armi. Considerato da Leone X come il futuro capo della famiglia, continuò a rappresentare il potere mediceo anche nei primi anni del pontificato di Clemente VII, che lo aveva inviato a Firenze con il cardinale Silvio Passerini. Tra la fine di aprile e la metà di maggio del 1527, quando la città si ribellò al potere mediceo, il M. fu allontanato da Firenze insieme con Passerini, ma continuò a essere chiamato «il Magnifico» e indicato come l’erede designato per una successiva restaurazione medicea. Diversa però fu la volontà del papa che, pur mirando a reinsediare i Medici, scelse Alessandro, cugino del M., come signore di Firenze. I rapporti fra i due cugini erano stati segnati da rivalità e conflitti fin dall’infanzia. La scelta di Clemente VII apriva al M. una rapida, ricca e, tuttavia, poco desiderata carriera ecclesiastica: il 20 genn. 1529 fu creato cardinale con il titolo di S. Prassede, mutato il 3 luglio 1532 con quello di S. Lorenzo in Damaso. Nominato arcivescovo di Avignone il 10 genn. 1529, fu dotato di cospicue rendite che, alla sua morte, i contemporanei valutavano in circa 22.000 ducati annui. Fra queste spiccavano per valore e prestigio gli arcivescovati di Avignone e di Monreale, oltre all’abbazia romana delle Tre Fontane. Il M. teneva a Roma, nel palazzo di Campo Marzio, una corte di circa 300 persone, mostrando liberalità e magnificenza che esprimevano la sua raffinata personalità ma lo rendevano sempre bisognoso di denaro, che il papa gli elargiva copiosamente per saldare i suoi debiti e, soprattutto, per distoglierlo dal proposito di diventare signore di Firenze o, comunque, di avere un proprio dominio territoriale.
A partire dal 1529 il M. si inserì nel gioco politico internazionale come cardinale nipote del papa, ma soprattutto con la sempre più ostinata volontà di cacciare Alessandro da Firenze e sostituirsi a lui nel governo della città. Il 3 maggio 1529 fu nominato da Clemente VII legato di Perugia, una carica poco redditizia dal punto di vista finanziario, ma assai importante strategicamente e funzionale alle mire del M. su Firenze. A Perugia, infatti, avrebbe dovuto tenere a freno la potenza di Malatesta Baglioni che i Fiorentini, stretti dalle armi imperiali, avevano scelto come loro generale e controllare le diverse fazioni cittadine per assicurare il pieno e assoluto dominio papale su Perugia, sperando per questa via di potersi costituire un suo Stato, ducato o marchesato che fosse, proprio nei territori sottratti ai Baglioni. Il M. non si occupò direttamente del governo della legazione, affidato al vicelegato: l’Umbria doveva essere, di fatto, un punto di partenza per impadronirsi di Firenze. La restaurazione del potere mediceo a Firenze era stata promessa dall’imperatore Carlo V a Clemente VII con il trattato di Barcellona (20 giugno 1529), che precedette la pace generale di Bologna (1° genn. 1530) e la solenne incoronazione di Carlo V, alla quale il M. partecipò con gran seguito.
Bologna fu anche teatro di azioni che poco si confacevano al suo stato, come quando, insieme con l’arcivescovo di Marsiglia Giovanni Battista Cibo, da sempre legato a lui da profonda amicizia, il M. andava a caccia di spagnoli e tedeschi per sfidarli a duello.
Alla caduta di Firenze (12 ag. 1530) di fronte all’esercito imperiale, il papa, smentendo la promessa di affidare il governo a Bartolomeo Valori, Francesco Guicciardini e Roberto Acciaiuoli, prese egli stesso le redini del potere: il 17 febbr. 1531 Alessandro, allora in Fiandra per concordare con Carlo V la riforma del governo fiorentino, fu abilitato dalla Balia all’esercizio di tutte le cariche.
La preferenza accordata dal papa ad Alessandro piuttosto che al M. può spiegarsi sia con la maggiore malleabilità caratteriale di Alessandro, che gli avrebbe consentito di intervenire più direttamente nelle faccende di governo, sia con il fallimento, già prima della pace di Bologna, dei suoi tentativi di ottenere da Carlo V il Ducato di Milano per lo stesso Alessandro. Inoltre, alla fine di luglio del 1529 fu stabilito il matrimonio tra Alessandro e Margherita d’Austria, figlia dell’imperatore.
Il M. sarebbe così rimasto vincolato al suo stato clericale, sebbene rinviasse a lungo la decisione di prendere gli ordini maggiori e manifestasse, anche in seguito, ripetutamente, la volontà di «scappellarsi».
Osservatori contemporanei, come alcuni ambasciatori veneziani, nelle loro relazioni del 1528 avevano descritto una situazione diametralmente opposta: il M. avrebbe sposato Margherita, mentre Alessandro avrebbe avuto il cardinalato. Per il M. inoltre erano stati fatti anche altri piani matrimoniali, con l’approvazione di Carlo V: Vespasiano Colonna, consorte di Giulia Gonzaga, aveva stabilito nel testamento, redatto il 12 marzo 1528, che la figlia Isabella dovesse andare sposa proprio al M., con una dote di 30.000 ducati. Non sono chiari i motivi che indussero il papa a una scelta contraria alle previsioni: forse, ammalatosi all’inizio del 1529, volle affrettare i tempi nominando cardinale il M., più gradito alla corte romana, per garantire almeno a uno dei nipoti un solido futuro nella Chiesa.
Il M. reagì in maniera inattesa: senza avvertire il papa si recò a Firenze per tentare un colpo di mano, spinto soprattutto dal suo consigliere Gabriele Cesano. Giunse in città il 20 apr. 1531, preceduto però dal corriere papale e raggiunto successivamente dall’arcivescovo di Capua Nicolò Schomberg inviato dal papa per controllare la situazione, in assenza di Alessandro che si trovava ancora in Fiandra. Il tentativo fallì, ma fu utilizzato dal M. per ricattare il papa e ottenere da lui nuove prebende e denaro: Clemente VII pagò tutti i debiti e concesse al nipote una pensione mensile di 800 scudi.
Divenuta più forte la minaccia dei Turchi nelle terre dell’Impero, Clemente VII, nel concistoro del 21 giugno 1532, decise di inviare il M. come suo legato presso Carlo V con 50.000 ducati e facoltà di arruolare truppe. Spinto dal fascino per il mestiere delle armi e dalla volontà di mostrare all’imperatore le sue doti, non solo militari, nella speranza di fargli mutare le decisioni sul governo di Firenze, il M. partì da Roma l’8 luglio 1532: indossava abiti «da soldato con berretto rosso, piume bianche e casacca tagliata, et spada et pugnale» (Sanuto, LVI, col. 770), proprio come lo ritrae Tiziano nel quadro conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Pochi giorni prima della partenza (3 luglio) il papa lo aveva nominato vicecancelliere. Accolto solennemente a Ratisbona, partecipò a qualche azione militare e all’inizio di ottobre mosse con le sue truppe verso l’Italia, seguendo l’esercito imperiale che poi superò, alimentando nello stesso Carlo V il timore di una sua autonoma iniziativa armata, compiuta con i fuoriusciti fiorentini. Fu fermato a San Vito al Tagliamento da Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, arrestato e fatto poi rilasciare dallo stesso imperatore, che dovette scusarsi col papa per questo affronto. Liberato, il M. giunse a Venezia con la sua corte, accolto festosamente dai numerosi esuli fiorentini. Ebbe colloqui con esponenti del governo della Repubblica al fine di ottenere l’appoggio veneziano per rovesciare il duca Alessandro. Le relazioni con il cugino erano peggiorate anche per il palese disegno del M. di crearsi con l’avallo imperiale un dominio in Umbria, nei territori dei Baglioni, a titolo di ricompensa per l’aiuto fornito contro i Turchi. Proprio in questa prospettiva tornava a riproporre al papa di «scappellarsi» per sposare Giulia Varano e rinunziare alle pretese su Firenze.
Dopo aver partecipato a Bologna come legato papale alla conclusione della rinnovata lega fra i principi italiani, il M. rientrò a Roma nel febbraio 1533. Anche Carlo V, preoccupato per l’incontrollabile comportamento del M., manifestò la volontà di allontanarlo dall’Italia, proponendo di inviarlo come legato in Spagna: al disegno imperiale si opposero sia il M. sia lo stesso Clemente VII, ormai malato e bisognoso di avere al proprio fianco il nipote, beneficiato anche con la concessione dell’abbazia di Lucedio, nel Vercellese, in territorio imperiale. Per usufruire delle sue rendite, occorreva però il beneplacito di Carlo V che non arrivò, per il timore che l’abbazia, di importanza strategica nella contesa per il Marchesato di Saluzzo, potesse essere utilizzata dal M. nella prospettiva di costruirsi un suo dominio nel Monferrato. Per allontanarlo dalle sue mire su Firenze, Clemente VII, il 5 sett. 1534, affidò al M. la legazione della Marca e di Ancona, già venduta per 19.000 ducati al cardinale Benedetto Accolti.
Alla morte di Clemente VII (25 sett. 1534), il M. si avventurò in manovre conclavistiche promettendo di appoggiare il cardinale Alessandro Farnese, futuro Paolo III, in cambio di aiuto per riprendersi Firenze. Aveva cercato di coinvolgere in queste trame anche i cardinali Giovanni Salviati e Niccolò Ridolfi, esponenti di punta del fuoriuscitismo fiorentino, i quali, come riferiva il cardinale Ercole Gonzaga a Ercole d’Este, tentavano di convincere il cardinale Farnese che, se fosse stato eletto papa, non avrebbe dovuto in alcun modo permettere al M. di diventare signore della città. Secondo B. Varchi erano stati proprio i cardinali Salviati e Ridolfi ad «accrescere l’odio che il cardinal de’ Medici portava al duca Alessandro» (cit. in Simoncelli, p. 46): una strategia di conflitti fondata su rivalità personali e familiari, acuite dall’emotività, piuttosto che su una concorde visione politica. Se alcuni fra gli esuli miravano infatti a una restaurazione repubblicana, altri, come Filippo Strozzi e il cardinale Salviati, pensavano piuttosto a instaurare un potere oligarchico guidato dal Medici.
Dopo la morte di Clemente VII, un rapporto strumentale si era stabilito tra il M. e gli esuli, «compagni improvvisati di fede ideologica […] che avevano avversato, combattuto, affossato repubblica e repubblicani; e che solo in seguito a dissapori e rancori nei confronti del duca Alessandro avevano abbracciato – senza alcun visibile percorso di ripensamento ideologico – la causa dell’opposizione repubblicana» (ibid., pp. 56 s.).
Nel marzo 1535 fu inviata a Barcellona – dove in seguito si sarebbe dovuto recare Carlo V, rientrato trionfalmente in Italia dopo la vittoria di Tunisi – una delegazione di fuoriusciti fiorentini per perorare la causa che, in quel momento, vedeva uniti il M. e diversi oppositori del duca. Il M. inviò il suo consigliere Gabriele Cesano, per il quale scrisse una particolareggiata istruzione, diretta con altre missive ai consiglieri di Carlo V Francisco de los Cobos y Molina e Antoine Perrenot de Granvelle.
L’istruzione, espressione di una visione politica e di un «programma di eterogeneo blocco sociale antimediceo» (ibid., p. 48) in cui si confondevano mitologie familiari, argomentazioni aristocratiche e strategie militari, voleva mostrare quanto fosse ampio il dissenso interno contro Alessandro. In essa si esaminava la posizione delle grandi famiglie fiorentine – come Strozzi, Salviati, Pazzi, Rucellai, Ridolfi – fortemente avverse al duca e la questione dei fuoriusciti, sul cui appoggio il M. diceva di poter contare. L’esaltazione dei suoi antenati e del favore popolare nei loro confronti si fondeva con un’analisi strategica delle possibilità di conquistare Firenze. L’ostacolo maggiore alla realizzazione del suo progetto diventava il matrimonio fra Alessandro e Margherita e, implicitamente, il M. si proponeva di sostituire il cugino per impalmare la figlia naturale dell’imperatore.
La delegazione, ricevuta nel maggio 1535, ottenne da Carlo V la possibilità di un incontro a Napoli, dove sarebbero stati ascoltati sia il duca Alessandro sia i fuoriusciti. Più complessa a questo proposito appare la posizione di Paolo III, che, informato dal M. dei piani, voleva, secondo alcuni osservatori, come Giovanni Maria Della Porta, ambasciatore del duca di Urbino, la rovina del M. e del duca di Firenze per «arricchire i suoi» (cit. in Moretti, p. 170).
Nel giugno 1535, dopo che Piero Strozzi e Francesco de’ Pazzi avevano subito un attentato commissionato dal duca Alessandro, il M. e Giovanni Battista Cibo, arcivescovo di Marsiglia, ordirono un attentato contro il duca, che fu però scoperto e sventato grazie all’intercettazione di una lettera scritta dal M. a Ottaviano Della Genga, suo cortigiano, in cui palesava il suo piano. Arrestati Cibo e Della Genga, il M. si rifugiò a Tivoli il 22 giugno, mentre il cardinale Salviati e Piero Strozzi si recarono da lui per convincerlo a rientrare a Roma, dove giunse il 5 luglio dietro assicurazione dell’ambasciatore cesareo che il papa non lo avrebbe in alcun modo punito. Tre giorni dopo ripartì per recarsi a Napoli, dove gli esuli fiorentini avevano deciso di inviarlo per rappresentare le loro ragioni, nonostante la voce di un suo possibile accordo con il duca di Firenze. L’eventuale pacificazione fra i due cugini poteva mirare a ottenere la rinunzia del M. a ogni pretesa su Firenze in cambio di un’ingente somma di denaro elargita da Alessandro per pagare i suoi sempre più numerosi debiti. Nel viaggio verso Napoli il M. si fermò a Itri per incontrare l’amata Giulia Gonzaga, vedova di Vespasiano Colonna, duchessa di Fondi, che già nel 1534 aveva salvato dalle incursioni e dal rapimento da parte del corsaro Khair ad-dīn, detto il Barbarossa. Debilitato da un’improvvisa malattia e da cure troppo energiche, fu avvelenato il 5 agosto dal suo siniscalco Giovanni Andrea de’ Franceschi originario di Borgo San Sepolcro.
Il M. morì a Itri il 10 ag. 1535. Fu sepolto a Roma nella basilica di S. Lorenzo in Damaso.
L’autore del veneficio, scoperto dalla giustizia papale, fu processato a Roma di fronte al tribunale del governatore, che lo consegnò alle magistrature fiorentine, e da queste fu rimesso in libertà. Confessò il delitto, indicando il mandante nel duca di Firenze, sebbene sembra non fosse estraneo il coinvolgimento dello stesso Paolo III. La tesi della morte del M. per avvelenamento, rifiutata da alcuni storici come A. Luzio, che attribuivano invece la causa del decesso a disordini ed eccessi, sembra invece comprovata dal processo allo scalco come da altre fonti coeve utilizzate in studi recenti. Il M. aveva avuto un figlio naturale, Asdrubale de’ Medici, cavaliere di Malta, morto durante l’assedio dell’isola nel 1565.
I. Fosi
Educato a Roma alla corte di Leone X, il M. fu iniziato alla cultura umanistica da personalità come il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e Pietro Bembo. Ritratto da Raffaello nella Stanza dell’Incendio di Borgo in Vaticano, visse la propria infanzia a contatto con una cerchia raffinatissima di artisti e letterati. Quando Giulio de’ Medici fu eletto pontefice con il nome di Clemente VII nel 1523, scelse come precettore del M. l’umanista bellunese G.P. Dalle Fosse (Pierio Valeriano), affinché ne curasse l’educazione letteraria, che prevedeva l’apprendimento dell’arte poetica, del latino e dei primi rudimenti di greco.
Una prima svolta nel percorso formativo del M. si ebbe con la creazione cardinalizia, nel 1529, allorché il papa volle ampliare il numero dei «governatori» del giovane neoporporato, affiancando a Valeriano il senese Claudio Tolomei, esperto in diritto e storia antica, il comasco Paolo Giovio, abilissimo nella gestione degli affari curiali, e il modenese Francesco Maria Molza, celebre poeta e cortigiano. Negli anni immediatamente successivi al sacco di Roma del 1527, caratterizzati da condizioni di estremo disagio, la corte del M. emerse come punto di riferimento e polo di attrazione per cortigiani, artisti, letterati, musicisti e per ogni altra categoria di «virtuosi» a Roma.
Nel 1532 Valeriano si allontanò da Roma, consapevole dell’esaurimento del proprio ruolo a seguito del progressivo manifestarsi delle preferenze del M., indirizzato verso la prosa e la poesia in volgare e sempre meno interessato a perseguire un programma di studi umanistici. In concomitanza con la partenza di Valeriano approdò alla corte del M., sia pur brevemente, il poeta fiorentino Francesco Berni, la cui presenza a Roma diede stimolo a una feconda vena poetica di genere burlesco, che ebbe successo presso un’ampia schiera di cortigiani e letterati, molti dei quali variamente legati ai Medici. Egli stesso partecipava occasionalmente alle loro riunioni conviviali e scrisse alcuni capitoli in terza rima, tipici di questa produzione poetica. Dapprima cenacolo informale, questo gruppo venne progressivamente formalizzandosi in Accademia della Virtù, ma non è chiaro se ciò avvenisse già prima della morte del Medici. L’eredità letteraria della corte del M. fu raccolta da papa Paolo III Farnese e da suo nipote, il cardinale Alessandro, che ammisero nel proprio entourage Tolomei, Giovio, il liutista Francesco Canova (Francesco da Milano) e, per breve tempo, anche Valeriano.
Non sembra che le preferenze del M. siano state guidate da meditate scelte culturali o artistiche, quanto piuttosto da una passione per il lusso e dall’acuta consapevolezza del contributo che opere letterarie e d’arte potevano offrire nella creazione di un’immagine principesca di sé. La sua posizione privilegiata gli consentì di entrare in rapporto con i maggiori artisti dell’epoca e di acquisire opere d’arte di grande pregio, come una serie di quadretti di Girolamo Mazzola detto il Parmigianino che, secondo la testimonianza di Vasari, gli furono donati da Clemente VII. Il M. conobbe Raffaello ed ebbe rapporti con Michelangelo, cui inviò dei doni; fu ritratto nel 1532 a Venezia da Tiziano Vecellio vestito «all’ungaresca» in un famoso quadro oggi a Firenze e in un secondo dipinto perduto in cui il M. appariva in armatura. Sempre Tiziano intese inviare in dono al M. un «quadro de una donna» (Tiziano. Le lettere, p. 50), che il M. non ricevette a causa della sua morte improvvisa. A Sebastiano Luciani (Sebastiano del Piombo), che lo ritrasse in abiti secolari, commissionò nel 1532 un perduto ritratto della bella Giulia Gonzaga, oggi noto attraverso copie e varianti. Nello stesso anno ebbe presso di sé il giovane Giorgio Vasari, che dipinse per lui diversi quadri di soggetto sia religioso sia profano. All’intagliatore Giovanni Bernardi da Castelbolognese commissionò la traduzione su cristalli di rocca di alcuni dei disegni donati da Michelangelo a Tommaso de’ Cavalieri, come la Caduta di Fetonte e la drammatica Punizione di Tizio. Dal 1533, infine, il M. accolse nella propria corte lo scultore ferrarese Alfonso Cittadella (Lombardi), che ricevette numerose commissioni soprattutto per ritratti dinastici in marmo, solo due dei quali (quelli di Giuliano de’ Medici e di Clemente VII) sono noti (Firenze, Palazzo Vecchio). La commissione delle due tombe gemelle di Leone X e Clemente VII nella chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma fu inizialmente affidata, grazie all’intervento del M., a Lombardi, che aveva consultato Michelangelo per produrne un modello, ma, dopo la morte del M., fu portata a compimento da Baccio Bandinelli.
Non è nota la consistenza delle raccolte antiquarie del M., tuttavia alcune testimonianze letterarie e archivistiche lo menzionano fin dal 1529 tra i più attivi collezionisti di Roma. Un elenco di debiti registrati dopo la sua morte consente inoltre di apprendere come egli avesse ricevuto in prestito numerose statue da parte di cardinali e aristocratici romani, segno di un gusto caratteristico dell’élite romana della prima metà del Cinquecento.
G. Rebecchini
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