Ippolito (Ipolito)
La storia d'I., figlio di Teseo re di Atene e dell'amazzone Ippolita (secondo alcuni mitografi, di Antiope), è strettamente legata a quella di Fedra, che fu condotta da Teseo ad Atene, divenendo quindi matrigna d'Ippolito.
Fedra arse di un'insana passione per il figliastro, al quale, durante una prolungata assenza di Teseo da Atene, svelò i propri sentimenti amorosi; il giovane, inorridito, resistette alle ripetute lusinghe della matrigna, e Fedra, sdegnata per le ripulse, mutò l'amore in fervente odio. Non appena Teseo fece ritorno, mossa anche dal timore che I. rivelasse al padre l'accaduto, Fedra non esitò ad accusare il figliastro di aver tentato di usarle violenza: e Teseo, prestandole ciecamente fiducia, maledisse il figlio, che fu costretto a fuggire in esilio. Mentre I., diretto a Trezene, guidava il suo cocchio lungo la riva del mare, Nettuno, accogliendo la maledizione di Teseo, fece sorgere dalle acque un toro furioso che spaventò i cavalli: I. cadde e, strascinato dal cocchio per un lungo tratto, rimase orrendamente straziato. Il suo corpo però fu ricomposto e richiamato in vita da Esculapio; e Diana, per sottrarlo a ulteriori sventure, lo portò miracolosamente nel Lazio, nel bosco di Egeria, dove I. assunse il nome di Virbio, ed ebbe poi dalla ninfa Aricia il figlio omonimo.
La storia del folle amore di Fedra per I. è stata ripetutamente narrata dagli scrittori e poeti greci e latini, e fu cara particolarmente ai tragediografi (tra i quali occorre ricordare Seneca). Virgilio, che ricorda il figlio Virbio tra gli alleati di Turno, preferisce spostare l'accento sulla vicenda dell'esule innocente, la sua caduta mortale e la venuta nel Lazio (Aen. VII 761-780); e Ovidio immagina che I., già stanziato nel Lazio, narri la propria storia a Egeria (Met. XV 492-546).
Di tutta l'appassionante storia d'I. D., che pare non avere cognizione diretta della tragedia senechiana e ha invece ben presenti gli accenni virgiliani e il passo ovidiano, menziona solo la condanna dell'innocente all'esilio: che più colpì la sua fantasia perché gli ricordava la propria sorte di esule ingiustamente cacciato dalla sua città; e perciò fa predire a Cacciaguida: Qual si partìo Ipolito d'Atene / per la spietata e perfida noverca, / tal di Fiorenza partir ti convene (Pd XVII 46-48; cfr. Met. XV 498 " sceleratae fraude novercae "). V. anche FEDRA.