Vedi Iran dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica islamica d’Iran è un’entità politica complessa e unica nel suo genere. Nata nel 1979 a conclusione di un processo rivoluzionario guidato dall’ayatollah Khomeini in opposizione allo shah Mohammed Reza Pahlavi, essa rappresenta una sintesi di elementi repubblicani e di governo religioso. Questa particolare conformazione politica, unita alla caratteristica di essere un paese di cultura persiana incastonato nel vasto mondo arabo, oltre che il maggiore paese sciita in un contesto dominato dall’islam sunnita, contri-buiscono a definire le specificità dell’Iran. A più di trent’anni dalla rivoluzione, l’Iran si trova oggi a fare i conti con la pesante eredità del khomeinismo, tanto dal punto di vista della politica interna quanto da quello della politica estera. Per quanto riguarda la divisione interna, la classe di ex rivoluzionari che ha partecipato al processo costitutivo della Repubblica islamica domina ancora la vita politica del paese. Qualsiasi ruolo di comando, tanto negli organi politici quanto in quelli della pubblica amministrazione, è precluso a chi non possa vantare solide credenziali di partecipazione alla rivoluzione. Dal punto di vista della politica estera, permangono le difficoltà tanto con i vicini regionali, quanto con gli Stati Uniti. Nonostante le recenti aperture dell’attuale presidente Hassan Rouhani, ufficialmente in carica dall’agosto 2013, l’Iran è ancora considerato con diffidenza, se non con aperta ostilità, dai principali concorrenti al ruolo di egemone nell’area mediorientale, in primis l’Arabia Saudita. Non è stata ancora sanata, inoltre, la ferita inferta ai rapporti con Washington in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense a Teheran nei giorni della rivoluzione. Proprio sull’opposizione al ‘grande Satana’, come sono stati ribattezzati gli Stati Uniti durante la rivoluzione, si è fondata e si fonda tuttora buona parte della retorica di regime. Sebbene questa retorica fatichi sempre più a trovare seguito tra la popolazione, essa rappresenta la principale fonte di autolegittimazione – insieme all’ostilità verso Israele – della Repubblica islamica.
Dal 2003, inoltre, l’Iran è sotto i riflettori internazionali per il suo controverso programma nucleare. Benché il governo abbia insistito sulla natura civile del programma, ripetuti controlli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) hanno messo in luce diverse ambiguità, che hanno portato i paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a varare diverse risoluzioni di condanna e a implementare successivi round di sanzioni, sebbene dal 2013 siano in corso storici negoziati per la risoluzione della questione con la comunità internazionale.
In seguito alla rivoluzione del 1979, l’Iran è diventato una repubblica islamica, realizzando, di fatto, un sistema duale di potere basato sulla compresenza di organi a legittimazione religiosa e organi a legittimazione popolare. Il sistema del Velāyat-e faqīh (‘governo del giurisperito’) progettato dall’ayatollah Khomeini nei giorni della rivoluzione, è basato sull’attribuzione della leadership politica a un faqīh (‘giurista’), incaricato di garantire il rispetto dell’islam da parte del popolo, in qualità di vicario del dodicesimo imam (secondo lo sciismo duodecimano, Muhammad al-Mahdī, appunto il dodicesimo imam, non sarebbe morto ma si sarebbe nascosto nel 9° secolo a.C. e se ne attenderebbe tuttora il ritorno). Il faqīh è incarnato politicamente nella guida suprema, che rappresenta la carica più importante dello stato: a sceglierlo è l’Assemblea degli esperti.
Di seguito viene il presidente, detentore del potere esecutivo: è eletto ogni quattro anni, per un massimo di due volte consecutive, con suffragio universale. Il presidente sceglie i ministri del governo, il parlamento (Majlis) li conferma e ne può chiedere la rimozione. Al Majlis è affidato il potere legislativo: ha struttura unicamerale ed è composto da 290 membri eletti ogni quattro anni. Per potersi candidare alle elezioni parlamentari e presidenziali è indispensabile avere il beneplacito del Consiglio dei guardiani, formato da sei esperti religiosi nominati dalla guida suprema e da sei giuristi, nominati dal Majlis dietro indicazione del capo del sistema giudiziario, anch’egli nominato dalla guida. Oltre che per il potere di preselezione dei candidati, il Consiglio è uno degli organi più potenti del sistema politico per due motivi: può bloccare l’iter legislativo delle proposte parlamentari e giudica la conformità della legge alla Costituzione e ai precetti islamici. Data la complessità dell’assetto istituzionale, risulta evidente il ruolo prioritario del Consiglio, che agisce sotto lo stretto controllo della guida suprema.
Dal 1979 a oggi, solo due uomini hanno ricoperto la carica di guida suprema: l’ayatollah Khomeini, che, dopo avere ideato la posizione, ha ricoperto tale ruolo fino alla morte, nel 1989, e l’ayatollah Khamenei, tuttora in carica. Il titolo religioso di ayatollah non deve ingannare circa la natura della carica. Soprattutto durante l’era Khamenei, infatti, tale carica è andata accumulando sempre più potere politico a dispetto dell’aspetto più squisitamente religioso.
Alla carica di presidente della Repubblica si sono invece alternati negli anni, con mandati limitati nel tempo, i grandi nomi del panorama rivoluzionario iraniano. Se dal 1979 al 1989, nel decennio khomeinista, tale ufficio rappresentava una carica prettamente onorifica, la modifica costituzionale del 1989, che ha eliminato il ruolo di primo ministro e aperto la strada all’ascesa dell’ex presidente Khamenei al rango di Guida Suprema, ha dato nuova linfa anche al ruolo di presidente. Dal 1989 al 1997 sullo scranno presidenziale si è seduto Hashemi Rafsanjani, a capo della corrente dei cosiddetti ‘tecnocrati’ che, pur muovendosi all’interno dell’orizzonte islamico, chiedevano un rilassamento dell’ideologia rivoluzionaria in favore di un maggiore pragmatismo che potesse risollevare le sorti – soprattutto economiche – del paese. Dal 1997 al 2005 è stata la volta del riformista Mohammad Khatami, i cui tentativi di cambiamento del sistema dall’interno sono falliti, preparando di fatto la strada all’ascesa, nel 2005, del radicale Mahmoud Ahmadinejad. Proprio la rielezione di quest’ultimo, avvenuta nel 2009 tra sospetti di brogli e manipolazioni, ha dato vita a un movimento di protesta noto con il nome di ‘Movimento verde’ che ha messo in evidenza la profonda crisi di consenso e legittimità attraversata dalla Repubblica islamica. A sanare in parte tale crisi è stata nel giugno 2013, l’elezione di Hassan Rouhani, religioso considerato un moderato all’interno del vasto panorama politico iraniano, e ritenuto vicino alla fazione politica guidata da Hashemi Rafsanjani.
Gli abitanti dell’Iran sono più di 77 milioni. La popolazione include importanti minoranze religiose, etniche e linguistiche. La lingua ufficiale è il farsi (persiano) e la religione maggioritaria è l’islam sciita. Sebbene la religione più diffusa sia quella islamica, la Costituzione tutela formalmente le minoranze ebraica, cristiana e zoroastriana, riservando loro seggi in parlamento, seppur con valore del tutto simbolico.
Tra le minoranze etniche quella più consistente è quella azera (circa il 16% della popolazione). La seconda comunità numericamente più rilevante è quella curda, pari a circa il 10% della popolazione, concentrata nella parte occidentale e settentrionale dell’Iran, al confine con Turchia e Armenia. La terza comunità è quella dei Luri, quattro milioni di persone che vivono nella parte settentrionale e meridionale del paese. Inoltre, vi sono arabi (2%), beluci (2%), turkmeni (2%) e gruppi tribali turchi, i Qashqai (1%). L’Iran accoglie circa 800.000 afghani (dicembre 2013), che costituiscono una delle più ampie comunità di rifugiati all’estero. Le misure del governo a favore delle minoranze etnico-linguistiche sono considerate sotto molti aspetti insufficienti dal Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali delle Nazioni Unite. Particolarmente forte è la discriminazione nei confronti della minoranza bahá’í, giudicata eretica dal regime iraniano. Inoltre, la diseguale distribuzione del potere, delle risorse socioeconomiche e dello status socioculturale tra centro e periferia hanno con il tempo inasprito le istanze di autonomia di alcune minoranze etniche. Particolarmente forte è il movimento indipendentista dei beluci, la cui espressione militare, il movimento Jundullah, si rende periodicamente responsabile di attentati ai danni delle forze di sicurezza iraniane.
La popolazione è mediamente molto giovane: l’età mediana è di soli 27 anni e nella fascia che va dai 15 ai 24 anni è compreso circa il 20% della popolazione. Tuttavia il tasso di crescita della popolazione (1,3%) è oggi tra i più bassi della regione, mentre in epoca pre-rivoluzionaria sfiorava il 3%. Questa contrazione è dovuta a diversi fattori, tra i quali l’innalzamento del livello di istruzione delle donne. Il tasso di alfabetizzazione supera l’85% per gli adulti e raggiunge quasi il 99% per i giovani (15-24 anni), maschi e femmine. La percentuale di ragazze che frequentano la scuola primaria è quasi pari a quella dei ragazzi e le donne rappresentano circa il 60% dei laureati nel paese.
Ciononostante, le donne riscontrano più difficoltà nella ricerca di un impiego: la disoccupazione femminile, al 26,8%, è sensibilmente più alta di quella maschile, ufficialmente al 14,2%. Le donne restano inoltre escluse dalle professioni più importanti, hanno stipendi più bassi e risultano sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali. L’Iran si presenta dunque come un paese dall’enorme potenziale umano, ma con scarse possibilità di mettere a frutto un simile patrimonio. Il risultato è una fuga di cervelli di proporzioni allarmanti, che allontana le possibilità di riscatto economico della nazione.
Nel novembre 2013 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che esprime profonda preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Iran, mettendo in evidenza il persistere, nonostante le promesse del presidente Rouhani, di gravi violazioni, quali tortura, esecuzioni arbitrarie, esecuzioni per mezzo di lapidazione, discriminazioni contro le donne e contro le minoranze etniche e religiose e gravi restrizioni della libertà di opinione e di assemblea. L’Iran è il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Nel 2013 le esecuzioni ufficialmente conteggiate sono state 369, facendo guadagnare all’Iran il poco prestigioso titolo di secondo paese al mondo, dopo la Cina, per numero di condanne a morte.
Nel marzo 2014 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato il rinnovo del mandato dello Special rapporteur sugli abusi dei diritti umani in Iran, posizione creata nel 1988, tenuta in vita fino al 2002 e successivamente riesumata nel 2011, a testimoniare il ciclico ritorno della preoccupazione circa gli abusi e la mancata risoluzione della questione negli anni
La libertà di espressione è limitata. Gli studenti universitari sono spesso arrestati e minacciati se esprimono opinioni critiche nei confronti del governo. In momenti politici delicati il governo controlla capillarmente i mass media. Il caso delle elezioni presidenziali del giugno 2009 è stato esemplare: la libertà di stampa ha registrato un brusco peggioramento, molte pagine Internet sono state oscurate, i servizi di telefonia mobile sono stati interrotti e gli arresti sono stati numerosi. Hassan Rouhani ha suscitato molte speranze: in più occasioni avrebbe dichiarato di voler prendere provvedimenti per migliorare la situazione dei diritti umani nel paese e di voler procedere alla liberazione dei prigionieri politici. Nel settembre 2013 il governo iraniano ha reso noto di aver liberato 11 prigionieri politici, tra i quali l’avvocato e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, in carcere dal 2010. La liberazione, avvenuta alla vigilia del viaggio di Rouhani a New York per partecipare ai lavori dell’Assemblea generale Un, è stata però interpretata dagli osservatori come un gesto di pura propaganda. D’altro canto, è da sottolineare che l’apparato giudiziario, responsabile degli arresti e delle reclusioni, non è posto sotto il controllo del presidente Rouhani, bensì delle fazioni più radicali e ostili alla politica del compromesso che sembra aver voluto inaugurare.
Molti osservatori, in questo senso, hanno interpretato il giro di vite nei confronti di giornalisti e attivisti come un tentativo da parte della fazione radicale di indebolire la fazione pragmatica – facente capo a Hashemi Rafsanjani – di cui è espressione il presidente Rouhani.
A un anno e mezzo dall’elezione di Hassan Rouhani, eletto con il chiaro mandato politico di risollevare le sorti economiche del paese, è possibile intravedere i primi timidi segnali positivi dopo anni di crisi drammatica. Il calo del tasso di inflazione, il rafforzamento del rial, l’aumento delle esportazioni di petrolio e la ritrovata vitalità di due settori chiave dell’economia iraniana, quello automobilistico e quello petrolchimico, rappresentano aspetti positivi che lasciano ben sperare circa l’effettiva ripresa.
Se è ancora troppo presto per valutare gli effetti delle decisioni prese in questi primi mesi, è senz’altro da riconoscere il fatto che la nuova squadra di governo ha perlomeno arrestato la drastica spirale negativa che ha avuto il suo apice nel 2012, definito l’annus horribilis dell’economia iraniana. Il periodo finale della controversa era Ahmadinejad ha infatti fatto registrare indicatori economici decisamente negativi, rivelatori di una crisi profonda e della necessità di seri provvedimenti per risollevare l’economia e allontanare lo spettro delle tensioni sociali, che metterebbero ulteriormente in crisi un sistema che può contare su un consenso ormai limitato.
Nonostante la timida ripresa inaugurata nell’ultimo anno, le debolezze strutturali dell’economia iraniana e gli effetti negativi di anni di gestione economica dissennata permangono. A favorire la svolta in positivo potrà essere solamente il pieno reintegro dell’Iran nei circuiti commerciali internazionali e il ristabilirsi di un clima positivo per gli investimenti e per la ripresa dei consumi privati.
L’isolamento economico causato dalle sanzioni si è tradotto negli ultimi anni nella drammatica crescita dell’economia sommersa, che secondo la Banca centrale iraniana si attesta attorno al 21% del pil, ma anche nel riorientamento delle rotte commerciali a favore dei paesi asiatici come Cina, Giappone, India e Corea del Sud, come pure della Russia e, per ciò che concerne le transazioni finanziarie, degli Emirati Arabi Uniti. Oltre 7000 imprese iraniane sono registrate a Dubai, divenuta la cassaforte off-shore degli ayatollah e dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica), che ricoprono sempre più ruoli decisivi nei diversi settori economici, affiancandoli alla loro funzione tradizionale nelle forze paramilitari.
Infine, una delle caratteristiche più originali del sistema economico iraniano è quella delle bonyad, le ‘fondazioni caritatevoli’. Questi enti, nazionalizzati dopo la rivoluzione del 1979, dominano l’80% dell’economia e hanno come scopo ufficiale quello di ridistribuire le risorse a vantaggio delle fasce più deboli. Le bonyad hanno facile accesso alle risorse statali, sono favorite dall’esenzione fiscale e rispondono del loro operato unicamente alla Guida Suprema.
La questione delle risorse energetiche iraniane è complessa e sfaccettata. Esse costituiscono la prima fonte di reddito del paese e restano un punto nodale di alcune tra le più importanti controversie con i vicini regionali e con attori internazionali, in primis gli Stati Uniti. L’Iran è il quarto paese al mondo per riserve petrolifere stimate (157 miliardi di barili, dietro al Venezuela, all’Arabia Saudita e al Canada) ed è al settimo posto nella produzione giornaliera (3,5 milioni di barili al giorno, dopo Arabia Saudita, Russia, Usa, Canada, Cina e Uae).
Si stima che il sottosuolo iraniano contenga ingenti riserve di gas naturale: nella produzione il paese è oggi al terzo posto mondiale, dietro Stati Uniti e Russia. A causa delle rigidità strutturali del mercato del gas, dovute alla convenienza di trasportarlo attraverso condutture piuttosto che liquefarlo e imbarcarlo via nave, le riserve gassifere iraniane hanno un ruolo potenzialmente fondamentale nelle aree caucasica, centroasiatica e mediorientale. Tuttavia, il paese resta un importatore netto di gas dall’estero (in prevalenza dal Turkmenistan), a causa dei grandi consumi interni di metano. Neppure il recente aumento della produzione è riuscito a colmare il gap generato dalla crescita della domanda interna. Nonostante la posizione di importante esportatore petrolifero (Teheran vende all’estero circa il 60% della sua produzione), l’Iran dipende dagli approvvigionamenti esteri anche per quanto riguarda i prodotti derivati dal petrolio. Il suo potenziale di raffinazione è modesto e di poco superiore alla domanda interna: il paese è perciò costretto a esportare greggio – soprattutto verso Cina, Giappone e India – e a importare i suoi derivati più leggeri, come la benzina.
Da una prospettiva regionale, la disponibilità di idrocarburi ha generato e genera tuttora tensioni con alcuni paesi confinanti. In particolare, parte del giacimento di South Pars – al largo delle coste del Golfo Persico – è conteso tra l’Iran e il Bahrain. Al tempo stesso, Teheran invoca da decenni la revisione degli accordi internazionali di sfruttamento del bacino del Caspio, in una vertenza che coinvolge l’Azerbaigian e il Turkmenistan, anche se di recente i rapporti con Aşgabat sembrano meno tesi. Rimangono in sospeso, infine, i lavori di costruzione del gasdotto Iran-Pakistan-India (Ipi), il ‘gasdotto della pace’ la cui progettazione risale agli anni Cinquanta. Mentre l’India è nel frattempo uscita dal progetto, nel 2011 l’Iran ha completato la costruzione del tratto di gasdotto di sua competenza. A rallentare però è ora il Pakistan, stretto tra il bisogno di energia e le pesanti pressioni statunitensi affinché non faccia affari con Teheran.
Prosegue inoltre, tra i sospetti della comunità internazionale, il programma di ricerca sullo sfruttamento dell’energia atomica. Avviato nel lontano 1957 dallo shah Muhammad Reza Pahlavi con il beneplacito e il sostegno dell’allora alleato statunitense, è stato più volte accantonato e ripreso negli anni, per poi subire una brusca accelerazione a partire dal 2003. Il governo iraniano sostiene che sia in linea con le necessità di diversificazione imposte dal forte aumento della domanda energetica interna (+25% negli ultimi cinque anni), ma il sospetto della comunità internazionale è che celi non tanto propositi energetici quanto ambizioni militari che sconvolgerebbero i precari equilibri nell’area. Nel novembre 2013 l’Iran e i paesi del gruppo P5+1, riuniti a Ginevra, hanno raggiunto un accordo ad interim, il Joint Plan of Action (Jpa) della validità di sei mesi, per la temporanea sospensione del programma nucleare. Nel luglio 2014, nell’impossibilità di raggiungere un accordo definitivo, il Jpa è stato rinnovato per altri sei mesi, durante i quali le parti impegnate nelle trattative hanno dato vita a successivi round negoziali per cercare di raggiungere un accordo definitivo. In seguito, la scadenza è stata ulteriormente posticipata al giugno 2015.
La politica di difesa e sicurezza di Teheran è dettata da un innato senso di ‘solitudine strategica’, dovuto al fatto di essere circondato perlopiù da regimi ostili. Inoltre, negli scorsi anni la presenza diretta o indiretta degli Stati Uniti ai suoi confini orientali e occidentali, rispettivamente in Afghanistan e in Iraq, non ha fatto che amplificare questa sensazione.
Per questa ragione è fondamentale per l’Iran mantenere in vita l’‘asse della resistenza’ che da Teheran attraversa l’Iraq – in cui dal 2003 è al potere un rappresentante della maggioranza sciita – e la Siria di Bashar al Assad per congiungersi con il movimento sciita libanese Hezbollah. Proprio l’instabilità delle regioni siriana e irachena, nelle quali i governi amici di Teheran – rispettivamente quello di Bashar al Assad e di Haydar al Abadi – sono severamente minacciati dal dilagare dei guerriglieri integralisti sunniti dell’Is (Stato islamico), hanno spinto Teheran a mettere in atto un serio sforzo bellico, dislocando in queste regioni tanto unità delle Forze Quds, responsabili delle missioni estere, quanto milizie sciite addestrate in Iran.
Negli ultimi anni, inoltre, Teheran ha varato una serie di programmi di ammodernamento delle forze armate. In particolare, l’ostilità verso l’Arabia Saudita ha suggerito lo sviluppo della marina, considerata la componente più importante delle forze armate iraniane, vista anche l’importanza vitale della sicurezza delle coste che si affacciano sul Golfo Persico. L’Iran ha relazioni molto tese anche con Israele, e ciò gli impone di adottare una seconda strategia basata principalmente sulla componente aerea: grazie anche ai contatti con Russia, Cina e Corea del Nord, il paese ha sviluppato un notevole arsenale missilistico di breve e media gittata e sta compiendo progressi nella costruzione di missili di lunga gittata. L’ostilità verso Israele spinge inoltre l’Iran a sostenere i movimenti che combattono lo stato ebraico, come Hezbollah e Hamas.
Accanto all’esercito regolare (Artesh), opera il corpo delle guardie della rivoluzione (Sepah-e Pasdaran-e Engelab-e Islami), che integra al suo interno unità speciali come le milizie Basij o la forza Quds. Al corpo delle guardie della rivoluzione, creato da Khomeini nel 1979 al fine soprattutto di controbilanciare le forze armate regolari, ancora in larga parte fedeli allo shah, è affidato il compito di vigilare sul rispetto dei principi alla base della Repubblica islamica. Alla forza Quds sono invece affidate le operazioni all’esterno del paese, come quella in corso in Siria.
Le minacce alla stabilità interna arrivano dalla minoranza beluci nel sud-est e da quella curda nel nord-ovest. Attraverso l’organizzazione Jundullah (‘l’esercito di Dio’), i Beluci hanno lanciato diversi attacchi contro obiettivi governativi, diretti in particolar modo verso i pasdaran. In funzione anticurda il governo iraniano coopera con la Turchia nella lotta al Pjak, organizzazione ritenuta il braccio iraniano del Pkk, il Partito dei lavoratori
Il coinvolgimento dei pasdaran iraniani nell’economia del paese ha avuto inizio nel 1989, all’indomani della morte dell’ayatollah Khomeini e dell’avvio della presidenza Rafsanjani. Quest’ultimo, esponente di spicco della fazione dei tecnocrati, ha impostato il proprio mandato sulla necessità di risollevare l’economia iraniana, che usciva distrutta dagli otto anni di guerra con l’Iraq (1980-88). Allo scopo di cooptare gli alti ufficiali e assicurarsi così la loro fedeltà, ai pasdaran venne affidato un ruolo chiave soprattutto nel settore delle costruzioni. Nei vent’anni successivi, tuttavia, il loro ruolo è cresciuto fino ad arrivare a costituire la prima forza economica del paese. Attualmente i pasdaran controllano la maggioranza dei settori dell’economia del paese, dall’energia alle infrastrutture, passando per il settore automobilistico e per quello finanziario. Grazie alla vicinanza alle istituzioni centrali dello stato, le imprese controllate da pasdaran risultano spesso vincitrici di appalti per la costruzione delle grandi opere pubbliche. Ha fatto scalpore, per esempio, la vittoria di un’impresa di costruzioni di proprietà di un veterano su una compagnia turca per la costruzione dell’aeroporto internazionale Imam Khomeini nel 2004. Paradossalmente, inoltre, le imprese controllate dai pasdaran hanno tratto vantaggio dall’inasprimento delle sanzioni internazionali, che hanno garantito loro una posizione di monopolio di fatto, tenendo lontani dal paese i potenziali competitor internazionali.
Nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2013 l’Iran e i paesi del gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) riuniti a Ginevra hanno raggiunto un accordo ad interim, il Joint Plan of Action (Jpa), che ha sospeso il programma nucleare iraniano. L’accordo, che ha rappresentato una prima misura di confidence building tra Iran e comunità internazionale, aveva una validità di sei mesi, allo scadere dei quali si sarebbe dovuto raggiungere un accordo definitivo.
Con il Jpa, l’Iran si è impegnato a bloccare il processo di arricchimento dell’uranio al 5%, a smaltire le riserve di uranio arricchito al 20%, che dovrà essere diluito oppure convertito in ossido, e a non installare nuove centrifughe. Teheran ha inoltre dato il proprio assenso all’intensificazione dei controlli da parte degli ispettori dell’Autorità internazionale per l’energia atomica (Aiea) nei propri impianti. In cambio, i paesi intervenuti nel negoziato si sono impegnati a non varare nuovi round di sanzioni nei confronti dell’Iran per i sei mesi successivi all’accordo e ad alleggerire l’impianto sanzionatorio attualmente vigente, liberando risorse per circa 7 miliardi di dollari. Di questi, 4,2 miliardi sarebbero rappresentati dai proventi della vendita del petrolio attualmente congelati in banche estere, dei quali Teheran acquisirebbe la disponibilità. Una somma pari a 1,5 miliardi di dollari deriverebbe invece dalla ripresa delle esportazioni di beni come oro, metalli preziosi, componenti automobilistici e prodotti petrolchimici.
Nel luglio 2014, allo scadere dei sei mesi di validità del Jpa e di fronte all’impossibilità di raggiungere un accordo di natura definitiva, i paesi impegnati nel negoziato hanno deciso di estenderne la validità di ulteriori sei mesi, fino al novembre 2014. Tuttavia, anche in corrispondenza di questa scadenza non si è raggiunto alcun accordo e il nuovo termine è stato fissato per il giugno 2015.
Si può parlare di Ali Khamenei come di una delle figure più importanti e meno comprese del panorama politico del Medio Oriente allargato. Troppo spesso liquidato frettolosamente come l’ennesimo tiranno mediorientale, Ali Khamenei sfugge alle categorie del pensiero politico tradizionale, così come la Repubblica islamica di Iran rappresenta un unicum all’interno del panorama statuale della regione. Dal punto di vista istituzionale, l’ayatollah Khamenei rappresenta il capo di stato della Repubblica islamica, sedendo al vertice di un complesso sistema istituzionale che vede intrecciarsi organi a legittimazione popolare e organi a legittimazione religiosa. La duplice natura della legittimità della Repubblica islamica è oggi riassunta nella figura di Khamenei, il quale, andando a inserirsi nel sistema istituito dall’ayatollah Khomeini, rappresenta la massima autorità politica e religiosa della Repubblica islamica. Nato a Mashhad nel 1939, Khamenei appartiene alla generazione di rivoluzionari che ha sostenuto l’ayatollah Khomeini dalle prime attività di contestazione dello shah alla sua morte. Il suo primo incarico di governo è stato quello di vice ministro della difesa nel governo rivoluzionario provvisorio di Mehdi Bazargan, nella primavera 1979. Questa posizione ha permesso a Khamenei di acquisire dimestichezza ed esperienza con le Forze armate; competenza che fino a quel momento era estranea al clero sciita. Khamenei farà tesoro di questa esperienza per esercitare egli stesso il ruolo di comandante in capo delle forze armate una volta asceso al ruolo di Guida suprema, a differenza del suo predecessore Khomeini, il quale, pur detenendo tecnicamente tale potere, preferì delegarlo ad altre persone. Nel 1981 ascende al ruolo di presidente della Repubblica, divenendo il primo esponente del clero sciita a occupare una posizione nel ramo esecutivo. Nel 1989, alla morte di Khomeini, viene elevato al rango di Guida suprema. Dietro alla sua promozione, che ha richiesto una modifica costituzionale, vi sarebbe stata l’azione di Hashemi Rafsanjani, che, scommettendo sulla relativa debolezza politica e sullo scarso carisma di Khamenei, intendeva ritagliarsi uno spazio di manovra per traghettare il paese verso una nuova era politica, caratterizzata da un rilassamento della retorica rivoluzionaria e da un graduale reinserimento nel sistema internazionale. Dal momento del proprio insediamento, invece, Ali Khamenei si è dedicato alla costruzione di un network personale che gli ha permesso di accrescere in misura esponenziale il proprio peso politico. Tale strategia è stata realizzata principalmente attraverso due strumenti: da un lato la creazione di un’élite politica estremamente leale, dall’altro l’adozione di una politica di flessibilità che gli ha permesso di mediare e destreggiarsi tra le diverse fazioni politiche impedendo che una di queste acquisisse un potere eccessivo, tale da minacciare l’attuale equilibrio di poteri.
L’utilizzo di questi due strumenti, se da un lato ha permesso a Khamenei di mantenersi in una posizione di forza rispetto agli altri esponenti della Repubblica islamica, dall’altro si è rivelato foriero di potenziali problemi. La costruzione di un network personale di fedelissimi, realizzata mediante la nomina di uomini di fiducia in ruoli chiave della struttura istituzionale e delle forze armate, ha creato pericolosi blocchi di potere, orientati all’autoconservazione. È il caso ad esempio degli agglomerati economico-militari sorti in seguito al conferimento di privilegi economici, come gli appalti per la costruzione di opere pubbliche, agli uomini dell’élite militare, il Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (Irgc). Nel corso dei venticinque anni al potere, Khamenei ha favorito la trasformazione dell’Irgc da apparato militare a complesso militare-economico-politico, dotato di ampia influenza sulla gestione degli affari dello stato, come dimostrato dal ‘travaso’ di uomini dell’Irgc in posizioni chiave dell’esecutivo, e dalla ripetuta presa di posizione dei pasdaran, che trova ampia eco nei media, sulle questioni centrali del dibattito politico, come il dossier nucleare. La strategia che ha permesso l’ascesa politica di Khamenei e la sopravvivenza della Repubblica islamica negli ultimi venticinque anni potrebbe essere pertanto causa di instabilità laddove venisse a mancare l’opera di bilanciamento esercitata dal primo. In questo senso, le precarie condizioni di salute della guida suprema fanno sorgere legittimi interrogativi sulla tenuta del sistema nella sua conformazione attuale dopo la dipartita dell’ayatollah. Non esiste un successore designato, ma è da scommettere che il 2015 sarà l’anno degli scontri di potere e dei riallineamenti tattici tra le fazioni per provare a mettere un’ipoteca sul dopo Khamenei. L’esito di queste lotte eserciterà un’influenza decisiva sulla Repubblica islamica e ne determinerà l’atteggiamento nei confronti della comunità internazionale per gli anni a venire.