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L’Iraq, situato nel cuore del Medio Oriente, è oggi un paese in transizione e in cerca di stabilità, dopo l’invasione degli Stati Uniti e dei loro alleati nel 2003 e gli anni di guerra civile che vi hanno fatto seguito. Negli anni Ottanta, sotto la guida di Saddam Hussein, grazie a uno degli eserciti più forti dell’area e alle rendite derivanti dalle esportazioni di petrolio, il paese era diventato uno dei perni dell’equilibrio regionale. Vista l’ascesa contestuale dell’Iran post-rivoluzionario di Khomeini, inoltre, l’Iraq era anche uno dei maggiori alleati occidentali proprio in chiave anti-iraniana, come confermato dall’appoggio statunitense al regime di Saddam Hussein nella guerra tra Iraq e Iran tra il 1980 e il 1988. Il paese è rimasto però isolato durante tutti gli anni Novanta, per via dell’invasione irachena del Kuwait, cui seguì la Guerra del Golfo del 1990-91. Da quel momento l’influenza dell’Iraq sulla regione e lo stesso peso geopolitico del paese sono diminuiti, fino all’invasione del 2003, che ha sancito la fine del regime di Saddam Hussein. L’Iraq attuale si deve confrontare con tutta una serie di sfide soprattutto dal punto di vista interno, dal momento che la caduta del regime guidato dal partito al-Ba’th ha creato un vuoto di potere in cui si sono accentuate le divisioni interetniche e interreligiose, fino a una vera e propria guerra civile, ancora non del tutto sedata.
A livello regionale e internazionale, l’Iraq sta ricostruendo una propria rete di relazioni, alla luce dei nuovi equilibri dell’area. Vista l’influenza esercitata da Washington sul paese dopo l’invasione del 2003, gli Stati Uniti sono uno dei punti di riferimento più importanti per le politiche di Baghdad. Nella regione mediorientale, l’Iraq sta normalizzando i rapporti con quasi tutti gli attori più importanti, a partire dalla Turchia, con cui in precedenza vi erano state delle tensioni in merito alla questione curda, all’Iran, grazie anche al nuovo peso della comunità sciita irachena dopo la caduta di Saddam Hussein. Allo stesso tempo i rapporti con la Siria, storicamente antagonista dell’Iraq e ultimamente in ascesa come attore regionale, stanno vivendo una fase di miglioramento. Le relazioni con i paesi del Golfo, in particolar modo l’Arabia Saudita, sono in parte condizionate dalla presenza degli sciiti al governo in Iraq, che Riyad percepisce come una possibile fonte di ingerenza iraniana nell’area.
La suddivisione interna del potere è regolata secondo un sistema etnico e religioso che ricalca in parte quello del Libano. Attualmente, per garantire un equilibrio interno e una rappresentanza alle maggiori comunità del paese, il presidente della Repubblica è curdo (Jalal Talabani), il primo ministro è sciita (Nouri al-Maliki) e il presidente del Parlamento è sunnita (Usama al-Nujaifi). Il Parlamento, istituito con la nuova Costituzione adottata nel 2005, è unicamerale ed è attualmente composto da 325 membri. L’Iraq ha una struttura federale e una particolare forma di autonomia è concessa, nel nord del paese, alla comunità curda, la quale ha un proprio governo regionale, un proprio parlamento e delle forze armate, note come Peshmerga.
L’Iraq si presenta come un paese composito sotto il profilo dell’appartenenza etnico-religiosa. Il 97% dei suoi abitanti è infatti musulmano, ma sotto quest’apparente omogeneità si cela una bipartizione tra sciiti (quasi il 60% della popolazione), e sunniti (38%). Questo rende il paese a un tempo cerniera e spartiacque del Medio Oriente tra stati a netta maggioranza sciita, ad est e a nord-est, e la vasta regione sunnita che si estende in tutte le altre direzioni, verso i paesi del Golfo persico, la Turchia e il Mediterraneo (con l’eccezione di Libano e Israele). Gli sciiti risiedono principalmente nel sud e nel sud-est del paese, spingendosi a nord fino a Baghdad, mentre il ‘triangolo sunnita’ trova un suo vertice proprio a Baghdad e si estende verso ovest e nord-ovest.
In termini geopolitici, il ‘Crescente fertile’ rappresenta l’idea di unire sotto un’unica guida i territori che vanno dalla Palestina all’Iraq compresi, passando per la Transgiordania, il Libano e la Siria. Il ‘Crescente sciita’, quindi, indica la crescita esponenziale del ruolo politico degli sciiti in questo territorio, con l’eccezione dell’attuale Giordania. Proprio il re giordano Abdullah II e i suoi alleati nell’area – Egitto, Arabia Saudita e Israele (e Turchia?) – sono inquietati da tale fenomeno.
Il Crescente sciita favorisce infatti la crescita dell’influenza della Repubblica Islamica d’Iran nel mondo arabo. In termini geopolitici è però forse più opportuno guardare al Grande Medio Oriente. Perché? I musulmani sarebbero circa 1,3 miliardi, divisi fra sunniti e sciiti. Gli sciiti, la ‘minoranza’, sono il 10-15% del totale (fra i 130 e i 195 milioni). Nella fascia territoriale dal Libano al Pakistan, però, il numero di sciiti e sunniti sembra essere di fatto analogo.
Gli sciiti rappresentano poi circa l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio e gas del Golfo Persico. Proviamo a delinearne la geografia. Si incontrano sciiti di diversi gruppi etnici: in particolare Arabi, Iraniani persofoni, e Azeri turcofoni. Gli sciiti sono inoltre divisi in vari gruppi ‘confessionali’ di rilievo, fra questi: imamiti, ismailiti, zaiditi e alawiti.
All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo ‘speciale’ assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia di quest’ultimo. I gruppi menzionati sono accomunati da tale elemento, ma marcati da differenze importanti come quelle fra sunniti e sciiti. Gli sciiti cui ci si riferirà sono gli imamiti. Le comunità sciite nel Vicino Oriente arabo sono sparse a macchia di leopardo.
In Libano, i due quinti della popolazione è sciita. Sono la comunità ‘confessionale’ maggioritaria, stanziata in prevalenza nel Jabal ‘Amil e nella valle della Beqa. In Siria, troviamo piccole comunità sciite nella zona di Aleppo e a Damasco. In compenso, il gruppo di potere guidato da Bashar al-Assad è alawita (12-15%).
In Iraq, gli sciiti sono stanziati in prevalenza nella regione che corrisponde all’antica Mesopotamia. Rappresentano la maggioranza relativa del paese (circa 50%), e si tratta di gran lunga della più importante comunità sciita del mondo arabo. Il Kuwait ha una consistente minoranza di sciiti (circa il 20-25%).
In Arabia Saudita la percentuale di sciiti arriva al 10-15%, concentrati nella costa settentrionale del paese che si affaccia sul Golfo. In Bahrain, gli sciiti raggiungono il 50-70%. Lo Yemen è a maggioranza sciita, ma zaidita.
La Turchia si vede accreditata un’importante presenza di gruppi sciiti (20%: imamiti, ismailiti, zaiditi e alawiti), comunità poco conosciute e poco attive. In Iran, dove lo sciismo è religione di stato, sciiti sono i Persiani e gli Azeri: oltre il 90% del paese. A seconda delle stime, si tratta della metà o di un terzo dell’insieme degli sciiti nel mondo.
A nord dell’Iran, la ex repubblica sovietica dell’Azerbaigian è nominalmente a maggioranza sciita (75-80%).
A est, in Afghanistan, sono per lo più sciiti i cittadini di Herat e gli Hazara, circa un quinto della popolazione (20-25%). Con la caduta dei talebani, i loro diritti sono stati riconosciuti nella nuova costituzione.
In Pakistan, gli sciiti sono circa il 20% e sono presenti massicciamente nelle regioni nord-occidentali; per numero rappresentano la seconda comunità dopo l’Iran.
In India, gli imamiti sono presenti a Lucknow e nel Deccan, gli ismailiti nel Gujarat e a Bombay.
Infine, i luoghi di sepoltura dei discendenti di Ali e Fatima (gli Imam) e di membri della famiglia del Profeta ricoprono un ruolo centrale nella geografia sciita. Tali mausolei-santuari caratterizzano in particolare l’Iraq: Ali a Najaf, Husayn e Abbas a Karbala, Musa al-Kazem e Muhammad Taqi a Baghdad, Ali Naqi e Hasan Askari a Samarra. Al secondo posto, l’Iran: Reza a Mashad e Fatima Ma‘sume a Qom. Significativi il mausoleo di Zeynab a Damasco (Siria) e la città di Medina in Arabia Saudita.
Situazione non certo più semplice presenta la composizione etnica: a fronte di circa tre quarti di abitanti arabi, l’Iraq ospita sul suo territorio una consistente minoranza di Curdi (15-20% della popolazione), che si concentra nel nord e che è riuscita a conquistare un certo grado di autonomia. Significative minoranze sono poi costituite da Turcomanni e Assiri.
Interagendo, divisioni etniche e fratture religiose complicano le geometrie politiche interne, spingendo verso equilibri spesso fluidi quando non decisamente instabili. Per quanto appaia naturale che gli assetti politici dell’architettura istituzionale democratica in fieri possano pendere a favore degli sciiti – maggioranza del paese e oppressi assieme ai Curdi durante buona parte della dittatura di Saddam – pur tuttavia le contingenze dell’insurrezione e l’esigenza di riconciliare le diverse anime del paese impongono la formazione di un governo che tenga conto delle necessità delle altre componenti nazionali. Non mancano d’altronde fratture e dissensi all’interno della stessa comunità religiosa maggioritaria, sia di tipo politico-ideologico, sia di origine localistica e campanilistica.
Un ultimo fattore demografico, probabilmente meno duraturo, è costituito dalla forte crescita del numero dei rifugiati all’estero dall’invasione del 2003. Secondo le ultime statistiche rese disponibili dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), nel 2007 vi erano circa 1,3 milioni di iracheni in Siria e 600.000 in Giordania. Nonostante il probabile ritorno di decine di migliaia di persone, iniziato nel 2008, le cifre dell’Unhcr restano tuttora attendibili a causa della continua riluttanza dimostrata dalle comunità irachene all’estero a fare ritorno nel paese. Oltre a tutto ciò va considerato il milione e mezzo di sfollati che, in Iraq, vivono spesso in campi di rifugiati dalle pessime condizioni igienico-sanitarie. A questo dato è infine necessario sommare l’emigrazione interna dei Curdi verso nord, e degli Arabi verso aree a composizione religiosa più omogenea.
Di tutte le sfaccettature della controversia che vede contrapposti gli Arabi e i Curdi in Iraq, una delle questioni più rilevanti e complesse riguarda lo status di Kirkuk, città storicamente ritenuta parte del Kurdistan iracheno dalla comunità curda, la cui appartenenza risulta ancora dibattuta per motivazioni di carattere economico e geopolitico. Situata proprio in una zona di confine tra il territorio curdo e quello arabo-sunnita, nell’area di Kirkuk si concentra uno dei giacimenti petroliferi più importanti del paese. Secondo le stime, qui si troverebbero circa 15 miliardi di barili di petrolio, equivalenti a quasi il 10% del totale iracheno. La problematicità della questione deriva dalla composizione etnica della città: storicamente abitata in prevalenza da Curdi e Turcomanni, durante gli anni del regime di Saddam Hussein la città è stata soggetta a una forzata ‘arabizzazione’, con l’obiettivo di sconvolgerne gli equilibri demografici.
La Costituzione irachena, approvata dalla popolazione nel 2005, prevede all’articolo 140 che a decidere della sorte della città e dell’eventuale annessione al Governo regionale curdo (Grc) sia un referendum popolare. Tuttavia il referendum ¬ così come un censimento della popolazione ¬ sino ad oggi è slittato, principalmente a causa dell’opposizione araba. Quest’ultima, accusando il Grc di aver avviato una ‘curdizzazione’ forzata dell’area, si oppone allo svolgimento del referendum prima della riammissione della popolazione araba espulsa dal momento in cui la città passò, di fatto, sotto il controllo curdo. Si è così generata una situazione di stallo che, mettendo in pericolo i più ampi e già fragili equilibri della convivenza interetnica nel paese, è probabilmente destinata ad essere procrastinata.
La caduta del regime di Saddam Hussein ha fatto sì che si aprisse in Iraq lo spazio necessario per l’emergere delle forze politiche rappresentanti delle comunità fino ad allora discriminate: gli sciiti e i Curdi. L’ex presidente, infatti, fondava il suo potere politico sulla comunità sunnita, sebbene questa costituisse solo una minoranza all’interno del paese.
Con il nuovo sistema politico che ha reintegrato le altre comunità da un lato e, dall’altro, ha avviato il processo di ‘debaathificazione’, gli sciiti sono assurti ad attore principale della politica irachena, sfruttando la loro maggioranza in termini numerici.
Ciononostante, anche all’interno dello stesso blocco sciita si sono progressivamente create delle divisioni, che hanno portato alla sua scissione, tra il partito dell’attuale primo ministro al-Maliki (il Da’wa) e i seguaci del leader religioso Muqtada al-Sadr. Quest’ultimo, insieme al Supremo consiglio islamico dell’Iraq, precedentemente in esilio in Iran, ha formato l’Alleanza Nazionale Irachena.
I Curdi, storicamente divisi al loro interno tra il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) guidato dal presidente del Governo regionale del Kurdistan Massoud Barzani, e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) guidato dal presidente dell’Iraq Jalal Talabani, hanno raggiunto la riconciliazione e, a livello nazionale, sono rappresentati dalla coalizione dell’Alleanza del Kurdistan.
L’ex primo ministro Iyad Allawi ha infine formato, in occasione delle ultime elezioni, un’alleanza di tipo più laico, dove sono confluiti anche molti sunniti, denominata Movimento nazionale Iracheno, o al-Iraqiyya. Nonostante nelle elezioni del 2010 quest’ultima formazione abbia ottenuto la maggioranza relativa dei seggi, l’incapacità di ottenere una maggioranza parlamentare non le ha permesso di formare un nuovo governo, producendo uno stallo istituzionale durato otto mesi e conclusosi con la creazione dell’attuale esecutivo guidato da al-Maliki.
Il sottile equilibrio su cui si regge la stabilità del governo è causato proprio dal gran numero di formazioni politiche nate nel contesto iracheno sviluppatosi all’indomani del rovesciamento del regime di Saddam Hussein, ognuna portatrice di specifici interessi di parte. Per tale motivo, la transizione del paese verso un compromesso nazionale onnicomprensivo è tutt’oggi in fase di completamento.
Lo stato dell’economia irachena e la sua evoluzione negli ultimi trent’anni rispecchiano in maniera pressoché perfetta le fasi di elevata conflittualità che hanno interessato il paese. Stato dalle vastissime potenzialità di produzione petrolifera (nel suo sottosuolo giacciono riserve accertate per 115 miliardi di barili, quarte al mondo per dimensioni), l’Iraq ha infatti fortemente risentito delle successive e fallimentari guerre di espansione e di un lungo periodo di ostracismo da parte della comunità internazionale, cui ha posto fine l’invasione statunitense del 2003. L’economia del paese, sorretta da più di mezzo secolo dalle esportazioni di petrolio, non ha potuto che seguirne il crollo con l’inizio della guerra contro l’Iran del 1980-88 (in quegli otto anni il pil si contrasse del 25%) e durante la Guerra del Golfo del 1990-91. Da quest’ultimo conflitto originarono anche quelle sanzioni internazionali che avrebbero costretto il paese a produrre petrolio sostanzialmente per l’autoconsumo fino al 1996, quando l’inaugurazione del programma ‘Oil for food’ delle Nazioni Unite permise all’Iraq di tornare a ottenere rendite dagli idrocarburi nazionali, ma solo fino a un tetto di quattro miliardi di dollari l’anno e unicamente allo scopo di acquistare derrate alimentari o in cambio di aiuti umanitari. Grazie al programma, tra il 1997 e il 2000 il pil iracheno triplicò, ma le condizioni di vita della popolazione non migliorarono allo stesso ritmo.
L’invasione statunitense del 2003 ha avuto conseguenze simili a quelle verificatosi a seguito dei precedenti conflitti, sebbene su scala minore. In particolare, il periodo di occupazione che ha fatto seguito all’invasione – caratterizzato da un’elevata instabilità e da forti divergenze di interessi tra le autorità federali e quelle del Governo regionale curdo (Grc) – non ha permesso alla produzione petrolifera di espandersi compiutamente, mentre i consumi interni hanno conosciuto un aumento costante.
Nel 2009 l’Iraq è stato il 12° produttore mondiale di petrolio e il paese possiede riserve stimate di gas superiori a 3000 miliardi di metri cubi – le quinte, per entità, della regione mediorientale. Ciononostante, la mancanza di una rete di gasdotti o di impianti di liquefazione del gas fa sì che la produzione sia ancora destinata a soddisfare unicamente i bassi consumi interni. I consumi energetici nazionali sono infatti nettamente sbilanciati a favore del petrolio.
L’Iraq genera un pil equivalente a un quinto di quello iraniano e ad un sesto di quello saudita. Al problema della forte dipendenza dell’economia dalla produzione petrolifera si affiancano l’alto livello di corruzione nel paese (nel 2010 Transparency International considerava l’Iraq uno dei primi quattro stati più corrotti al mondo) e un tasso di disoccupazione stimata che si aggira attorno al 30-50% della popolazione attiva. L’unica emergenza ad essere stata ricondotta sotto controllo sembra essere l’inflazione, che fino al 2006 superava il 50% all’anno e che oggi è scesa a livelli accettabili (5-10%). Anche a causa di ciò, l’Iraq è stato negli ultimi anni il paese che ha ricevuto più aiuti internazionali dall’estero.
Le riserve di idrocarburi irachene si concentrano per quasi il 20% nel nord del paese, a maggioranza curdo-sunnita, e per circa il 70-80% nelle regioni del sud-est, a maggioranza arabo-sciita, mentre la produzione nel 2010 proveniva per circa i due terzi dal sud-est e per il restante terzo dal nord.
Proprio a causa della non uniforme distribuzione delle riserve di idrocarburi nel paese, la perequazione regionale delle rendite ricavate dalla vendita del petrolio è rapidamente divenuta il principale oggetto del contendere tra governo federale e regioni. In particolare, sono i Curdi a chiedere maggiore autonomia decisionale, rivendicando il diritto di assegnare contratti di esplorazione e produzione dei giacimenti che si trovano entro i confini della loro regione autonoma. Il governo, invece, gestisce quasi tutti i giacimenti a livello federale, lasciandone solo 6 su 100 in mano all’amministrazione della regione autonoma curda.
Considerato il livello delle tensioni interetniche e interreligiose, non è un caso che la bozza della nuova legge sugli idrocarburi, approvata dal governo nel 2007, si sia arenata in Parlamento, e che la regione autonoma del Kurdistan abbia approvato nello stesso anno una sua legge petrolifera, nella quale si auto-attribuisce il diritto di stipulare direttamente contratti con le compagnie straniere.
Sebbene la Costituzione irachena del 2005 conceda a ciascuna regione la ‘piena sovranità e controllo’ sulle risorse naturali che risiedono sul proprio territorio, manca dunque una cornice legale unitaria a livello federale che attui questa disposizione. La norma, inapplicata a livello legale, relega la risoluzione delle controversie tra regioni autonome e governo federale a un costante braccio di ferro. Come soluzione provvisoria, nel gennaio 2010 il Parlamento iracheno ha deciso che a ciascuna regione sarebbe stato destinato un dollaro per ogni barile prodotto. A maggio dello stesso anno Grc e governo federale hanno però raggiunto un accordo differente, non ancora ratificato, in base al quale lo stato accetta di trasferire il 17% delle rendite petrolifere a bilancio alla regione autonoma del Kurdistan.
Uno degli elementi più importanti della politica irachena dell’era post-Saddam è rappresentato senz’altro dalle politiche di difesa e sicurezza. Dopo la caduta del vecchio regime, il paese ha dovuto affrontare una difficile transizione anche dal punto di vista militare, dal momento che l’apparato militare preesistente è stato sconfitto sul campo e – con l’esclusione di tutti gli appartenenti alle strutture del regime baathista dalla vita pubblica – smantellato anche dal punto di vista politico. Dal 2003 al 2011 gli Stati Uniti si sono fatti direttamente carico della sicurezza interna del paese e, nel frattempo, hanno avviato una serie di programmi volti al reclutamento e all’addestramento del nuovo apparato militare iracheno. Anche in questo caso, le maggiori sfide sembrano essere soprattutto di natura politica, vista la frammentazione interna e la necessità di ricomporre le forze armate. Dopo l’invasione statunitense del 2003, nel paese si sono formati diversi gruppi paramilitari, affiliati alle diverse fazioni politiche. Secondo i termini dell’accordo sulla sicurezza stipulato tra Washington e Baghdad alla fine del 2008 (lo Status of Forces Agreement, Sofa), le truppe statunitensi dovrebbero completare il proprio ritiro entro la fine del 2011, quando la gestione della sicurezza irachena sarà affidata al governo federale. Nonostante ciò, il personale statunitense potrebbe restare in Iraq con l’obiettivo di sostenere l’addestramento delle forze nazionali.
Le maggiori minacce per la sicurezza interna sono ancora costituite dal terrorismo di matrice islamica sunnita legato alla nebulosa di al-Qaida. Dopo il 2003, questo tipo di movimenti ha contribuito notevolmente alla destabilizzazione del paese, favorendo l’emersione delle tensioni settarie. Negli ultimi anni si è assistito tuttavia a un lento declino degli attentati e della violenza interna, grazie alla cattura dei leader di al-Qaida in Iraq e alla collaborazione di molti gruppi tribali sunniti nelle operazioni di anti-terrorismo.
Dall’esterno non paiono esservi tentativi di destabilizzazione, in particolar modo violenta, del panorama iracheno. Piuttosto, un fattore che potrebbe potenzialmente destabilizzare la sicurezza dell’area e, in particolare, di due paesi confinanti, come Siria e Giordania, potrebbe essere costituito dalla grande presenza di rifugiati iracheni.