Vedi Iraq dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Iraq, posto nel cuore del Medio Oriente, è oggi un paese in transizione e in cerca di stabilità. Negli anni Ottanta, sotto la guida di Saddam Hussein, la ‘Terra dei due fiumi’ era una delle potenze regionali e poteva contare non solo su ingenti riserve di idrocarburi ma anche su un apparato militare solido e all’avanguardia. Con l’ascesa di Khomeini in Iran, l’Iraq aveva visto aprirsi nuovi scenari ed era diventato uno dei maggiori alleati occidentali proprio in chiave anti-iraniana, come confermato dall’appoggio garantito da Washington nella guerra contro l’Iran del 1980-88. Il paese era rimasto però isolato durante tutti gli anni Novanta per via dell’invasione irachena del Kuwait, avvenuta nel 1990, alla quale era seguìta la campagna militare a guida statunitense del gennaio 1991. L’operazione Iraqi Freedom, del marzo 2003, ha sancito la fine del regime di Saddam Hussein e l’inizio una stagione ben diversa da quella prospettata nei circoli neocon statunitensi. L’Iraq attuale deve confrontarsi con una serie di sfide sul piano interno e internazionale, legate al vuoto di potere seguito al cambio di regime e all’esplosione di una vera guerra civile che ha polarizzato ulteriormente il paese in base a divisioni etniche e religiose.
Nonostante Washington mantenga un leverage significativo nei confronti del governo iracheno in virtù degli enormi sforzi per stabilizzare il paese, il ritiro delle truppe statunitensi nel dicembre 2011 ha reso più solida la presa dell’Iran, ormai apertamente considerato l’attore esterno più influente nel paese. Negli ultimi anni anche la Turchia ha assunto un ruolo sempre più rilevante, seppur nell’ambito di una relazione fortemente dialettica, segnata dall’avvicinamento di Ankara alla regione autonoma del Kurdistan iracheno e dal contemporaneo raffreddamento delle relazioni con il governo di Baghdad. All’interno di un quadro segnato dalla graduale normalizzazione dei rapporti con i paesi confinanti, l’esplosione della crisi siriana nel marzo 2011 ha favorito un limitato riavvicinamento tra Baghdad e Damasco, in buona parte frutto della pressione iraniana. Mentre i rapporti con il Kuwait paiono indirizzarsi verso una graduale normalizzazione, le relazioni con l’Arabia Saudita sono pesantemente condizionate dalla presenza, nel governo iracheno, di esponenti politici sciiti di alto livello accusati da Riyadh di essere al servizio di Teheran.
L’Iraq ha una struttura federale che – fatta salva la centralità del governo centrale – prevede forme significative di autonomia, soprattutto nel caso del governo regionale del Kurdistan, dotato di un proprio esecutivo, di un proprio parlamento e di milizie regionali, note come Peshmerga. Seppur non impostato su un modello formalmente consociativo simile a quello libanese, il sistema politico iracheno è fortemente segnato dalle divisioni etnico-religiose. Proprio per questo motivo, sin dal 2005, le maggiori cariche dello stato sono state assegnate tenendo conto della composizione del tessuto sociale iracheno. La carica di presidente della repubblica è stata generalmente assegnata a un esponente curdo (ora Jalal Talabani, seppur gravemente malato), quella di primo ministro a un arabo sciita (ora Nuri al-Maliki), e quella di presidente del parlamento a un arabo sunnita (Usama al-Nujaifi). Le stesse dinamiche sono state riproposte anche per i maggiori dicasteri e le posizioni politico-istituzionali più significative. Nonostante (o forse anche a causa) di tale impostazione, l’equilibrio istituzionale appare piuttosto fragile, come testimoniato dalla crisi del dicembre 2011, che ha portato alla condanna a morte in absentia del vice presidente sunnita Tariq al-Hashemi (ritenuto colpevole di aver guidato gruppi armati coinvolti in operazioni terroristiche), dalla crescente ostilità della componente arabo sunnita nei confronti del governo di Nuri al-Maliki e dalle mai sopite rivendicazioni autonomistiche del governo regionale del Kurdistan.
L’Iraq si presenta come un paese composito sotto il profilo dell’appartenenza etnico-religiosa. Secondo le ultime stime (la cui veridicità è difficilmente dimostrabile dato che l’ultimo censimento condotto sull’intero territorio nazionale è avvenuto nel 1987), il 97% degli abitanti è musulmano. Ma sotto quest’apparente omogeneità si cela una bipartizione tra sciiti (quasi il 60% della popolazione) e sunniti (attorno al 38%). Le minoranze comprendono una comunità cristiana, ancora significativa e vitale, nonostante le decine di migliaia di vittime e l’esodo continuo verso altri paesi. Esistono poi confessioni meno conosciute, come quelle degli shabak, degli yazidi e dei mandei.
La particolare conformazione etnico-religiosa dell’Iraq ha fatto sí che esso fosse considerato di volta in volta il paese mediorientale cerniera (e spartiacque al tempo stesso) tra sunnismo e sciismo, così come tra mondo arabo e persiano. Benché sia difficile collocare spazialmente le diverse comunità, che spesso convivono in territori ‘misti’ (soprattutto nelle grandi città), la componente sciita si concentra nel sud e nel sud-est, spingendosi a nord fino a Baghdad e Diyala, mentre nel resto del paese si distribuiscono le comunità a maggioranza sunnita.
Egualmente complessa è la composizione etnica dell’Iraq. Circa tre quarti degli abitanti sono arabi, ma esiste anche una consistente minoranza di curdi (15-20% della popolazione), che si concentra nelle regioni del nord e lungo una parte dei confini con Siria, Turchia e Iran.
Con l’intensificarsi del conflitto in Siria, l’Iraq (e in particolare la regione autonoma del Kurdistan) ha fornito ospitalità a centinaia di migliaia di profughi.
Stato dalle vastissime riserve di idrocarburi (Baghdad è il secondo produttore Opec con una produzione di circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno), l’Iraq ha fortemente risentito delle fallimentari guerre di espansione condotte a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e di un lungo periodo di ostracismo da parte della comunità internazionale. Le sanzioni internazionali seguite alla Guerra del Golfo hanno portato il sistema al collasso. Solo con il varo nel 1996 del controverso programma ‘Oil for food’ delle Nazioni Unite, l’Iraq ha potuto contare sulla ripresa delle rendite petrolifere, seppur limitate a quote fisse, destinate, nelle intenzioni, all’acquisto di derrate alimentari e beni di prima necessità per migliorare le terribili condizioni di vita della popolazione.
L’operazione Iraqi Freedom del 2003 non è riuscita a trasformare il paese nel modello di democrazia e di libero mercato prospettato dai circoli neoconservatori americani. Solo negli ultimi anni la produzione petrolifera ha registrato una rapida crescita che ha portato Baghdad, nel corso del 2012, a divenire il secondo maggior produttore di petrolio dopo l’Arabia Saudita, superando lo stesso Iran. Secondo i piani del governo iracheno, il livello di produzione attuale (circa 3 milioni di barili al giorno) dovrebbe triplicare entro il 2020, fungendo da volano per lo sviluppo economico dell’intero paese.
Nonostante non abbia riserve di gas significative come quelle petrolifere, lo sviluppo del settore potrebbe, da un lato, consentire di riequilibrare un mix energetico ancora troppo sbilanciato a favore del petrolio e, dall’altro, favorire lo sviluppo della regione curda, nella quale si concentra attualmente circa il 60% della produzione irachena. Ciononostante, la mancanza di una rete di gasdotti o di impianti di liquefazione del gas fa sì che la produzione sia ancora associata a quella petrolifera e destinata a soddisfare unicamente i limitati consumi interni.
L’Iraq genera un pil equivalente a un quarto di quello iraniano, con un tasso di crescita che è arrivato al 9% nel 2013. L’inflazione, che fino al 2006 superava il 50% all’anno, è oggi scesa a livelli accettabili (3-5% secondo i dati della banca centrale). Al problema della forte dipendenza dell’economia dalla produzione petrolifera si affiancano l’alto livello di corruzione nel paese e un tasso di disoccupazione che si aggira attorno al 30-50% della popolazione attiva.
Uno degli elementi più importanti della politica irachena dell’era post Saddam è rappresentato dalle politiche di difesa e sicurezza. Dopo la caduta del vecchio regime, il paese ha dovuto affrontare una difficile transizione anche dal punto di vista militare, legata non solo alla sconfitta patita nel 2003 ma anche al formale scioglimento delle forze armate sancito dal governatore americano Paul Bremer. Dal 2003 al 2009 gli Stati Uniti si sono fatti direttamente carico della sicurezza interna e, nel frattempo, hanno avviato una serie di programmi per reclutare e addestrare le nuove forze militari irachene. Anche in questo caso, le maggiori sfide sono soprattutto di natura politica, vista la frammentazione delle nuove forze armate e il problema delle ‘lealtà multiple’ che rischia di esacerbare la già fragile stabilità interna. Dopo l’invasione statunitense del 2003, si sono formati diversi gruppi paramilitari, affiliati alle diverse fazioni politiche. Secondo i termini dell’accordo sulla sicurezza stipulato tra Washington e Baghdad alla fine del 2008 (lo Status of Forces Agreement, Sofa), le truppe statunitensi hanno completato il ritiro nel dicembre 2011. A quella data la gestione della sicurezza irachena è stata affidata completamente al governo federale. Nonostante ciò, oltre 5000 contractor privati, facenti capo al Dipartimento di Stato, sono rimasti in Iraq per proseguire l’addestramento delle forze nazionali e proteggere le sedi diplomatiche statunitensi a Baghdad, Bassora e Mosul.
Le maggiori minacce per la sicurezza interna sono costituite dal terrorismo di matrice islamista sunnita legato ad al-Qaida e dalla presenza di gruppi paramilitari di ambito sciita che vantano importanti legami con Teheran. Dopo il 2003, questo tipo di movimenti ha contribuito notevolmente alla destabilizzazione del paese. Tra il 2007 e il 2010 si è assistito a un lento declino degli attentati e della violenza interna, grazie alla cattura dei leader di al-Qaida in Iraq e alla collaborazione di molti gruppi tribali sunniti nelle operazioni di antiterrorismo. Ciò non ha comunque scongiurato una ripresa delle violenze. Nel corso del 2013 i livelli di conflittualità interna sono tornati a segnare risultati simili a quelli del 2008, con oltre mille vittime civili al mese dovute a scontri di natura etno-settaria. Nonostante la difformità di dati ufficiali, il trend in corso fa temere una situazione in netto peggioramento. Nel primo semestre del 2014 sarebbero state 1800 le vittime delle violenze.
La caduta del regime di Saddam Hussein ha creato in Iraq lo spazio per l’emergere di forze politiche legate alle comunità fino ad allora discriminate: arabo-sciiti e curdi in primis. Saddam Hussein, pur adottando formalmente un’agenda laica e nazionalista, fondava il proprio potere su una rete di alleanze patrono clientelari che aveva il proprio epicentro nell’area di Tikrit, vero ‘feudo arabo sunnita’. Questa scelta aveva imposto la supremazia di parte della comunità arabo-sunnita sul resto della popolazione, in linea con quanto già accaduto in passato. La caduta di Saddam Hussein, nel 2003, ha sovvertito equilibri consolidatisi sin dalla nascita dell’Iraq moderno, favorendo il reintegro delle comunità che erano state discriminate (arabo-sciiti su tutti). Al tempo stesso ha imposto la marginalizzazione della componente arabo-sunnita. Ciononostante, anche all’interno dello stesso blocco arabo-sciita, si sono progressivamente create fratture, che hanno portato alla scissione tra il partito dell’attuale primo ministro Nuri al-Maliki (Daulat al-Qanun) e un’ampia serie di formazioni, tra le quali il gruppo del leader religioso Moqtada al-Sadr, i sostenitori del giovane Ammar al-Hakim (guida del Supremo consiglio islamico dell’Iraq) e altri movimenti minori. In ambito curdo, invece, la storica diarchia tra Partito democratico del Kurdistan (PDK) guidato dal presidente del governo regionale del Kurdistan Massud Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK), guidata, sino alla malattia, dal presidente dell’Iraq Jalal Talabani, pare aver ceduto il passo a un sistema più flessibile, come confermato dall’ascesa del movimento Goran. Tale differenziazione non dovrebbe però avere effetti significativi a livello nazionale, vista la tradizionale propensione delle formazioni curde ad associarsi in un unico blocco. Il campo arabo-sunnita è invece attraversato da profonde lacerazioni interne. La coalizione creata dall’ex primo ministro Iyad Allawi (al-Iraqiyya), nonostante la maggioranza relativa ottenuta alle elezioni politiche del 2010, non è riuscita a formare un nuovo governo e si è via via sgretolata. A distanza di quattro anni la comunità appare ancora fortemente divisa, benché alle elezioni provinciali del 2013 Usama al-Nujaifi ha confermato di essere uno dei più importanti esponenti politici sunniti a livello nazionale.
Le riserve di idrocarburi irachene si concentrano per quasi il 20% nel nord del paese, a maggioranza
curda, e per circa il 70-80% nelle regioni del sud-est, a maggioranza arabo-sciita. Nelle regioni centrali invece, dove si concentra buona parte della comunità arabo-sunnita, non sono stati finora scoperti giacimenti significativi, sebbene non siano ancora state completate esplorazioni approfondite. A causa della non uniforme distribuzione delle riserve, la perequazione regionale delle rendite della vendita del petrolio è divenuta il principale oggetto del contendere tra il governo federale e le regioni e le province. Assieme alle istanze della regione autonoma del Kurdistan, altre province hanno manifestato la propria intolleranza verso il controllo esercitato da Baghdad. In particolare il governatorato di Bassora ha richiesto maggior autonomia e avviato un processo di trasformazione in regione autonoma che, in caso di successo, potrebbe alterare completamente le dinamiche politico-economiche dell’intero paese. Considerato il livello delle tensioni interetniche e interreligiose, non è un caso che la bozza della nuova legge sugli idrocarburi, approvata dal governo nel 2007, si sia arenata in parlamento, e che la regione autonoma del Kurdistan abbia approvato nello stesso anno una propria legge petrolifera, nella quale si attribuisce il diritto di stipulare direttamente contratti con le compagnie straniere. Sebbene la Costituzione irachena del 2005 sancisca che il possesso delle risorse di idrocarburi sia dell’intero popolo iracheno, manca una cornice legale unitaria a livello federale che definisca in maniera organica e puntuale quali risorse debbano essere amministrate da Baghdad e quali dalle province e dalle regioni. Le controverse disposizioni costituzionali lasciano spazio a molteplici interpretazioni che portano a un continuo braccio di ferro tra regioni, province e governo federale. Per ridurre le frizioni esistenti tra la regione autonoma del Kurdistan e il governo centrale, e in attesa di un censimento che stabilisca la popolazione delle diverse unità amministrative irachene, si è raggiunto un compromesso che prevede il trasferimento di circa il 17% delle rendite petrolifere a bilancio a Erbil.
Dopo anni segnati da una significativa contrazione della violenza, l’Iraq è tornato a registrate alti livelli di scontri etno-settari. La crescita del numero di vittime civili nel corso del 2013 testimonia un clima di crescente instabilità: se nel primo trimestre i civili uccisi negli attentati erano stati circa mille, nel secondo trimestre hanno toccato quota duemila, per poi attestarsi a quota tremila nel terzo trimestre e raggiungere quindi la soglia di circa mille vittime al mese. Accanto a tali episodi vanno anche segnalati nuovi casi di pulizia etno-settaria non limitati solamente a Baghdad – che era stato l’epicentro della crisi all’apice della guerra civile – ma anche nel sud del paese. Tra le cause di questa recrudescenza vi è la rinascita della sezione di al-Qaida in Iraq, conosciuta con il nome di Stato islamico dell’Iraq (ISI). Alle origini di tale fenomeno vi è senza alcun dubbio la profonda influenza esercitata dalla vicina crisi siriana, ma anche le dure misure adottate dal primo ministro sciita al-Maliki nei confronti della comunità arabo-sunnita e, in particolare, da alcuni suoi esponenti di punta. Sfruttando la porosità dei confini siro-iracheni e la crescente opposizione della comunità arabo-sunnita nei confronti dell’esecutivo, l’ISI è riuscito a recuperare importanti posizioni e a tornare a sfidare apertamente le forze armate e le istituzioni irachene. È riuscito anche a ritagliarsi un importante spazio di azione in Siria, soprattutto grazie ai solidi legami con la branch qaidista siriana: Jabhat al-Nusra (JAN). Proprio per sottolineare l’espansione del movimento, il leader di al-Qaida in Iraq, Abu Bakr al-Baghdadi, ha rivendicato nell’aprile 2013 il controllo anche su Jabhat al-Nusra, sancendo formalmente la nascita dello Stato islamico dell’Iraq e di al-Sham (Siria). Nonostante tale annuncio sia stato sconfessato dalla leadership di Jabhat al-Nusra (e in parte dallo stesso comando centrale di al-Qaida) l’influenza dell’ISIS sullo scenario iracheno e su quello siriano è evidente ed è destinata a infiammare ulteriormente l’area.
Il Kurdistan iracheno rappresenta una delle zone più problematiche di tutta l’area, poiché il popolo curdo si è trovato sparso nei vari paesi limitrofi a seguito della divisione del Medio Oriente operata da Francia e Gran Bretagna al termine della Prima guerra mondiale. Dunque la questione curda ha un forte carattere internazionale e ha sempre rappresentato un problema vivo per l’Iraq. Dagli anni Sessanta in poi si contano diverse rivolte tanto che Saddam Hussein negli anni Ottanta aveva iniziato una dura e feroce repressione anche con l’impiego di armi chimiche. Queste operazioni permisero poi di condannare nel 2006 lo stesso Rais per genocidio. Il numero di vittime della suddetta repressione è molto difficile da quantificare anche perché alcune fosse comuni sono state scoperte solo dopo la caduta del regime. Al termine della guerra del 1991 nella zona a nord del 36° parallelo venne creata una no fly zone sotto mandato UN e con la sorveglianza aerea di Stati Uniti e Gran Bretagna per impedire al regime di Baghdad di intervenire nell’area. Essa così, pur rimanendo integrata nello stato iracheno, divenne una regione autonoma che nel 1992 elesse il proprio governo regionale. La guerra del 2003 sfiorò soltanto il Kurdistan iracheno il cui territorio era già sotto il controllo delle milizie irregolari locali, i Peshmerga.
Il Kurdistan iracheno è sicuramente l’area del paese che ha avuto meno ripercussioni dalla guerra civile scoppiata in Iraq tra il 2005 e il 2006 sia perché, a parte le zone più a sud, è etnicamente omogenea, sia perché non è mai mancato il controllo del territorio da parte del governo curdo e delle sue milizie. Malgrado in città importanti come Mosul e Kirkuk attentati di varia matrice e violenza avvenissero con una certa frequenza, nel resto del Kurdistan la situazione è sempre stata più calma tanto da permettere a città come Erbil e Sulaymaniyah di diventare poli di attrazione per investimenti stranieri ed essere relativamente fiorenti.
Con la fine del regime di Saddam Hussein e la difficoltosa nascita del nuovo governo iracheno, il Kurdistan ha rappresentato un problema di non facile soluzione. Da un lato la volontà della società internazionale è stata quella di non smembrare l’Iraq, ma dall’altro i curdi non avevano intenzione di perdere l’indipendenza di cui avevano goduto nei 10 anni precedenti. A complicare ulteriormente la questione vi sono due problemi. Il primo riguarda le risorse petrolifere di cui il Kurdistan è ricco (circa il 20% delle risorse complessive irachene si trova nel nord del paese) e che rappresentano un motivo di frizione molto importante. Il secondo riguarda le differenze etniche che separano i curdi dagli arabi iracheni. La soluzione è stata parzialmente trovata nella Costituzione approvata nel 2005 che prevede uno stato federale concedendo un certo grado di indipendenza al Kurdistan.
In realtà non tutti gli articoli della suddetta Costituzione sono entrati in vigore. In particolare rimangono aperte due questioni centrali. La prima concerne la città di Kirkuk posta al confine meridionale del Kurdistan, abitata principalmente da curdi, ma che Saddam cercò di arabizzare, e le cui aree limitrofe sono ricche di petrolio. Baghdad vorrebbe che la città fosse assegnata ai sunniti, ma i curdi non vogliono perdere i loro giacimenti più ricchi. La seconda questione è, invece, correlata alla gestione degli introiti derivanti dall’estrazione del petrolio. Baghdad vuole gestirli direttamente, ma i curdi sono intenzionati a mantenere una forte autonomia. Questo aspetto è particolarmente controverso perché il governo locale curdo ha già stipulato contratti sia di estrazione con compagnie straniere, sia di esportazione con il governo turco (con il quale è già stato avviato un progetto per un oleodotto da 300.000 barili al giorno) che non sono stati riconosciuti da Baghdad.
Nel settembre 2013 si sono svolte le elezioni legislative in Kurdistan che hanno visto contrapporsi diverse forze politiche. Con una maggioranza relativamente solida si è imposto il Kurdistan Democratic Party (KDP) di Massaud Barzani. Queste elezioni hanno sancito la modifica dello scenario politico del Kurdistan bloccato da più di 20 anni intorno ai due partiti principali: il KDP e il Patriotic Union of Kurdistan, PUK. Infatti, al secondo posto, con il 24% circa delle preferenze, si è assestato il Movimento per il cambiamento, un partito a carattere riformatore e liberale che rappresenta un nuovo e importante soggetto politico.
Da un punto di vista internazionale la forte indipendenza del Kurdistan iracheno costituisce un fattore di tensione nell’area. I curdi siriani hanno sfruttato la guerra civile per liberare alcune aree e governarle in modo autonomo, la Turchia è da decenni impegnata in una campagna di repressione contro i movimenti indipendentisti curdi presenti sul suo territorio e ha anche condotto operazioni militari in Iraq per colpirne le basi. Un Kurdistan iracheno realmente autonomo a livello internazionale rischierebbe di scatenare pressioni nei paesi limitrofi aprendo le porte a scenari di spartizione territoriale e conflitti di potere dai risultati difficilmente prevedibili.