Vedi Iraq dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Iraq, che sembrava aver recuperato un buon grado di stabilità interna dopo dieci anni di sanguinosi conflitti, è nuovamente sprofondato in una crisi militare e politica che, inserita in un arco di crisi regionale, arriva a minacciare la stessa integrità territoriale dello stato. Negli anni Ottanta, sotto la guida di Saddam Hussein, la ‘Terra dei due fiumi’ era una delle potenze regionali e poteva contare non solo su ingenti riserve di idrocarburi ma anche su un apparato militare solido e all’avanguardia. Con l’ascesa di Khomeini in Iran, e il conseguente mutamento nella politica regionale americana, l’Iraq aveva visto aprirsi nuovi scenari. Saddam divenne in breve tempo l’alleato dell’occidente in chiave anti-iraniana, nonché un fondamentale pilastro della strategia mediorientale di Washington, come testimoniato dal sostegno degli Usa e delle monarchie del Golfo nel lungo conflitto contro l’Iran del 1980-88. Nel decennio seguente, l’eccessiva forza militare e le politiche aggressive di Saddam Hussein hanno determinato l’isolamento internazionale di Baghdad: in risposta all’invasione del Kuwait del 1990, nel gennaio del 1991 gli americani condussero una campagna militare di liberazione che distrusse la capacità di proiezione militare irachena. Dopo un decennio di no-fly zone, embargo e occasiona- li raid aerei, l’operazione Iraqi Freedom, del marzo 2003, ha sancito la fi ne del regime di Saddam Hussein. Il nuovo Iraq ‘liberato’ si è però rivelato ben diverso da come prospettava l’amministrazione neocon di George W. Bush. Il vuoto di potere post-regime, unito alla disastrosa gestione della Coalition Provisional Authority (Cpa) di Paul Bremer e dei successivi governi iracheni – dominati dall’uomo forte della politica nazionale Nouri al-Maliki – hanno infatti esacerbato le divisioni settarie esistenti nel paese, trascinando, tra il 2006 e il 2009, l’Iraq in un sanguinoso conflitto civile. Una nuova strategia americana, unita ad una maggiore partecipazione politica inter-settaria ha permesso la diminuzione della violenza nel paese. Tuttavia, le tensioni etniche sono rimaste consistenti, e il ritiro definitivo delle truppe statunitensi nel dicembre del 2011 ha incrementato il potere del primo ministro sciita al-Maliki che, sostenuto dall’Iran, ha nuovamente fatto uso di politiche settarie come strumento di potere, ingaggiando una durissima battaglia con esponenti politici sunniti di primo piano. Tutto ciò ha catalizzato il malcontento diffuso nella comunità sunnita: stimolate anche dal progressivo spillover della crisi siriana, le latenti fratture interetniche irachene sono esplose definitivamente nel giugno del 2014, quando il movimento radicale islamico dello Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS), già attivo nella zona grigia del confine con la Siria, si è impossessato del secondo centro del paese, Mosul – anche grazie al sostegno della popolazione locale, quasi totalmente sunnita. L’Isis (in seguito auto-nominatosi soltanto Is, Stato islamico) è forte di un network che dall’est della Siria si espande nelle zone a maggioranza sunnita del nord e dell’ovest dell’Iraq, coprendo circa 1/3 del paese. Grazie al sostegno finanziario dei donatori del Golfo, e alle ingenti risorse petrolifere, finanziarie e militari accumulate nella presa di Mosul, ha progressivamente consolidato le proprie posizioni, arrivando addirittura a circondare Baghdad e minacciando direttamente la regione autonoma del Kurdistan nell’estate del 2014. Le pressioni interne e internazionali hanno portato alle dimissioni di al-Maliki che, nonostante si fosse nuovamente imposto alle elezioni dell’aprile 2014, è stato sostituito da Haider al-Abadi nell’agosto seguente. Per quanto riguarda l’ordinamento istituzionale, l’Iraq ha una struttura federale che – fatta salva la preminenza del governo centrale – prevede forme significative di autonomia soprattutto nel caso del governo regionale del Kurdistan (Krg), dotato di un proprio esecutivo, di un parlamento e di proprie forze armate, note come Peshmerga. Seppur non impostato secondo un modello formalmente consociativo, il sistema politico iracheno è fortemente segnato dalle divisioni etnico-religiose. Proprio per questo motivo, sin dal 2005, le maggiori cariche dello stato sono state assegnate tenendo conto della composizione del tessuto sociale iracheno. La carica di presidente della repubblica è stata sempre assegnata a un esponente curdo (dal giugno 2014 Fouad Masum, succeduto all’anziano leader Jalal Talabani), quella di primo ministro a un arabo sciita (Haider al-Abadi) e quella di presidente del parlamento a un arabo sunnita (Selim al-Jabouri). Le stesse dinamiche sono state riproposte anche per i maggiori dicasteri. Nonostante (o forse anche a causa) di tale impostazione, l’equilibrio istituzionale appare piuttosto fragile, come testimoniato dalla crisi attuale e dalle ricorrenti crisi istituzionali degli ultimi anni.
L’Iraq si presenta come un paese composito sotto il profilo dell’appartenenza etnico-religiosa. Secondo le ultime stime (la cui veridicità è difficilmente dimostrabile dato che l’ultimo censimento condotto sull’intero territorio nazionale è avvenuto nel 1987), il 97% degli abitanti è musulmano. Ma sotto questa apparente omogeneità si cela la bipartizione tra sciiti (quasi il 60% della popolazione) e sunniti (attorno al 38%). Le minoranze comprendono una comunità cristiana, sempre meno significativa a causa delle decine di migliaia di vittime causate dalle ripetute escalation di violenza e dell’esodo continuo. Esistono poi confessioni meno conosciute, come quelle degli shabak, degli yazidi (questi ultimi duramente perseguitati dall’estremismo islamico dell’Is) e dei mandei. La particolare conformazione etnico-religiosa dell’Iraq ha fatto sí che esso fosse considerato di volta in volta il paese mediorientale cerniera tra sunnismo e sciismo, così come tra mondo arabo e persiano. Benché sia difficile collocare nello spazio le diverse comunità, che spesso convivono in territori ‘misti’ (soprattutto nelle grandi città), la componente sciita si concentra nel sud e nel sud-est, spingendosi a nord fino a Baghdad e Diyala, mentre nel resto del paese si distribuiscono le comunità a maggioranza sunnita. Egualmente complessa è la composizione etnica dell’Iraq. Circa tre quarti degli abitanti sono arabi, ma esiste anche una consistente minoranza di curdi (15-20% della popolazione), che si concentra nelle regioni del nord e lungo una parte dei confini con Siria, Turchia e Iran. Con l’intensificarsi del conflitto in Siria, l’Iraq (e in particolare la regione autonoma del Kurdistan) ha fornito ospitalità a centinaia di migliaia di profughi, oggi nuovamente minacciati dall’avanzata dell’Is.
Stato dalle vastissime riserve di idrocarburi (Baghdad è il secondo produttore Opec con una produzione di circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno), l’Iraq ha fortemente risentito delle fallimentari guerre di espansione condotte a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e di un lungo periodo di ostracismo da parte della comunità internazionale. Le sanzioni internazionali seguite alla Guerra del Golfo hanno portato il sistema al collasso. Solo con il varo nel 1996 del controverso programma ‘Oil for food’ delle Nazioni Unite, l’Iraq ha potuto contare sulla ripresa delle rendite petrolifere, destinate, nelle intenzioni, all’acquisto di derrate alimentari e beni di prima necessità per migliorare le terribili condizioni di vita della popolazione. L’operazione Iraqi Freedom del 2003 non è riuscita a trasformare il paese nel modello di democrazia e di libero mercato prospettato dai circoli neocon americani. Solo negli ultimi anni la produzione petrolifera ha registrato una rapida crescita che ha portato Baghdad, nel corso del 2012, a divenire il secondo maggior produttore di petrolio dopo l’Arabia Saudita. Secondo i piani del governo iracheno, il livello di produzione attuale (circa 3 milioni di barili al giorno) dovrebbe triplicare entro il 2020, fungendo da volano per lo sviluppo economico dell’intero paese. La crisi nel nord del paese non ha finora intaccato significativamente la produzione di greggio (principalmente localizzata nel più stabile sud sciita), pur permettendo all’Is di impadronirsi di alcune risorse energetiche, assicurandosi ingenti profitti. Nonostante non abbia riserve di gas significative come quelle petrolifere, lo sviluppo del settore potrebbe, da un lato, consentire di riequilibrare un mix energetico ancora troppo sbilanciato a favore del petrolio e dall’altro favorire lo sviluppo della regione curda, nella quale si concentra attualmente circa il 60% della produzione irachena. Ciononostante, la mancanza di una rete di gasdotti o di impianti di liquefazione del gas fa sì che la produzione sia ancora destinata a soddisfare unicamente i limitati consumi interni.
Lo scorso anno l’Iraq ha generato un pil equivalente a un quarto di quello iraniano, con un tasso di crescita che arrivava al 9% nel 2013. A causa dell’attuale crisi, la crescita è poi precipitata a -2,7% nel 2014. L’inflazione, che fino al 2006 superava il 50% all’anno, è oggi scesa a livelli accettabili (3-5% secondo i dati della banca centrale). Al problema della forte dipendenza dell’economia dalla produzione petrolifera si affiancano l’alto livello di corruzione nel paese e un tasso di disoccupazione che si aggira attorno al 30-50% della popolazione attiva.
Uno degli elementi più importanti della politica irachena dell’era post-Saddam è rappresentato dalle politiche di difesa. Dopo la caduta del vecchio regime, il paese ha dovuto affrontare una difficile transizione anche dal punto di vista militare, legata non solo alla sconfitta subita nel 2003 ma anche al formale scioglimento delle forze armate sancito dal governatore americano Paul Bremer. Dal 2003 al 2009 gli Stati Uniti si sono fatti direttamente carico della sicurezza interna e hanno avviato una serie di programmi per reclutare e addestrare le nuove forze militari irachene. Tutto ciò, unito alla messa fuorilegge del partito Baath, nel quale militavano principalmente i sunniti, ha finito per creare un esercito nazionale in grandissima parte sciita che, anche per l’indipendenza di fatto del Kurdistan, forte delle proprie milizie dei Peshmerga, ha finito per identificarsi innanzitutto con le istanze del proprio gruppo. Al contempo, dal 2003 si sono formati diversi gruppi paramilitari, affiliati alle diverse fazioni politiche. La frammentazione delle nuove forze armate e il problema delle ‘lealtà multiple’ ha messo in crisi la già precaria stabilità interna, facendo progressivamente emergere il jihadismo sunnita e portando quindi nel 2006 all’esplosione di un conflitto civile intersettario. Tra il 2008 e il 2010 si è assistito a un calo degli attentati, grazie alla cattura dei leader di al-Qaida in Iraq e alla collaborazione di molti gruppi tribali sunniti. Come previsto dall’Accordo sulla sicurezza stipulato tra Washington e Baghdad alla fine del 2008 (lo Status of Forces Agreement, Sofa), le truppe statunitensi hanno completato il ritiro nel dicembre 2011. A quella data la gestione della sicurezza irachena è stata affidata completamente al governo federale, che ha ripreso sistematicamente a favorire la componente sciita nelle forze armate. Queste ultime, nella percezione delle comunità sunnite, sono quindi diventate poco più che un’altra delle milizie paramilitari sciite, che a loro volta hanno accresciuto la propria base di potere, rafforzando i legami con Teheran. Tutto ciò si è unito al riemergere del terrorismo radicale sunnita (mai del tutto sopito), favorito dallo spillover del conflitto siriano. Nel corso del 2013 la conflittualità interna è tornati a livelli simili a quelli del 2008, con oltre mille vittime civili al mese, ma è nella seconda metà del 2014 che il conflitto è degenerato, con la presa di Mosul e di 1/3 del paese da parte dell’Is, e la conseguente nuova spaccatura del paese su linee etno-settarie.
La caduta del regime di Saddam Hussein ha creato in Iraq lo spazio per l’emergere di forze politiche legate alle comunità fino ad allora discriminate: arabo-sciiti e curdi in primis. Saddam Hussein, pur adottando formalmente un’agenda laica e nazionalista, fondava il proprio potere su una rete di alleanze patrono clientelari che aveva il proprio epicentro nell’area di Tikrit, vero feudo arabo sunnita. Questa scelta aveva imposto la supremazia di parte della comunità arabo-sunnita sul resto della popolazione, in linea con quanto già accaduto in passato. La caduta di Saddam nel 2003, ha sovvertito gli equilibri consolidatisi sin dalla nascita dell’Iraq moderno, favorendo il reintegro delle comunità che erano state fino ad allora discriminate. In particolare gli sciiti, forti della maggioranza relativa nel paese (concentrata nelle province del centro-sud), hanno progressivamente occupato il posto degli arabo-sunniti, la cui comunità è stata marginalizzata. Ciononostante, anche all’interno dello stesso blocco arabo-sciita, si sono progressivamente create fratture, che hanno portato alla scissione tra il partito dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki (Daulat al-Qanun) e un’ampia serie di formazioni, tra le quali il gruppo del leader religioso Moqtada al-Sadr, i sostenitori del giovane Ammar al-Hakim (guida del Supremo consiglio islamico dell’Iraq) e altri movimenti minori. In ambito curdo, invece, la storica diarchia tra Partito democratico del Kurdistan (Pdk) guidato dal presidente del governo regionale del Kurdistan Massud Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk), guidata, sino alla malattia, dal presidente dell’Iraq Jalal Talabani, pare aver ceduto il passo a un sistema più flessibile, come confermato dall’ascesa del movimento Goran. Al-Maliki ha ininterrottamente governato il paese dal 2006, e dal ritiro americano del 2011 ha ulteriormente aumentato il proprio potere, ingaggiando una durissima battaglia con esponenti politici sunniti, che ha portato alla fuga e alla condanna a morte in contumacia dell’ ex vice-presidente della Repubblica Tariq al-Hashimi, alle dimissioni dell’ex ministro delle finanze Rafi al-Issawi e all’arresto lo scorso dicembre del parlamentare Ahmed al-Alwani. Tutto ciò ha accresciuto le tensioni con la comunità sunnita, provocando scontri settari, ampie manifestazioni di piazza e la parziale ingovernabilità delle province di al- Anbar e Ninive, creando di fatto le condizioni per la crisi esplosa nel corso 2014. Nonostante la vittoria della coalizione di governo State of Law (Sol) alle elezioni legislative dell’aprile 2014, al-Maliki non è riuscito a risolvere una situazione già compromessa, e a seguito del progressivo peggioramento della crisi – sotto forti pressioni internazionali - è stato costretto a dimettersi nell’agosto dello stesso anno, assumendo però la carica di vicepresidente. L’8 settembre 2014 è stato formato un nuovo governo di unità nazionale per fronteggiare la minaccia dell’Is, con a capo Haider al-Abadi, anch’egli del partito a base sciita Dawa.
Il Kurdistan iracheno, grazie alla relativa omogeneità etnica del nord del paese, è la regione dell’Iraq che ha subito meno ripercussioni nella difficile fase attraversata dal paese tra il 2003 e il 2009. Inoltre, in seguito alle dure persecuzioni perpetrate dal regime di Saddam Hussein negli anni Ottanta (per le quali il dittatore è stato poi condannato per genocidio), il Kurdistan godeva di un’autonomia di fatto dal 1991, quando a seguito della prima guerra del Golfo venne creata una no-fly zone sotto mandato Un, per impedire al regime di intervenire nell’area. Pur rimanendo integrata formalmente nello stato iracheno, la regione era sotto il controllo di un governo autonomo (eletto nel 1992), e il suo territorio era già nel 2003 saldamente nelle mani della milizia armata dei Peshmerga – un vero e proprio esercito semi-autonomo. La stabilità mostrata dal Kurdistan iracheno (nonostante episodi di violenza in città periferiche ed etnicamente miste come Kirkuk e Mosul) ha attratto ingenti investimenti esteri, che hanno ulteriormente potenziato il sistema energetico, dal momento che circa il 20% delle risorse complessive del paese si trovano in quest’area. Tutto ciò, unito alle differenze etniche che divide i curdi dal resto degli iracheni, ha complicato le relazioni col governo centrale di Baghdad. Una soluzione parziale è stata raggiunta con la Costituzione del 2005, che prevede la creazione di uno stato federale, concedendo un certo grado di autonomia al Kurdish Regional Government (Krg). Non sono tuttavia state risolte le questioni legate al petrolio: il governo centrale non ha mai riconosciuto gli accordi di estrazione ed esportazione che il Krg ha stipulato sia con compagnie straniere, sia col governo turco - progressivamente diventato suo alleato, da maggiore oppositore dell’autonomia curda fino agli anni Duemila. Con Ankara in particolare è stato avviato un progetto per la costruzione di un oleodotto da 250.0000 barili al giorno. Le elezioni del 2013 hanno mutato dopo vent’anni il panorama politico regionale: subito dietro al tradizionale Kurdish Democratic Party di Masud Barzani si è affermato il nuovo movimento liberal-riformatore del Partito per il cambiamento.
La nuova crisi scoppiata nell’estate del 2014 ha invece visto il Kurdistan iracheno in prima linea: lo Stato islamico ha ingaggiato una drammatica lotta con i Peshmerga del Krg, avanzando pericolosamente all’interno della regione curda e arrivando a minacciare la stessa capitale Erbil. Solo grazie al pronto intervento di una coalizione internazionale aere di supporto (più alcuni consiglieri strategici americani sul campo), i curdi sono riusciti a fermare e progressivamente respingere i jihadisti sunniti tra agosto e settembre del 2014. La situazione rimane tuttora estremamente instabile, sebbene i Peshmerga sembrino aver ristabilito un certo vantaggio strategico sull’Is.
Le riserve di idrocarburi irachene si concentrano per quasi il 20% nel nord del paese, a maggioranza curda, e per circa il 70-80% nelle regioni del sud-est, a maggioranza arabo-sciita. Nelle regioni centrali invece, dove si concentra buona parte della comunità arabo-sunnita, non sono stati finora scoperti giacimenti significativi, sebbene non siano ancora state completate esplorazioni approfondite. A causa della non uniforme distribuzione delle riserve, la perequazione regionale delle rendite della vendita del petrolio è divenuta il principale oggetto del contendere tra il governo federale e le regioni e le province. Assieme alle istanze della regione autonoma del Kurdistan, altre province hanno manifestato la propria intolleranza verso il controllo esercitato da Baghdad. In particolare il governatorato di Bassora ha richiesto maggior autonomia e avviato un processo di trasformazione in regione autonoma che, in caso di successo, potrebbe alterare completamente le dinamiche politico-economiche dell’intero paese. Considerato il livello delle tensioni inter-etniche e inter-religiose, non è un caso che la bozza della nuova legge sugli idrocarburi, approvata dal governo nel 2007, si sia arenata in parlamento, e che la regione autonoma del Kurdistan abbia approvato nello stesso anno una propria legge petrolifera, nella quale si attribuisce il diritto di stipulare direttamente contratti con le compagnie straniere. Sebbene la Costituzione irachena del 2005 sancisca che il possesso delle risorse di idrocarburi sia dell’intero popolo iracheno, manca una cornice legale unitaria a livello federale che definisca in maniera organica e puntuale quali risorse debbano essere amministrate da Baghdad e quali dalle province e dalle regioni. Le controverse disposizioni costituzionali lasciano spazio a molteplici interpretazioni, che portano a un continuo braccio di ferro tra regioni, province e governo federale. Per ridurre le frizioni esistenti tra la regione autonoma del Kurdistan e il governo centrale, e in attesa di un censimento che stabilisca la popolazione delle diverse unità amministrative irachene, si è raggiunto un compromesso che prevede il trasferimento di circa il 17% delle rendite petrolifere a bilancio a Erbil.
Se il 2014 può essere considerato l’anno della definitiva ascesa dello Stato islamico (Is), la storia del gruppo affonda le radici in un percorso militante decennale, accelerato dal conflitto siriano e dall’incerta transizione politica irachena, che in ultima istanza hanno permesso all’organizzazione di diventare un elemento portante dell’asse d’instabilità regionale. L’Is è difatti l’ultima versione del gruppo militante sunnita sorto nel 2004 con il nome di al-Qaeda in Iraq, organizzazione che deriva dalla precedente Jamaat al-Tawhid wal-Jihad di Abu Musab al-Zarqawi. Dopo anni di apparente debolezza, approfondita dalla surge Usa del 2007 e dall’opposizione del movimento tribale sunnita anti-jihadista dei cosiddetti ‘Consigli del risveglio’, l’Isha riconsolidato la sua posizione in Iraq tra il 2011 ed il 2012 sotto la guida dell’attuale emiro Abu Bakr al-Baghdad. Nello stesso periodo, al-Baghdadi ha iniziato a porre le basi per la successiva espansione in Siria, mentre il paese si stava avviando verso la feroce guerra intestina che continua a vedere contrapposta la variegata opposizione armata siriana e le forze del regime di Bashar al-Assad.
Nel 2012, al-Baghdadi ha inviato in Siria uno dei suoi luogotenenti, Abu Muhammed al-Jawlani, con l’incarico di creare un’organizzazione jihadista da inserirsi nella lotta contro Assad. Il nuovo gruppo, Jabhat al-Nusra, si è presto affermato come una delle fazioni più efficaci tra le fila dell’insurrezione siriana, spingendo al-Baghdadi nell’aprile del 2013 ad annunciarne la fusione con l’Isin una nuova entità, lo Stato Islamico di Iraq e Siria (Is). L’annuncio, tuttavia, è stato respinto da al-Jawlani e dallo stesso leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, intervenuto nella disputa intimando al-Baghdadi, che ha subito rifiutato, di annullare la fusione e restringere le proprie operazioni al solo Iraq. Nel contesto siriano, questo disaccordo si è materializzato in numerosi tentativi di mediazione senza successo e aspri combattimenti tra Is, Jabhat al-Nusra e diverse fazioni islamiste siriane, che secondo alcune stime avrebbero causato la morte di almeno 6.000 militanti.
La contrapposizione con al-Zawahiri si è ulteriormente approfondita nel giugno 2014, quando l’Isha proclamato la restaurazione del Califfato islamico, annunciato una nuova sigla per il gruppo, Stato islamico, e chiesto a tutte le entità jihadiste di Asia, Nord Africa e Medio Oriente di prestare giuramento di fedeltà al nuovo califfo Abu Bakr. La mossa dello Stato islamico ha creato una profonda, e probabilmente insanabile, frattura nello scenario attuale del jihadismo globale, con varie fazioni rimaste attorno all’orbita di al-Qaeda e altre che hanno proclamato la loro fedeltà al califfo Abu Bakr.
Sono diversi i fattori che spiegano l’ascesa dello Stato islamico. In primo luogo, il gruppo controlla una vasta aerea che dalla Siria orientale arriva direttamente ai sobborghi settentrionali di Baghdad, un territorio che ha nei fatti cancellato la linea di confine tra i due paesi. Il controllo di quest’area geografica, a prescindere dalla sua utilità strategica, ha un profondo significato propagandistico, rappresentando la realizzazione concreta del progetto qaedista di creare uno Stato islamico nel cuore del Medio Oriente. Presentandosi come l’unico gruppo in grado di ottenere un successo laddove al-Qaida ha fallito, lo Stato islamico mina alla base l’autorità e la legittimità della leadership qaedista, rafforzando le proprie credenziali religiose al cospetto della comunità transnazionale jihadista. Questa posizione ideologica di forza poggia poi le proprie basi su dinamiche propriamente strategiche e politiche. Dal dicembre 2013, lo Stato islamico ha lanciato due grandi offensive di terra in Iraq che hanno permesso al gruppo di conquistare importanti città come Mosul e Fallujah e gran parte della provincia di Anbar. Questa avanzata ha disintegrato le difese dell’esercito iracheno, e consentito al gruppo di mettere le mani su equipaggiamenti militari e ricche aree petrolifere, garantendo al gruppo un costante flusso di risorse per finanziare le proprie operazioni.
Questo secondo elemento si collega alla dinamica politica alla base del successo dell’Is, risultato di un costante processo di cooptazione delle tribù sunnite alienate dalle politiche del governo iracheno dell’ex premier Nouri al-Maliki a guida sciita. Questo processo ha permesso all’Isdi sfruttare il risentimento e l’opportunistico sostegno di parte delle tribù irachene per mettere insieme una coalizione di forze insurrezionali che include milizie tribali, ex militari dell’esercito di Saddam Hussein, e milizie baathiste come il Naqshbandi Army, che hanno lanciato una sfida diretta all’autorità del governo centrale arrivando a minacciare la stessa capitale Baghdad.
L’affermazione militare dell’Israppresenta un ulteriore elemento di complessità per ogni prospettiva di possibile, e al momento remota, soluzione del conflitto siriano, in quanto il gruppo è oramai parte di un arco d’instabilità che dal Libano si propaga fino all’Iraq. Nonostante il controllo territoriale del gruppo non sia destinato a rimanere incontrastato, la possibilità che le capacità operative e militari dell’Ispossano essere degradate dall’intervento a guida statunitense appaiono al momento limitate, circostanza che incrementa il rischio di una costante propagazione del messaggio del gruppo a livello regionale.