IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale)
IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) Ente creato nel 1933 e liquidato nel 2000. Fu fondato per acquisire le proprietà industriali già in capo alle 3 grandi banche italiane, Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma, giunte al fallimento a seguito della grande crisi del 1929 e poi definite banche di interesse nazionale. Lo sviluppo italiano venne infatti accelerato con la promozione di banche miste, cioè abilitate, nel contempo, alla raccolta e all’investimento.
Dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla fine della Prima guerra mondiale, questi istituti furono autorizzati dal governo a raccogliere i risparmi privati, con i quali investire nelle imprese operanti nei comparti dell’industria pesante e delle infrastrutture ‒ ferrovie, porti, navi, armamenti ‒ che vedevano nello stesso governo nazionale il principale acquirente. Tale meccanismo crollò alla fine della guerra allorché ‒ venute meno le commesse pubbliche ‒ le imprese controllate entrarono in crisi, e reagirono acquisendo il controllo delle stesse banche di riferimento, che, a loro volta, vennero spinte a indebitarsi sui mercati internazionali. Con la crisi finanziaria internazionale del 1929, le banche andarono in default (➔) e con esse le aziende controllate. In tale occasione la banca centrale (➔) intervenne, rifinanziò le banche e, in cambio, acquisì la proprietà delle società subordinate e, tramite queste, la guida degli stessi istituti bancari. Tali azioni furono dapprima incanalate nella sezione speciale della Banca d’Italia (➔), poi nell’Istituto Mobiliare Italiano, quindi nell’IRI, con il compito di privatizzare tali attività entro il 1937. L’IRI, presieduto da A. Beneduce (➔) ‒ vero regista del riassetto istituzionale italiano – giunse così a controllare l’intera produzione di acciaio italiano (➔ siderurgica, industria) , la quasi totalità dei cantieri, l’industria elettrica (➔ elettrica, industria) nel suo complesso, la maggior parte della grande industria pesante e dell’industria bellica nazionale, oltre alle 3 banche leader del sistema finanziario. Venduta l’industria elettrica, apparve evidente che nel Paese non vi erano capitali e capacità sufficienti per riacquisire il core (➔) del sistema produttivo, cosicché già nel 1937 si definirono gli obiettivi strategici per l’IRI, in una fase del resto in cui le sanzioni di cui era oggetto l’Italia imponevano una politica di import substitution alla fragile economia nazionale (➔ Import Substitution Industrialization) .
Nel dopoguerra si aprì un ampio dibattito sull’opportunità di mantenere in vita l’ente, così fortemente identificato con il regime fascista. Si ritenne, allora, che per una debole economia emergente fosse strategico conservare a carico dello Stato quella industria pesante che avrebbe permesso lo sviluppo di un’industria leggera disponibile per capitali privati; si reputò inoltre che fosse necessario preservare in mano pubblica la realizzazione di una rete infrastrutturale, che nessuna singola amministrazione e nessun privato avrebbe potuto realizzare. Si delineò quindi un sistema originale, che divenne di esempio per molti Paesi, detto delle partecipazioni statali (➔): lo Stato esercitava il controllo su un ente pubblico, che a sua volta controllava la maggioranza azionaria di imprese private. Nacquero così il piano Senigaglia (➔ Senigaglia, piano), per il rilancio della siderurgia, e il grande piano di opere autostradali, che caratterizzarono gli anni della ricostruzione e del boom (➔). In quel periodo venne richiesto all’IRI di sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno, con investimenti che pure esigevano maggiori oneri per localizzazioni svantaggiate.
Negli anni 1970 il gruppo fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi, crescendo progressivamente di proporzione e, nel contempo, perdendo redditività; furono quind necessarie continue iniezioni di risorse statali per sostenere una condizione che progressivamente risultava sempre più intollerabile. Alla metà degli anni 1980, con R. Prodi, ebbe inizio il risanamento, che portò nei primi anni 1990 alla privatizzazione delle 3 banche di interesse nazionale, e successivamente ‒ dopo alcune operazioni dagli esiti diversi ‒ a un piano di vendite, che sfociò, con la presidenza del Consiglio di R. Prodi, nella liquidazione dell’Istituto, immettendo sul mercato imprese di grande dimensione, che costituiscono il vertice del sistema industriale italiano.